Transizione della giustizia amministrativa

G. PAOLO CIRILLO, La transizione dalla ‘giustizia amministrativa’ al ‘diritto processuale amministrativo’.


G. PAOLO CIRILLO
(Presidente di sezione del Consiglio di Stato)

La transizione dalla ‘giustizia amministrativa’  al ‘diritto processuale amministrativo’ (*)


1. – Uno degli istituti più importanti dell’esperienza giuridica è sicuramente quello denominato “giustizia amministrativa”. Non è eccessivo dire che la passione per lo studio del diritto amministrativo, nel caso di molti giuristi, sia scaturito proprio dal fascino di questo istituto, che fino a non molti anni fa costituiva il capitolo finale, e forse meno importante, di tutti i più collaudati manuali e trattati. La “giustizia-amministrativa”aveva una chiara collocazione sostanzialistica, e certo non processuale, laddove al centro del sistema veniva collocato l’atto amministrativo, e i rimedi ai suoi vizi, allora in larga parte disegnato secondo gli schemi civilistici derivanti dalle elaborazioni della teoria del negozio giuridico.

La “giustizia amministrativa” finiva con il comprendere tutte quelle forme di controllo dirette a mantenere nell’ambito della legittimità l’esercizio del potere amministrativo. Ma, al tempo stesso, comprendeva in se tutti gli istituti, e le relative forme e tecniche di tutela, a disposizione del destinatario dell’azione amministrativa e che poteva utilizzare sia in sede amministrativa sia in sede giurisdizionale, secondo lo schema spaventiano della giustizia nell’amministrazione.

Sin dall’inizio fu chiaro che il cittadino si trovava naturalmente in una posizione debole, giustificata dal fatto che l’atto amministrativo, in quanto espressione delle ragioni della collettività, era in grado di sacrificare tutte le situazioni giuridiche soggettive. Anzi si può dire che la stessa ragion d’essere del diritto amministrativo, che ha avuto una indiscutibile origine pretoria, vada ricercata nell’opera di traduzione in termini giuridici della storia della tutela del cittadino nei confronti del potere amministrativo esercitato dalle burocrazie (diventate via via sempre più autonome rispetto al potere sovrano), così come si è manifestata negli Stati autoritari del diciottesimo e diciannovesimo secolo e negli Stati democratici di oggi. Peraltro, il pericolo di una burocrazia autoreferenziale si ripropone anche nel tempo attuale con l’affermarsi di una sovraordinazione delle burocrazie comunitarie rispetto a quelle nazionali, in assenza di un controbilanciamento di reali poteri sovrani degli organi rappresentativi dell’Unione Europea.

2. – Con l’entrata in vigore del codice, mediante il decreto legislativo 2 luglio 2012, n. 104, sul rito del processo amministrativo le cose sono profondamente cambiate . Più precisamente, il Codice costituisce l’inevitabile conseguenza del radicale mutamento di prospettiva che ha riguardato sia il contesto, per così dire, esterno alla galassia della “giustizia amministrativa”, sia quello interno.

E’ noto lo sconvolgimento del diritto amministrativo sostanziale.

Esso ha riguardato la soggettività pubblica, laddove, con la riforma costituzionale del 2001, si è avuta la devoluzione di molte competenze dallo Stato agli enti autarchici territoriali (sussidiarietà verticale); il coinvolgimento dei privati nello svolgimento dell’attività amministrativa (sussidiarietà orizzontale), con la disintegrazione delle formule organizzatorie tradizionali a favore di modelli tratti dal diritto privato come le società a controllo pubblico e le società in house, senza escludere la poderosa proliferazione delle autorità amministrative indipendenti, che hanno reclamato particolari forme di tutela.

Lo sconvolgimento del sistema ha riguardato anche l’attività amministrativa, culminata con l’approvazione della legge 7 agosto 1990, n. 241 (e le tante modifiche successive), che ha una valenza sostanzialmente costituzionale, laddove, penetrando nel corpo sociale, ha segnato la fine dell’impostazione autoritaria originaria del diritto amministrativo, rendendo concretamente operante il principio di legalità, finalmente valevole anche per le burocrazie, che si sono dovute adattare ai nuovi moduli consensuali dell’”amministrare”, alla trasparenza, alla partecipazione, all’efficienza.

Naturalmente, nell’opera di rifondazione delle basi del diritto amministrativo vanno ricompresi anche la responsabilità e la tutela, come si vedrà oltre.

In questo ha avuto un ruolo importante anche il diritto comunitario.

Il mutamento del quadro generale del diritto sostanziale non poteva non avere effetti diretti nel contesto interno alla “giustizia amministrativa”, originariamente disegnata per coniugare la conformità alla legge dell’azione amministrativa e il raggiungimento del risultato migliore nel caso concreto, laddove veniva perseguito l’interesse pubblico dato in attribuzione alla singola amministrazione.

Così come originariamente concepita, la giustizia amministrativa tradiva una concezione oggettiva della tutela, che, in quanto tale, poneva al centro il potere amministrativo, naturalmente predisposto a sacrificare le posizioni soggettive travolte dall’esercizio del potere medesimo. Sicché, in questa accezione finivano col rientrare le garanzie procedimentali, l’autotutela decisoria (annullamento d’ufficio, revoca, riforma, sospensione e così via), controlli amministrativi di legittimità e di merito. Per i rimedi giustiziali vale quanto si dirà oltre.

In tale contesto, anche il processo giurisdizionale amministrativo si muoveva all’insegna di una moderata ambiguità, nonostante la faticosa ricerca dei giudici amministrativi di trovare un punto di equilibrio, che fornisse tutela effettiva al ricorrente nel rispetto della potestà, costituzionalmente attribuita, esercitata dall’amministrazione, che poi costituiva l’essenza della situazione soggettiva di cui veniva lamentata la lesione, ossia l’interesse legittimo, che si configura anche nei confronti dell’esercizio di poteri privati e quindi oramai fa parte della teoria generale del diritto.

3. – A mio parere, i punti di snodo del nuovo corso del sistema sono sostanzialmente tre.

Il primo si è avuto, quando al centro del sistema è stato posto il procedimento e non più l’atto amministrativo, ossia quando si è avuta la consapevolezza che tutti gli atti amministrativi sono procedimentalizzati e che la lesione dell’interesse coinvolto dal procedimento si può verificare già con l’apertura del procedimento medesimo e non solo con l’emanazione dell’atto, che, in quanto appartenente al mondo giuridico, non sempre incide di per sé “sull’interesse materiale” al bene della vita, al contrario invece della sua esecuzione, che incide sempre e comunque.

Il secondo , quando si è affermata nel diritto vivente la concezione dell’eccesso di potere come vizio della funzione, sindacabile a prescindere dalla motivazione dell’atto, cosi come si è articolata nel procedimento, consentendo di portare il controllo giurisdizionale dall’atto a tutto ciò che lo ha preceduto e seguito, ossia all’intera funzione in concreto esercitata.

Il terzo, quando si è stabilito un collegamento diretto tra il procedimento e l’interesse al bene della vita in attribuzione al soggetto coinvolto, normalmente già esistente nel suo patrimonio prima dell’apertura del procedimento stesso, soprattutto se si considera che di quel patrimonio fa parte anche il legittimo affidamento, che costituisce poi la situazione soggettiva base dell’interesse pretensivo.

La centralità del procedimento è confermata dall’art. 7, comma 2, del Cpa, laddove fa discendere dall’obbligo dell’osservanza dei principi del procedimento medesimo da parte di un soggetto il segno di identificazione della natura pubblica del soggetto medesimo, che potrebbe agire in una veste privatistica a seguito dell’affermazione del principio della neutralità delle forme giuridiche, e nei cui confronti invece si applica la disciplina del codice, al pari di qualunque altro soggetto a struttura amministrativa tradizionale.

Non va sottaciuto che il procedimento amministrativo diventa l’unico momento di garanzia in un mondo dove le Costituzioni e le Convenzioni moderne pongono regole e non valori. Esso non è il luogo del rispetto formale delle regole bensì quello di soddisfare le pretese della persona, minacciate dall’antagonismo dialettico tra legge e diritto, tra principi e regole. Esso è divenuto lo strumento di controllo dal basso contro il possibile deviamento del potere, che va riportato nei limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, quali espressione di quel <<diritto mite>> che deve governare i rapporti giuridici nazionali e sovranazionali. In particolare, il principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria, laddove impone un limite all’azione amministrativa eccessiva rispetto allo scopo da raggiungere, finisce con lambire il merito amministrativo, imponendo una rivisitazione degli ambiti di sindacabilità della legittimità dell’atto da parte del giudice.

Non bisogna dimenticare che la minaccia alle legittime pretese dei privati provengono proprio dalla semplificazione amministrativa e dall’amministrazione per risultato, in quanto, come è stato osservato (R. FERRARA), l’ansia del provvedere sterilizza il fattore tempo e neutralizza la forma in quanto valore. Non bisogna dimenticare che il procedimento, quale strumento di dialogo con il sistema delle imprese, può produrre la dequotazione delle ragioni della legittimità rispetto a quelle dell’efficacia e dell’efficienza dell’amministrazione.

In questi ultimi anni sulla scena della tutela amministrativa, dunque, è comparso anche il c.d. bene della vita, ma l’uso che se ne fa non sempre è corretto, e forse è necessaria qualche precisazione.

Nel momento in cui la pubblica amministrazione comincia ad esercitare la propria potestà, in capo al soggetto interessato al medesimo bene rimane ferma la sua originaria situazione giuridica soggettiva in cui si è tradotto il suo interesse materiale al bene medesimo, fino a che non si conclude il procedimento, la cui apertura, a seguito dell’esercizio della potestà, ha fatto nascere in capo al privato quella situazione soggettiva denominata interesse legittimo. È necessario comprendere che il soggetto è già legato al bene della vita da un’altra situazione giuridica soggettiva sulla quale va poi ad “incidere” l’azione amministrativa e che il contatto tra privato e amministrazione non si può ridurre al semplice rapporto-potestà soggezione, in quanto tale soggezione si connota nei modi più vari, a seconda del tipo di rapporto giuridico in cui il soggetto si trova rispetto al bene della vita coinvolto nel procedimento amministrativo. Da qui la difficoltà di trovare il nucleo essenziale della nozione di interesse legittimo e ciò che lo differenzia dal diritto soggettivo e dalle altre situazioni giuridiche soggettive. Tali diversità determinano, di conseguenza, forme e tecniche di tutela diverse.

È chiaro quindi che il collegamento tra bene della vita, meglio sarebbe parlare di situazione giuridica soggettiva “di base” (diritto, possesso, onere, interesse legittimo, interesse di fatto e così via) del soggetto coinvolto nel procedimento, ed effetto dell’atto, necessariamente procedimentalizzato, ha imposto una rivisitazione della nozione di interesse legittimo.

Esso non è più riducibile alla sintesi di poteri e facoltà procedimentali tesi ad ottenere il provvedimento favorevole. Ma si sostanzia nella legittima pretesa alla conservazione della situazione giuridica di base rispetto all’azione amministrativa reputata illegittima (interesse oppositivo) o nella legittima pretesa di esaltazione (interesse pretensivo) della situazione giuridica di base, che postula un comportamento positivo, e concretamente satisfattorio, della pretesa al conseguimento del provvedimento attraverso il quale potrà ottenere il bene .

Sulla “fondatezza della pretesa” è significativamente costruita la tutela avverso l’inerzia dell’amministrazione (art. 31, comma 3, Cpa); è il caso di ricordare che le prime decisioni “giurisdizionali” del consiglio di Stato furono pronunciate proprio per tutelare i privati dai “silenzi” dell’amministrazione.

Se questo si ritiene non sia avvenuto nel singolo caso scatta la tutela giurisdizionale, che deve essere capace di fornire al ricorrente vittorioso tutto ciò che doveva ottenere nella sede sostanziale, ma non più di quello. Per realizzare questo c’è bisogno di un giudice tecnicamente attrezzato a capire anche le ragioni dell’amministrazione e che abbia tutti gli strumenti processuali necessari per intervenire efficacemente.

4. – Questa concezione non poteva non comportare l’esigenza di una tutela integrale della situazione giuridica lesa, che non solo includesse anche i pregiudizi patrimoniali imputabili all’azione amministrativa, ma che utilizzasse anche rimedi propri del diritto civile, quali il procedimento di ingiunzione ( art. 118 Cpa) e l’azione di nullità (art. 21 septies l. n.241 del 1990; art. 31, comma 4, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104), per lungo tempo ritenuta estranea alla patologia dell’atto amministrativo, che sembrava tollerasse solamente l’azione di annullamento.

Va da sé che questa esigenza trova fondamento negli articoli 24 e 113 della Costituzione, laddove stabiliscono la necessità di una tutela piena ed effettiva sia dei diritti soggettivi sia degli interessi legittimi. È notissima la vicenda della caduta del dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo, ad opera della Corte di Cassazione, sulla spinta della giurisprudenza comunitaria. Così come ugualmente noti sono i problemi che si sono aperti, alcuni dei quali il codice sembra aver definitivamente risolto, quali la spettanza della giurisdizione e il rapporto tra illiceità e illegittimità dell’azione amministrativa. Non definitivamente risolti sono, invece, i nodi della la natura della responsabilità del danno da illegittimità dell’azione amministrativa e di conseguenza le tecniche di quantificazione del danno.

Risulta evidente che nel momento in cui le due situazioni giuridiche soggettive, in punto di pienezza della tutela, sono state integralmente equiparate, così come vuole la Costituzione, la concezione oggettiva della tutela lascia definitivamente il campo a quella soggettiva.

In questo quadro, l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, e dei principi generali cui esso espressamente si ispira, costituisce l’esaltazione più visibile del fatto che il soggetto coinvolto nel procedimento amministrativo, quando ricorre al giudice, esercita una sua situazione giuridica soggettiva sostanziale, nel cui nucleo costitutivo è immanentemente presente il riflesso delle conseguenze derivanti dal provvedimento, sperato o temuto, sulla situazione giuridica di base, a sua volta direttamente collegata al bene della vita.

5. – Questo naturalmente non vuol dire che diventa irrilevante la natura pubblica del soggetto nei cui confronti si agisce, altrimenti non sarebbe giustificata la presenza di un sistema giurisdizionale “ordinariamente” predisposto alla tutela di quella specifica e diversa situazione giuridica soggettiva, avente pari dignità rispetto a quella “ordinariamente” predisposta per la tutela del diritto soggettivo. Quest’ultima giurisdizione peraltro continua ad avere un ruolo indiretto anche per la tutela degli interessi legittimi.

Il fatto che la parola ultima sulla spettanza della giurisdizione sia affidata alla Corte di Cassazione (sono note le ragioni storiche della scelta del costituente) non cambia la sostanza delle cose, come dimostra il fatto che nella vicina Francia i conflitti di giurisdizione vengono risolti da una sezione mista, peraltro logisticamente installata presso il Conseil d’etat francese.

Una soluzione di questo tipo sarebbe auspicabile anche nel nostro Paese, dove la perdita della funzione nomofilattica delle magistrature superiori a favore della Corte di giustizia europea, sta generando una sorta di pericoloso conflitto interno, che non giova certo al cittadino che chiede giustizia.

6. – Ma veniamo al libro, cominciando con il giustificare il titolo proposto: Manuale di diritto processuale amministrativo.

Esso non è nuovo nel panorama degli studi sul processo. Tuttavia, mentre sinora veniva adottato da quegli studiosi che più fortemente sentivano l’esigenza di una costruzione di una scienza autonoma avente ad oggetto il processo amministrativo, con l’entrata in vigore del codice sul processo amministrativo diventa una scelta quasi obbligata.

In altri termini, mentre sinora i temi legati alla tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione venivano sostanzialmente inquadrati secondo gli schemi del diritto amministrativo sostanziale, con l’emanazione del codice vanno inquadrati secondo gli schemi della scienza del processo, e in particolare del processo civile, che, oltre ad aver avuto una priorità storica, è stato l’oggetto privilegiato dell’elaborazione della teoria generale del processo.

Non a caso, da Chiovenda in poi, quasi tutte le trattazioni sul processo civile utilizzano la formula “diritto processuale civile”; non così quelle riguardanti il processo penale, dove ancora sembra prevalere la formula “procedura penale”. Va ricordato che l’incertezza sulla dignità scientifica degli studi sul processo, propria degli studiosi dei primi codici di procedura civile degli inizi del secolo scorso, si registra anche a proposito del processo amministrativo, laddove parimenti veniva usata la neutrale formula “procedura” (l’esempio è dato dal R. D. 17 agosto 1907, n. 642 e del coevo R. D. 17 agosto 1907, n. 644, entrambi ora entrati a far parte della storia della legislazione).

Naturalmente la formula adoperata è solo indicativa. Quel che conta è la sostanza, ossia che anche per il processo amministrativo vanno utilizzati i principi e gli schemi della scienza del processo e che la “nuova scienza” del diritto processuale amministrativo è chiamata a costruire la sua specificità, giustificata dal fatto che in questo processo è presente un potere pubblico, previsto dalla nostra Costituzione, al pari della situazione giuridica soggettiva che si genera quando esso viene esercitato. Questo travolge anche la visione tradizionale, secondo cui i rimedi giustiziali (ricorso straordinario al presidente della Repubblica e ricorsi amministrativi) contro l’azione illegittima dell’amministrazione venivano attratti dal diritto amministrativo sostanziale; e più precisamente nello schema del procedimento amministrativo di secondo grado in funzione giustiziale.

Lo stesso legislatore lo impone, laddove, quanto al primo aspetto, fissa la regola del rinvio esterno generalizzato al codice di procedura civile, nella consapevolezza che anche quest’ultimo è espressione di principi generali derivanti dalla scienza del processo (articolo 39, comma 1, Cpa; art. 44 l. n. 69 del 2009); e, quanto al secondo aspetto, con la irreversibile attrazione nel processo del ricorso straordinario al presidente della Repubblica ( 7, comma 8, 47, 112, comma 2, lett. b) e d), 128, Cpa).

Va da se che il cambiamento di prospettiva, ossia che è il diritto processuale amministrativo ad influenzare i vari rimedi ricompresi nella costellazione “giustizia-amministrativa”, e non più il diritto amministrativo sostanziale, giustifica la presenza nel volume della parte relativa ai ricorsi gerarchici, che reclamano una rivisitazione degli istituti relativi alla stabilità della decisione contenziosa amministrativa, alle garanzie procedimentali, all’esecuzione della decisione favorevole. Essi continuano comunque ad assicurare la tutela di merito, che invece il codice fornisce soltanto in limitati tassativi casi. ( art. 134 Cpa).

7. – Il processo amministrativo è nato, dunque, all’insegna della trasformazione di procedimenti contenziosi in attività giurisdizionale.

Come è stato autorevolmente segnalato, esso è sorto storicamente come sviluppo o sostituzione dei rimedi appartenenti all’ambito del diritto sostanziale. Con l’emanazione del codice, il legislatore impone totale autonomia da quei rimedi.

Ma questo non basta. Il lavoro dei giudici e della dottrina comincia ora.

Infatti, proprio per i “vizi” d’origine di cui si è fatto cenno, è mancata una elaborazione dottrinale, simile a quella sviluppatasi per il processo civile. Questo, anzitutto per l’apporto dato in Italia dall’opera di Giuseppe Chiovenda e della sua scuola, ha costituito, come ricordato, l’oggetto attraverso il quale la scienza del processo non solo è assurta a dignità di scienza autonoma, ma ha favorito la nascita della teoria generale del processo. Sicché per molti versi il lavoro più importante è stato già svolto, essendo essa naturalmente precostituita a fornire la base di studio e di sistemazione degli altri rami del diritto processuale. Quello che attende gli studiosi riguarda la costruzione sistematica della specificità del processo amministrativo.

Pertanto, una volta accettata l’idea che il processo amministrativo sia da inquadrarsi nella figura generale del processo, va anzitutto ricostruito l’oggetto del processo amministrativo, non più riducibile alla oramai stucchevole querelle se riguardi il rapporto o l’atto.

In realtà, nel processo amministrativo si assiste ad un processo inverso rispetto a quanto accade nel processo civile e penale, in cui cioè dalla fattispecie concreta si risale alla fattispecie astratta, e dal confronto deriva la soluzione del caso concreto.

Infatti, l’oggetto del giudizio amministrativo è costituito dal procedimento amministrativo -includendo in esso ovviamente l’atto finale in cui ridondano i momenti procedimentali resi rilevanti dai vizi denunciati nel ricorso- , che ha generato la lesione dell’interesse concreto e attuale del soggetto; procedimento che è attività giuridica e non attività di fatto.

8. – Il codice disciplina, accanto alla tradizionale azione di annullamento in sede di giurisdizione generale di legittimità (oltre a quella estesa al merito e quella di cosiddetta giurisdizione esclusiva), anche l’azione di accertamento, quella risarcitoria, quella di nullità, quella di condanna generica e forse anche quella di adempimento, quale sottospecie della condanna atipica. Questo consente una tutela differenziata a disposizione del ricorrente, soprattutto se si considera quel filone giurisprudenziale dove anche la classica azione di annullamento può condurre ad un annullamento non ex tunc , con statuizioni non meramente annullatorie, dove si valorizza l’effetto conformativo della decisione in vista dell’ottemperanza. Non a caso nel giudizio di cognizione il giudice può disporre le misure per assicurare l’attuazione del giudicato, compresa la nomina del commissario ad acta, e in quello di ottemperanza viene contemplata anche la sola possibilità di chiedere chiarimenti sui modi di eseguire la decisione e la sentenza resa in sede ( artt. 34, comma 1, lett. e) e 112, comma 5).

Vanno qui sottaciute, perché proprie del processo amministrativo, quelle che danno luogo ai riti speciali del silenzio, dell’accesso e dell’ottemperanza.

Tale semplice constatazione non comporta un’opera di mera traslazione nel processo amministrativo delle tecniche applicative di ciascuna di quelle azioni così come elaborate nel processo civile. E ciò per la semplice ragione che è diverso il rapporto sostanziale da cui ha origine la controversia. Esso è appunto il procedimento amministrativo, anzi quello specifico procedimento, che costituisce il luogo giuridico dove sono stati composti interessi non solo diversi, così come avviene nel contratto, ma che sono espressione di posizioni e situazioni giuridiche non omogenee, che trovano radice addirittura nel disegno costituzionale, quali la potestà pubblica e l’interesse legittimo, nelle sue articolazioni di interessi oppositivi e pretensivi, aventi entrambi una valenza patrimoniale.

Ciascuna di quelle azioni va ripensata e modulata a seconda che la lite riguardi un potere amministrativo incidente su un interesse a conservare o conseguire un bene; in corso di svolgimento o già fermato in un atto; silente o elusivamente operante. L’operazione va compiuta nella consapevolezza che sarà sempre l’amministrazione a dover riesercitare il potere sottoposto al controllo di legittimità.

Su questo terreno bisogna riprendere, con rinnovata consapevolezza, il percorso iniziato dal Consiglio di Stato già nel 1800 e poi proseguito, insieme ai tribunali amministrativi regionali, dagli anni 70 in poi. Un percorso che non è di solo adattamento tecnico, ma di creazione.

9. – La mancata elaborazione di una teoria generale del processo amministrativo non è dovuta solamente al fatto che alla dottrina meno recente interessava solamente sistemare gli istituti di diritto sostanziale e quindi gli aspetti processuali erano visti solamente in funzione di ciò, ma anche per il lungo dominio della concezione dell’interesse legittimo visto come interesse occasionalmente protetto e quindi coincidente con l’interesse pubblico.

Peraltro, nessun ausilio venne dalla dottrina processualcivilistica (CHIOVENDA), laddove l’interesse legittimo veniva concepito quasi come una “mera azione” diretta a sollecitare i poteri di controllo dello Stato, in cui il privato, proponendo l’azione, più che chiedere tutela a una sua situazione sostanziale, era investito indirettamente della “funzione” di far rispettare le leggi sul corretto esercizio dell’azione amministrativa.

In altri termini l’interesse legittimo, come è stato autorevolmente osservato (CAIANIELLO), ‘in relazione alle varie vicende è stato connotato e riconosciuto in quanto creato e prodotto dall’attività del giudice. ‘Si è verificato in sostanza un fenomeno che in un certo senso ricorda una vicenda analoga a quella dell’actio in diritto romano in cui, essendo ignoto il concetto di diritto soggettivo, quale è stato modernamente elaborato, l’actio venne concepita come un mezzo con cui si potevano soddisfare le ragioni che spettavano a ciascuno’.

A tal proposito va fatta una notazione importante. Il fatto che il codice contenga l’elencazione delle azioni ammissibili non deve indurre a pensare che si sia voluto, in una concezione antistorica, disegnare un sistema fondato sulla tipicità delle azioni, vanificando così la grande opera creativa dei giudici amministrativi avutasi nei decenni passati. Infatti, l’espressa previsione delle azioni ammissibili si giustifica sulla base del fatto che prima non lo erano, e quindi ha lo scopo, anche simbolico, di fornire all’interesse legittimo la stessa tutela, piena e differenziata, prevista per le altre situazioni giuridiche soggettive. In altri termini, anche il processo amministrativo va costruito all’insegna della concezione in base alla quale esistono tante azioni quante sono quelle in concreto proposte davanti al giudice e che l’azione in concreto proposta non è niente altro che l’esercizio della situazione sostanziale nel processo, effettuato quando la tutela procedimentale o giustiziale -pur non essendo (più) condizioni di proponibilità dell’azione- non sono state sufficienti a soddisfare la pretesa o a eliminare il pregiudizio subito. Di questo si sono già perfettamente resi conto i giudici amministrativi laddove hanno cominciato un’opera di adattamento delle azioni tipiche, in perfetta aderenza ai dettami del codice. Basti pensare al controllo degli effetti dell’annullamento, non necessariamente retroattivo, e all’esaltazione dell’effetto conformativo, attraverso pronunce annullatorie-determinative, cui va aggiunta la larga utilizzazione della cosiddetta condanna generica.

Non a caso per molti anni si è discusso sull’opportunità o meno di avere un codice del processo amministrativo, quasi che la sua presenza potesse imbrigliare la capacità creativa del giudice amministrativo nel misurasi col potere amministrativo nel suo momento di tradursi in atto potenzialmente lesivo della situazione soggettiva portata al vaglio di legittimità, che poi è ciò che giustifica la sua specificità.

Ha faticato a farsi largo, contrariamente a quanto avvenuto per il processo civile predisposto a tutela del diritto soggettivo, la dimensione sostanzialistica della situazione che si “staglia” a fronte dell’esercizio del potere amministrativo, che si esercita anzitutto nella sede del procedimento amministrativo e che costituisce la dimensione giuridica di un interesse materiale del soggetto a conservare o conseguire un bene della vita, attraverso il provvedimento favorevole.

Tale situazione esiste nel patrimonio della persona, con una struttura chiara e precisa, e può essere realizzata non solo attraverso l’intermediazione del giudice. Da qui scaturisce l’esigenza di avere a disposizione anche la semplice azione di accertamento, peraltro ora timidamente riconosciuta dal codice, così come esige il rispetto del potere amministrativo.

Sul piano processuale questo ha comportato che, mentre nel giudizio innanzi al giudice ordinario il processo è radicato sulla base dell’accertamento delle condizioni dell’azione, nel processo amministrativo la verifica processuale si è spinta sempre sino alla verifica della consistenza della situazione sostanziale di cui veniva chiesta la tutela. Questo alla fine ha consentito al giudice di allargare l’area della legittimazione al ricorso, mentre invece un sistema rigidamente fondato su situazioni legittimanti, tarate sulla struttura precostituita della situazione soggettiva, può condurre a un restringimento delle possibilità di tutela.

In altre parole, ragionando in termini processuali, nel processo amministrativo è stato sempre difficile individuare una nozione significativa del concetto di legittimazione ad agire, proprio in quanto questo processo è derivato da una differenziazione dei procedimenti amministrativi contenziosi, dove il diritto di ricorrere costituisce la proiezione dello stesso interesse sostanziale, laddove con il suo esercizio si vuole ottenere la realizzazione dell’interesse invocando il provvedimento amministrativo favorevole dall’amministrazione, ossia dalla controparte del rapporto sostanziale. A ben vedere, la nascita di una giurisdizione in senso tecnico, ossia con la trasformazione del Consiglio di Stato in giudice terzo, ha generato la scissione definitiva tra il diritto di azione e l’interesse legittimo. Mentre questo viene dato per scontato nel giudizio civile, salvo autorevoli opinioni divergenti che vedono l’azione come una proiezione del diritto sostanziale nel processo (SATTA), scontato non è nel processo amministrativo, lungamente dominato dalla concezione della giustizia nell’amministrazione e non sull’amministrazione, vista come semplice parte processuale

Con l’entrata in vigore del nuovo codice: viene eliminata l’incertezza sul confine tra il diritto sostanziale e il diritto processuale; la situazione soggettiva lesa dall’azione amministrativa ha una tutela diretta; hanno legittimazione a partecipare al processo tutti quei soggetti coinvolti dalla pronuncia finale; l’instaurazione del contraddittorio avviene con un ricorso contenente l’oggetto della lite; quest’ultima rimane immodificabile per tutta la durata del processo; gli atti processuali e la discussione avvengono nella forma pubblica; viene riconosciuto il diritto di allegazione delle prove; la sentenza va motivata e comunicata, con l’onere posto a carico di chi intenda avvalersene.

Il nuovo codice reclama anche una rivisitazione di quelli che erano considerati i principi generali specifici del processo amministrativo, ossia quelli che si erano formati a proposito del principio della domanda e del particolare meccanismo dell’impulso processuale di parte; del principio dell’unilateralità dell’azione; del principio dispositivo, nelle sue articolazioni della graduabilità dei motivi del ricorso e dell’incidenza del comportamento delle parti nell’istruzione del processo; del principio del libero convincimento del giudice e delle regole di giudizio; del principio del contraddittorio; del principio dell’economia dei giudizi; del principio del ne bis in idem; della scrittura e dell’oralità; della pubblicità e della segretezza.

10. – Basta dare una semplice scorsa d’occhio al codice perché risulti evidente come i principi cardine del processo siano stati ampiamente inclusi nella sua disciplina. Va aggiunto che per la prima volta un codice di procedura si apre con l’enunciazione di principi generali propri del processo in esame e con la successiva elencazione delle azioni ammissibili, contrariamente a quello del rito civile, dove viene disciplinato solamente l’esercizio dell’azione. Questo ha l’indubbio valore simbolico della conquista definitiva al processo amministrativo delle azioni prima escluse; il che non ne cancella il valore normativo, ricco di conseguenze per l’interprete.

Il legislatore ha fatto la sua parte. Ora tocca alla giurisprudenza e alla dottrina costruire la scienza del processo amministrativo, partendo proprio dall’opera poderosa di pensiero giuridico esercitatasi nella faticosa opera di supplenza all’assenza di norme positive che connotassero e limitassero i vari poteri amministrativi, e delineassero, in corrispondenza, le situazioni soggettive dei destinatari dell’esercizio di quei medesimi poteri.

La verifica più importante della tenuta del processo amministrativo avverrà sul terreno del diritto pubblico dell’economia, in particolare della concorrenza e del mercato in funzione non solo della tutela del consumatore, ma anche delle imprese sane, che sanno creare lavoro e ricchezza. Infatti, sarà proprio in quel settore che si potranno riproporre i vecchi schemi della tutela oggettiva, ossia a proposito degli atti di macroeconomia dei governi, i cui effetti non si puntualizzano nella sfera di una soggettività differenziata, e delle aggregazioni che mortificano la concorrenza, come dimostra la giurisprudenza sui tetti di spesa nel campo della sanità e l’esistenza di norme del tipo di quella di cui all’art. 21 bis della l. 287 del 1990.

11. – Sarei fortemente tentato di omettere ogni considerazione sulla disquisizione teorica, priva di riflessi pratici, circa la natura del processo amministrativo, ossia se esso vada considerato come un rapporto oppure un procedimento.

Sono note le critiche dei maggiori processualcivilisti alla concezione chiovendiana del processo visto come rapporto, che nel processo da ricorso, come quello amministrativo, si traduce nello stabilire se il presunto rapporto si instauri con la notificazione oppure con il deposito dell’atto introduttivo.

Mi limito ad osservare che nello stesso diritto civile il rapporto giuridico, ed in particolare quello contrattuale, è sottoposto a varie critiche, dovendosi ritenere che quel che rileva sono le varie situazioni giuridiche soggettive generate dai singoli atti o comportamenti che si susseguono fino al soddisfacimento dell’interesse del creditore. Forse questo vale anche per il rapporto processuale, dove è da preferire la concezione del processo visto come procedimento, in quanto la concezione che pone al centro il rapporto non sembra idoneo a cogliere l’aspetto dinamico del processo. Anche dal punto di vista degli atti << il procedimento sta nella loro successione, nella scansione temporale per cui ogni atto della serie segue un altro, secondo l’ordine stabilito dalla legge>> (FAZZALARI).

Più interessante per gli studiosi del diritto amministrativo sono gli studi relativi al rapporto tra procedimento amministrativo e processo, e la ricerca del criterio distintivo. Infatti, questo può contribuire sul piano pratico a meglio comprendere i tratti del procedimento amministrativo visto come la forma dell’esercizio dell’azione amministrativa e da cui, non solo ha origine la lite, ma le fornisce anche il contenuto.

Il procedimento è il genus e il processo è la species.

A mio parere il criterio distintivo non va ricercato tanto nella funzione esercitata dall’ uno o dall’altro o nella composizione degli interessi o, infine, nella presenza o meno del contraddittorio, ma più semplicemente nella presenza, nel secondo istituto, della lite, ossia una pretesa contestata o delusa, avente un oggetto specifico ed immutabile. Rimane fermo che la lite può essere risolta anche con la decisione amministrativa giustiziale, purchè non venga preclusa alla parte di avere la decisione giurisdizionale.

In ogni caso, l’oggetto della giurisdizione amministrativa è fissato dall’art. 7 del cpa, laddove stabilisce che : <<Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche immediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico>>.

Questa è la tipica norma, tratta dal cosiddetto diritto vivente, ossia dall’elaborazione giurisprudenziale delle massime magistrature, così come vuole l’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, laddove il legislatore ha delegato il governo ad adottare il codice, “al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”.

12- La tendenza, peraltro qui assecondata, a dare risalto alla situazione giuridica soggettiva lesa non può dimenticare, pena la perdita della sua ragion d’essere, che comunque si tratta di un giudizio dove la lesione lamentata deriva dall’esercizio di un potere pubblico, destinato a muoversi in un perenne bilanciamento di interessi individuali, diffusi, collettivi, generali. Quest’ultimi, quando vengono presi in considerazione da una legge “amministrativa”, ossia quando sorge la necessità di amministrarli (quasi sempre), diventano interessi pubblici, generali o puntuali, dati in attribuzione ad un’amministrazione specifica, che ha l’obbligo di curarli.

Come già osservato, il tempo presente registra un’ineluttabile avvicinamento del diritto civile al diritto amministrativo, dovuto, oltre alle tante altre cause, alla diffusa presenza nell’ordinamento di una legislazione di settore in cui si tenta la faticosa composizione degli interessi generali con interessi individuali; composizione non effettuata in via preventiva, e quindi definitiva, dal legislatore mediante la <<posizione>> della norma, ma una composizione dinamica che si realizza di volta in volta nel momento in cui i vari interessi vengono in collisione, mediante l’esercizio delle rispettive facoltà legate a ciascuno di quegli interessi. Questo comporta una sorta di procedimentalizzazione permanente (si pensi alla tutela del consumatore) anche dell’attività di diritto privato, cui si contrappone l’utilizzazione da parte dei soggetti pubblici di strumenti di diritto privato, nonostante siano per definizione tenuti ad agire secondo moduli procedimentali predefiniti.

Questo non può non avere ricadute sul processo e quindi non si può eludere la domanda se questo processo sia o meno in grado di far fronte all’indicato modo moderno di “fare amministrazione”. Naturalmente la risposta dipenderà dall’uso che gli operatori pratici sapranno fare della vistosa duttilità di cui è confezionata la materia che lo compone.


(*) Lo scritto è tratto dall’introduzione al volume”Diritto processuale amministrativo”, inserito nel Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, in corso di pubblicazione per i tipi della CEDAM.