Azioni esperibili nel processo amministrativo

ANIELLO CERRETO, Osservazioni sulle azioni esperibili nel processo amministrativo.


ANIELLO CERRETO
(Presidente di sez. on. del Consiglio di Stato)

Osservazioni sulle azioni esperibili nel processo amministrativo


Lo scritto cerca di esaminare il complesso sistema delle azioni nel processo amministrativo nella sua evoluzione. Si evidenzia come accanto all’azione di annullamento, introdotta in occasione dell’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, sono emerse nel corso del tempo altre azioni come quelle di accertamento e di condanna, ora recepite nel Codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e successive integrazioni. Una particolare attenzione viene riservata all’azione di nullità e all’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi, con accenno all’ammissibilità di azioni atipiche anche nel processo amministrativo.

SOMMARIO: Premessa generale. Tipicità e atipicità delle azioni nel c.p.a. L’azione di annullamento. L’azione di mero accertamento. L’azione di nullità. L’azione avverso il silenzio della p.a. L’azione di condanna. Considerazioni conclusive.

Premessa generale

Il sistema di giustizia amministrativa originariamente era imperniato su due azioni principali attribuite alla giurisdizione di due giudici distinti: l’azione di annullamento esperibile davanti al giudice amministrativo contro gli atti amministrativi illegittimi lesivi di un interessi legittimi; l’azione di risarcimento del danno che costituiva invece la forma di tutela principale esperibile davanti al giudice ordinario nei confronti di comportamenti illeciti della pubblica amministrazione lesivi di un diritto soggettivo.

Ma il processo amministrativo si è gradualmente avviato verso una tutela ben più ampia della mera azione di annullamento, anche se la consapevolezza di ciò è emersa solo recentemente.

E’ sufficiente richiamare quanto affermava il prof. Sandulli nel 1963, che accanto all’azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi poneva l’azione di accertamento per la maggior parte delle controversie risalenti alla giurisdizione propria del Consiglio di Stato del 1865 (poi confluite nella giurisdizione anche in merito di cui all’art. 25 T. U. n.6166/1889) e nel caso previsto dall’art. 33 T. U. n.1054/1924 (poi abrogato dall’art. 4 dell’allegato 4 c.p.a.) e quindi l’azione di esecuzione e l’azione cautelare, non aventi carattere impugnatorio [1].

Di azione di accertamento si è parlato anche con riferimento alle controversie oggetto di giurisdizione esclusiva vertenti su posizioni di diritto soggettivo (per lo meno dagli anni 1939-40 in poi) e per l’illegittimità del silenzio rifiuto della p.a. in ordine alle istanze dei privati dal 1960 in poi (Cons. St. A. P. n.8/1960).

Fu poi prevista un’azione di condanna della p.a. al pagamento di somme di cui risulti debitrice nella materia relativi a diritti attribuita alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo (art.26 l.n.1034/1971).

Come azione di condanna è stato configurato anche il ricorso per l’accesso ai documenti amministrativi (art.24 l.n.241/1990).

L’art. 35 l. n.80/1998 introdusse l’azione di condanna della p.a. al risarcimento del danno per lesione di diritti soggettivi in relazione a controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva e quindi (per effetto sentenza Cass. S. U. n.500/1999) anche per lesione di interessi legittimi (art. 7 l. n.205/2000).

Autorevole dottrina [2] ha precisato che tutti i casi di ampliamento dei poteri del giudice amministrativo vennero interpretati, fino a poco prima dell’approvazione del Codice del processo amministrativo, come casi di deroga alla regola generale in base alla quale la giurisdizione amministrativa ammette soltanto l’azione di annullamento.

Comunque sia, venne mantenuto fermo il principio del «numerus clausus» (o della tipicità) delle azioni proponibili nel processo amministrativo. Ciò a differenza di quanto accade nel processo civile nel quale, come regola generale, il giudice può adottare ogni tipo di sentenza necessaria per dare piena soddisfazione e tutela al privato vincitore in giudizio (il principio della «atipicità»).

Solo alcune sentenze del giudice amministrativo emanate tra il 2009 e il 2010 considerarono superato il principio della tipicità, ammettendo in particolare, in assenza di una norma di legge espressa, un’azione di accertamento atipica (Cons. St., sez. VI, 9.2.2009, n. 717 e 15.4.2010, n. 2139) [3].

La delega di cui all’art.44 l. n.69/2009 per il riassetto del processo amministrativo autorizzava il Governo, tra l’altro, a disciplinare le azioni, prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

Nel testo predisposto dall’apposita Commissione presso il Consiglio di Stato, le norme erano state redatte in coerenza con la tradizionale tripartizione delle azioni di cognizione (costitutive, di accertamento e di condanna) e senza trascurare le specificità dei giudizi amministrativi, dando autonomo rilievo ad azioni che pur rientrando in una delle tre tipologie presentavano tratti peculiari: azione avverso il silenzio rispetto all’azione di accertamento; azione di adempimento rispetto all’azione di condanna –  http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/Proc_amm_dopo_correttivo_ART_Chieppa.htm

Ma poi il Governo ha eliminato le norme sull’azione di accertamento e sull’azione di adempimento e quindi è stato promulgato il d. l.vo n.104/2010, ove vi è pure un disallineamento formale tra le azioni disciplinate dal codice e le categorie di pronunce di accoglimento di cui all’art. 34 dello stesso codice.

Successivamente con il secondo decreto correttivo del codice (d. l.vo n. 160/2012) è stata introdotta l’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto, nei limiti dell’art.31 comma 3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio (art. 34, comma 1, lett. c, c.p.a.)

Tipicità e atipicità delle azioni nel c.p.a.

Il codice nel suo testo definitivo (con la comprensione dei due correttivi) prevede alcune azioni (annullamento, condanna, avverso il silenzio e declaratoria di nullità, giudizio di ottemperanza, giudizio di accesso ai documenti, giudizio sulla sorte del contratto). Vi è poi l’azione per l’efficienza dell’amministrazione, disciplinata a parte (d.l.vo n.198/2009).

Peraltro occorre tener conto anche delle pronunce adottabili dal giudice amministrativo ed in particolare dell’art. 34 (sentenza di merito), dell’art. 35 (pronunce di rito), dell’art. 36 (pronunce interlocutorie) e artt. 55-62 (pronunce cautelari) e dei principi di effettività e giusto processo (artt. 1 e 2 c.p.a.) e ragionevole durata (art. 111, comma 2, Cost.).

Non avrebbe senso prevedere poteri decisori del giudice molto estesi, ma non esercitabili per l’assenza della facoltà di chiederne l’esercizio.

Inoltre, I principi generali mirano a costituire per l’interprete gli elementi di fondo, caratterizzanti la disciplina di cui è chiamato a fare applicazione ossia la disciplina del processo amministrativo.

Del resto, l’art. 39 del Codice contiene un rinvio esterno, che è stato opportunamente corretto (rispetto all’originaria versione della bozza di testo) nel senso del richiamo della applicabilità delle disposizioni del c.p.c. in quanto compatibili o espressione di principi generali e non “per quanto non espressamente previsto”, come indicato in prima battuta).

Il rinvio al codice di procedura civile per quanto non espressamente previsto avrebbe attenuato l’autonomia del Codice rispetto a quello di procedura civile, in quanto l’interprete avrebbe dovuto solo verificare se una questione processuale era risolta espressamente dal Codice del processo amministrativo e, in caso contrario, passare all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

L’attuale testo prevede che dopo la ricerca della soluzione della questione tra le previsioni espresse del Codice, l’interprete debba dapprima ricercare se dai principi contenuti nel Capo I o comunque desumibili dal Codice si possa trovare la corretta definizione del problema processuale.

Il principio dell’effettività della tutela è il principio cardine che deve guidare le decisioni del giudice amministrativo ed allora, seguendo il criterio dell’effettività, l’apparente contrasto tra disciplina delle azioni e poteri del giudice indicati in particolare nell’art. 34 va risolto nel senso dell’ampliamento delle domande proponibili in relazione alla situazioni giuridiche da proteggere e alle misure adottabili dal giudice.

Al riguardo occorre poi tener presente l’evoluzione della nozione di interesse legittimo che vede come essenziale il conseguimento del bene della vita/l’interesse materiale ad un bene della vita, per cui appaiono consentite tutte le azioni che siano necessarie per tutelare in concreto l’interesse sostanziale della parte.

Perciò deve ritenersi che il silenzio del codice su alcune azioni non possa essere risolutivo per escludere l’atipicità delle azioni nel processo amministrativo dovendosi tener conto del complesso normativo e dei relativi principi e in particolare di quello di effettività.

Corollario del’effettività è rappresentato dal principio dell’atipicità e delle molteplicità delle forme di tutela, anche se alcune azioni sono specificamente disciplinate nel c.p.a. Invero, nel momento in cui altre azioni fossero indispensabili per conferire piena tutela alle situazioni soggettive lese allora non può escludersi l’ammissibilità di azioni atipiche, come riconosciuto da Cons. St. A. P. n. 15/2011 con riferimento all’azione di accertamento atipica.

Peraltro, una parte della dottrina va anche oltre, ammettendo l’atipicità di contenuto anche delle azioni previste (tipizzate in modo astratto e quindi in modo incompleto), così si è sostenuto l’ammissibilità della condanna pubblicistica anche prima che fosse disciplinata con il secondo correttivo n.160/2012 (Cons. St. A. P. n.3/2011), nonchè l’annullamento dell’atto non solo con effetti ex tunc ma con effetti ex nunc o solo parzialmente retroattivi (Cons. St. sez. VI n.2775/2011) oppure un accertamento dell’illegittimità a fini meramente conformativi [4].

Appare coerente con l’atipicita del contenuto delle pronunce che può adottare il giudice amministrativo la circostanza che il c.p.a. non abbia riproposta la previsione contenuta negli omologhi articoli 45, comma 1 del regio decreto n. 1054/1924 e 26, comma 2 della legge n. 1034/1971, secondo cui il giudice amministrativo “se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza annulla l’atto, e rimette l’affare all’autorità competente. Se accoglie per altri motivi annulla in tutto o in parte l’atto impugnato […] salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa.

L’art. 34 c.p.a .stabilisce ora che in caso di accoglimento del ricorso il giudice annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato e l’art.88 c.p.a precisa che la sentenza deve contenere l’ordine che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

In caso di accoglimento per vizio di incompetenza, l’autorità competente potrà riesaminare la vicenda ma non è il giudice a doverle trasmettere l’affare.

L’annullamento giudiziale per gli altri vizi (violazione di legge e eccesso di potere) non comporta necessariamente ulteriori provvedimenti su iniziativa spontanea dell’autorità amministrativa, la quale invece è tenuta a ad eseguire il giudicato al fine di assicurare una tutela piena ed effettiva del soggetto vittorioso in giudizio.

Rimane fermo però che il giudice amministrativo in nessun caso può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati (al fine di evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa pro futuro con palese violazione del principio della divisione dei poteri) [5] e neppure può conoscere della legittimità degli atti amministrativi che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento, salvo il caso dell’azione autonoma di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi (art.34, comma 2, c.p.a.).

L’azione di annullamento.

Il giudizio amministrativo è stato strutturato come impugnazione e annullamento di atti [6], per cui anche nel caso di comportamento inerte dell’autorità amministrativa (sia in sede di esame di un’istanza sia in sede di ricorso gerarchico) la tutela del’interessato veniva impedita appunto dalla mancanza dell’atto o della decisione amministrativa gerarchica impugnabile. Di ciò si era reso conto il sen. Cavallini, che durante i lavori parlamentari che portarono all’approvazione della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (L. 31 marzo 1889 n.5992) aveva rilevato la lacuna del relativo progetto di legge atteso che l’autorità amministrativa “può abusare sia con il provvedere contro la legge sia con il non provvedere omettendo di rendere giustizia a chi la invoca” [7]. Con la conseguenza che il Consiglio di Stato ha dovuto sopperire in sede pretoria a tale inconveniente, inventando prima il c.d. silenzio rigetto [8] (ora disciplinato dall’art. 6 D.P.R.24 novembre 1971 n. 1199 e dall’art. 20 L. 6.12.1971 n.1034) e poi progressivamente il c.d. silenzio rifiuto (ora disciplinato dall’art.2 L. 7 agosto 1990 n.241 e successive modificazioni).

La prima decisione sul silenzio rifiuto che si può citare è Sez. V, 22 luglio 1926 n. 280, ove si osserva che “il provvedimento devesi ritenere intervenuto quando l’interessato abbia notificato all’Amministrazione l’atto formale che la invitava a provvedere in merito alla propria richiesta e malgrado ciò l’Amministrazione non abbia provveduto, dovendosi il suo persistente silenzio considerare come rigetto della domanda” [9].

L’art. 111, comma 3 della Costituzione demanda al legislatore di individuare l’organo giurisdizionale competente ad annullare gli atti della pubblica amministrazione, con ciò evidenziando come la tutela tipica nei confronti dell’atto amministrativo sia quella demolitoria, che normalmente è affidata al giudice amministrativo.

L’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni fondamentali (titolo, interesse ad agire, legittimazione attiva/passiva), che devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione finale (Cons. St. A. P. 25 febbraio 2014, n.9) e sotto tale angolazione si esclude correttamente che sia possibile esperire una c.t.u. al fine di affermare o negare la sussistenza della legittimazione al ricorso o di altra condizione dell’azione( Cons. St. Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3404)

In caso di ricorso per l’annullamento dell’atto lesivo della posizione di interesse legittimo possono essere dedotti i tradizionali vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, cioè per vizi di legittimità dell’atto.

In via preliminare occorre individuare l’atto da impugnare [10] (art.49, comma 1, lett. b, c.p.a) e il momento dell’impugnativa, che deve avvenire entro un termine breve di decadenza (art.41. c.p.a., comma 2) [11].

Normalmente nell’impugnativa si fa riferimento anche agli atti presupposti, connessi o conseguenti, ma si tratta di formula generica che non può ritenersi sufficiente a far ricomprendere nell’oggetto dell’impugnazione atti non nominati e dei quali non è possibile l’individuazione nel testo del ricorso, nemmeno esaminando le censure proposte [12]. Per l’effettiva impugnazione di tali ulteriori atti occorre la loro individuazione e la deduzione di specifiche censure, eventualmente di illegittimità derivata.

Invero la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2007 n. 6711) ha affermato che “la formula di stile con la quale si estende l’impugnazione a ‘tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenziali’ è priva di qualsiasi valore processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo un’inequivoca determinazione del petitum processuale consente alle controparti la piena esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito dall’articolo 24, comma 2° della Costituzione” (in senso conforme, Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2009 n. 3105; sez. IV, 21 giugno 2001, n. 3346).

Per l’azione di annullamento vale ora il requisito della specificità dei motivi, la cui inosservanza comporta la loro inammissibilità (art.40, comma 2, c.p.a).

Sono perciò inammissibili i motivi generici, vaghi o perplessi i quali non consentono al giudice, che deve decidere sulla base dei motivi dedotti. di comprendere i vizi denunciati dalla parte pur tenendo conto del contesto del gravame. Così sono stati ritenuti inammissibili sia una censura che deduca la contrarietà di un provvedimento amministrativo con principi costituzionali, sotto profili non esplicitati; e analogamente sia un motivo che ritenga un atto contrario a direttive comunitarie anche qui senza tuttavia chiarire sotto quale profilo (Cass. S. U. 14 settembre 2012 n. 15430).

Va infine richiesto l’annullamento totale o parziale dell’atto impugnato e degli atti connessi, la disapplicazione di una norma legislativa per contrasto con la normativa comunitaria o di una norma regolamentare per contrasto ad una norma legislativa ed eventualmente la condanna al risarcimento del danno, suggerendo al giudice anche le misure attuative (domanda questa che però non comporta che corrisponda al chiesto il pronunciato, nel senso che ben potrebbe non accogliersi il “suggerimento”, dato che il giudice amministrativo può disporre la misura attuativa che ritiene più aderente al fondamento della sua pronuncia, ai sensi dell’art. 34, comma 1 lett.e, c.p.a.

Peraltro il giudice amministrativo deve tener presente che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Si tratta di un atto vincolato per l’aspetto da considerare (vincolatività che può essere sia prevista dalla relativa normativa sia per effetto dello svolgimento del relativo procedimento ad es. autovincolo della p.a. o di un atto presupposto o di un accordo procedimentle che fa venir meno la discrezionalità residua).

In tal caso se viene denunciato un vizio di forma o di procedimento dell’atto e il suo contenuto dispositivo non potrebbe essere diverso in modo palese, valutazioni attinenti al contenuto del provvedimento, effettuate ex post dal giudice anche d’ufficio, tale atto non va annullato.

Si rileva la complessità della fattispecie legislativa, la quale chiama il giudice amministrativo ( pur senza iniziativa delle parti) ad un accertamento altrettanto complesso, giacché l’assenza di uno solo degli elementi tipizzanti (atto vincolato, violazione delle norme sul procedimento o sulla forma; identità del contenuto in modo palese se non ci fosse stata la violazione).

Nella seconda parte viene disciplinato autonomamente la violazione di legge consistente nella mancata comunicazione di avvio del procedimento (cui la giurisprudenza ha equiparato la mancata comunicazione dell’avviso di rigetto [13]), anche con riferimento ad un provvedimento discrezionale.

Si stabilisce che tale provvedimento amministrativo non è comunque annullabile qualora l’Amministrazione dimostri in giudizio (in modo particolarmente rigoroso) che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Peraltro anche se l’onere della prova in ordine al medesimo contenuto spetta in questo caso all’amministrazione, occorre considerare che secondo la giurisprudenza ( Cons. St. sez. VI, n. 3786/2008) –per evitare di addossare alla p.a. una probatio diabolica – la norma va interpretata nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, ma che debba quantomeno indicare o allegare gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento, ove avesse ricevuto la comunicazione; e solo se il privato adempie tale onere (con conseguente inammissibilità d’uffcicio della censura se tali elementi non sono forniti dal ricorrente), la p.a. sarà tenuta a dimostrare che, anche se tali elementi fossero stati inseriti nel procedimento, il contenuto del provvedimento non sarebbe comunque mutato.

Il non annullamento del provvedimento, sebbene formalmente illegittimo, si base sulla constatazione che diventa inutile annullare un atto allorchè il privato non potrebbe trarre dalla sentenza alcuna ulteriore utilità. Anche in questa previsione si coglie la centralità dell’effetto conformativo. Se la pretesa è certamente infondata, non vi è spazio alcuno per un utile effetto; diventa, quindi, inutile produrre l’effetto demolitorio.

Giova osservare, infine, che secondo la giurisprudenza maggioritaria la norma di cui all’art. 21 octies ha natura processuale e non sostanziale, con conseguente possibilità di applicazione anche ai provvedimenti adottati prima della sua entrata in vigore (Cons. St. sez. IV 23 gennaio 2012, n.282, sez. VI, 18 febbraio 2011, n. 1040, Sez. V, 2 febbraio 2010, n. 431; ma contra sez. V 20 marzo 2007, n.1307).

Fino agli anni 1990 si riteneva che la disapplicazione di un atto regolamentare fosse praticabile solo dal giudice ordinario (artt. 4 e 5 legge sul contenzioso amministrativo), non essendo previsto un analogo potere per il giudice amministrativo, tenuto anche conto dell’esigenza di evitare la elusione del termine perentorio di impugnativa dei provvedimenti. amministrativi.

Successivamente, la disapplicazione di un atto regolamentare è stata ammessa anche nel giudizio amministrativo relativamente a diritti soggettivi in materia di giurisdizione esclusiva (che si è progressivamente ampliata). Poi è stata estesa anche alla giurisdizione generale di legittimità, trattandosi di individuare la fonte normativa applicabile, ma talvolta si richiede un macroscopico contrasto con la norma primaria (Cons. St. sez. V, 26.9.2013, n. 4778). La disapplicazione normativa può operare non solo a favore del ricorrente (caso di impugnativa di provvedimento in contrasto di norma regolamentare che sia a sua volta in contrasto con una disposizione superiore), ma anche in senso sfavorevole (in malam partem) ad es nel caso in cui la parte invoca nel ricorso una norma regolamentare che venga ritenuta dal giudice in contrasto con una fonte superiore.

In caso di giudizio avverso l’atto lesivo di interesse legittimo, la disapplicazione provvedimentale non è stata finora ammessa in sede di giurisdizione generale di legittimità al fine di evitare la elusione del termine di impugnativa, anche se vi è contrasto con la normativa comunitaria (Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, C-327/2000; Cons. St. Sez. V 19 maggio 2009, n. 3072). Il problema si è posto in particolare per i bandi di concorso e di gara, che poi sono stati ritenuti atti amministrativi generali e non atti normativi (Cons. St. A. P. n.1/2003) e perciò non disapplicabili dal giudice amministrativo .

Ora il Codice del processo amministrativo ha espressamente precluso al giudice amministrativo di conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento, salvo il caso di risarcimento del danno per equivalente a prescindere dall’impugnativa del provvedimento, anche se occorre tener conto nella sua determinazione del danno evitabile ai sensi art. 30 c.p.a. (Cons. St. A. P. n.3/2011) [14].

Il risultato immediato, che il processo di impugnazione può dare al ricorrente, è duplice in relazione al carattere discrezionale o vincolato dell’atto impugnato.

Se si tratta di atto discrezionale, il principio di separazione dei poteri, quale risultante dal sistema costituzionale [15], preclude al giudice amministrativo di sindacare, in sede di legittimità, questioni di merito che rientrano nella sfera di esclusiva spettanza dell’autorità pubblica. L’accertamento del rapporto, in questi casi, non potrà essere pieno e, conseguentemente, la regola giudiziale è normalmente una regola incompleta, che la p.a. può completare in osservanza dei vincoli del giudicato. Ciò in quanto, pur essendo consentito in applicazione dei parametri della ragionevolezza e della proporzionalità un controllo interno del potere discrezionale della p.a. permane normalmente una residua discrezionalità della p.a. a tutela della sua sfera di autonomia e di responsabilità [16].

Diversa è la situazione nel caso di impugnativa di un atto vincolato (o per il quale non residuano ulteriori margini di discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori) in cui la sentenza del giudice amministrativo può coprire tutti gli aspetti dell’azione amministrativa ma occorre che l’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto sia esperita contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio (art. 31, comma 3, e art. 34, comma 1 lett. c, c.p.a.).

Le azioni costitutive rappresentano la risposta processuale dei poteri costitutivi di cui è titolare l’amministrazione: come il potere attribuito alla P.A. dalla legge viene esercitato e produce effetti unilateralmente nella sfera del privato, così il privato può domandarne l’eliminazione al giudice, impugnandone la fonte diretta, cioè il provvedimento. Dunque all’effetto costitutivo del potere amministrativo si sostituisce, laddove questo sia stato illegittimamente esercitato, l’effetto costitutivo inverso della sentenza di annullamento.

L’azione di annullamento ex art. 29 c.p.a., posizionata in apertura del capo riservato alle azioni di cognizione, rappresenta la perdurante centralità di essa nel processo amministrativo, sia pure in un ruolo di prevalenza piuttosto che di esclusività.

Oggetto dell’azione di annullamento è l’atto amministrativo, come testualmente affermato dalla correlata disposizione che si occupa dei poteri del giudice.

Ma poi l’art. 34 stabilisce non solo che in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda, annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato; ma anche che dispone le misure idonee per assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza.

Trattasi di disposizione che non concerne soltanto il giudizio di ottemperanza (già fornito di una propria disciplina), come potrebbe apparire con il riferimento all’attuazione del giudicato, ma che autorizza il giudice della cognizione a rendere esplicito il contenuto precettivo ulteriore della decisione di annullamento, dettando le regole della futura attività amministrativa, in modo da anticipare quanto potrà derivare dal giudicato.

Benché il potere di annullamento sia riferito al provvedimento, avendo la tutela costitutiva carattere generale, l’azione di annullamento si può esperire avverso qualsiasi atto, comportamento con valore di atto (silenzio significativo), comportamento esecutivo dell’atto, tenuti dall’Amministrazione.

L’art. 7, comma 4, c.p.a. sottopone alla giurisdizione di legittimità “atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni”, ossia tutte le possibili manifestazioni del potere amministrativo, dovendosi ricomprendere nella nozione di atto, distinta da quella di provvedimento, i comportamenti autoritativi di tipo commissivo.

Per le ipotesi di silenzio significativo – con valore di assenso o di rigetto – la tutela giurisdizionale è la stessa prevista avverso un provvedimento espresso, poiché il silenzio significativo equivale ad un provvedimento di accoglimento o di diniego. Se oggetto di controversia è un’attività materiale esecutiva di un provvedimento o altro comportamento che sia diretta espressione del potere, il giudizio verte sul provvedimento e, a titolo di invalidità derivata, sul comportamento, a meno che quest’ultimo non sussista da solo, quale immediata esplicazione del potere in modalità non formali, ed allora il giudizio verte sull’invalidità di detto comportamento, il quale, avendo efficacia costitutiva, in forza del potere autoritativo che realizza, ben può essere annullato.

Di regola, in base alla tesi tradizionale, l’accoglimento della azione di annullamento comporta l’annullamento con effetti ex tunc del provvedimento risultato illegittimo, con salvezza degli ulteriori provvedimenti della autorità amministrativa, che può anche retroattivamente disporre con un atto avente effetti ‘ora per allora’.

Tale regola fondamentale è stata affermataab antiquo (come ineluttabile corollario del principio di effettività della tutela), poiché la misura tipica dello Stato di diritto – come affermatosi con la legge fondamentale del 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato – non può che essere quella della eliminazione integrale degli effetti dell’atto lesivo per il ricorrente.

Tuttavia quando la sua applicazione risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale, è stato recentemente ritenuto che la regola dell’annullamento con effetti ex tunc dell’atto impugnato a seconda delle circostanze deve trovare una deroga, o con la limitazione parziale della retroattività degli effetti ( cons. St. sez. VI, 9 marzo 2011, n. 1488), o con la loro decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell’annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi.

Così è stato ritenuto illegittimo (Cons. St., sez. VI, n. 2755/2011) un piano faunistico venatorio regionale, senza disporne l’annullamento, il cui effetto sarebbe stato di eliminare le pur insufficienti misure protettive per la fauna, ritenendo invece congruo statuire l’obbligo di procedere entro dieci mesi all’approvazione di un nuovo piano faunistico, secondo le indicazioni fornite dalla sentenza in sede di accoglimento delle censure formulate dal ricorrente.

Per quanto riguarda, invece, l’ampliamento della portata dell’azione, il riferimento è alla possibilità di riconoscere alla sentenza di annullamento effetti ulteriori rispetto all’eliminazione dell’atto, quando questo sia insufficiente a soddisfare la pretesa del ricorrente, come nel caso in cui sia impugnato un provvedimento di diniego.

Il primo passo in tale direzione è stato il riconoscimento, accanto al classico effetto demolitorio del giudicato amministrativo, dell’effetto ripristinatorio e conformativo. Il primo guarda al passato, eliminando la frazione del potere illegittimamente esercitato; gli altri guardano al futuro, orientando la residua frazione del potere amministrativo, al ripristino dello status quo ante e alla corretta ripetizione del procedimento.

Quanto più il giudice riesce a trarre dall’avvenuto esercizio del potere il suo modo di essere, tanto più può fissare la regola per la sua rinnovazione nel caso concreto, vincolando l’attività amministrativa posteriore alla sentenza. In tale prospettiva il giudice deve esaminare il provvedimento impugnato non soltanto per verificare l’esistenza di illegittimità, ma anche per definire il contenuto del potere, soffermandosi – entro i motivi del ricorso – sul procedimento che lo ha prodotto e sulla situazione reale che ne forma oggetto.

Sennonché, anche quando il contenuto di accertamento della sentenza (variabile in relazione al tipo di vizio riscontrato ed alla quota di potere dedotta in giudizio) consentiva un’ampia definizione del rapporto, esso non poteva entrare nel dispositivo, sicché la regola di azione statuita in sede di cognizione aveva natura “implicita, elastica, incompleta”, potendo completarsi e compiersi solo nella sede del giudizio di ottemperanza..

Il secondo passaggio è stato quello di far convergere nel giudizio di annullamento, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui soluzione possa derivare una risposta definitiva alla pretesa del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita.

Si è, pertanto, progressivamente affacciata, non senza tentennamenti, l’esigenza di accrescere i contenuti della decisione di cognizione, prima in sede dottrinaria [17] e giurisprudenziale [18] e poi in sede normativa [19].

Hanno impresso una notevole accelerazione a detta nuova tendenza da un parte le innovazioni legislative intervenute recentemente in Francia e in Germania che hanno condotto ad un’anticipazione degli effetti vincolanti della sentenza amministrativa nel giudizio di cognizione [20] e dall’altra l’attribuzione legislativa in Italia della tutela risarcitoria degli interessi legittimi al giudice amministrativo [21], che per stabilire l’entità del risarcimento deve tener conto dei profili direttamente ripristinatori della sentenza di accoglimento. Con la conseguenza che l’effetto ripristinatorio della sentenza di accoglimento non è più accessorio e eventuale, ma si colloca nell’ambito delle conseguenze dirette della pronuncia, anche quando manchi una domanda di condanna [22].

Per quanto concerne in particolare il c.p.a. si inquadrano in questa nuova tendenza:

a) artt. art. 31 e 117 in tema di azione avverso il silenzio, in base ai quali il giudice può conoscere di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario, che può nominare con la sentenza che definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata; può pronunciare sulla fondatezza della pretesa nel caso in cui si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini discrezionali e non sono necessari adempimenti istruttori a cura dell’amministrazione [23];

b)il contenuto delle sentenze di merito, nei limiti della domanda:

-art, 34, comma 1 lett. c, nella parte in cui prevede che il giudice (in caso di accoglimento del ricorso) condanna……all’adozione delle misure necessarie a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.;

-art.34,comma 1 lett.c (ultimo periodo aggiunto dal secondo correttivo) concernente l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento, purchè proposta contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio ai sensi e nei limiti dell’art.31, comma 3 [24];

-art. 34, comma 1 lett. e), nella parte in cui prevede che la nomina del commissario ad acta può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza;

-art.34, comma 3, il quale stabilisce che se nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori [25];

-art.34, comma 4, che in caso di condanna pecuniaria consente in generale al giudice (e non solo per i casi di giurisdizione esclusiva [26]), di stabilire, in mancanza di opposizione delle parti, i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma di danaro entro un congruo termine; prevedendo in mancanza di accordo o in caso di inadempimento degli obblighi dell’accordo il ricorso per l’ottemperanza;

-art.117 in tema di accesso ai documenti amministrativi, statuisce che il giudice, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione dei documenti richiesti, dettando ove occorra le relative modalità;

c) artt. 121 e 122, riguardanti la giurisdizione amministrativa in materia di inefficacia del contratto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione, con cognizione del giudice riferita al concreto modo di essere del rapporto contrattuale in atto, in riferimento, fra l’altro, allo stato di esecuzione delle prestazioni.

Si pone il problema di delimitare le misure complementari ammissibili nell’azione di annullamento.

Occorre premettere che l’ordine di emanazione del provvedimento favorevole non è il risultato dell’accertamento definitivo della fondatezza di una pretesa, ma costituisce semplicemente la proiezione delle conseguenze che derivano dall’accoglimento del ricorso in primo grado. Il giudice, cioè, non accerta egli stesso la sussistenza di tutte le circostanze ed i presupposti per il favorevole esercizio del potere, ma si limita a risolvere le specifiche questioni che stanno alla base dei motivi di ricorso, prendendo atto, per i restanti aspetti, che gli accertamenti già compiuti e le determinazioni già adottate dall’amministrazione non ostano al rilascio del provvedimento richiesto o, ancor più nitidamente, condiziona l’efficacia dell’ordine alla circostanza che non vi siano impedimenti giuridici, la cui verifica compete all’amministrazione. Non sono statuizioni di condanna in forma specifica, ma prescrizioni attuative dell’effetto conformativo, quando questo è piuttosto stringente.

In concreto, però, questo significa che l’attività amministrativa oggetto di tali prescrizioni non è totalmente vincolata, e l’amministrazione conserva un margine di scelta in sede di riesame, poiché nel processo amministrativo su interessi legittimi non opera il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, benché le novità processuali, specie in termini di allegazione e di prova, comportano un rafforzamento della stabilità del giudicato.

Non sembra, invece, che in sede di giudizio di cognizione le misure attuative del giudicato possano assumere carattere sostitutivo, essendo riservata alla giurisdizione di merito il potere riformare, adottare o modificare gli atti amministrativi. Quindi, il giudice dovrà limitarsi a determinare le modalità esecutive (arg. ex art. 114, comma 4 lett.c, c.p.a) e la nomina del commissario segna il limite massimo dell’estensione del giudizio di cognizione, sicché il sindacato sulla conformità della sua attività al contenuto precettivo della sentenza ricade nell’ambito del giudizio di ottemperanza.

L’azione di mero accertamento.

Nelle azioni di mero accertamento, la funzione di accertamento non è strumentale ad altra pronuncia di cognizione (costitutiva o di condanna) ma si risolve in sè stessa [27].

Nel processo civile l’azione di mero accertamento è in astratto generalmente ammessa a fronte dell’art.2909 c.c. che sancisce il giudicato sull’accertamento contenuto in sentenza, ma il problema è quello di individuare le condizioni di ammissibilità di una tale tutela al di fuori dei casi espressamente previsti [28]’.

Nel processo amministrativo si è parlato di azione di accertamento con riferimento alle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, nelle controversie relative al riparto di spese per alienati o in materia di debito pubblico (Cons. St. A. P. 26 ottobre 1953, n. 17).

Autorevole dottrina nel 1963 poneva, accanto all’azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi, l’azione di accertamento per la maggior parte delle controversie risalenti alla giurisdizione propria del Consiglio di Stato del 1865 (poi confluite nella giurisdizione anche in merito di cui all’art. 25 T. U. n.6166/1889) e nel caso previsto dall’art. 33 T. U. n.1054/1924 (poi abrogato dall’art. 4 dell’allegato 4 c.p.a.) [29].

Di azione di accertamento si è parlato in particolare con riferimento alle controversie oggetto di giurisdizione esclusiva vertenti su posizioni di diritto soggettivo (per lo meno dagli anni 1939-40 in poi) e per la dichiarazione di illegittimità del silenzio rifiuto della p.a. in ordine alle istanze dei privati dal 1960 in poi (Cons. St. A. P. n.8/1960).

Prima del codice in ordine all’ammissibilità innanzi al giudice amministrativo di un’azione di mero accertamento nell’ambito della giurisdizione di legittimità sono stati prospettati numerosi dubbi, sia in dottrina, sia in giurisprudenza [30].

Secondo alcuni un giudizio di accertamento sarebbe ammissibile solo in una controversia tra soggetti in posizione di parità e rispetto ai quali il giudice detiene il potere di fissare la disciplina puntuale del rapporto concreto. Quando, viceversa, sussiste un soggetto in posizione di supremazia (la pubblica amministrazione), la soluzione del conflitto di interessi sarebbe demandata a tale soggetto, che detiene e gestisce il potere, ed il sindacato del giudice, in tali casi, non può che assumere la struttura del controllo successivo dei modi di esercizio del potere, laddove, viceversa, un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere [31].

Ulteriori ostacoli all’ammissibilità dell’azione di accertamento autonomo nel processo amministrativo derivano, secondo l’insegnamento tradizionale: a) dalla negazione, invalsa soprattutto in passato, che l’interesse legittimo sia una posizione giuridica sostanziale avente la stessa dignità del diritto soggettivo; b) dalla mancanza di un riconoscimento espresso dell’azione di accertamento da parte del Legislatore, a differenza di quanto accade negli ordinamenti di altri Paesi che tale azione conoscono (ad es. quello germanico); c) dalla tradizionale configurazione del giudizio amministrativo come giudizio sull’atto, e non sul rapporto, nell’ambito del quale, pertanto, al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, l’unica azione proponibile sarebbe quella volta ad ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo; d) dalla limitazione dei mezzi di prova utilizzabili dal giudice amministrativo, il quale, pertanto, non sarebbe in grado, per la povertà dei suoi poteri istruttori, di compiere un accertamento pieno del rapporto controverso.

L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’ultimo decennio, ha determinato il superamento di una così rigida chiusura all’azione di accertamento del processo amministrativo, offendo, al contempo, numerosi argomenti che depongono a favore di una diversa soluzione [32].

In primo luogo, come hanno anche recentemente evidenziato le Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 23 dicembre 2008 n. 30254) “sono ormai definitivamente tramontate precedenti ricostruzioni della figura dell’interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, che il primo configuravano come situazione funzionale a rendere possibile l’intervento degli organi della giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la natura di giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque di mezzo direttamente volto a rendere possibile, attraverso una nuova determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata e solo indirettamente a realizzare l’interesse del privato”.

Va inoltre considerato che, la nozione di interesse legittimo serve anche a contraddistinguere il nucleo di facoltà, inerenti al diritto di proprietà il cui esercizio è ex lege subordinato al potere conformativo della P.A. Più propriamente alcune modalità di godimento (facoltà) a seguito dell’intervenuta modifica legislativa non devono essere pregiudizialmente assentite dalla P.A., ma presuppongono l’invio di una informativa, assistita da un progetto. Trascorso infruttuosamente il termine di 30 giorni, l’agere licere del privato, titolare del bene, si riespande pienamente.

Rientra nel potere della P.A. accertare la corretta utilizzazione della misura liberalizzatrice da parte del privato e di intervenire tempestivamente nei casi di suo uso distorto.

Ciò significa che la nozione di interesse legittimo, utilizzata originariamente per contrassegnare situazioni sostanziali che non raggiungevano la soglia di tutela propria del diritto soggettivo, serve oggi anche a contrassegnare il nucleo di facoltà che, all’interno del diritto soggettivo, possono essere esercitate solo a seguito del positivo esercizio da parte della P.A. dal suo potere conformativo.

In questi casi, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla titolarità del diritto, quello amministrativo giudica del suo contenuto, del suo grado di tutela, a seconda che venga o meno in conflitto con interessi di rilevanza pubblicistica (urbanistica, ambiente, paesaggio ecc.).

In tal senso si è chiaramente espressa la Corte costituzionale con la sentenza 6 luglio 2004 n. 204, che ha chiarito che l’art. 24 della Costituzione assicura agli interessi legittimi “le medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla effettività della tutela che questi deve loro accordare”.La stessa attribuzione al Giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto anche nell’ambito della competenza generale di legittimità (ex art. 7 legge n. 205 del 2000) affonda le sua radici, secondo la Corte, nell’art. 24 della Costituzione “il quale garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”.

Anche la Corte costituzionale ha dato, dunque, il proprio avallo alla piena parificazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi quanto a possibilità di farli valere in giudizio, all’effettività della tutela e all’adeguatezza dei poteri del giudice. Come attenta dottrina non ha mancato di rilevare, questo criterio interpretativo generale deve presiedere alla ricostruzione delle disposizioni legislative oggi vigenti in materia di processo amministrativo e, per quel che più rileva in questa sede, deve rappresentare il punto di partenza nella risoluzione della questione relativa all’ammissibilità di una azione di accertamento nel processo amministrativo da parte del terzo che si ritenga leso dell’attività iniziata sulla base della relativa comunicazione.

In senso contrario all’azione atipica di accertamento, non pare risolutiva nemmeno la tradizionale considerazione secondo cui il giudizio amministrativo è un giudizio sull’atto e non sul rapporto. In primo luogo, tale affermazione riguarda il giudizio di annullamento (che presuppone che sia stato emanato un provvedimento di cui si contesta l’illegittimità); non può invece assumere rilevanza nell’ambito di un giudizio che non mira alla eliminazione del provvedimento, ma vuole ottenere un accertamento giurisdizionale (di inesistenza dei presupposti della domanda) al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo. In questo caso, mancando il provvedimento da scrutinare, l’oggetto del giudizio non può che essere il rapporto che, secondo il ricorrente dovrebbe essere poi recepito nel successivo provvedimento repressivo.

In secondo luogo, anche la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato. Citando ancora la recente sentenza delle Sezioni unite n. 30254 del 2008, più indici normativi testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto. Basti pensare: all’impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso (art. 21 comma 1 legge T.A.R., modificato dall’art. 1 legge n. 205 del 2000); al potere del giudice di negare l’annullamento dell’atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21 octies legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 21 bis legge n. 15 del 2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza dell’istanza nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto (art. 2 comma 5 legge n. 241 del 1990, come modificato dalla legge n. 80 del 2005 in sede di conversione del decreto legge n. 35 del 2005).

Il giudizio amministrativo, rimane perciò, un giudizio sull’atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va inclusa quella in esame, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della p.a., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia dell’amministrazione.

Non appare decisivo nemmeno l’ostacolo derivante dalla mancanza di una norma espressa che preveda in generale l’azione di accertamento nel processo amministrativo. Come è stato efficacemente rilevato dalla dottrina che si è occupata del tema, sotto questo profilo ricorre nel processo amministrativo una situazione del tutto analoga a quella del processo civile, nel quale pure manca un esplicito riconoscimento normativo generale dell’azione di accertamento (specifiche azioni di accertamento sono previste nel codice civile solo per i diritti reali). Ciò nonostante, nel processo civile l’azione di accertamento è pacificamente ammessa. A tale pacifico riconoscimento dell’azione di accertamento nel giudizio civile si giunge partendo dalla premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto.

L’azione di accertamento nel nostro ordinamento non è quindi un’azione “tipica” (come lo è, ad esempio, nel diritto processuale civile l’azione costitutiva ex art. 2908 Cod. civ.), in quanto non è necessario un espresso riconoscimento normativo per ammetterne la vigenza. L’ammissibilità di tale azione discende di per sé dall’esistenza della giurisdizione che implica appunto lo “ius dicere”. Ad analoghe conclusioni può giungersi per il processo amministrativo in quanto il potere di accertamento del giudice non può essere limitato alle sole ipotesi tipiche specificamente previste.

La tipicità dell’azione di annullamento era coerente con la visione originaria del processo amministrativo come un processo impostato sulla tutela degli interessi legittimi oppositivi ai quali corrispondeva una pretesa a un “non facere” in capo all’Amministrazione, cioè un dovere di astensione dall’emanare il provvedimento restrittivo della sfera giuridica dell’interessato. L’art. 45 del testo unico e l’art. 26 comma 2 legge istitutiva dei T.A.R. che individuano come unico dispositivo di accoglimento la sentenza di annullamento rispecchiavano perfettamente tale visione.

Una siffatta visione non corrisponde più all’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha attribuito rilevanza e pari dignità agli interessi legittimi pretensivi. A favore dell’ammissibilità di una azione atipica di accertamento gioca un ruolo decisivo anche l’art. 24 della Costituzione. Tale norma sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi in sé considerati, e dunque, indipendentemente dal problema dell’annullamento dell’atto amministrativo. Viene così costituzionalizzato il carattere strumentale del processo rispetto al diritto sostanziale, in linea con la nota formula dottrinale secondo cui il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quelle e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire.Ne deriva che anche per gli interessi legittimi la garanzia costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo di questa posizione sostanziale, almeno in tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.

A tale risultato non può opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto, come è stato di recente rilevato, uno dei corollari dell’effettività della tutela è anche il principio della atipicità delle forme di tutela, non diversamente da quello che accade nel processo civile. E non vi è ragione di differenziare, in linea di principio, sotto il profilo delle implicazioni che possono trarsi dall’art. 24 della Costituzione, il processo amministrativo dal processo civile, soprattutto se si riconosce all’interesse legittimo, com’è ormai pacifico, una rilevanza sostanziale analoga a quella del diritto soggettivo. Deve, allora, condividersi l’opinione di quanti sostengono che l’esigenza dell’effettività della tutela non può dirsi soddisfatta solo perché l’ordinamento consenta un rimedio giurisdizionale qualsiasi al diritto (o all’interesse) che si assume violato o insoddisfatto: occorre invece che la tutela assicuri in modo specifico l’attuazione della pretesa sostanziale. Né, in senso contrario, può assumere rilievo la considerazione, prima ricordata, secondo cui un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella titolarità e nella gestione del potere.

L’azione di accertamento non scaturisce, infatti, dalla mera esigenza di eliminare una incertezza sulla posizione giuridica sostanziale, ma dalla più pregnante esigenza di eliminare una lesione già in atto, determinata dalla difformità tra lo stato di fatto e lo situazione di diritto, a causa della già intrapresa realizzazione di un intervento non consentito in base alla domanda del’interessato.

Non si tratta, dunque, di una tutela preventiva dell’interesse legittimo del terzo che sarebbe in contrasto con il fatto che l’ordinamento ha attribuito all’Amministrazione la gestione di determinati rapporti. Si tratta, viceversa, di una tutela a posteriori, richiesta a seguito della asserita lesione dell’interesse legittimo del terzo controinteressato rispetto all’attività richiesta.

L’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo della posizione sostanziale è ammissibile almeno in tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.

Il c.p.a. e l’azione di accertamento.

Nel testo predisposto dall’apposita Commissione presso il Consiglio di Stato, le norme erano state redatte in coerenza con la tradizionale tripartizione delle azioni di cognizione (costitutive, di accertamento e di condanna), dando autonomo rilievo all’azione di accertamento [33]. Nel contempo venivano fissati specifici limiti a tale azione stabilendosi che, ad eccezione dell’azione di nullità, l’accertamento non può comunque essere chiesto, salvo quanto disposto dall’articolo 39, comma 4, (concernente l’azione autonoma di risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo nel termine di 180 giorni), quando il ricorrente può o avrebbe potuto far valere i propri diritti o interessi mediante l’azione di annullamento o di adempimento; l’accertamento non può altresì essere chiesto con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

Ma poi il Governo ha eliminato le norme sull’azione di accertamento precisando “di non esercitare, allo stato, in parte qua tale facoltà concessa dalla delega, ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal Capo II”

La giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del c.p.a. (Consiglio St. A. P. decisioni 23 marzo 2011 n. 3 e 29 luglio 2011 n. 15) si e chiaramente pronunciata per l’ammissibilità dell’azione di accertamento nel processo amministrativo

Secondo tale orientamento interpretativo l’assenza di una previsione legislativa espressa non osta all’esperibilità di un’azione di mero accertamento quante volte detta tecnica di tutela sia l’unica idonea a garantire una protezione adeguata ed immediata dell’interesse legittimo (cfr., da ultimo, Sez. V, 31 gennaio 2012 n. 472).

In adesione a detto indirizzo si deve ribadire che, nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la mancata previsione, nel testo finale del codice del processo amministrativo, dell’azione generale di accertamento non preclude la praticabilità di una tecnica di tutela che rinviene il suo fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Carta fondamentale al fine di garantire la piena e completa tutela giurisdizionale (artt. 24, 103, 111 e 113).

Anche per gli interessi legittimi, infatti, come pacificamente ritenuto nel processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui siffatta azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.

A tale risultato non può del resto opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto corollario indefettibile dell’effettività della tutela è proprio il principio della atipicità delle forme di tutela.

In questo quadro la mancata previsione di una norma esplicita sull’azione generale di accertamento non è sintomatica della volontà legislativa di sancire una preclusione di dubbia costituzionalità ma è spiegabile, anche alla luce degli elementi ricavabili dai lavori preparatori, con la considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire statuizioni dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di norma una tutela idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce meramente dichiarative in cui la funzione di accertamento non si appalesa strumentale all’adozione di altra pronuncia di cognizione ma si presenta allo stato puro. Ne deriva, di contro, che, ove dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela, l’azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire concreto ed attuale ex art. 100 Cod. proc. civ., risulta praticabile in forza delle coordinate costituzionali e comunitarie richiamate dallo stesso art. 1 del codice oltre che dai criteri di delega di cui all’art. 44 della legge n. 69 del 2009. In definitiva, il principio dell’interesse a ricorrere di cui all’art. 100 Cod. proc. civ., operante nel processo amministrativo in virtù del rinvio esterno recato dall’art. 39 del codice del processo amministrativo, funziona non soltanto come presupposto processuale dell’azione di annullamento e di condanna ma, ai sensi dell’art. 24 Cost., come fattore di legittimazione generale ad agire, che abilita il soggetto all’azione di mero accertamento.

Il riconoscimento dell’ammissibilità in termini generali dell’azione di accertamento dovrebbe persistere, nonostante vi sia stato un intervento del legislatore in ordine alla tutela esercitabile dal terzo nei confronti della d.i.a. o s.c.i.a., con l’elimianzione dell’ipotesi concreta esaminata dalla giurisprudenza.

Infatti, con l’art. 6 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in l. 14 settembre 2011, n. 148, è stato aggiunto il comma 6-ter all’articolo 19, della legge 7 agosto 1990, n. 241, che prevede che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. ”104”.

Ma in senso contrario si è espresso Cons. Stato, Sez. V, 16 gennaio 2013, n. 231, sostenendosi che l’azione di mero accertamento è esercitabile solamente nei casi tipicamente definiti dal legislatore od enucleabili dal contesto della disciplina di tutela: il riferimento, a titolo esemplificativo, è all’azione di accertamento in materia di silenzio, in materia di nullità del provvedimento, in materia di ottemperanza e di cd. SCIA, tutte riconducibili a peculiarità sostanziali che si riflettono nella tipicità e specialità della tutela giurisdizionale (azione) e processuale (rito) accordata dall’ordinamento.

Dall’art. 1 c.p.a., che richiama l’esigenza di una tutela piena ed effettiva, in relazione all’art. 24 Cost., non può, del resto, ricavarsi, un principio di atipicità dell’azione di accertamento, poiché dovrebbe, se mai, preliminarmente dimostrarsi che il sistema di tutele del codice sia, per questa parte, lacunoso, e quindi da integrare in via ermeneutica con il richiamo ai principi costituzionali ed europei del giusto processo. Ma, in realtà, nel nostro ordinamento non si ravvisa alcuna lacuna di tutela, semmai una spinta opposta che potrebbe dirsi “sovra-tutelante”.

In particolare, con riguardo alla SCIA, preme evidenziare come una tale azione, lungi dal presentarsi come un rimedio generalizzato ed alternativo all’azione caducatoria, possa essere promossa dal privato soltanto nei casi in cui costituisca l’unico strumento a disposizione del ricorrente per tutelare la propria posizione soggettiva. È quanto d’altronde affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ( n.15/2011 chiamata a pronunciarsi sulla natura giuridica della DIA (oggi SCIA, appunto), nonché sulla tutela da assicurare al terzo, leso per effetto dell’attività avviata dal denunciante. Il Supremo Consesso della giustizia amministrativa, operando un’innovativa lettura del dettato positivo, i cui effetti tuttavia sono stati in parte attenuati dalla successiva riforma normativa (art. 6 comma 1 decreto legge n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011), ha difatti evidenziato come, a seguito della segnalazione del privato, avente ad oggetto l’avvio di un’attività assoggettata a DIA, l’Amministrazione sia tenuta ad avviare un procedimento per verificare la conformità, di quanto dichiarato dal denunciante, ai requisiti prescritti dalla disciplina di settore, onde adottare, in caso di riscontro negativo, i consequenziali provvedimenti conformativi.

Tornando al problema generale della tipicità delle azioni di accertamento nel nostro ordinamento processuale, ed in disparte l’argomento, comunque decisivo, dell’assenza di qualsivoglia base normativa per sorreggere tale tipologia di tutela, si deve osservare che le amputazioni subite dalla disciplina delle azioni in seno al codice rispetto alla legge delega (art. 44 comma 1) se non possono certamente condizionare l’interpretazione delle disposizioni approvate, altrettanto sicuramente forniscono un criterio ermeneutico che spinge l’interprete verso tale conclusione, ovvero che l’azione di mero accertamento, nel processo amministrativo, sia un’azione tipica e non atipica.

La stessa Relazione al codice, nel dar conto della soppressione dell’azione di accertamento, spiega che il Governo ha ritenuto “di non esercitare, allo stato, in parte qua tale facoltà concessa dalla delega, ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal Capo II”. Peraltro, dall’art. 1 del codice, nel richiamare l’esigenza di una tutela piena ed effettiva, in relazione a quanto disposto dall’art. 24 della Costituzione, non può certamente ricavarsi un principio di atipicità dell’azione di accertamento, poiché dovrebbe semmai preliminarmente dimostrarsi che il sistema di tutele del codice sia, per questa parte, lacunoso e, quindi, necessariamente da integrare in via ermeneutica con il richiamo ai principi costituzionali ed europei del giusto processo; dimostrazione che è ben lungi dall’essere un fatto certo. Anzi, in via generale nella citata sentenza si ritiene che il nostro sistema processuale amministrativo sia caratterizzato, almeno sul piano dei rimedi astrattamene previsti, da un’accentuata protezione, in funzione garantista, rispetto alle posizioni soggettive vantate dai cittadini nei confronti dei pubblici poteri, in una logica di sistema che non ha eguali nello scenario dei Paesi evoluti ai quali possiamo confrontare il sistema processuale stesso. Basti pensare, a titolo di esempio, ai gradi di giudizio che lo connotano che, tra fase cautelare di primo e secondo grado, merito e appello, nonché eventuale revocazione, implicano che anche ventuno giudici possano finire per occuparsi di un singolo fascicolo processuale. Oppure basti pensare ai principi probatori estremamente semplificati e improntati alla speditezza processuale, che il giudice amministrativo ha da tempo adottato (ad es., il cd. principio di prova “attenuato”, oppure la liquidazione forfetaria ed equitativa del danno) e che sono orientati nella stessa direzione. Pertanto, nell’equilibrio del sistema processuale nel suo complesso, il nostro ordinamento non mostra alcuna lacuna di tutela, semmai una spinta opposta che potrebbe dirsi “sovra-tutelante”.

A nulla rileva, peraltro, che nella concreta azione dei pubblici poteri questo apparato di tutele si dimostri spesso impotente a correggere le violazioni della legalità riscontrabili nei processi operativi che coinvolgono le Amministrazioni a tutti i livelli e che di frequente, come ha messo in luce anche dal Consiglio di Stato nella sentenza 27 luglio 2011 n. 4502, perpetuano “il costume, improponibile prima sul piano culturale e civile che su quello giuridico, di affermare grandi e importanti principi di civiltà avanzata per poi disattenderli puntualmente in fase applicativa”.

La disattenzione per le regole della corretta e buona amministrazione, secondo una cultura di illegalità diffusa capace di compromettere anche i più avanzati ed articolati strumenti di tutela del cittadino, come quello che esprime il nostro ordinamento giuridico, non può influire sul giudizio complessivo del nostro ordinamento che non conosce ( almeno in linea teorica) vuoti di tutela. Anche i dati normativi testuali che si pretenderebbe di leggere nella direzione del principio di atipicità, come l’art. 34 comma 1 lett. c) codice, che prevede l’adozione “delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”, sono manifestamente insussistenti, atteso che tale disposizione precisa i contenuti della sentenza di condanna e non quella di mero accertamento.

Per inciso il secondo correttivo al Cod. proc. amm. (D.L.vo n. 160 del 2012), con l’aggiunta di un comma 2 all’art. 34 lett. c) Cod. proc. amm., ha introdotto un’ulteriore azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto, recependo in sede legislativa le sollecitazioni proposte dalla decisione dell’Ad. plen. n. 3 del 2011, rafforzando e potenziando ancora la tutela del cittadino, ma muovendo sempre nella logica dell’azione di condanna, per l’appunto. Né muove nella stessa direzione la successiva lett. e) in base alla quale il giudice dispone “le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato”, inclusa la nomina, già in sede di cognizione, di un commissario ad acta con sua operatività dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza, poiché l’azione di accertamento sarebbe, semmai, l’oggetto di un giudicato e non una misura per attuarlo.

Pertanto, deve ritenersi inammissibile un’ azione di accertamento nei casi non previsti dalla legge.

Detto orientamento negativo è stato seguito dal TAR Puglia-Bari, 6 febbraio 2014, n. 184, che ha dichiarato inammissibile l’azione di accertamento, non rientrando siffatta tipologia di azione tra quelle tipiche espressamente previste dal codice del processo amministrativo, precisandosi che la possibilità di configurare domande e azioni atipiche deve chiaramente ritenersi subordinata quantomeno alla necessità che tale forma di> azione risulti necessaria in quanto unico rimedio a tutela di situazioni di interesse meritevole di tutela asseritamente lese.

Pertanto, si può concludere ritenendo che non sembra da escludere in assoluto l’ammissibilità di un’azione di accertamento atipica nel processo amministrativo di legittimità, ma il problema è quello di stabilirne i relativi presupposti, come del resto nel processo civile.

L’azione di nullità.

Premessa

L’invalidità e le sue regole non costituiscono una categoria logica, ma sono nella piena disponibilità del legislatore.

Perciò la valutazione di validità o di invalidità di un atto va effettuata sulla base dei relativi parametri normativi. La condizione di invalidità caratterizza gli atti che risultino in contrasto con le regole di diritto vigenti alla data della sua emanazione [34], salvo la problematica dell’invalidità successiva.

L’atto difforme dai parametri legali è sanzionato dall’ordinamento con il disconoscimento in tutto o in parte degli effetti sulla base della gravità del vizio e/o degli interessi pubblici e privati che intende tutelare, sia in via automatica (come normalmente avviene in caso di nullità dell’atto) sia a seguito di apposita pronuncia giudiziale provocata dagli interessati (in caso di annullabilità dell’atto) [35].

Il legislatore del 1942, aveva previsto nel cod. civ. numerose “salvezze” all’interno della disciplina di cui agli artt. 1418 ss. c.c., riconosciuta come la regolamentazione generale da applicare alla nullità laddove mancassero precetti ad hoc. Tuttavia, le numerose disposizioni legislative sopravvenute che prevedono delle nullità speciali facendo uso delle suddette “salvezze” finiscono per restituire all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale una nozione dai contorni non più definiti: voler parlare di nullità con riferimento alle numerose fattispecie previste dalle leggi speciali implica l’esigenza di operare numerose concessioni in relazione alle esigenze del caso. È chiaro tuttavia che, seguendo questo metodo, della nullità tradizionale resta ben poco.

Il principale spunto di riflessione è rappresentato dal nuovo meccanismo di tutela del contraente debole che si risolve nella nullità c.d. di protezione, la cui denominazione, è stata anche esplicitamente recepita dal legislatore nel Codice del consumo in relazione alla sorte delle clausole vessatorie contenute nei contratti standardizzati. Tale tipo di nullità si innesta nel percorso più ampio già tracciato, anche se in modo molto più flebile, dalla cd. “nullità relativa”, caratterizzata dalla deroga al principio della legittimazione generale.

Si esclude ormai la sussistenza di un regime generale della nullità civilistica cui si affiancherebbero mere previsioni di nullità speciale in determinate aree giuridiche: è più realistico ed aderente al dato legislativo parlare di pluralità di statuti di nullità. Questa conclusione sulle nullità di carattere civile sembra trovare conferma nella disciplina della nullità dell’atto amministrativo.

L’atto nullo in diritto amministrativo.

In diritto amministrativo i vizi dell’atto amministrativo sono stati enumerati per la prima volta sotto tre tipi dall’art. 3 legge 31 marzo 1889, n. 5994, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (spetta alla sezione quarta di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere (inteso come sviamento di potere) o per violazione di legge contro atti e provvedimenti ….), riconducibili comunque alla violazione di legge. In precedenza si parlava nell’art. 9 legge n.2248/1865, allegato D , di ricorsi al Re contro la legittimità di provvedimenti amministrativi a proposito del parere obbligatorio del Consiglio di Stato sul ricorso , che comprendeva all’epoca solo i vizi di incompetenza e di violazione di legge, in quanto l’eccesso di potere era inteso come straripamento di potere (legge n. 3761/1877 sui conflitti di attribuzione: spetta alla Cassazione di Roma giudicare .. sulla nullità delle sentenze.. per incompetenza o eccesso di potere).

In tema di nullità dell’atto amministrativo è opportuno distinguere tre periodi:

-il periodo anteriore al 2005 (allorchè mancava una disciplina generale sia sostanziale che processuale dell’atto nullo, ma vi erano singole ipotesi di atti nulli previste dalle norme);

-quello intermedio, successivo alla l.n.15/2005 e anteriore al c.p.a. con la presenza dell’art.21 septies legge n.241/1990, che ha tentato di delineare una disciplina generale dei casi di nullità ma senza precisare la disciplina processuale dell’azione di nullità;

-quello attuale con l’intervento dell’art.31, comma 4, decr. leg.vo n.104/2010 sul codice del processo amministrativo, che ha disciplinato alcuni aspetti processuali dell’azione di nullità nel processo amministrativo.

Nel periodo iniziale, dopo alcune incertezze fino al 1910, tendenti all’estensione delle regole in tema di nullità dei contratti agli atti amministrativi con riferimento all’ammissibilità del rilievo d’ufficio della nullità del provvedimento impugnato [36], il Consiglio di Stato ha assunto una posizione autonoma, poi mantenuta fino ad epoca recente, rilevando che se le leggi di giustizia amministrativa esigono che il ricorso sia prodotto entro un dato termine e che nel ricorso si specifichino i motivi di gravame, ciò fa intendere che un mezzo proposto oltre quel termine sia irricevibile; e se sono previsti nelle leggi di procedura delle ipotesi di nullità non è consentito generalizzare per estenderli agli atti della pubblica amministrazione soggetti a regole proprie,e non c’è spazio per la nullità in senso civilistico, e che l’invalidità dei provvedimenti amministrativi ha la sua causa unicamente nella illegittimità, nella forma di uno dei tre vizi dell’art. 26, e ha come unica conseguenza, o modo di manifestarsi, la annullabilità [37].

La dottrina amministrativistica fino agli anni 1950 è stata generalmente convinta della inapplicabilità delle regole civilistiche in tema di nullità del contratto agli atti amministrativi. Il Cammeo si pone il problema della distinzione tra inesistenza e invalidità ritenendo esistente l’atto invalido (tanto che può produrre effetti giuridici diversi o minori di quelli che dovrebbe e essere fonte di responsabilità) e distinguendo tra nullità (avente carattere eccezionale: nei casi espressamente previsti e per mancanza di elementi essenziali) la quale però non può rilevarsi d’ufficio dal giudice [38].

Perciò la giurisprudenza si assestò sulla conclusione che in caso di accoglimento del ricorso tutto si riporta all’annullabilità, compresi quei pochi casi nei quali il legislatore parlava espressamente di “nullità”, svalutando quindi addirittura il dato normativo. Del resto il giudice, in quanto titolare di poteri di annullamento (art.38 T. U. 2.6.1889, n. 6166: la sezione se accoglie il ricorso annulla l’atto; ed anche con riferimento al Consiglio di Stato art. 45 T.U. 26.6.1924, n. 1054, e con riferimento al TAR art.26 l. 6,12.1971 n.1034 ), ritenne di poter pronunciare appunto solo sentenze costitutive, e di non avere il potere di emettere sentenze dichiarative di nullità.

Peraltro dagli anni 1950 in poi, tenuto conto anche della più completa disciplina c.c. del 1942 in tema nullità e annullabilità del contratto, sono state sollevate alcune specifiche questioni che hanno comportato un esame più approfondito del problema della nullità che normalmente era identificata con l’inesistenza dell’ atto amministrativo, con riferimento:

-alla carenza di potere/illegittimo esercizio del potere, come criterio di riparto delle controversie tra giudice ordinario e amministrativo [39];

-al giudizio di esecuzione del giudicato, al fine di distinguere gli atti adottati dall’amministrazione in violazione/elusione del giudicato e perciò nulli e quelli eventualmente affetti da illegittimità ulteriori, da impugnare con ricorso ordinario.

Pur in mancanza di una espressa previsione del rimedio anche per l’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, il Consiglio di Stato si rese conto che l’obbligo a carico dell’amministrazione pubblica di conformarsi ai giudicati doveva estendersi anche alle sentenze amministrative in ossequio a un principio di coerenza del sistema.

L’estensione avvenne inizialmente per l’esecuzione delle sentenze amministrative esecutive del giudicato del giudice ordinario e poi, in considerazione dell’identità della ratio, per l’esecuzione del giudicato amministrativo relativamente alle posizioni di diritto soggettivo della giurisdizione esclusiva [40] Solo verso gli anni cinquanta [41] vi fu l’estensione anche nei confronti del giudicato amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità [42], con l’avallo successivo della Corte di Cassazione [43] e della Corte costituzionale [44].

In un primo momento viene ravvisata la violazione del giudicato in caso di inerzia totale o quando veniva adottato un atto del medesimo contenuto di quello annullato e con gli stessi vizi (Cons. Sez. VI,23 aprile 1951, n. 181; 22 ottobre 1958, n. 781;24 dicembre 1960, n. 1084)

Poi venne precisato che l’atto adottato in contrasto con un vincolo puntuale nascente dal giudicato viene emesso in carenza di potere ed esso è nullo, indipendentemente da un’impugnazione nel termine di decadenza (Cons, St. A. P. 11 marzo 1984 n.6).

Ma la tesi della nullità degli atti amministrativi adottati in violazione o elusione del giudicato è prevalsa solo recentemente in quanto in precedenza la giurisprudenza del Consiglio di Stato era dubbiosa tra l’eccesso di potere (Sez. VI,16 ottobre 1963, n. n.730) e la nullità (Sez. VI, 31 gennaio 1986, n. 78), ritenendosi che la nullità fosse in contrasto con i principi generali in tema di efficacia giuridica degli atti amministrativi, atteso che l’inosservanza del giudicato non comporterebbe l’esercizio di un potere inesistente ma il superamento dei limiti al potere discrezionale di attuazione del decisum spettante all’amministrazione (Cons. St. sez. V, 31 marzo 1992, n. 269).

In seguito la giurisprudenza prevalente ha, quindi, qualificato come nulli, in quanto emanati in carenza di potere – con la conseguente sindacabilità da parte del giudice dell’ottemperanza senza la necessità di una specifica impugnazione da parte del cittadino – non solo gli atti elusivi (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 1001 del 1991; Cons. St., sez. VI, n. 250 del 1995; Cons. St., sez. V, n. 238 del 1992; C.G.A., n. 369 del 1996); ma anche per gli atti violativi del giudicato nei casi in cui da esso discendano obblighi tanto puntuali da non lasciare alcuno spazio alla discrezionalità (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 304 del 1992; Cons. St., Ad. Plen., n. 5 del 1991).

E’ stato poi ulteriormente chiarito che ad escludere il giudizio di ottemperanza non giova affermare che il provvedimento emesso in violazione del giudicato è comunque un provvedimento illegittimo e pertanto soggetto al rito ordinario del giudizio di annullamento. Il provvedimento amministrativo difforme dal giudicato è affetto da un vizio speciale e cioè non dalla sola generica difformità dalla legge sostanziale, ma dalla specifica difformità dalla legge processuale, che a quell’atto di accertamento e di attuazione della legge nel caso concreto costituito dalla la sentenza attribuisce imperatività assoluta.

Quel che rileva ai fini della proponibilità del ricorso, infatti, non è il tipo di comportamento dell’Amministrazione (comportamento omissivo provvedimento esplicito in violazione del giudicato, provvedimento elusivo del giudicato), ma il tipo della pretesa che, nel giudizio di ottemperanza, ha come parametro l’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi (esattamente) al giudicato: se il ricorrente, censurando un provvedimento amministrativo, ne deduce la difformità dalla legge sostanziale è proponibile l’ordinaria azione di annullamento; se ne allega la specifica difformità dell’accertamento contenuto nel giudicato e quindi dalla legge processuale, è proponibile la speciale azione di ottemperanza. Così opinando, diventa recessiva la tradizionale dicotomia concettuale: violazione elusione del giudicato, in una prospettiva di effettività della funzione giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost. (Cons. St. sez. v 15 ottobre 1986, n. 556 ; 27 maggio 1991, n. 874; Sez. VI 10 febbraio 2004, n. 501).

-alla determinazione degli elementi essenziali per ritenere esistente un atto amministrativo. E’ stato precisato che l’atto nullo o inesistente ha carattere eccezionale e si verifica per la mancanza di un elemento essenziale, come in caso di radicale carenza di potere dell’autorità procedente, per difetto di forma, per difetto della volontà, dell’oggetto o del destinatario (Cons, St., sez. IV 14 dicembre 1979, n. 1158 e sez. VI 29 settembre 1979, n. 690).

L’atto inesistente non può essere annullato d’ufficio in quanto l’annullamento presuppone un atto esistente anche se illegittimo (Cons. St. sez. V, 26 marzo 1982, n. 256).

Le violazioni, per quanto gravi, di norme imperative, quali sono di regola tutte quelle attinenti allo svolgimento di poteri pubblici, od anche di attribuzioni di competenza, danno luogo a semplice invalidità degli atti amministrativi, che deve essere fatta valere dall’interessato nel prescritto termine di decadenza, in quanto la nullità radicale dell’atto, a meno che non sia espressamente e inequivocabilmente disposta dalla norma primaria, ricorre soltanto quando l’atto costituisca manifestazione di poteri spettanti ad organi che operino in settori del tutto diversi, ovvero sia destinato a spiegare efficacia al di fuori dell’area fisica su cui insiste l’Ente territoriale di cui tali organi facciano parte. L’eccezionale ipotesi di nullità di un atto amministrativo è limitata ai casi di mancanza assoluta di un elemento essenziale dell’atto stesso, necessario ex lege a costituirlo, quale può essere la radicale carenza di potere da parte dell’Autorità procedente ovvero il difetto della forma, della volontà, dell’oggetto o del destinatario, mentre non può parlarsi di inesistenza dell’atto amministrativo allorché si discuta unicamente di vizi del procedimento che lo ha preceduto, in ciò risolvendosi la mancata corrispondenza del procedimento concreto al relativo paradigma normativo, e, perciò, delle modalità di esercizio del potere che fa capo all’Amministrazione e di cui questa si è avvalsa; in tali ipotesi il vizio non attiene alla esistenza dell’atto finale, che rimane integro nei suoi elementi essenziali e costitutivi, ma alla validità dello stesso e dei suoi presupposti e, quindi, alla legittimità del complessivo comportamento tenuto dall’autorità (Cons. St. .sez. V 13 febbraio 1998, n.166.

La radicale nullità dell’atto, a meno che non sia espressamente ed inequivocabilmente disposta dalla norma primaria, ricorre soltanto quando l’atto costituisca manifestazione di poteri spettanti ad organi che operino in settori del tutto diversi, ovvero sia destinato a spiegare efficacia al di fuori dell’area fisica su cui insiste l’Ente territoriale di cui tali organi facciano parte (Cons. St. sez. IV, 27 ottobre 2005 n.6023).

l’atto amministrativo nazionale in contrasto con il diritto comunitario deve ritenersi eventualmente illegittimo e non nullo e perciò non può essere disapplicato d’ufficio dal giudice amministrativo, dovendosi dare prevalenza all’interesse alla certezza delle situazioni di diritto pubblico (Cons. St. Sez. V 10.1.2003, n.35).

-alle ipotesi in cui la normativa ritiene espressamente nullo un determinato atto, che negli ultimi tempi si erano incrementate.

Per quanto concerne le nullità testuali sono meritevoli di segnalazione Con. St. A. P. 29 febbraio 1992, n. 2 e A. P. 5 marzo 1992 n,5, le quali ritengono che a fronte di remote norme (ad es. art. 288 T. U. n.383/1934 con riferimento alle deliberazioni nulle dei consigli comunali e provinciali) nelle quali il termine nullità era adoperato impropriamente in quanto tendenti a tutelare generici interessi pubblici vi siano altre disposizioni più stringenti tendenti al contenimento della spesa pubblica e all’imparzialità dell’amministrazione (ad es. nullità delle assunzioni di ruolo senza concorso) in cui in cui si tratta di nullità assolute. con auspicio di un intervento del legislatore che rafforzi la tutela della legalità a difesa dell’imparzialità e per il contenimento della spesa pubblica, con la conseguenza di rendere il relativo vizio rilevabile da chiunque, anche d’ufficio, imprescrittibile e insanabile

Viene precisato che la nullità dell’atto amministrativo prevista dalla legge può essere rilevata da chiunque e anche d’ufficio dal giudice ma il rilievo d’ufficio di un atto amministrativo va coordinato con il principio della domanda, sicché il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio la nullità dell’atto solo se sia in contestazione l’applicazione e l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, mentre l’accertamento d’ufficio di una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda è inammissibile, ostandovi il divieto di pronuncia ultra petita (Cons. sez. IV, 6 novembre 1996, n.1190).

Periodo successivo alla l. 15/2005 fino al 16.9.2010 (data di entrata in vigore del c.p.a.)

La espressa previsione in generale dell’atto nullo in diritto amministrativo pone il problema di distinguere da esso i casi più vistosi e facilmente riconoscibili di non riferibilità del presunto atto all’amministrazione, tenendo conto dell’elaborazione civilistica.

La mancata previsione legislativa dell’inesistenza non è elemento probante atteso che ciò è in linea con la tradizione giuridica.

L’inesistenza non è un vizio dell’atto da includere nel più ampio genusdelle invalidità ma è qualcosa, almeno in astratto, ontologicamente differente. L’esistenza dell’atto è un presupposto necessario per giungere all’ulteriore verifica in ordine alla sua validità.

Alla categoria dell’inesistenza sono pacificamente ricondotte le ipotesi di inesistenza materiale del provvedimento in quanto l’atto non è stato realmente emanato o il procedimento non si è concluso con l’atto finale.

Maggiori incertezze sono presenti in caso di inesistenza giuridica.

Rispetto all’atto nullo si è nel mondo della qualificazione negativa, e pertanto nella invalidità ed inefficacia.

Alla categoria dell’atto inesistente il giudice civile ha fatto riferimento per le situazioni nelle quali l’evento storico al quale si vorrebbe attribuire la qualifica di atto, contratto, deliberazione si è realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o fasi essenziali non permetta di scorgere in esso i lineamenti tipici in base ai quali una determinata fattispecie dovrebbe esser connotata (Cass. n. 7693 del 2006). E’ stato precisato che questa categoria giuridica non trova specifico fondamento in alcuna disposizione di legge e, dunque, può essere individuata, senza incorrere in alcun arbitrio interpretativo, soltanto qualora l’incompletezza della fattispecie sia così grave da escluderne la riconducibilità ad un determinato tipo legale: “questo perché, come è stato posto in rilievo, una norma giuridica non può sanzionare direttamente l’inesistenza, in quanto la norma, per essere applicabile, presuppone che una fattispecie esista, per quanto viziata” (Cass. n. 12008 del 1998).

Con la legge n.15/2005, alcune delle ipotesi ricondotte generalmente all’atto inesistente (carenza di potere in astratto e mancanza di elementi essenziali dell’atto e in particolare la mancanza di sottoscrizione ) sono state inserite nell’ambito del provvedimento nullo.

Può ora ritenersi inesistente l’atto adottato ioci causa o docendi causa; l’atto adottato dall’usurpatore di potere ex art. 347 c.p..

L’atto nullo e l’atto inesistente differiscono proprio perché l’atto inesistente non è dotato di alcuna apparenza giuridica e non è identificabile come atto giuridico.

L’elemento decisivo per l’esistenza di un atto è l’apparenza giuridica, che fa sorgere l’interesse alla sua rimozione.

Gli atti dotati di apparenza giuridica acquisiscono un potenziale lesivo che può anche essere notevole. Un atto emesso, ad esempio, da un’Amministrazione priva totalmente del relativo potere, può apparire valido ed efficace, prima di tutto a coloro i quali debbono porlo in esecuzione. Inoltre, non può negarsi al cittadino, esperto o inesperto che sia, il diritto di ottenere chiarezza in merito all’atto stesso, onde deliberare se darvi o meno esecuzione spontanea. Ed ancora, se l’atto ha un’apparenza di giuridicità esso può incidere, anche fortemente, sui rapporti economici. Si pensi ad un atto che prenda in considerazione un terreno (nel quadro di una procedura di esproprio, di utilizzo temporaneo, o anche per renderlo edificabile). E’ innegabile che tale atto incida sulle valutazioni economiche da parte dei soggetti interessati all’acquisto o alla locazione del terreno. E’ chiaro che vi sarà la necessità di spazzare ogni nube che grava sul bene oggetto di trattativa.

Viceversa, quando l’atto, per le forme che riveste, non possa né oggettivamente, né soggettivamente ingenerare una apparenza giuridica, l’atto potrà definirsi inesistente. Rispetto all’atto inesistente, veramente, potrà mancare l’interesse alla pronuncia giurisdizionale, non potendo socialmente essere riconosciuto ‘un atto’. Si tratterà ad esempio di atti pronunciati in forma orale, a fronte di una chiara e socialmente riconosciuta necessità di una forma scritta, ovvero mancanti dell’oggetto, e quindi mancanti di potenzialità lesiva.

L’apparenza dell’atto giuridico, anche nullo, è quindi elemento ben più rilevante della sua mera conseguenza fattuale. Se non l’avessero, non arriverebbero al vaglio delle corti. E’ concretamente difficile impugnare un atto inesistente, al di là delle ipotesi di scuola.

Nei confronti dell’atto nullo, e non di quello inesistente, è ammessa l’azione di nullità. In caso di atto nullo il privato potrà agire nei confronti dell’amministrazione in virtù dell’immedesimazione organica che la lega al funzionario, salvo che siano le norme ad escludere tale imputabilità prevedendo una responsabilità personale del funzionario che emana l’atto nullo. Nell’ipotesi di inesistenza, invece, tale rapporto viene meno e la possibilità di ottenere un risarcimento per i danni eventualmente subiti è legata solo all’azione nei confronti dello stesso funzionario, con una responsabilità che cade integralmente nel diritto civile o penale. Si pensi all’ordine illegittimo ed oralmente espresso ad una certa prestazione o dazione, dato dal funzionario agente, con immediata riconoscibilità da parte del cittadino dell’inesistenza di un atto riferibile all’amministrazione. In questo caso l’azione penale o civile sarà unicamente rivolta verso il funzionario.

Infine, di fronte all’atto inesistente sembra potersi affermare senz’altro il diritto di resistenza del privato in caso di esecuzione dello stesso e viene meno l’interesse per il privato ad instaurare un’azione diretta al mero accertamento della inesistenza dell’atto; mentre nel caso di atto nullo la soluzione è dubbia ed essa non dovrebbe ritenersi ammissibile nell’ipotesi in cui si ritenga l’atto nullo come manifestazione del potere amministrativo.

Di particolare interesse è una sentenza del TAR Puglia emessa immediatamente dopo la legge n.15/2005 (BARI SEZ. III , 26 ottobre 2005, n. 4581). Viene premesso che la giurisdizione amministrativa di legittimità non conosce, salvo residuali ipotesi (segnatamente il giudizio sul silenzio e il giudizio sull’accesso), l’azione di accertamento, in quanto il processo amministrativo è stato costruito sul modello impugnatorio.

Sono poi esaminate due tesi, di cui la prima utilizza lo strumento della pronuncia di inammissibilità per difetto di interesse ad agire. In parole povere chi deduce la nullità di un atto èab origine privo di interesse al suo annullamento, posto che l’atto nullo, appunto, è improduttivo di effetti e, dunque, nessuna lesione alla sua sfera giuridica può derivarne. Il giudice incidentalmente deve rilevare tale situazione, dichiarando in motivazione che l’atto è nullo, onde poter pervenire all’affermazione di difetto di interesse. Ma l’accertamento sulla nullità avverrebbe incidenter tantum(senza, cioè, efficacia di giudicato), e quindi la questione potrebbe riproporsi rispetto ad altri soggetti su cui il provvedimento è destinato ad incidere. Persino nello stesso rapporto tra il ricorrente e l’amministrazione la formale sopravvivenza del non demolito atto potrebbe essere fonte di equivoci, qualora ad esempio l’amministrazione lo reiterasse oppure pretendesse di portarlo ad esecuzione o di porlo a fondamento di atti conseguenziali (sempre che ciò non fosse già avvenuto) o, ancora, di sanarlo. Per non dire, poi, dell’apparenza che la persistente vigenza del pur non operativo atto creerebbe nel mondo giuridico. Inconvenienti tutti riferibili alla circostanza che sussistono molteplici possibilità di impiego (conversione, sanatoria, novazione, esecuzione, manipolazione) del negozio nullo, i limiti all’azione di nullità (usucapione, ripetizione d’indebito), il coordinamento con la disciplina della trascrizione. Su un piano più generale la tesi in esame disconosce il principio di strumentalità del processo al diritto sostanziale, negando idonea tutela ad una categoria che esprime la più grave delle figure di invalidità degli atti giuridici.

Perciò è stata formulata una seconda tesi che ritiene di poter adattare le forme procedurali amministrative all’azione di nullità, non essendovi ostacoli di principio all’esperibilità di azioni dichiarative nel giudizio amministrativo. Ma nel processo amministrativo non era prevista (all’epoca) una pronuncia dichiarativa della nullità. Tuttavia, l’inammissibilità di formali statuizioni dichiarative della nullità di un atto amministrativo non impedisce che ad analogo risultato possa pervenirsi mercè la pronuncia di annullamento.

Con riguardo al tema generale della nullità, si è affermato che la sanzione della nullità del provvedimento è stata fino a poco tempo fa prevista solo con riferimento ad ipotesi peculiari mentre oggi l’art. 21 septies della legge 241/1990 (introdotto dalla l.n.15/2005) prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge.

Le cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso. Nel caso di specie, il provvedimento di revoca dei contributi è stato emesso dall’amministrazione competente ad adottarlo e quindi deve essere senza alcun dubbio escluso che il provvedimento possa essere considerato nullo, non essendo stato adottato da un’amministrazione totalmente priva del potere di emanarlo (Cons. St. Sez.VI 24 maggio 2006, n.691).

Nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità. L’art. 21 septies della (riformata) legge n. 241/1990 sancisce che il provvedimento amministrativo è nullo quando a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge (c.d. nullità testuali).La cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso (Cons. Stato, sez. VI, del 13 giungo2007, n. 3173).

La nullità dei provvedimenti dinanzi al giudice amministrativo è rilevabile d’ufficio, alla stregua dei principi generali in tema di nullità, evidentemente applicabili anche nel processo amministrativo ed in specie nelle ipotesi in cui, la validità ed esecutività del provvedimento costituisca oggetto della controversia (TAR Liguria 16 maggio 2007, n. 790).

Il nuovo art. 21-septies della L. 7 agosto 1990, n. 241, come modificata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, ha codificato la categoria concettuale del provvedimento amministrativo nullo, definendone i caratteri sostanziali. Tale disposizione non ha, tuttavia, espressamente indicato la disciplina dell’azione di nullità, con particolare riguardo ai termini di decadenza o di prescrizione; ciò non impedisce di applicare, analogicamente, il nucleo essenziale delle norme contenute nel codice civile, riguardanti la nullità del contratto, nella parte in cui esse riflettono principi sistematici ( Cons. Stato, Sez. V, 09 giugno 2008, n. 2872)

Nell’ipotesi di domanda di risoluzione per inadempimento o di adempimento, si può contrapporre l’azione riconvenzionale di nullità del contratto da cui sono sorte le reciproche prestazioni. Tale congegno processuale è compatibile con la struttura del processo amministrativo – o almeno il giudice ha l’onere di adattarlo, in attesa dell’approvazione del nuovo codice sul processo amministrativo, il cui schema prevede l’azione generale di accertamento della nullità – in quanto l’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, prevede talune ipotesi di nullità del provvedimento, e l’articolo 11 della medesima legge prevede che agli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento si applichino i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili (Cons. St. sez. V, 15 marzo 2010, n. 1498).

La formazione del provvedimento amministrativo in un ambiente collusivo penalmente rilevante (e, quindi, a maggior ragione, l’accertamento in sede penale della falsità di un titolo edilizio) produce, sul piano amministrativo, una causa di nullità del provvedimento ex art. 21 septies della l. 241/90 in relazione ad una fattispecie nella quale il Sindaco che aveva rilasciato le concessioni edilizie, poi dichiarate nulle d’ufficio dal suo successore, era stato condannato in sede penale per abuso di ufficio ex art. 323 c.p., con sentenza di applicazione della pena su richiesta, ex art. 444 c.p.p.). Più precisamente, secondo tale giurisprudenza la nullità di un atto amministrativo non si riscontra solo nel caso di carenza di potere dell’Amministrazione, ma anche in quello della mancanza degli elementi essenziali, come accade al venir meno dell’imputabilità dell’atto alla P.A. per interruzione del rapporto organico Cons. St. sez. V, 4 marzo 2008, n. 890).

Tale principio è stato tenuto presente da TAR Reggio Calabria , 11 agosto 2012, n.536 poi la sentenza del TAR è stato riformata in appello ( Cons. St. sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 5266). che ribadisce il principio secondo cui è affetto da annullabilità (e non da nullità) il provvedimento amministrativo (per sua natura autoritativo) che sia stato rilasciato sulla base di un atto la cui emanazione abbia comportato alla commissione di un reato. Ma secondo Cass. 25 marzo 2013, n.7380 in tal caso viene meno l’imputabilità p.a. perché i componenti della commissione di concorso non solo hanno posto in essere una condotta non riferibile alla pubblica amministrazione, ma di cui essi stessi devono rispondere personalmente (nel precedente giudizio penale erano dichiarati responsabili dei reati di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (479 c.o.). abuso d’ufficio (323 c.p.) e violenza privata (610 c.p.).

Le ipotesi astrattamente riconducibili in diritto civile alla nullità c. d. virtuale (per contrarietà a norme imperative) vanno ricondotte in diritto amministrativo in genere al vizio di violazione di legge, atteso che le norme riguardanti l’azione amministrativa, per il loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative (la distinzione tra norme derogabili e imperative, a differenza del diritto privato, non serve al fine di accertare la validità dell’atto, ma solo per discernere le disposizioni di legge che lasciano all’Amministrazione un margine di scelta discrezionale nell’esercizio concreto del potere da quelle che la vincolano in modo puntuale, senza consentirle alcuna ulteriore valutazione. e quindi non disponibili da parte dell’amministrazione). La violazione delle norme di diritto pubblico costituisce causa di annullabilità del provvedimento, da farsi valere entro il breve termine di decadenza, a tutela della stabilità del provvedimento amministrativo. (Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2010, n. 1498).

Per quanto concerne la carenza di potere in concreto, la Corte di Cassazione è in sostanza ferma nel ritenere la giurisdizione dell’A.G.O. in relazione a controversie espropriative caratterizzate non solo dalla omessa adozione del decreto di espropriazione ma anche dalla sua adozione dopo la scadenza dei termini comminati dalla dichiarazione di P.U., sul rilievo che in questi casi l’Amministrazione è ormai carente di ogni potere ablatorio rispetto al diritto reale vantato dal proprietario. Viene però precisato che la L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 13, comma 3 (a norma del quale, trascorsi i termini di inizio e compimento dell’espropriazione e dei lavori, stabiliti nella dichiarazione della pubblica utilità, quest’ultima diventa inefficace e non può procedersi all’espropriazione se non in forza di una nuova dichiarazione) deve essere interpretato nel senso che solo la scadenza del termine finale di compimento dell’opera determina la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e, di conseguenza, la perdita del potere espropriativo, mentre agli altri termini (riguardanti l’inizio e la fine del procedimento espropriativo e l’inizio dei lavori) deve riconoscersi natura ordinatoria e acceleratoria, sicchè la loro inosservanza non da luogo a carenza di potere, deducibile innanzi al giudice ordinarie, ma a vizi di legittimità del procedimento, che vanno fatti valere innanzi al giudice amministrativo” (Cass. S.U. 9 febbraio 2010, n. 2788).

Per quanto concerne la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo è stato chiarito che “non essendovi alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario – escludendone il giudice amministrativo – la tutela dei diritti costituzionalmente protetti”, ne consegue che il legislatore può ben devolvere al giudice amministrativo tutti i poteri idonei ad assicurare piena tutela all’individuo e quindi anche la tutela risarcitoria nel caso di danno patito in violazione di diritti fondamentali, a seguito dell’esercizio illegittimo del potere pubblico da parte della pubblica amministrazione (Corte cost. 27 aprile 2007, n. 140). Inoltre, la Costituzione anche se in via generale qualifica numerosi diritti come fondamentali, attribuisce comunque al legislatore ordinario – e, attraverso questo, alla P.A.- il compito di trovare le soluzioni concrete che meglio bilancino la tutela del diritto con il perseguimento degli interessi pubblici, e con la tutela di altri interessi privati anch’essi di rango costituzionale.

Gli atti per i quali è prevista la nullità si sono incrementati negli ultimi tempi e si possono ricordare:

– art. 11 l. n.241/1990 per gli accordi privi di forma scritta, salvo che la legge disponga diversamente;

– artt. 3 e 6 d.l. n.293/1994, conv. l. n.444/1994, per gli atti emessi dagli organi amministrativi collegiali dopo il regime di prorogatio di 45 giorni;

– art. 23 del d.l. n. 66 del 1989 il quale le prevede che per province, comuni e comunità montane, “qualsiasi spesa è consentita esclusivamente se sussistono la deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e dichiarata o divenuta esecutiva, nonché l’impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati”, precisando, altresì, che “per i lavori di somma urgenza l’ordinazione fatta a terzi deve essere regolarizzata entro trenta giorni e comunque entro la fine dell’esercizio, a pena di decadenza”. In caso “di violazione dell’obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, tra il fornitore e l’amministratore o il funzionario che abbiano consentito la fornitura”.

Le menzionate disposizioni danno luogo ad una disciplina, successivamente riconfermata senza modifiche di fondo dall’art. 35 del decreto legislativo n. 77 del 1995 (e dall’art. 191 d. l.vo n.267/2000), che comporta l’imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell’amministratore (o funzionario) degli effetti dell’attività di spesa che non si svolga nell’osservanza dei criteri contabili relativi alla gestione degli enti locali. E ciò con lo scopo non irragionevole di sollecitare, da un canto, un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni locali e di far sì, dall’altro, che la competenza ad esprimere la volontà degli enti locali resti effettivamente riservata, nel rispetto delle procedure prescritte, agli organi a ciò deputati, e cioè agli organi cui spetta di programmare la gestione finanziaria e di inquadrare le varie scelte amministrative nella prospettiva del piano di spesa contenuto nel bilancio di previsione, e non oltre i limiti da esso fissati. Con conseguente frattura del nesso organico con l’apparato pubblico, rendendo estraneo l’ente locale agli impegni di spesa irregolarmente assunti (salvo che sussistano i presupposti dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art.20141 c.c. ), impedisce di ricondurre il caso in esame agli schemi della responsabilità dell’amministrazione, non consentendo di invocare a sostegno della questione il parametro dell’art. 28 della Costituzione, che, nel contemplare la responsabilità dell’amministrazione accanto a quella degli agenti pubblici, presuppone, in via di principio, che si tratti di attività riferibile all’ente stesso (Corte cost. 24 ottobre 1995, n.446 e 30 luglio 1997, n. 295);

-art.46> 1 bis d. l.vo 12 aprile 2006, n.163, introdotto dall’art. 4 d. l. n.70/2011, conv. l.n.106/2011 sancisce la nullità delle clausole di esclusione , diverse da quelle espressamente previste, inserite nei bandi di gara e lettere di invito. Per cui dall’accertata contrarietà delle clausole del capitolato speciale posto a gara rispetto al principio della tassatività delle cause di esclusione sancito dall’art. 46, comma 1-bis, cod. contratti pubblici consegue la nullità delle stesse (Cons. St. sez.V, 24 ottobre 2013, n.5155).

Per quanto concerne in particolare le nullità testuali va evidenziato il caso delle autorizzazioni e dei piani adottati senza la valutazione di impatto ambientale, ove prescritta, i quali in un primo momento sono stati ritenuti nulli ex art. 4 d. l.vo n.156/2006) e poi (ex d. l.vo n. 4/2008) annullabili per violazione di legge, essendo la nullità probabilmente una misura eccessiva in relazione all’esigenza di tutelare la certezza dei rapporti giuridici publici.

Dopo entrata in vigore c.p.a.

Art.31, comma 4, : La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni.

La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice.

Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’ articolo 114, comma 4, lettera b (dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.”

Art.133-materie di giurisdizione esclusiva: art.1 comma 1 lett. a n.5: nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione elusione del giudicato.

Nel testo redatto dalla Commissione speciale presso il Consiglio di Stato, l’azione di nullità figurava nell’art. 38 relativo alla “azione di accertamento” che prevedeva al primo comma la possibilità di “chiedere l’accertamento dell’esistenza o della inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative”, e al secondo comma la possibilità di chiedere “l’accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo”.

Una volta espunta dal codice l’azione di accertamento, l’azione di nullità è stata inserita nell’art. 31 che disciplina anche l’azione avverso il silenzio.

La circostanza che le due azioni siano state ricomprese nella medesima norma codicistica trova spiegazione nell’appartenenza delle due azioni al genus delle azioni di accertamento, resa evidente dalla qualificazione lessicale contenuta nelle norme di riferimento.

L’azione va configurata quale azione di accertamento autonomo , dato che in tal caso, il ricorrente agisce in giudizio non per impugnare un provvedimento amministrativo e chiederne l’annullamento, secondo il modulo processuale tipico del giudizio annullatorio, ma per chiedere al giudice di dichiarare che un determinato provvedimento è affetto da nullità ed è quindi improduttivo di effetti giuridici.

La declaratoria di nullità non è stata coordinata con la cd. azione di adempimento (art.34 co.1 lett.c secondo periodo), e neppure con l’azione risarcitoria, evidentemente calibrata sull’azione di annullamento e avverso il silenzio.

Per cui è dubbio se in occasione di un’azione di nullità presso il giudice amministrativo possa essere domandata anche la condanna dell’amministrazione al rilascio del provvedimento richiesto ex art 34, comma 1 lett. c c.p.a. nei limiti di cui all’art. 31, comma 3 (se si tratta di attività vincolata o risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori da parte dell’amministrazione) in quanto l’art. 34 prevede che la relativa azione di condanna è esercitata contestualmente all’azione di annullamento dell’atto di diniego o all’azione avverso il silenzio, senza prevedere anche l’azione di nullità. L’ostacolo potrebbe essere rappresentato dalla disposizione che sancisce la preclusione per il giudice amministrativo di pronunciarsi nei confronti dei poteri amministrativo non ancora esercitati (art. 34, comma 2, c.p.a.), il che potrebbe verificarsi se l’ atto nullo venisse considerato di per sè privo di effetti. Invece non ci dovrebbero essere ostacoli per ammettere in occasione dell’azione di nullità anche quella al risarcimento del danno o eventualmente in via autonoma (art. 30 c.p.a.) [45].

La norma non chiarisce se la tutela nei confronti dell’atto nullo vada esperita dinanzi al giudice ordinario o dinanzi al giudice amministrativo, salva l’ipotesi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per i casi di violazione o elusione del giudicato.

Secondo alcuni a fronte del’atto nullo la giurisdizione sarebbe comunque del giudice ordinario , ma appare preferibile rifarsi ai criteri generali al riguardo e tener presente la posizione di diritto sostanziale fatta valere (sembra in tal senso, Cons. St. sez. VI, 3 marzo 2010, n. 1247) :

-se si tratta di interessi pretensivi e quindi di interessi legittimi (si pensi ad un atto nullo in risposta ad una istanza di concessione o di autorizzazione) la giurisdizione non può che appartenere al giudice amministrativo. Dovrebbero rientrare in detta categoria anche le ipotesi di contestazione di atti favorevoli ai terzi (ad es permesso di costruire nullo rilasciato al vicino; un commerciante che si opponga alla realizzazione di un supermercato nella zona in cui è sito il suo esercizio commerciale; un agricoltore che contesti la localizzazione di una discarica di rifiuti nei pressi del suo fondo);

-se invece si tratta di interessi oppositivi rispetto a diritti soggettivi vantati dall’interessato, che non verrebbero conformati in caso di atti nulli, la giurisdizione dovrebbe appartenere al giudice ordinario;

Si presenta poi l’ulteriore questione di atti nulli in relazione a diritti soggettivi in materie oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in tal caso la giurisdizione dovrebbe essere comunque del giudice amministrativo (si può fare l’esempio di un atto di decadenza nullo in relazione a un rapporto concessorio) [46].

Vi è la previsione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di nullità presso il giudice amministrativo entro il termine di centottanta giorni, da intendersi come decorrente dalla piena conoscenza dell’atto medesimo [47].

Ma nel contempo è stata confermata per la nullità dell’atto amministrativo, sia la opponibilità senza limiti di tempo ad opera della parte resistente o il rilievo d’ufficio dal giudice nel caso che essa emerga dagli atti di causa.

Il legislatore, a fronte di un aspetto tipico della nullità contrattuale, rappresentato dalla previsione di un’azione imprescrittibile volta ad ottenerne la declaratoria da parte di chiunque vi abbia interesse (artt.1421-1422 c.c.), ha invece previsto che la detta azione venga proposta entro il termine decadenziale di 180 giorni (e ciò sebbene parte della giurisprudenza avesse ritenuto l’imprescrittibilità dell’azione di nullità prima del c.p.a.). La previsione di un termine di decadenza pare avvicinare l’azione di nullità a quelle di annullamento alimentando i dubbi sul carattere dichiarativo o costitutivo della prima [48].

Poiché l’art.31,comma 4, c.p.a. riferisce la declaratoria di nullità a quelle “previste dalla legge”, per individuare le ipotesi di nullità che possono essere fatte valere con l’azione occorre fare riferimento all’art. 21–septies della legge n. 241 del 1990 che disciplina appunto la nullità del provvedimento amministrativo, enumerando quattro tipi di nullità:

1.nullità strutturale (“che manca degli elementi essenziali”);

2.nullità per difetto assoluto di attribuzione (“che è viziato da difetto assoluto di attribuzione”);

3.nullità per violazione o elusione del giudicato (“che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato”);

4.nullità testuale (“altri casi espressamente previsti dalla legge”).

Generalmente si afferma in giurisprudenza il numero chiuso delle ipotesi di nullità dell’atto amministrativo (Cons. St., sez. VI, 31 marzo 2011 n. 1983; sez., V 18.12.2012, n. 6507), ma in effetti l’art. 21 septies determina tre categorie aperte ( in quanto gli elementi essenziali dell’atto non sono definiti; il difetto assoluto di attribuzione è formula equivoca, che può riguardare sia la carenza di potere in astratto/incompetenza assoluta che quella in concreto; la violazione o elusione del giudicato ha delimitazioni tuttora incerte) ed una sola definita che è quella degli altri casi previsti dalla legge (nullità testuale).

Invero, recentemente è stato precisato che il legislatore indica gli atti amministrativi nulli per “categorie”, che pongono non indifferenti problemi di concreta identificazione. Ciò vale, in modo particolare, sia per la categoria del “difetto assoluto di attribuzione”, sia, e forse a maggior ragione, per la categoria del “difetto degli elementi essenziali” del provvedimento amministrativo, posta la non univocità – al di la di mere enunciazioni classificatorie – della identificazione degli elementi essenziali. (Cons. St. sez. IV, 2 aprile 2012, n.1957).

Secondo una recente sentenza del Consiglio di Stato il provvedimento amministrativo, ancorchè nullo, ha, tuttavia, una propria efficacia “interinale” fin tanto che la nullità non venga accertata, solo riconoscendo la quale si rende possibile la stessa definizione dell’atto come provvedimento amministrativo dotato di imperatività (e che, pertanto, si impone unilateralmente ai suoi destinatari (Cons. St. sez. IV, 2 aprile 2012, n.1957), ma trattasi di aspetto dubbio, in quanto generalmente si ritiene che l’atto nullo non produce di per sè effetti e la sentenza che accerta la nullità è dichiarativa , mentre quella che annulla l’atto ha carattere costitutivo [49].

I soggetti lesi dell’atto nullo (che sono normalmente il destinatario dell’atto in caso di atto nullo sfavorevole ed i terzi in caso di atto nullo favorevole al destinatario) onde tutelare le proprie posizioni giuridiche, hanno il potere di agire in giudizio al fine di ottenerne la declaratoria di nullità nel termine perentorio di 180 giorni(Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2011 n. 5799)

Può chiedere la nullità anche una pubblica amministrazione, avverso provvedimenti emanati da altra autorità amministrativa ritenuti nulli, ed avverso i quali la prima amministrazione non è titolare di potere di autotutela, mentre se ha emanato direttamente l’atto nullo può eventualmente esercitare il potere di autotutela su di esso.

La parte resistente (che può essere sia l’amministrazione che ha adottato l’atto sia il controinteressato) in un giudizio tendente all’esecuzione dell’atto nullo può comunque eccepirne la nullità ed il giudice amministrativo può di ufficio rilevarla,

Secondo un primo orientamento, il rilievo d’ufficio della nullità da parte del giudice deve essere coordinato con il principio della domanda e quindi può essere dichiarata solo se tale declaratoria risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta in giudizio e quindi, nel giudizio impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato e al suo annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto della domanda di annullamento (Cons. St. sez. IV 28.10.2011 n.5799 e 2.4.2012, n. 1957.

Secondo altro filone giurisprudenziale più recente, che si va affermando anche in sede di civile [50], invece il potere ex art. 31, comma 4, c.p.a. che la legge dà al giudice – al pari di ogni altra rilevabilità ope iudicis: per esempio quella dell’incompetenza – costituisce per lui una potestà (c.d. potere-dovere): il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, come corollario del ruolo di imparziale garante dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato, tenendo conto dell’art. art.73, comma 3, c.p.a.

A ciò consegue che il giudice che rilevi una nullità – e, quantomeno, nei casi in cui si tratti di una c.d. nullità testuale, ossia espressamente comminata dalla legge che vi riconnetta il potere di rilievo giudiziale ufficioso – è sempre tenuto a dichiararla d’ufficio, statuendo in conformità. Si tratta, palesemente, di una deroga alla natura c.d. soggettiva della giurisdizione amministrativa: in cui il giudice è adito dalle parti (private o pubbliche, ma sempre a tutela del loro interesse specifico, quand’anche si tratti di un interesse pubblico), e non già dal pubblico ministero nell’interesse oggettivo della legge. Nondimeno, è una deroga espressamente prevista dalla legge (C.G.A.R. Sicilia, Sez. giur., 27 luglio 2012, n. 721, in un caso in cui il ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento di esclusione dalla gara ed il giudice, ha dichiarato la nullità del bando di gara in quanto in contrasto con disposizioni regionali che comminavano la nullità).

Dubbio è anche l’esercizio del potere di autotutela della p.a. sull’atto nullo adottato dalla medesima. Recentemente la Corte di cassazione ( S. .U. 17 maggio 2013, n. 1210) ha affermato che quand’anche non si volesse dare rilievo decisivo alla circostanza che l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 contempla solo il potere della pubblica amministrazione di annullare d’ufficio i propri atti illegittimi, e non pure quello di dichiararli nulli, e si volesse viceversa sostenere che i principi di legalità e correttezza dell’agire amministrativo impongono comunque alla medesima amministrazione di vagliare anche d’ufficio l’eventuale nullità dei propri atti, al fine di non dare corso ai relativi effetti, un tale potere avrebbe tuttavia un fondamento ed una portata, almeno per certi aspetti, diversi da quelli che caratterizzano l’annullamento in via di autotutela di cui al citato art. 21-nonies.

Infatti, la declaratoria in via di autotutela della nullità di un atto amministrativo, ove la si ammettesse, in null’altro consisterebbe se non in un’operazione di accertamento della radicale patologia di quell’atto, e pertanto dell’impossibilità che esso produca validamente effetti, con la conseguente affermazione della medesima amministrazione di non essere vincolata da tali effetti.

Ben diverso sarebbe il fenomeno dell’annullamento dell’atto in autotutela, in cui si esplica una potestà discrezionale, rimessa ad un’ampia valutazione di merito dell’amministrazione circa la sussistenza di ragioni d’interesse pubblico – concreto ed attuale – che eventualmente giustifichino la scelta di sopprimere un atto altrimenti destinato a rimanere pienamente efficace nonostante risulti affatto da vizi di legittimità . A differenza dell’accertamento della nullità, l’annullamento in via di autotutela si realizza quindi tramite una pronuncia avente efficacia necessariamente costitutiva, che modifica la realtà preesistente sotto il duplice aspetto di porre fine alla produzione degli effetti del provvedimento, fino a quel momento efficace ed esecutorio, e di eliminare quelli che l’atto abbia prodotto medio tempore dalla sua emanazione, da considerarsi come mai avvenuta.

Se invece si segue la tesi dell’efficacia interinale dell’atto amministrativo nullo, come appare orientato il Consiglio di Stato (Sez. IV n.1957/2012), l’azione di nullità condurrebbe ad una sentenza analoga a quella di annullamento e dovrebbe consentirsi il potere di autotutela della p.a. su un tale atto.

Violazione o elusione del giudicato

Il Codice del processo amministrativo appare orientato favorevolmente per la concentrazione nel giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che insorgono in relazione all’attuazione del giudicato, stabilendo che il giudice amministrativo conosce di “tutte le questioni relative all’ottemperanza” nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta . Ma il problema è di stabilire la sorte degli atti rinnovati (dall’amministrazione o dal commissario ad acta) che esorbitano dall’ambito predefinito del giudicato e quindi fuoriescono dalle “questioni relative all’ottemperanza”.

Recentemente, a seguito delle nuove disposizioni del codice e decreto correttivo, la questione dell’ammissibilità o meno del giudizio di ottemperanza in caso di impugnativa di un rinnovato esito negativo per ragioni non coperte dal precedente giudicato, con particolare riferimento a giudizi tecnico-valutativi di una commissione di concorso, è stata rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ( Cons. St. sez. VI , ord. 5 aprile 2012, n.2024) e la Plenaria ha risposto che non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice, in quanto la tesi che ritiene preclusa ogni riedizione del potere in senso sfavorevole a seguito di giudicato di accoglimento appare contrastante con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’amministrazione e non imposta dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cons. St. A. P. 15 gennaio 2013, n.2), dovendosi distinguere tra i casi in cui il giudicato accerta pienamente il rapporto controverso e l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato da parte del solo giudice dell’ottemperanza e i casi in cui il giudicato non accerta pienamente il rapporto e l’attività successiva posta in essere dall’amministrazione è oggetto di sindacato nel giudizio di ottemperanza solo se la stessa si colloca in un ambito coperto dal giudicato; l’attività che riempie invece gli spazi lasciati vuoti dal giudicato è soggetta unicamente al ricorso ordinario (Cons. St. sez. VI, 19 giugno 2012, n.3569).

Peraltro occorre considerare che talvolta è piuttosto complessa l’indagine da effettuare da parte del giudice amministrativo per pervenire alla distinzione tra atto amministrativo elusivo del giudicato e quello che potrebbe essere affetto da autonoma illegittimità, esistendo delle zone grigie di dubbia qualificazione, principalmente allorchè l’autorità amministrativa tenuta all’ottemperanza è pur sempre dotata di ampia discrezionalità residua [51]. In tale ipotesi gli strumenti utilizzabili dal giudice amministrativo possono consistere nelle tecniche tradizionalmente impiegate per individuare lo sviamento di potere e/o una giustificazione insufficiente/contraddittoria/irragionevole nel processo argomentativo dell’atto rinnovato rispetto al decisum [52].

In considerazione dell’incertezza esistente tra quello che può essere ritenuto dal giudice come atto adottato in violazione o elusione del giudicato oppure affetto da nuova autonoma illegittimità (Cons. St. sez. VI, 20 giugno 2003, 3689) è ormai prassi degli avvocati quella di proporre una duplice impugnativa (Cons. St. Sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 848).

Si ha nullità dell’atto adottato in violazione o elusione anche in caso di giudicato cautelare, come recentemente precisato (Cons. St. sez. V. 7.6.2013, n. 3133) . Se il dato letterale della norma ha condotto parte della giurisprudenza di primo grado ad escludere la nullità dell’atto adottato in violazione od elusione delle statuizioni contenute in un’ordinanza cautelare ancorché non più soggetta a gravame, in base all’intrinseca provvisorietà che caratterizza le misure cautelari e nella inidoneità a regolare il rapporto in modo definitivo; oltre a poter essere oggetto di un provvedimento di revoca o di modifica (art. 58 Cod. proc. amm.), infatti, esse possono essere travolte da una decisione sul merito della causa di segno differente. Tuttavia, ragioni di effettività della tutela giurisdizionale, impongono di assicurare l’osservanza del provvedimento cautelare da parte della Pubblica amministrazione, nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice adito, giusto il disposto di cui all’art. 31 comma 4 Cod. proc. amm.

Nullità dell’atto per contrasto decreto decisorio ricorso straordinario al Pres. Repubblica

In relazione alle innovazioni intervenute (sollevabilità questione costituzionalità, possibilità di proporre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia, carattere vincolante del parere del consiglio di Stato) il giudizio di ottemperanza è stato ammesso anche nei confronti dei decreti di accoglimento di ricorsi straordinari al Capo dello Stato(Cass. S. U. 28 gennaio 2011, n. 2065, 19 dicembre 2012, n. 23464; cons. St. A.P. n. 18/2012 e n. 9/2013 ), che hanno fatto leva sul riconoscimento della natura intrinsecamente giurisdizionale di una procedura culminante in una decisione caratterizzata, nel regime generale di alternatività, dalla stabilità tipica del giudicato e, quindi, bisognosa di una tutela esecutiva pienamente satisfattoria.

Per quanto concerne gli elementi essenziali è stato precisato (Cons. St. sez. IV, 2 aprile 2012, n.1957) che il loro difetto è tale da comportarne nullità, ed essi non possono che essere rapportati:

-alla totale irriferibilità del provvedimento ad un organo emanante, in modo tale da rendere impossibile l’imputazione degli effetti del medesimo. In tal senso, nel provvedimento da adottarsi da organo monocratico, il difetto di sottoscrizione costituisce difetto comportante nullità (Cons. Stato, sez. II, 24 ottobre 2007 n. 1679);

-al difetto di identificazione (e di identificabilità) del destinatario nella cui sfera giuridica occorrerebbe che si producessero gli effetti del provvedimento amministrativo, posto che ciò incide sulla tipicità dell’atto e rende non percettibile l’imperatività del medesimo.

Non costituiscono, invece, elementi essenziali dell’atto il cui difetto comporta nullità la mancanza degli elementi della volontà e dell’oggetto, se non nel caso di difetto “totale” di tali elementi, evenienza peraltro difficilmente ipotizzabile in relazione a provvedimenti amministrativi.

Infatti, al di là di tali ipotesi estreme e poco plausibili, occorre ricordare:- per un verso, che la volontà, quale elemento del provvedimento amministrativo, è “volontà procedimentale”, di modo che singoli, specifici “vulnera” di conformazione della medesima ovvero del momento di valutazione, scelta, e quindi fissazione del contenuto dell’atto, non possono che rilevare se non sub specie di uno dei tipici vizi di legittimità;- per altro verso, che l’oggetto del provvedimento amministrativo attiene all’interesse pubblico, alla cura (tutela, perseguimento) del quale è volto l’esercizio in concreto del potere amministrativo, per il tramite – almeno nel caso di provvedimento discrezionale – di un processo di storicizzazione dell’interesse pubblico primario e di sua conseguente comparazione con gli interessi secondari coinvolti nel procedimento. Anche in questo caso, appare evidente come forme di patologia del provvedimento non possono che proporsi se non per il tramite di uno dei tradizionali vizi di legittimità del provvedimento amministrativo, e segnatamente per il tramite del vizio di eccesso di potere.

Carenza di potere.

Nonostante il Consiglio di Stato sostenga che ormai debba ritenersi superato l’indirizzo della Cassazione in ordine alla rilevanza della carenza di potere in concreto (Sez. IV 26.1.2011 n. 676 ; St. sez.VI, 27 gennaio 2012, n.372; sez. IV, 17.9.2013, n. 4588), la Corte di Cassazione recentemente ha ribadito che ai fini della valida emissione del decreto di espropriazione, lo stesso deve intervenire entro il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, la cui scadenza comporta il venir meno del potere espropriativo ed esclude pertanto l’idoneità del provvedimento a determinare l’affievolimento dei diritti dominicali. Ai fini dell’accertamento dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso che solo la scadenza del termine per il completamento dei lavori, avente carattere perentorio, può comportare il venir meno del potere espropriativo, mentre la scadenza del termine per le procedure espropriative dà luogo ad un mero vizio di legittimità del procedimento ablatorio, da farsi valere mediante l’impugnazione del decreto di esproprio dinanzi al Giudice amministrativo. Tale interpretazione della L. n. 2359 del 1865, art. 13 si fonda innanzitutto sulla lettera della disposizione, nella parte in cui dopo aver previsto che la dichiarazione di pubblica utilità dev’essere accompagnata dalla fissazione dei termini per l’inizio ed il completamento delle espropriazioni e dei lavori, ricollega la sua inefficacia alla scadenza di detti termini, significativamente richiamati al plurale. Invero, collocandosi il termine per il compimento delle espropriazioni all’interno del segmento temporale compreso tra la dichiarazione di pubblica utilità ed il termine per l’ultimazione dei lavori, è solo alla scadenza di quest’ultimo termine che può ricollegarsi il perfezionamento della fattispecie prevista dal cit. art. 13, comma 3, mentre agli altri tre termini deve riconoscersi una natura meramente acceleratoria, con la conseguenza che alla loro scadenza non può ricollegarsi l’inefficacia della dichiarazione stessa (Cass. sez. I, 14 ottobre 2013, n.23253).

Rientrano invece nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le occupazioni illegittime preordinate all’espropriazione attuate in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano (pur se poi l’ingerenza nella proprietà privata e/o la sua utilizzazione nonchè la sua irreversibile trasformazione sono avvenute senza alcun titolo che le consentiva, ovvero malgrado detto titolo); nonchè l’ipotesi in cui la dichiarazione di p.u. sia stata emessa e successivamente annullata in sede amministrativa o giurisdizionale perchè anche in tal caso si è in presenza di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere, pur se poi lo stesso si è rivelato illegittimo e per effetto dell’annullamento ha cessato retroattivamente di esplicare i suoi effetti (Cass. S. U. 23 gennaio 2012, n.832).

E’ stato confermato che la violazione del diritto comunitario da parte dell’atto amministrativo implica solo un vizio di legittimità, con conseguente annullabilità dell’atto stesso. L’art. 21-septies l. n. 241/1990, introdotto dalla  l.n.15/2005 ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, e non vi rientra la violazione del diritto comunitario. Da tanto consegue: a) (sul piano processuale) l’onere dell’impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto comunitario, dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena la inoppugnabilità; b) (sul piano sostanziale) l’obbligo per l’Amministrazione di dar corso all’applicazione dell’atto, salva l’autotutela ( Cons. St. Sez. VI, sent. n. 1983 del 31-03-2011; Sez. VI, sent. n. 750 del 15-02-2012).

Limite territoriale delle autorità cui è conferita funzione certificativa delle sottoscrizioni delle liste di candidati nelle elezioni una pluralità di figure di pubblico ufficiale persegue la finalità di facilitare gli elettori e i presentatori delle liste (Cons. St. A. P. 9.10.2013 n.22 ).l’individuazione dei soggetti, ai quali la citata disposizione della legge elettorale conferisce la menzionata pubblica funzione certificativa, da cui deriva la fede privilegiata dell’attestazione proveniente dal pubblico ufficiale, propria dell’atto pubblico (art. 2699 cod. civ.), implica un rinvio allo statuto proprio delle singole figure di pubblici ufficiali, e dunque anche ai limiti territoriali, entro i quali i medesimi esercitano, in via ordinaria, le proprie funzioni, per cui i limiti alla competenza territoriale dell’ufficio di appartenenza integrano, dunque, un elemento costitutivo della fattispecie autorizzatoria. il documento formato da pubblico ufficiale incompetente non ha l’efficacia di fede privilegiata di atto pubblico, attribuendo allo stesso, qualora sottoscritto dalle parti, la mera efficacia probatoria della scrittura privata, con conseguente inidoneità autenticatoria nell’ambito delle operazioni elettorali.Con ciò, è superata ogni questione sull’inquadramento della patologia sub specie di nullità, annullabilità, mera irregolarità o altra figura, poiché la richiamata, espressa previsione di legge sancisce l’inefficacia dell’atto pubblico formato da pubblico ufficiale incompetente.

Art.31, ultimo periodo, c.p.a.:Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’ articolo 114, comma 4, lettera b (dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV.”

La conseguenza pratica della disposizione è che in caso di nullità per violazione o elusione del giudicato non si applica il termine di 180 giorni ma quello di prescrizione decennale. Ma il problema è quello di stabilire se la parte possa chiedere la nullità per violazione o elusione del giudicato anche in sede di azione di nullità .

Sulla questione è intervenuta una sentenza del TAR Lombardia la quale, pur in presenza di opinioni contrarie (Consiglio di Stato, sez. V, 23 maggio 2011 n. 3078, ma in senso difforme Cons. St. sez. V, 8 febbraio 2010, n. 556), ha ritenuto condivisibile l’orientamento secondo il quale ( in applicazione (in passato dell’art. 21 septies, secondo comma, della legge n. 241/90 ed oggi dell’art. 133, lett. a), n. 5), c.p.a.), è possibile dedurre in sede di cognizione il vizio di nullità del provvedimento per contrarietà al giudicato amministrativo (cfr. C.G.A., sez. giurisd.,19 marzo 2010, n. 401; T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 28 settembre 2011 n. 1598), dovendo essere lasciata alla parte la scelta se avvalersi dei rimedi propri del giudizio di ottemperanza, di cui all’art. 114, secondo comma, c.p.a. (funzionali all’adeguamento della situazione reale di fatto e giuridica al decisum), ovvero se accontentarsi della proposizione dell’azione dichiarativa di nullità dell’atto in sede di cognizione, eventualmente accompagnata dall’azione risarcitoria (TAR Milano, sez. III, 21 maggio 2012, n.1380).Ma secondo altri sulla base dell’art. 31, comma 4 ultimo periodo, del codice sembra necessario chiedere la nullità dell’atto violativo o elusivo del giudicato esclusivamente con il giudizio di ottemperanza (Tar Liguria, sez.2, 10 maggio 2012, n.650).

Luci ed ombre dell’azione di nullità.

La previsione di un’azione di nullità del provvedimento amministrativo ha colmato indubbiamente una lacuna nell’ambito del processo amministrativo, in quanto la configurazione di vizi più gravi rispetto alla semplice illegittimità è stata comunque una esigenza avvertita dalla giurisprudenza .

Invero, la giurisprudenza ha considerato gravissima sia la violazione dei confini dell’attribuzione di potere (in questo caso gli atti della pubblica amministrazione non avrebbero l’attitudine ad incidere autoritativamente sui diritti dei destinatari; sia l’atto adottato dall’amministrazione in violazione o elusione del giudicato (ritenendolo inidoneo in quanto privo di effetti imperativi per ridisciplinare la situazione a fronte di una sentenza passata in giudicato, e con riferimento ai relativi confini soggettivi ed oggettivi).

La relativa normativa non ha precisato se l’atto nullo debba ritenersi inefficace o meno [53] Inoltre la previsione di un termine di decadenza, sia pure più ampio di quello ordinario, pare avvicinare l’azione di nullità a quelle di annullamento (si è parlato di un’annullabilità rafforzata) con effetto costitutivo in relazione all’efficacia alimentando in dottrina i dubbi sul carattere dichiarativo o costitutivo della prima. Anche il Consiglio di Stato appare orientato per una speciale annullabilità in quanto ha recentemente affermato che il provvedimento amministrativo nullo è dotato di una propria efficacia “interinale” fin tanto che la nullità non venga accertata, solo riconoscendo la quale si rende possibile la stessa definizione dell’atto come provvedimento amministrativo dotato di imperatività (e che, pertanto, si impone unilateralmente ai suoi destinatari (Cons. St. sez. IV, 2 aprile 2012, n.1957).

E’ stato precisato che sottoponendo l’azione di nullità dell’atto amministrativo al termine di decadenza di 180 giorni il legislatore ha attribuito rilevanza al decorso del tempo, pur a fronte di un vizio di nullità dell’atto, riconoscendo anche in questi casi diritto di cittadinanza alle esigenze di certezza dei rapporti giuridici, e quindi anche di tutela dell’affidamento comunque ingenerato dall’atto nullo, che sono implicate dall’agire amministrativo. Attualmente il termine sufficiente e necessario perché tale effetto si verifichi è legislativamente indicato in 180 giorni, mentre, anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a., doveva ritenersi compito dell’interprete valutare tutte le circostanze del caso concreto, per stabilire il tempo utile a legittimare l’affidamento” [54].

Ma occorre considerare che detto termine di decadenza, se mira ad attenuare la nullità mitigandone la sua assolutezza in relazione all’esigenza di certezza dei rapporti di diritto pubblico, è accompagnato dalla regola dell’imprescrittibilità dell’eccezione e la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice.

Il soggetto destinatario di un atto nullo sfavorevole, nel comportarsi come se l’atto non avesse per lui effetti, indurrà l’amministrazione ad emanare atti esecutivi o a compiere attività materiali e quindi in quella sede – al pari di quanto avviene a proposito del contratto nullo in cui proprio (e solo) in sede di esecuzione sorge il problema per il soggetto che si può servire della nullità di dedurla – possono emergere i problemi legati alla prescrittibilità dell’azione o alla rilevabilità d’ufficio della causa di nullità.

Inoltre, il legislatore ha ritenuto di accomunare sotto la categoria della nullità quattro diversi tipi di vizi di cui almeno due (difetto assoluto di attribuzione e violazione o elusione del giudicato ) riguardano atti privi di effetti imperativi e di conseguenza anche le altre due ipotesi di nullità (mancanza di elementi essenziali e gli altri casi previsti dalla legge) non possono che ritenersi privi di tale efficacia in mancanza di regole diverse da parte del legislatore.

I c.d. effetti dell’atto nullo, invero, possono derivare dalla relativa “riduzione a fatto” e sono, perciò, prodotti direttamente dalla legge, eventualmente in collegamento con altre vicende rilevanti (compresa, ad es., l’esecuzione dell’atto nullo o l’adozione di ulteriori atti sulla base di atti nulli).

Con la conseguenza che l’imprescrittibilità della nullità e il carattere dichiarativo della relativa sentenza sono regola generale anche in diritto amministrativo, da applicare tutte le volte in cui, in relazione al rapporto dedotto in giudizio ed alle situazioni giuridico- soggettive fatte valere, non vi siano altri condizionamenti sostanziali e processuali, senza ricorrere all’applicazione analogica delle regole sull’annullabilità.

L’accertamento della nullità ha poi riflessi significativi sulla qualificazione delle misure esecutive eventualmente adottate e sulla forma di invalidità degli atti assunti sul presupposto del provvedimento nullo.

La giurisprudenza comunque non appare pronta ad applicare le nuove regole processuali in tema di nullità, tanto è vero che il TAR Catania (2.dicembre 2011, n.2883), nell’accogliere la censura di nullità dell’atto impugnato, nel relativo dispositivo ne dispone poi l’annullamento.

A fronte di un regime così complesso ed articolato nella maggior parte dei casi di nullità (tranne le ipotesi di nullità testuali) al momento può rivelarsi rischioso per l’interessato confidare nel termine lungo di 180 giorni per proporre l’azione di nullità, essendo più ragionevole rispettare il termine breve di decadenza per l’annullamento (60 giorni per il ricorso ordinario e 30 giorni per il ricorso in tema di appalti pubblici) e quindi proporre eventualmente nel contempo anche l’azione di nullità; analogamente a quanto avviene nel giudizio di ottemperanza che normalmente si propone in primo grado nel termine breve di decadenza insieme al ricorso ordinario per annullamento ad evitare eventuali tardività. Invero se ritenuta infondata la domanda di accertamento della nullità, tale azione non può essere convertita in azione di annullamento, nel caso in cui siano spirati i brevi termini di decadenza per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi annullabili [55].

L’azione avverso il silenzio della p.a.

Premessa

Il giudizio amministrativo è stato strutturato come impugnazione e annullamento di atti [56], per cui anche nel caso di comportamento inerte dell’autorità amministrativa (sia in sede di esame di un’istanza sia in sede di ricorso gerarchico) la tutela del’interessato veniva impedita appunto dalla mancanza dell’atto o della decisione amministrativa gerarchica impugnabile. Di ciò si era reso conto il sen. Cavallini, che durante i lavori parlamentari che portarono all’approvazione della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (L. 31 marzo 1889, n.5992) aveva rilevato la lacuna del relativo progetto di legge atteso che l’autorità amministrativa “può abusare sia con il provvedere contro la legge sia con il non provvedere omettendo di rendere giustizia a chi la invoca” [57].

Con la conseguenza che il Consiglio di Stato ha dovuto sopperire in sede pretoria a tale inconveniente, inventando prima il c.d. silenzio rigetto [58] (ora disciplinato dall’art. 6 D.P.R.24 novembre 1971 n. 1199 e dall’art. 20 L. 6.12.1971 n.1034) e poi progressivamente il c.d. silenzio rifiuto (ora disciplinato dall’art.2 L. 7 agosto 1990 n.241 e successive modificazioni e dagli artt. 31 e 117 c.p.a. ).

La prima decisione sul silenzio rifiuto che si può citare è Sez. V, 22 luglio 1926 n. 280, ove si osserva che “il provvedimento devesi ritenere intervenuto quando l’interessato abbia notificato all’Amministrazione l’atto formale che la invitava a provvedere in merito alla propria richiesta e malgrado ciò l’Amministrazione non abbia provveduto, dovendosi il suo persistente silenzio considerare come rigetto della domanda” [59].

Per la formazione del silenzio rifiuto la giurisprudenza ha gradualmente ritenuto essenziali i seguenti presupposti : obbligo di provvedere dell’autorità amministrativa su istanza dell’interessato o d’ufficio (Cons. St. sez. VI, 24 ottobre 1962 n.700) ; mancata emanazione del’atto amministrativo entro un congruo termine; notifica di apposita diffida da parte dell’interessato e prefissione di un termine congruo per provvedere (Cons. St. sez. IV, 31 luglio 1931, n. 242); scadenza di detto ulteriore termine e quindi impugnativa con ricorso giurisdizionale nel prescritto termine di 60 giorni.

Per quanto concerne i poteri del giudice sul silenzio rifiuto la giurisprudenza si è assestata, anche se vi è stata qualche apertura, sul principio secondo cui il giudice può accertare solo l’illegittimità del silenzio ma non può decidere sulla fondatezza dell’istanza (Cons. St. A. P. 9 gennaio 2002, n n. 1 ), finchè non è intervenuto l’art. 6 bis d.l. n.35/2005, convertito nella l. n.80/205.

Per quanto concerne l’obbligo di provvedere è necessario che sia presente un dovere giuridico dell’amministrazione di emanare l’atto a prescindere dal suo contenuto che può essere anche sfavorevole in considerazione del potere discrezionale normalmente spettante alla p.a.(Cons. St. Sez. IV , 9 novembre 1954, n. 733). Tale obbligo è stato ritenuto insussistente nel caso in cui la decisione se emanare o meno l’atto rientri nella piena discrezionalità dell’amministrazione (ad es. annullamento d’ufficio) [60] oppure il provvedimento richiesto non rientri nei poteri dell’autorità sollecitata [61].

Parimenti non ricorre l’ipotesi della mancata adozione di un provvedimento (e quindi della mancata conclusione di un procedimento), bensì la ben diversa ipotesi della mancata sottoscrizione di una convenzione da parte dell’amministrazione, che pure, con proprio atto deliberativo consiliare, ne aveva approvato lo schema. La fattispecie, dunque, non è riconducibile alla disciplina dell’art. 2 legge n. 241 del 1990, ed agli strumenti di tutela offerti dall’ordinamento avverso il silenzio dell’amministrazione connesso alla mancata conclusione di un procedimento amministrativo, bensì all’art. 11 della medesima legge n. 241, ed ai (differenti) rimedi processuali previsti per la mancata sottoscrizione di un accordo, pur deliberato dall’amministrazione pubblica, in conformità al comma 4 bis del citato art. 11. Si intende affermare, in definitiva, che lo speciale rito previsto avverso il silenzio dell’amministrazione dall’art. 21 bis legge n. 1034 del 1971 – così come attualmente l’azione avverso il silenzio prevista dall’art. 31 Cod. proc. amm. – non sono esperibili al diverso fine di obbligare l’amministrazione alla sottoscrizione di un accordo, riconducibile al genus di quelli previsti dall’art. 11 legge n. 241 del 1990, ostandovi la chiara tipicità dell’azione avverso il silenzio, come definita dal legislatore [62].

Inoltre in passato è stata esclusa la formazione del silenzio rifiuto nel caso in cui l’amministrazione avesse adottato anche un atto interlocutorio a seguito della diffida [63], indirizzo ormai abbandonato, essendo necessario il provvedimento conclusivo [64], come del resto previsto dall’art. 117,comma 5, c.p.a. in tema di proposizione di motivi aggiunti.

Peraltro l’obbligo di provvedere sulla istanza del privato si ritiene attualmente sussistente non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche nelle ipotesi che discendono da principi generali, ovvero dalla peculiarità della fattispecie, per la quale ragioni di giustizia ovvero rapporti esistenti tra amministrazioni ed amministrati impongono l’adozione di un provvedimento, soprattutto al fine di consentire all’interessato di adire la giurisdizione per la tutela delle proprie ragioni (Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2012, n.6183; sez. VI, 4 giugno 2004 n. 3492). È stato affermato che “indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad una esplicita pronuncia” (Cons. Stato, sez VI, 11 maggio 2007, n. 2318).

Inizialmente la formazione del silenzio rifiuto impugnabile davanti al giudice amministrativo fu ammessa anche con riferimento ad istanze concernenti diritti soggettivi in materia di giurisdizione esclusiva, ma poi chiarito che il diritto soggettivo in materia di giurisdizione esclusiva è azionabile anche senza l’intervento di un atto amministrativo di diniego espresso o tacito, si ammise direttamente l’azione di accertamento [65].

E’ stato precisato recentemente dalla Cassazione [66] che è ormai indiscussa, in dottrina e in giurisprudenza, la natura meramente processuale del rimedio previsto dalla L. n. 1034 del 1971, art. 21 bis, che non fonda ma presuppone la giurisdizione del giudice amministrativo sulla pretesa sostanziale cui si riferisce la dedotta inerzia della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2006, n. 6003) . Si ritiene anzi che il rimedio, sia ammissibile solo in presenza di una posizione di interesse legittimo connessa all’esercizio di un potere amministrativo (Cons. Stato sez. VI, 25 gennaio 2008, n. 215), perchè l’eventuale lesione di una situazione di diritto soggettivo, quand’anche devoluta alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, è direttamente accertabile dall’autorità giurisdizionale (Cons. Stato, sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6378).

Inoltre, in mancanza di una normativa specifica, la giurisprudenza non potette precisare i tempi di attesa del privato prima della diffida e a seguito della diffida, limitandosi il giudice a verificare la congruità di entrambi i termini in relazione al caso concreto e in genere tale giudizio di congruità era implicito nella decisione di ritenere il ricorso ammissibile. Con una simile procedura il privato poteva scegliere il momento in cui proporre la diffida e quindi il ricorso avverso il silenzio rifiuto.

Con l’art. 5 R. D. 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale) , il legislatore disciplinò i tempi e la procedura del ricorso gerarchico (“trascorsi centoventi giorni dalla data di presentazione del ricorso, senza che l’autorità adita abbia provveduto, il ricorrente può chiedere, con istanza alla stessa notificata, che il ricorso venga deciso. Trascorsi sessanta giorni dalla notificazione a tale istanza, senza che sia intervenuta alcuna decisione, il ricorso si intende, a tutti gli effetti di legge, come rigettato.”) e la giurisprudenza prevalente del Consiglio di Stato ritenne che detta disposizione doveva considerarsi espressiva di un principio generale dell’ordinamento, applicabile anche ad ipotesi diverse che prescindessero dalla avvenuta presentazione di un ricorso gerarchico [67].

Una volta chiarita con la decisione Cons. St. A. P. n.8/1960 la profonda differenza esistente tra il ricorso gerarchico (in cui è già intervenuta una determinazione della p.a. contro cui si rivolge il ricorso) ed il silenzio rifiuto (in cui manca qualsiasi presa di posizione della p.a., che invece si intende provocare), la giurisprudenza successiva, venuta meno la configurabilità del provvedimento tacito per il silenzio rifiuto, si è orientata per la sopravvivenza dell’indirizzo pretorio antecedente alla riforma del 1934 basato sulla congruità dei termini fissati dall’interessato. .

Intervenuto poi l’art. 6 d.p.r. n. 1199 del 1971 con la nuova disciplina del silenzio rigetto, che prevede il rigetto del ricorso gerarchico dopo il 90° giorno dalla data di presentazione del ricorso, senza l’intermediazione della diffida, la giurisprudenza è stata incerta nel ritenere se la nuova disciplina del silenzio rigetto si applicasse ance al silenzio rifiuto, finchè il Cons. di stato A. P. n. 10/1978 ha chiarito che al silenzio rifiuto doveva applicarsi la disciplina di cui all’art. 25 d.p.r. n. 3/1957, Tale disposizione infatti è stata ritenuta idonea a disciplinare l’azione amministrativa con un procedimento articolato in due fasi , con il passaggio obbligato della diffida e con la riduzione dei termini minimi a 90 giorni complessivi (diffida notificata entro 60 giorni dall’istanza e quindi ulteriori 30 giorni per poi impugnare il silenzio rifiuto).

La necessità della diffida per la formazione del silenzio rifiuto è stata ritenuta necessaria anche a seguito della disciplina sui tempi per l’emanazione del provvedimento finale ex art. 2 l. n.241/1990 (Cons. St. A. P. 15 settembre 2005, n. 7).

Con l’art. 21 bis l. n-1034/1971, introdotto dall’art. 2 l.n.205/2000, è stato previsto un apposito rito accelerato e concentrato davanti al giudice amministrativo per i ricorsi avverso il silenzio rifiuto (decisione in camera di consiglio con sentenza succintamente motivata entro 30 giorni dal termine di scadenza del deposito del ricorso, in caso di accoglimento con ordine all’amministrazione di provvedere entro 30 giorni, con nomina in caso di inadempimento di commissario acta che si sostituisca all’amministrazione).

Pertanto è stata rafforzata la capacità di offrire una più efficace tutela al privato in attesa di provvedimento, sia con riferimento all’obiettivo sollecitatorio della decisione del giudice sia considerando il risultato conseguibile al compimento delle due fasi, e cioè tenendo conto sia dell’abbreviazione dei termini sia della possibilità di ottenere la nomina del commissario ad acta, nel corso dello stesso giudizio, senza necessità di promuovere un giudizio di ottemperanza.

E’ poi intervenuta la modifica di cui all’art. 6 bis d.l. n.35/2005, convertito nella l. n.80/205 che ha previsto che decorsi i termini per la conclusione del procedimento l’impugnativa del silenzio rifiuto può avvenire finchè dura l’inadempimento ma non oltre un anno dalla scadenza e che il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza. Inoltre , è sta fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.

Con riferimento al potere del giudice di poter conoscere della fondatezza dell’istanza, in linea di massima la giurisprudenza è stata contraria (Cons. St. A. P. n.1/2002) trattandosi di giurisdizione di legittimità, ma talvolta ha esaminato non la fondatezza ma solo l’infondatezza dell’istanza, ad evitare ulteriore contenzioso. Poi è intervenuto il citato art. 6 bis d.l. n.35/2005 e il Consiglio di Stato ha precisato che il verbo “può” implica il permanere di limiti al sindacato giurisdizionale, anche perché il giudizio sul silenzio ha pur sempre carattere semplificato, sicché, ove siano necessari complessi accertamenti istruttori, il giudice non può che limitarsi a verificare l’esistenza di un obbligo di provvedere e a dare impulso ai successivi adempimenti di competenza dell’amministrazione. In questi casi, il ricorrente non potrà ottenere una pronuncia sulla fondatezza della propria istanza perché il sorgere della situazione soggettiva che si vuole conseguire è, strutturalmente, condizionata alla formazione di atti e provvedimenti non ancora esistenti o all’effettuazione di valutazioni discrezionali non ancora compiute [68].

Artt. 31 e 117 c.p.a. Novità e conferme.

Le novità del c.p.a in tema di ricorso avverso il silenzio concernono i seguenti aspetti:

-previsione della notifica del ricorso ad almeno un controinteressato (se individuabile);

-previsione della facoltà di proporre motivi aggiunti nel corso del giudizio avverso il provvedimento espresso o altro atto connesso all’oggetto del giudizio, con conseguente adeguamento del rito del giudizio al nuovo atto;

-cumulabilità con l’azione di risarcimento del danno da ritardo e conseguenze sul rito;

-chiarimento sulla finalità del giudizio sul silenzio che normalmente è quella di accertare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere ;

-delimitazione dei casi eccezionali in cui il giudice può accertare la fondatezza della pretesa sostanziale, nell’ambito del giudizio sul silenzio;

-previsione della facoltà del giudice di nominare il commissario acta nella sentenza che accoglie il ricorso o successivamente su istanza di parte;

-determinazione delle questioni sottoponibili al giudice del ricorso sul silenzio;

La relazione al codice del processo amministrativo precisa che “si è mantenuta la rilevanza autonoma per l’azione avverso il silenzio, che ha ad oggetto l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere e che ha un’importante specifica tradizione nel processo amministrativo.” Formulazione poi adoperata nell’art. 31, comma 1, c.p.a.

Viene perciò espressamente riconosciuto in sede legislativa che l’oggetto del giudizio sul silenzio rifiuto è innanzitutto l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere, che tanto faticosamente la giurisprudenza aveva elaborato.

La Relazione sottolineava il necessario raccordo di detta azione con una ulteriore (l’azione di adempimento) che, nel disegno originario del legislatore,avrebbe dovuto costituire una delle più rilevanti novità dell’impianto codici stico, stabilendosi che “l’azione è diretta alla declaratoria dell’obbligo di provvedere e va raccordata con la possibilità di esperire contestualmente l’azione di adempimento per ottenere la condanna dell’amministrazione al rilascio di un determinato provvedimento individuato anche nel suo contenuto.

Anche nel caso di contestuale esercizio dell’azione di adempimento, la mera declaratoria dell’obbligo di provvedere costituirà l’esito del giudizio quando non sarà possibile per il giudice spingersi ad accertare la fondatezza della pretesa perché residuano spazi di discrezionalità.”.

Come è noto, la espressa previsione dell’azione di adempimento contenuta nel testo del codice licenziato dalla Commissione è stata soppressa nella redazione definitiva, ma poi con il secondo correttivo decr. leg. n.160/2012 è stato previsto nell’art. 34 comma 1 lett.c, che l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata nei limiti di cui all’art.31, comma 3, contestualmente all’azione di annullamento avverso il provvedimento di diniego o avverso il silenzio. Per cui sono state precisate le ipotesi in cui il giudice può pervenire ad un’azione di condanna all’emanazione di un atto amministrativo [69] (attività vincolata o iniziale attività discrezionale per la quale non residuano ulteriori margini di discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori da parte dell’amministrazione [70]).

Le due domande, normalmente conosciute nell’ambito di un giudizio unitario in seno al quale l’attività di accertamento è strumentale alla pronuncia di condanna ad un facere di stampo pubblicistico, rivelano la loro autonomia nell’ipotesi in cui la sentenza di condanna non risulti più ammissibile o utile ma residui, a fini risarcitori, l’interesse ad una declaratoria che stigmatizzi l’illegittima inerzia amministrativa. Detta autonomia viene in rilievo in modo particolare nel caso in cui, nel corso del giudizio di primo grado o in appello, la parte ricorrente ha manifestato l’interesse a conseguire una pronuncia dichiarativa della formazione del silenzio-rifiuto anche a fronte del venir meno dell’interesse alla sentenza di condanna alla definizione dell’iterprocedurale l’improcedibilità del ricorso di primo grado a seguito del sopravvenuto difetto d’interesse conseguente al sopravvenuto esplicito di diniego nel corso del giudizio d’appello non faccia venir meno l’interesse al conseguimento di una decisione sull’autonoma domanda, articolata con il ricorso di prime cure e ribadita in appello, di accertamento della violazione dell’obbligo di provvedere entro i termini di legge nella prospettiva della futura proponibilità di una domanda di risarcimento.

A suffragio di tale ricostruzione depone la disciplina dettata dall’articolo art. 34, co. III, cod. proc. amm., secondo cui “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.

Detta norma, pur se relativa all’azione di annullamento, esprime una regula iuris, che, riconnettendosi al principio generale di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale (così Cons. Stato, sez. I, 18 maggio 2012, n. 2918) e al corollario, che a tale premessa consegue, dell’ammissibilità di azioni di accertamento anche atipiche (Cons., Stato, Ad Plen 29 luglio 2011, n. 15; sez. V, 31 gennaio 2012, n. 472; sez. IV, 9 maggio 2013, n. 2518)), non può che estendersi anche al giudizio avverso il silenzio. Ne deriva che il sopravvenire di un provvedimento di diniego non può ostare alla declaratoria dell’illegittimità procedurale dell’amministrazione laddove venga prospettata e sia astrattamente ravvisabile l’utilità di un tale decisumnella proiezione di un successivo giudizio risarcitorio, ferma restando la riserva a tale separato momento cognitivo della delibazione, sul piano dell’an e del quantum, della domanda risarcitoria (sulla necessità di una domanda o allegazione di parte e sulla riserva al giudice del risarcimento della cognizione della relativa domanda Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre 2911, n. 6541) [71].

La Relazione, in ultimo, sottolinea che “si è mantenuta la proponibilità dell’azione senza diffida, dopo il decorso del termine di conclusione del procedimento, entro il termine di un anno, non ravvisandosi in questo caso l’esigenza di omogeneizzazione dei termini a sessanta o centottanta giorni che connota le altre azioni,trattandosi di istituto sostanzialmente già consolidato nell’esperienza giudiziaria”.

Ai sensi degli artt. art. 31 e 117 del codice il giudizio si propone con ricorso notificato all’amministrazione (tenuta all’emanazione dell’atto) e ad almeno un controinteressato [72] finché dura l’inadempimento e comunque non oltre 1 anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento (anche senza previa diffida) e depositato entro 15 giorni dall’ultima notifica dello stesso; l’appello va notificato entro 30 giorni dalla notifica della sentenza e depositato entro 15 giorni dall’ultima notificazione.

Sia nel giudizio di primo grado che nel giudizio di appello tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne quelli del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti. (art. 87, comma3, c.p.a.); la discussione del giudizio è fissata d’ufficio alla prima camera di consiglio utile decorsi 30 giorni dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate. (art. 87, comma. 3, c.p.a.).

Il giudice decide con sentenza semplificata.

La relazione al codice, a proposito del rito del silenzio di cui all’art.117 , innanzitutto afferma espressamente che esso ha natura “speciale”; di seguito, ribadisce la natura “compilativa” delle previsioni codicistiche affermando che “il rito avverso il silenzio della pubblica amministrazione, è stato codificato senza innovazioni particolari, salvo un migliore coordinamento in caso di concorso di azioni diverse con quella relativa alla mera inerzia (azione di adempimento volta all’accertamento della fondatezza della pretesa, azione risarcitoria, azione impugnatoria contro il provvedimento espresso sopravvenuto).

E’ importante sottolineare che, nel caso in cui nel corso del giudizio avverso il silenzio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il provvedimento espresso, e l’intero giudizio prosegue con quest’ultimo rito. In tale ipotesi è prevista una conversione obbligatoria del rito camerale nel rito del provvedimento espresso e incentrandosi il contenzioso su quest’ultimo.

Se insieme all’azione avverso il silenzio viene proposta l’azione di risarcimento del danno per inosservanza dolosa o colposa del termine per provvedere, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e fissare l’udienza pubblica per la trattazione della domanda risarcitoria.”

La relazione contemplava altresì la ipotesi in cui venisse “chiesto anche l’accertamento della fondatezza della pretesa”, prevedendo che in tale evenienza il giudice “potesse disporre, anche su istanza di parte, la conversione del rito camerale in ordinario. In tal caso fissa l’udienza pubblica per la discussione del ricorso.”

Detta conversione del rito camerale in rito ordinario aveva natura“ facoltativa ed era rimessa alla valutazione del giudice; infatti, ove la fondatezza della pretesa fosse stata insussistente, sarebbe stato superfluo convertire il rito.”

Il testo definitivo del codice amministrativo non contempla più detta fattispecie di conversione facoltativa, strettamente legata alla domanda di accertamento della fondatezza della pretesa. Peraltro si è stabilito nell’art. 34 comma 1 lett.c del decreto correttivo n.160/2012 che l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata contestualmente all’azione di annullamento di un provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio. Per cui ora, in caso di contestazione del silenzio rifiuto e di richiesta contestuale di emanazione di un provvedimento, si procede unitariamente con il rito del silenzio.

L’ultimo comma dell’art. 117, stabilendo che “se l’azione di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 4, è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria” facoltizza soltanto, ma non obbliga, il giudice ad esaminare detta ultima domanda rimettendo a ruolo la causa per la trattazione in udienza pubblica.

Ne discende che in via di principio risulta superato ex lege l’orientamento giurisprudenziale pregresso secondo cui la domanda risarcitoria sarebbe incompatibile con il giudizio a rito speciale sul silenzio-rifiuto, in quanto, per ragioni di specialità e speditezza (quest’ultimo si svolge con rito camerale) non risulterebbe compatibile con una domanda cognitoria quale l’azione di risarcimento del danno.

E’ probabile che la prassi tendenziale seguita dal giudice sarà nel senso di uno sdoppiamento della procedura: tuttavia, e quantomeno nei casi più semplici, non è da escludere la possibilità che con una unica decisione si definisca interamente la controversia, anche con riguardo al petitum risarcitorio.

La giurisprudenza ha preso atto di tale innovazione legislativa ed ha affermato che alla luce dell’art. 117, comma 6, del c.p.a., deve ritenersi ammissibile la domanda di risarcimento proposta unitamente al ricorso avverso il silenzio e che del pari è ammissibile la domanda con cui il privato invoca la tutela risarcitoria per i danni conseguenti al ritardo con cui l’amministrazione ha adottato un provvedimento a lui favorevole, ma emanato appunto con ritardo rispetto al termine previsto per quel determinato procedimento (Consiglio Stato, sez. V, 21 marzo 2011 , n. 1739).

Secondo tale sentenza, infatti, detta disposizione ha codificato quell’orientamento favorevole all’ammissibilità del cumulo di domande, già presente prima dell’entrata in vigore del Codice: sotto tale profilo, pertanto, la norma assume una natura interpretativa circa l’ammissibilità del cumulo, che va quindi riconosciuta anche con riferimento ai giudizi già pendenti al momento dell’entrata in vigore del Codice (Cons. Stato, IV, 27 novembre 2010 n. 8251).

Però nel caso in cui il giudice amministrativo, decidendo con sentenza in forma semplificata, tratta la domanda risarcitoria connessa all’azione contro il silenzio della Pubblica amministrazione col rito camerale anziché procedere alla conversione nel giudizio ordinario − come è in sua facoltà − deve peraltro renderne edotte le parti costituite, in analogia con quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 60 e 74 Cod. proc. amm. (Cons. St. sez. V , 5 dicembre 2013, n.5798). L’azione avverso il silenzio, di cui all’art. 31 del codice del processo amministrativo, è concettualmente scindibile in due domande: la prima, di natura dichiarativa, volta all’accertamento dell’obbligo, in capo all’amministrazione destinataria dell’istanza presentata dal titolare dell’interesse pretensivo, dell’obbligo di definire il procedimento nel termine prescritto dalla disciplina legislativa o regolamentare a sensi dell’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n 241; l’altra, inquadrabile nel novero delle azioni di condanna, diretta ad ottenere una sentenza che condanni l’amministrazione inadempiente all’adozione di un provvedimento esplicito, previo accertamento della spettanza del bene della vita nei casi in cui venga in rilievo l’esplicazione di in potere discrezionale.

E’ certamente da ribadire integralmente, invece, il principio per cui il rito del silenzio rifiuto concerne la esplicazione di potestà pubblicistiche correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio dell’attività amministrativa ed afferente a posizioni di interesse legittimo devolute alla cognizione del giudice amministrativo.

Né questo consolidato quadro può ritenersi completamente ribaltato a seguito della inclusione legislativa, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva, anche del del silenzio di cui all’articolo 31, commi 1, 2 e 3″, attraverso la nuova previsione dell’art. 133, lett. a), n. 3, CPA. Quest’ultima, invero, non può essere certo intesa nel senso che sia sufficiente far valere attraverso la procedura del silenzio rifiuto una qualsiasi pretesa nei riguardi della P.A. per poter poi attrarre invariabilmente dinanzi al giudice amministrativo il relativo contenzioso. La nuova norma, che si limita a configurare un’ulteriore ipotesi puntuale di giurisdizione esclusiva, va invece interpretata in modo coerente con la tradizione dell’istituto del silenzio e le regole generali sul riparto, la considerazione delle quali porta a ritenere che, come l’inerzia della pubblica amministrazione possa essere sindacata dalla giurisdizione amministrativa mediante lo schema del silenzio rifiuto quando attenga pur sempre all’esplicazione di un potere autoritativo [73].

Nell’ambito della giurisdizione amministrativa, inoltre, il rito del silenzio non è estensibile alle ipotesi di silenzio significativo (silenzio diniego ; silenzio assenso e silenzio rigetto), nelle quali è la relativa normativa ad assegnarne il significato. Con riferimento al silenzio rigetto vi è stato qualche tentennamento al fine di consentire all’interessato di avere una pronuncia sul ricorso gerarchico mediante la procedura del silenzio rifiuto e, dunque, anche sulle censure di merito ivi dedotte.

Ma recentemente è stato correttamente precisato che nel sistema introdotto dal d.P.R. 6 dicembre 1971 n. 1199 il silenzio mantenuto dall’Autorità investita da un ricorso gerarchico non si configura come inadempienza, e dunque non dà luogo all’impugnazione del silenzio come tale, tantomeno all’azione di accertamento dell’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 21-bis l. 6 dicembre 1971 n. 1034, e poi delle corrispondenti disposizioni del codice del processo amministrativo, bensì come mero fatto che abilita il privato interessato a ricorrere al g.a. impugnando non il silenzio dell’Autorità sovraordinata, ma il provvedimento già impugnato inutilmente in via gerarchica”. Pertanto, in caso di ricorso gerarchico non sono sovrapponibili diverse procedure relative al silenzio della pubblica amministrazione: esse sono incompatibili e chiaramente alternative dal momento che ciascuna di esse disciplina lo stesso istituto con modalità diverse nelle diverse circostanze secondo la logica propria di ciascuna” [74].

Se il giudice amministrativo è carente di giurisdizione con riferimento alla pretesa sostanziale, lo è pure con riguardo all’azione volta a fare dichiarare la illegittimità del silenzio. Infatti la natura meramente processuale del rimedio del silenzio rifiuto e la dedotta inerzia della pubblica amministrazione [75].

Il ricorso avverso il silenzio rifiuto costituisce, infatti, un’azione che richiede al giudice di esercitare una cognizione sul merito della causa, che, in taluni casi, può spingersi sino alla condanna dell’Amministrazione all’adozione di un provvedimento di contenuto predeterminato; si deve, pertanto, concludere nel senso che la giurisdizione. in materia di silenzio rifiuto si arresta laddove l’istanza inevasa abbia ad oggetto una materia devoluta alla giurisdizione di altra autorità giudiziaria [76].

Nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il rito del silenzio non è esperibile laddove il privato vanti una posizione avente consistenza di diritto soggettivo. Ciò per la elementare constatazione che laddove la posizione attiva abbia consistenza di diritto soggettivo (e sebbene sia stata devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) il rimedio del silenzio risulta inutile in quanto la tutela del relativo diritto si esplica attraverso una pronuncia di accertamento.

La Relazione, in ultimo, sottolinea che “si è mantenuta la proponibilità dell’azione senza diffida, dopo il decorso del termine di conclusione del procedimento, entro il termine di un anno, non ravvisandosi in questo caso l’esigenza di omogeneizzazione dei termini a sessanta o centottanta giorni che connota le altre azioni,trattandosi di istituto sostanzialmente già consolidato nell’esperienza giudiziaria.”.

E’ fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.

Il giudice se accoglie il ricorso ordina all’amministrazione di provvedere entro un termine non superiore di norma a trenta giorni. Nomina, ove occorra, un commissario ad acta (che entra in funzione una volta scaduto il termine accordato all’amministrazione [77]) con la sentenza di accoglimento o successivamente su istanza della parte interessata.

Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto , ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario.

La norma sembra affidare al giudice del silenzio rifiuto ogni questione in ordine al provvedimento richiesto, anche se relativa agli atti del commissario.

Prima del codice la giurisprudenza assegnava al commissario ad acta in sede di giudizio sul silenzio rifiuto natura mista e cioè se si trattava di eseguire una sentenza che avesse accertato la fondatezza della pretesa sostanziale, il commissario ad acta doveva considerarsi organo ausiliario del giudice in considerazione dei vincoli stringenti derivanti da una tale sentenza; se invece il giudice si limitava a stabilire l’obbligo dell’amministrazione di provvedere (senza vincolarne il contenuto), l’atto sfavorevole adottato dal commissario ad acta non poteva che essere impugnato con ricorso ordinario [78].

Appare preferibile anche a seguito del codice , in mancanza di norme espresse e in considerazione del tendenziale principio di separazione dei poteri e del doppio grado di giudizio, ritenere che il commissario ad acta sia ausiliario del giudice se opera in attuazione del giudicato e organo straordinario dell’amministrazione allorchè svolge la sua attività in attuazione della legge con conseguente impugnativa, in questa seconda ipotesi, dei suoi atti con ricorso ordinario [79] e riconoscimento del potere di autotutela da parte dell’amministrazione [80].

Invero, una volta ritenuto che gli atti dell’amministrazione non violativi o elusivi del giudicato, in quanto attinenti ad aspetti residui di discrezionalità non coperti dal giudicato, vanno impugnati con ricorso ordinario, come confermato anche dalla sentenza A.P. n.2/2013, la medesima conclusione deve estendersi anche per gli atti adottati del commissario ad acta senza la prescrizione di specifici vincoli derivanti dalla sentenza da eseguire o dal provvedimento giudiziale di nomina, non sussistendo ragioni per differenziare le due ipotesi [81]. Invece per i terzi estranei, gli atti adottati dal commissario ad acta vanno comunque impugnati con ricorso ordinario, in quanto nei loro confronti la sentenza degrada a fatto giuridico rilevante ma non vincolante, come precisato per il giudizio di ottemperanza dall’art. 114 ,comma 6, c.p.a..

E’ importante sottolineare che il codice ha espressamente previsto che nel caso in cui nel corso del giudizio avverso il silenzio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti [82], nei termini e con il rito previsto per il provvedimento espresso, e l’intero giudizio prosegue con tale rito (art.117, comma 5). In tale ipotesi è prevista una conversione obbligatoria del rito camerale, essendo sopravvenuto il provvedimento espresso e incentrandosi il contenzioso su quest’ultimo.

Una particolare figura di silenzio rifiuto si rinviene in materia di denuncia di inizio attività , da ultimo definitivamente avallato dallo stesso legislatore con le modifiche introdotte all’art. 19 comma 6 ter della Legge n. 241 del 1990 dal decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge n. 148 del 2011,include la DIA (ora SCIA) tra i moduli di liberalizzazione dell’attività privata, escludendo che la stessa costituisca provvedimento tacito direttamente impugnabile. Gli interessati possono quindi agire sollecitando l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. ovvero impugnare i “provvedimenti espressi” adottati dall’amministrazione su sollecitazione degli stessi controinteressati (cfr. Cons. St., sez. IV 10 luglio 2013, n. 3666; T.A.R. Napoli sez. II 21 giugno 2013 n. 3195).

L’azione di condanna.

Nel processo amministrativo è stata esclusa fino ad epoca recente l’ammissibilità di un’azione di condanna della p.a. ad un facere, nonchè al pagamento di una somma di denaro e al risarcimento del danno, con la sola eccezione della condanna alle spese di giudizio (già prevista negli artt. 50 e 56 del regolamento n.6516/1889 e negli att. 68, 88 e 89 regolamento n. 642/1907) [83]. Ciò vale non solo per la giurisdizione di legittimità, ma anche per quella esclusiva essendo stato consentito con riferimento ai diritti soggettivi solo l’accertamento del diritto spettante all’interessato, salvo l’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato [84] Un’azione di condanna della p.a. al pagamento di somme di danaro di cui risulti debitrice nella materia relativi a diritti attribuita alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo è stata introdotta solo dall’art.26 l.n.1034/1971. La sua formula ambigua con riferimento alla giurisdizione esclusiva e di merito è stata intesa, al fine di non relegare la sua applicazione a casi sporadici, nel senso che la relativa condanna è ammissibile in presenza di un diritto soggettivo sia che si tratti di giurisdizione esclusiva che di merito.

Dall’ambito dell’azione ex art.26 erano escluse le domande risarcitorie e in generale i diritti patrimoniali consequenziali, riservati alla giurisdizione ordinaria ex art. 7 l.n.1934/1971 e art. 30 T. U. n.1054/1924.

Come azione di condanna è stato configurato anche il ricorso per l’accesso ai documenti amministrativi (art.24 l.n.241/1990).

L’art. 35 l. n.80/1998 ha introdotto l’azione di condanna della p.a. al risarcimento del danno per lesione di diritti soggettivi in relazione a controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva e fu eliminata la riserva al giudice ordinario sui diritti patrimoniali consequenziali. Quindi (per effetto sentenza Cass. S. U. n.500/1999) anche per lesione di interessi legittimi (art. 7 l. n.205/2000).

Il problema che si è posto a seguito dell’ammissibilità di una condanna della p.a. al risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo è stato quello di stabilire la necessità o meno del previo annullamento dell’atto amministrativo lesivo (c.d. pregiudiziale amministrativa), con diverso orientamento della Corte di Cassazione (favorevole all’autonomia dell’azione risarcitoria , considerando l’atto amministrativo come fatto lesivo della posizione soggettiva del privato con ricostruzione interamente privatistica della responsabilità della p.a. per lesione di interesse legittimo) e del Consiglio di Stato (orientato a ribadire la natura imperativa del provvedimento amministrativo, espressione della volontà della legge nel caso concreto, a presidio della stabilità dei rapporti pubblicistici, da contestare in un breve termine di decadenza).

La Corte di Cassazione, a fronte di dubbi in ordine al giudice cui rivolgersi per conseguire il risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, concentrandosi ogni forma di tutela della stessa situazione soggettiva presso il medesimo giudice. Ha ribadito la necessità di riconoscere l’azione risarcitoria autonoma [85] ed ha quindi ritenuto diniego di esercizio del potere giurisdizionale il rifiuto del giudice amministrativo di esercitare tale forma di tutela [86].

Il Consiglio di Stato sez. VI, 21 aprile 2009, n. 2436, ha ritenuto di non essere tenuto ad applicare norme processuali interne alla sua giurisdizione nel senso statuito dalla Corte di Cassazione.

Di recente, il legislatore ha introdotto una particolare rimedio contro l’inefficienza dell’amministrazione e dei concessionari di pubblici per violazione di termini o per mancata emanazione di atti amministrativi generali non aventi contenuto normativo da adottarsi entro un termine determinato ovvero per violazione di obblighi contenuti nelle carte di servi ovvero per violazione degli standard minimi di servizio pubblico. Essa consiste in una specie di «class action» pubblica da proporre davanti al giudice amministrativo che si può concludere con una condanna dell’amministrazione a porre in essere entro un termine congruo le attività necessarie per porre rimedio all’inefficienza lamentata (d.lgs. 20.12.2009, n. 198) [87].

Lo schema del codice predisposto dall’apposita Commissione prevedeva :

-nell’art. 39 sia l’azione di condanna dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro o all’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva, non conseguibile con l’esercizio di altre azioni, nonché la condanna al risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo (da esperire nel termine di 180 giorni) e di diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva;

– nell’art. 40 l’azione di adempimento per l’emanazione del provvedimento richiesto o denegato.

L’azione di condanna nel c.p.a. (artt.30, 31 e 34).

Nel testo definitivo del c.p.a . di cui al d. l.v0 n.104/2010 è conservata l’azione di condanna (art.30); è stata stralciata l’azione di adempimento per l’adozione del provvedimento richiesto o denegato, ma è stata confermata nell’art. 31 la possibilità del giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa in caso di ricorso avverso il silenzio allorchè si tratti di attività vincolata o non residuino ulteriori margini di discrezionalità. La giurisprudenza si è mostrata favorevole all’esercizio di un’azione di adempimento pubblicistico sulla base dell’art. 31, 3° comma, dell’art. 30,1° comma , (in cui si prevede un’azione generica di condanna da esperirsi contestualmente ad altra azione ) e dell’art. 34, comma 1 lett.c) c.p.a. (in cui si prevede la condanna all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio,tra cui la condanna all’adozione di uno specifico atto nel caso di insufficienza dell’annullamento del diniego per la tutela piena dell’interessato[88].Il secondo correttivo di cui al d.l.vo n.160/2012 ha consacrato formalmente tale possibilità modificando la lettera c) dell’art. 34 statuendo che tale azione è esercitabile nei limiti dell’art. 31 ,comma 3, e contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o di quella avverso il silenzio. Sussistendo i presupposti ex art.2058 c.c. può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.

L’azione di condanna di cui all’art.30 c.p.a. si configura innanzitutto (ma non solo) come azione per il risarcimento del danno per la lesione dei diritti soggettivi nei casi di giurisdizione esclusiva, ma anche degli interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità, nel caso di danni causati dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. E’ previsto come regola generale che l’azione di condanna possa essere presentata contestualmente ad altra azione (in primis l’azione di annullamento), ma essa può essere proposta anche in via autonoma nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva o nei casi disciplinati dall’articolo medesimo (art. 30, comma 1°): il che sancisce definitivamente la formale eliminazione della c.d. pregiudizialità amministrativa.

Il contenuto dell’azione di condanna al risarcimento del danno proponibile in via autonoma risulta delineato tanto dall’art. 30, 2° co. (per i casi di illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o di mancato esercizio di quella obbligatoria) quanto dall’art. 30, 3° co. (che ammette esplicitamente la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi a prescindere dall’impugnazione del provvedimento causativo della lesione), come pure per i danni conseguenti all’inosservanza del termine di conclusione del procedimento.

Tuttavia, se vi è una sostanziale simmetria tra azioni proponibili e pronunce emanabili, dalla lettura dell’art. 34, rubricato “sentenze di merito”, si evince che la sentenza di condanna può avere anche un contenuto più articolato rispetto a quello che l’art. 30 farebbe intuire. Il giudice, infatti, può condannare l’amministrazione, oltre che al risarcimento del danno (per equivalente o in forma specifica), anche all’adozione di «misure idonee a soddisfare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (art. 34, comma 1, lett. c). La formula molto ampia utilizzata dal codice appare idonea a comprendere ogni tipo di misura ordinatoria, senza alcuna eccezione, incluso quindi l’ordine di emanare un provvedimento a fronte di un illegittimo diniego o nelle ipotesi di inerzia: fattispecie, quest’ultima, per la quale è prevista l’azione avverso il silenzio, diretta all’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione a provvedere ai sensi dell’art. 31, 1° co., ma che può ben essere diretta ad ottenere un ordine del giudice all’amministrazione, rimasta inerte, di provvedere entro un termine (ex art. 34, 1° co. lett. b).

Va segnalato che una parte della dottrina ha ritenuto di leggere nell’espressione «misure idonee a soddisfare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (ma si potrebbe aggiungere anche nell’ordine di provvedere, appena citato) una conferma dell’introduzione implicita dell’azione di adempimento, mentre per altra parte della dottrina si tratterebbe di una mancanza di coordinamento nella redazione del testo definitivo, in quanto l’intenzione del legislatore delegato sarebbe stata quella di non introdurre l’azione di adempimento generalizzata (essendo forse superflua, potendosi pervenire ai medesimi risultati in sede di ottemperanza). Dubbio ormai risolto dal secondo correttivo, come già accennato.

Il codice prende in considerazione il contenuto pecuniario del dovuto ai fini del rilascio della formula esecutiva sulle sentenze e della conseguente espoeribilità dell’esecuzione forzata nelle forme c.p.c. (art.115,2° comma, c.p.a., ciò però non esclude l’ammissibilità di una sentenza di condanna in altri casi.

Altro profilo di rilievo introdotto dall’art. 30 è rappresentato dai rapporti fra tutela impugnatoria e tutela risarcitoria, riconoscendosi la possibilità di proporre autonomamente l’azione risarcitoria rispetto all’azione di annullamento, con una serie di limiti: innanzitutto, fissando un termine decadenziale di 120 giorni in luogo di quello di prescrizione, che inizia a decorrere dal giorno in cui il fatto dannoso si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno discende da quest’ultimo; in secondo luogo stabilendo che il giudice nel determinare il risarcimento valuti le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti ed escluda il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti, compreso evidentemente l’impugnativa dell’atto lesivo e la connessa domanda cautelare. Il meccanismo previsto dal Codice sembra costituire un implicito richiamo all’art. 1227 del c.c., tra l’altro esplicitamente richiamato dall’art. 124 c.p.a. relativo alla tutela in materia di appalti. E proprio in forza dell’art. 1227 c.c. l’Ad. plen. del Consiglio di Stato n. 3/2011 ha sancito che la scelta di non avvalersi della tutela impugnatoria può essere valutabile come comportamento contrario a buona fede e al principio di correttezza nei rapporti bilaterali: così da escludere la risarcibilità dei danni che si sarebbero potuti evitare attivando tutti gli strumenti di tutela (impugnatori e cautelari; nonché gli altri strumenti di tutela quali i ricorsi amministrativi e le istanze di autotutela) secondo un giudizio di causalità ipotetica. Orientamento che è stato successivamente confermato affermandosi che l’art. 1227 c.c. al comma 1, dispone che se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, aggiungendo, al successivo comma 2, che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza [89].

Per cui è stato ritenuto sussistente il comportamento omissivo colposo del danneggiato ogni qualvolta tale inerzia, contraria a diligenza, anche a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l’evento lesivo in suo danno, precisandosi che la regola contenuta nell’art. 1227, comma 1., c.c. non è espressione del principio di auto responsabilità, quanto piuttosto un corollario del principio di causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile; con la conseguenza che la colpa ex art. 1227, comma 1, c.c. deve essere intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto, ma come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato (Cass. civ., SS.UU., 21 novembre 2011, n. 24406).

La giurisprudenza amministrativa ha d’altra parte sottolineato che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, sancita dall’articolo 30, comma 3, c.p.a., è ricognitiva dei principi già contenuti nell’art. 1227, comma 2, c.c., così che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro complessivo delle parti, valutabile alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con la ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (C.d.S., sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1750; così sostanzialmente anche C.d.S., sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5556, con riferimento alla specifica scelta del cittadino di non avvalersi della tutela impugnatoria che, anche in virtù delle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe probabilmente evitato in tutto o in parte il danno).

In definitiva, la previsione del termine decadenziale unitamente al “sostanziale” onere dell’impugnazione per facilitare il risarcimento del danno tendono a valorizzare l’azione di annullamento. Si è del resto affermato che il nuovo Codice, nel regolare i rapporti fra azione di annullamento e azione risarcitoria, abbia introdotto una sorta di pregiudizialità mascherata in quanto l’azione risarcitoria pura rischierebbe di configurarsi «poco più che un caso di scuola».

Tuttavia, il Codice si preoccupa di coordinare l’azione di annullamento con l’azione risarcitoria, stabilendo che nel caso sia stata proposta l’azione di impugnazione, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio e comunque sino a 120 giorni dal passaggio della sentenza in giudicato e persino in sede di ottemperanza (ex art. 112, 1° co.), consentendo così al ricorrente di scegliere la strategia processuale di attendere l’esito del giudizio di annullamento per poi proporre e articolare la domanda di risarcimento (art. 30, comma 5).

Osservazioni conclusive

Il Codice prende atto dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha via via integrato il modello originario fondato sull’azione di annullamento. Quest’ultima resta ancor l’azione più importante, ma fanno contorno ad essa tutti tipi di azione necessari per rendere completa ed effettiva la tutela richiesta dal cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.

Parte della dottrina e della giurisprudenza sostiene che l’elenco contenuto nel capo II, del titolo III del libro I del c.p.a. avrebbe carattere tassativo e non consentirebbe di introdurre azioni che il legislatore ha ritenuto di dover espressamente escludere. Altra parte della dottrina invece sostiene che il Codice abbia posto un sistema di azioni aperto e che conseguentemente siano proponibili anche azioni atipiche.

Invero, corollario dell’effettività è rappresentato dal principio dell’atipicità e delle molteplicità delle forme di tutela, anche se alcune azioni sono specificamente disciplinate nel c.p.a. Nel momento in cui altre azioni fossero indispensabili per conferire piena tutela alle situazioni soggettive lese allora non può escludersi l’ammissibilità di azioni atipiche, come riconosciuto da Cons. St. A. P. n. 15/2011 con riferimento all’azione di accertamento atipica.

Peraltro, una parte della dottrina va anche oltre, ammettendo l’atipicità di contenuto anche delle azioni previste, in quanto tipizzate in modo incompleto nell’ambito delle quali potrebbero rientrare l’azione di adempimento e l’azione di accertamento.

Va comunque osservato che il capo II dedicato alle azioni non esaurisce il catalogo delle azioni previste non solo dal Codice, ma anche da altre fonti normative. Oltre alle azioni cautelari ed esecutive, non più espressamente menzionate nel capo II, ma disciplinate rispettivamente agli articoli 55 e 112 del Codice, si pensi, ad esempio, all’azione in materia di accesso (art.116 c.p.a.), mentre l’azione per l’efficienza della pubblica amministrazione è disciplinata dal d. lgs. n.198/2009.

La tipologia delle azioni, comune sia alla giurisdizione generale di legittimità che alla giurisdizione esclusiva, ricalca la tradizionale tripartizione in azioni di annullamento (costitutive), di accertamento (dichiarative) e di condanna, elaborata nell’ambito del processo civile, sia pure con le specificità del giudizio amministrativo. Il principio di tipicità delle azioni risulta peraltro attenuato, da un lato, dall’introduzione di elementi di elasticità, rinvenibili tanto nella pluralità delle domande proponibili dal ricorrente e quanto nella molteplicità delle pronunce ottenibili dal giudice (cfr. art. 34).

Se tale pluralità fosse valorizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, potrebbe condurre alla costruzione di azioni non rigidamente ancorate a tipologie separate le une dalle altre, ma collegate alla articolazione delle domande proponibili e alle pronunzie ottenibili dal giudice, domande e pronunzie adeguate allo specifico bisogno di tutela e di riparazione della lesione cui deve essere preordinato il processo amministrativo, al pari del processo civile.

Comunque la novità principale riguarda l’azione di condanna al risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo. La giurisprudenza amministrativa appare incerta ad esaminare alcune questioni come per esempio l’onere della prova, la colpa dell’amministrazione o la quantificazione del danno. È prevedibile che occorra del tempo prima che il giudice amministrativo riesca a darsi criteri consolidati. Per ora la giurisprudenza sembra propendere per un atteggiamento protettivo dell’amministrazione, giustificato dall’esigenza di non aggravare troppo l’onere finanziario a carico dello Stato. L’unica deroga è costituita dall’azione di risarcimento del danno per violazione della disciplina degli appalti pubblici, in cui ormai è recepito il principio dell’ingiustizia del danno connesso all’illegittimità riscontrata a prescindere da eventuale colpevolezza dell’amministrazione (Cons. St. sez. V 8 novembre 2012, n. 5686; sez. III, 10 gennaio 2013, n.99; Corte di giustizia, sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09).

In conclusione, il Codice nel suo complesso e, in particolare, la disciplina delle azioni hanno dato nuova vitalità e dinamismo al processo amministrativo allineandolo agli standard di altri Paesi, come in particolare la Germania, che offrono al cittadino livelli elevati di tutela nei rapporti con l’amministrazione. Spetta ora alla giurisprudenza dare applicazione piena alle nuove norme in modo tale da migliorare sempre più l’effettività della giustizia amministrativa nell’ambito di un giusto processo.

Roma, 23 giugno 2014.


[1] A. M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, 1963, p.33 e segg.

[2] M. Clarich, Azioni nel processo amministrativo (2012), Treccani.it

[3] Cons. St., sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717 e 15 aprile 2010, n. 2139, redatte dallo stesso estensore, sono orientate ad ammettere, sia pure con difficoltà, un azione di accertamento atipica nel processo amministrativo con riferimento alla tutela del terzo che si oppone all’attività edilizia assentita ad altri. Al riguardo è stata ritenuta prevalente l’esigenza di effettività della tutela da assicurare al terzo mediante strumenti diversi dall’azione di annullamento, che siano perfettamente compatibili con la natura privatistica della d.i.a. . E’ stato sottolineato che ricorre nel processo amministrativo una situazione del tutto analoga a quella del processo civile, nel quale pure manca un esplicito riconoscimento normativo generale dell’azione di accertamento (specifiche azioni di accertamento sono previste nel codice civile solo per i diritti reali). Ciò nonostante, nel processo civile l’azione di accertamento è pacificamente ammessa. A tale riconoscimento dell’azione di accertamento nel giudizio civile si giunge partendo dalla premessa concettuale che il potere di accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione, sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto giuridico di un determinato rapporto.

[4] F. Caringella , Manuale di diritto processuale amministrativo, 2012, p. 122-123.

[5] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, p. 202, Torino 2013.

[6] Per una ricostruzione aggiornata dell’azione di annullamento V. la sentenza Cons. di St. Sez. VI, 9 febbraio 2009, n.717, in cui si afferma che la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato. Una pluralità di indici normativi testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto. Basti pensare: all’impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso (art. 21, primo comma, l. Tar, modificato dall’art. 1 l. n. 205/2000); al potere del giudice di negare l’annullamento dell’atto impugnato per vizi di violazione di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (art. 21-octies l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 21 bis l. n. 15/2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza dell’istanza nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto (art. 2, comma 5, l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 80/2005 in sede di conversione del d.l. n. 35/2005). Il giudizio amministrativo, rimane perciò, un giudizio sull’atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della p.a., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della p.a.

[7]. U. Borsi, Il silenzio della pubblica amministrazione, in G.I. 1893, IV, c. 273, ove è riportato per intero l’intervento del sen. Cavallini.

[8] La prima decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, che ammette il silenzio rigetto su un ricorso gerarchico al ministro è del 22 agosto 1902, n. 429.

[9] Con la sentenza Cons. St. A. P. n.8/1960 il ricorso avverso il silenzio è stato poi ritenuto di accertamento dell’illegittimità della mancata risposta della p.a. alle istanze pretensive del privato.

[10] L’individuazione dell’atto impugnabile può comportare delle incertezze, dipendendo sia dalla normativa di settore sia dagli indirizzi, non sempre uniformi, assunti dalla giurisprudenza. La sua determinazione è sen’altro essenziale nella giurisdizione generale di legittimità, ma può essere necessaria anche nella giurisdizione esclusiva allorché la posizione giuridica fatta valere in giudizio sia di interesse legittimo. L’atto lesivo deve essere impugnato in primo grado nei prescritti termini di decadenza; ai fini dell’ammissibilità, poiché le censure vanno rivolte avverso un determinato atto ed il ricorso deve essere notificato all’autorità emanante o a tutte le autorità emananti (necessariamente) e ad almeno un controinteressato (se presente), salva l’integrazione del contraddittorio nei confronti di altri controinteressati; talvolta anche ai fini della procedibilità in quanto, proposto ricorso avverso un atto del procedimento, occorre impugnare anche un atto successivo ed effettuare ulteriori notifiche.

[11] Il termine breve di impugnativa (normalmente 60 giorni, 30 giorni per gli appalti pubblici) decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza ovvero, per gli atti per i quali non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno di scadenza della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge (art.41, comma 2, c.p.a.). L’aspetto più delicato è la determinazione del concetto di piena cognizione, essendo dubbio se essa discenda dalla conoscibilità degli elementi essenziali dell’atto in modo da coglierne la lesività (come ritiene la giurisprudenza prevalente) o se necessita della conoscibilità del contenuto integrale dell’atto e quindi dei suoi vizi. Recentemente la questione è stata rimessa alla Corte di giustizia dal TAR Puglia Bari, ord. n.427/2013 per quanto concerne i pubblici appalti. La Corte di giustizia, sez. V, con la sentenza 8 maggio 2014 C-161/13C-161/13 ha precisato chericorsi efficaci contro le violazioni delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione di appalti pubblici possono essere garantiti soltanto se i termini imposti per proporre tali ricorsi comincino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni”. Il che sembra comportare una accurata indagine del giudice in ordine alla specifica controversia al fine di stabilire se il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione delle relative disposizioni.

[12] Cons. St. sez. VI, 24 gennaio 2012, n.291.

[13] Cons. St. sez. V, 25 luglio 2011, n.4454; sez. IV, 2 febbraio 2012, n.585.

[14] Quando la posizione sostanziale garantita dall’ordinamento giuridico assurga alla consistenza di diritto soggettivo perfetto e l’ordinamento non attribuisca all’amministrazione alcun potere di degradarla, ciò significa, per usare una terminologia abituale nella giurisprudenza, che si è in presenza di pretese discendenti immediatamente dalla legge. Il difetto assoluto di un potere dispositivo dell’amministrazione comporta, allora, la pariteticità delle posizioni dell’amministrazione e del privato, ovverosia, che l’eventuale atto amministrativo lesivo non è autoritativo, sicchè non si pone la necessità di una sua impugnazione e quindi di un suo annullamento. In tali casi, il giudice amministrativo conosce direttamente il rapporto senza il filtro del provvedimento ed è per questo che, se si vuole, si può parlare di disapplicazione dell’atto amministrativo, purché sia ben chiaro, però, che tale disapplicazione è possibile e consentita perché l’atto non ha carattere autoritativo (Cons. giust. amm. si. , 4 aprile 1979, n. 47).

[15] Corte cost. n. n.79/1967, nell’ammettere il principio di divisione dei poteri, precisa che esso è accolto nel nostro ordinamento non in astratto ma nei limiti delle norme costituzionali.

[16] E’ stato sottolineato che il giudizio amministrativo, in questo caso, rimane un giudizio sull’atto, ma in una versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nel senso che il rapporto di cui il giudice amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un successivo atto della p.a., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di perdurante inerzia della p.a. (Cons. St. sez.VI, n.717/2009).

[17] M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo amministrativo, scritti giuridici, tomo III, Milano 1996, pag.1529, che riproduce un suo scritto risalente al 1981, ove si afferma la non necessità di un’autorizzazione legislativa affinchè il giudice amministrativo indichi nella sentenza quali attività debba e possa compiere l’amministrazione per ricostruire lo stato di fatto e di diritto al momento del comportamento lesivo.

[18] E’ stato ammesso infatti il rimedio dell’ottemperanza in sede di cognizione sia per le misure cautelari (Cons. St. A. P. 30 aprile 1982, n. 6; Corte cost. 8 novembre 1995, n. 419) sia per il silenzio rifiuto (Cons. St. A. P. 9 gennaio 2002, n.1 ).

[19] Legge n. 205/2000 (art. 2 per il silenzio rifiuto e art. 3 per le misure cautelari).

[20] F. Secchi, tesi dottorato su “L’esecuzione del giudicato nell’esperienza italiana e tedesca”, anno accademico 2008/2009, in internet.

[21] Legge n.205/2000, art 7 .

[22] M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in Federalismi, 2010.

[23] Proponendo l’azione di adempimento nel processo avverso il silenzio, che consente al privato di ottenere un sentenza di condanna dell’amministrazione all’adozione del provvedimento richiesto ( Tar Calabria-Catanzaro, 13 giugno 2011, n.899).

[24] La disposizione è stata recentemente applicata dal TAR lazio sez. II bis 12 novembre 2012, n. 9210 a proposito della fissazione della data per le elezioni regionali nella regione Lazio, affermandosi che il ricorso “contiene un’azione dichiarativa dell’illegittimità dell’inerzia dell’Amministrazione intimata rispetto al comportamento ad essa imposto dalla vigente normativa, con la conseguente domanda di condanna della stessa ad un facere doveroso, per il quale sono stati ormai esauriti – come argomentato da parte ricorrente – i residui margini di discrezionalità temporale, con connessa necessità, ai fini del ripristino della legalità violata, di fissare lo svolgimento delle elezioni alla prima data utile tecnicamente compatibile con gli adempimenti procedimentali previsti dalla normativa vigente in materia di operazioni elettorali”.

[25] La disposizione è equivoca in quanto non chiarisce se si tratta di un potere esercitabile d’ufficio o su istanza di parte da avanzare anche nel corso del giudizio (nel primo senso: Cons. St. sez. IV, 18 maggio 2012, n.2916, nel secondo: TAR Toscana, 30 maggio 2012, n.1047). Comunque il presupposto della sussistenza di un interesse ai fini risarcitori, prescritto nella norma, sembra richiedere per lo meno la prospettazione di fatti idonei da cui desumere l’interesse della parte ai fini risarcitori, ma va delineandosi che occorra apposita richiesta (TAR Lombardia, Milano 6 marzo 2014, n. 606 ). Quest’ultimo orientamento appare condiviso anche da una recente sentenza del Consiglio di Stato sez. V 28 aprile 2014 n. 2184. ove è precisato l’esigenza di accertare l’illegittimità dell’atto laddovevenga prospettata e sia astrattamente ravvisabile l’utilità di un tale decisum nella proiezione di un successivo giudizio risarcitorio, ferma restando la riserva a tale separato momento cognitivo della delibazione, sul piano dell’an e del  quantum, della domanda risarcitoria (sulla necessità di una domanda o allegazione di parte e sulla riserva al giudice del risarcimento della cognizione della relativa domanda, Cons. Stato, sez. V, 14 dicembre 2011, n. 6541).

[26] Limitazione prevista dall’art. 35 legge n. 205/2000.

[27] Si afferma in genere che nell’azione di mero accertamento la parte si limita a chiedere al giudice l’accertamento di un rapporto controverso, mentre nelle sentenze di condanna l’accertamento è rivolto ad effetti ulteriori ed è preparatorio dell’esecuzione e nelle sentenze costitutive l’accertamento costituisce un elemento di una più complessa fattispecie cui è ricollegato il prodursi di un determinato effetto sostanziale.

[28] V. Andrioli, Diritto processuale civile, vol I, pag. 332, 1979, individua l’interesse all’accertamento in caso di pretesa contestata o di pericolo di una lite futura.

[29] A. M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, 1963, p.33 e segg.

[30] Afferma l’inammissibilità di una pronuncia meramente dichiarativa in sede di legittimità, se non nelle ipotesi previste dalla legge, Con. St. sez. V, 9 dicembre 1970, n. 1060; mentre l’ ammette solo in caso di diritto soggettivo Cons. St. sez. V 9 dicembre 2009, n. 7694.

[31] E. Capaccioli , Per l’effettività della giustizia amministrativa, in scritti in onore di G. Miele, 1979, p. 231.

[32] Cons. St., sez. VI, 9 febbraio 2009, n.717.

[33] L’art. 36 della relativa bozza, intitolato “azione di accertamento”, stabiliva quanto segue:

“1.Chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative.

2. Può altresì essere chiesto l’accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo.

3. Ad eccezione dell’azione di nullità, l’accertamento non può comunque essere chiesto, salvo quanto disposto dall’articolo 39, comma 4, quando il ricorrente può o avrebbe potuto far valere i propri diritti o interessi mediante l’azione di annullamento o di adempimento; l’accertamento non può altresì essere chiesto con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

[34] Corte cost. 24 aprile 2013, n. 70; Cons. St. sez. IV, 21 agosto 2012, n. 4583.

[36] Cons. St., sez. IV, 17 giugno 1904, in Giur. It. 1904, III, 250, ed ivi commento sfavorevole di F. Cammeo, il quale fece presente che non si poteva escludere la presenza di nullità radicali sollevabili d’ufficio ma solo se riferite ai casi più gravi e possibilmente se comminate dalla legge, mentre nel caso in esame vi era stata solo una parziale inosservanza della disposizione la quale prevedeva per la verbalizzazione la presenza di tre scrutatori mentre ne erano intervenuti solo due .

[37] Cons. St., sez. IV, 3 ottobre 1911 n.562 , in Giur. It. 1912, III, 162.

[38] F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo 1911-1914, ristampato nel 1960, con note di G. Miele, pag 596 e segg.

[39] La prima sentenza che ha posto in rilievo la nullità/inesistenza dell’atto adottato in carenza di potere è Cass. S. U. 4 luglio 1949, n..1657, al fine del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo fino ad allora basato sulla causa petendi: l’atto adottato in carenza di potere – cioè in assenza di una previsione di legge che conferisca quel potere all’amministrazione, pretendendo di usare un potere che in realtà non c’è, un potere inesistente – è a sua volta un atto inesistente, nel senso che non esiste come atto amministrativo, non è riconoscibile come atto amministrativo, e non può produrre l’effetto di “degradazione” dei diritti., e poi Cass. S. U. 24 ottobre 1958, n. 3457 , che ha integrato il criterio della carenza di potere in astratto con quello della carenza di potere in concreto con riferimento ai presupposti che abbiano la funzione di tutelare il diritto soggettivo, pur in presenza di un astratta attribuzione di potere (con riferimento alla mancata menzione degli intestatari dei beni espropriati).

Di contrario avviso in ordine alla carenza di potere in concreto, che presuppone un’indagine specifica sula gravità dei vizi dell’atto non prevista dalle norme e perciò suscettibile di variabile apprezzamento, è stato in genere il Consiglio di Stato, secondo cui mentre la giurisdizione spetta al giudice ordinario nella ipotesi di occupazione quando la dichiarazione di pubblica utilità manca del tutto (prima ipotesi), invece la giurisdizione compete al giudice amministrativo sia in caso di occupazione successiva a dichiarazione di pubblica utilità successivamente annullata (seconda ipotesi), la competenza giurisdizionale deve ritenersi attribuita al giudice amministrativo anche in ogni altra ipotesi (terza ipotesi) in cui la occupazione sia seguita ad una dichiarazione di pubblica utilità, e dunque ad un iniziale esercizio di potere pubblicistico, anche se il procedimento non si sia concluso con un decreto di esproprio, o si sia concluso con un decreto di esproprio tardivo (Cons. St. A. P.30 luglio 2007, n.9; 22 0ttobre 2007, n.12.; sez. IV 6 novembre 2008, n.5498).

[40] Cons. St. sez. IV, 9 marzo 1928, n.181; sez. V, 13 marzo 1931 n.176.

[41] Cons. St. sez. IV 23 sett..1949 n. 305, che richiama l’intervenuta estensione del giudizio di ottemperanza anche agli interessi legittimi con la procedura di cui all’art. 90 r.d. n.642/1907 ma nella specie la domanda era stata proposta con ricorso ordinario; sez, V, 1.4.1950 n. 395 con riferimento ad un annullamento di licenziamento. Prima l’ostacolo veniva superato proponendo un ulteriore ricorso in sede di legittimità avverso l’atto che non si era conformato al precedente giudicato amministrativo (Cons. St. sez. IV, 22 aprile 1911, n.269).

[42] E. Guicciardi, Giustizia amministrativa, 1957, pagg. 293 e segg.

[43] Cass. S.U., 8 luglio 1953, n. 2157.

[44] Corte cost. 8 settembre 1995, n. 419 e 15 settembre 1995, n. 435, concernenti l’esecuzione del giudicato nei confronti del Consiglio superiore della magistratura; nonché 12 dicembre 1998, n. 406, ove si afferma la discrezionalità del legislatore nel limitare il giudizio di ottemperanza al caso di sentenza passata in giudicato.

[45] Cons.sez.. V -21 marzo 2011, n. 1739 ha ammesso la cumulabilità con conseguente applicazione del rito ordinario.

[46] TAR Pescara, sez. I, 9.10.2013, n.473, che nel rimettere la controversia al giudice ordinario in relazione ad un atto amministrativo ritenuto nullo, accerta anche la mancanza di una materia oggetto di giurisdizione esclusiva.

[47] Per alcuni l’unica via percorribile per rendere compatibile la nullità del provvedimento amministrativo con l’ordinamento, in primis costituzionale, sia la nullità insanabile, l’azione imprescrittibile ed esercitabile solo innanzi al giudice ordinario perché il provvedimento nullo fronteggia solo diritti soggettivi. Quest’ultima conclusione, pur ben argomentata e volta a superare le evidenti, per usare un eufemismo, imperfezioni dell’art. 31 c.p.a. non convince.

[48] Secondo alcuni si tratterebbe di un’annullabilità rafforzata o speciale. Ma Occorre tener presente che l’accertamento della nullità ha riflessi significativi sulla qualificazione delle misure esecutive eventualmente adottate e sulla forma di invalidità degli atti assunti sul presupposto del provvedimento nullo. Il termine di 180 giorni è un profilo che se mira ad attenuare la nullità mitigandone la sua assolutezza, nel contempo tende a mantenerla distinta dalla annullabilità colla quale non deve essere confusa». Deroga, peraltro, opportunamente accompagnata dal richiamo di alcuni capisaldi del regime della nullità: l’imprescrittibilità dell’eccezione e la rilevabilità d’ufficio (Paolo Lazzara, Nullita dir. amm. Treccani, Diritto on line (2013).

[49] Eventualmente i c.d. effetti dell’atto nullo deriverebbero dalla relativa “riduzione a fatto” e sarebbero, perciò, prodotti direttamente dalla legge, eventualmente in collegamento con altre vicende rilevanti (ad es., la volontaria esecuzione o l’esecuzione d’ufficio, ovvero l’anno nullo che sia presupposto per l’emanazione di altri atti ). Per cui occorre evitare di confondere i c.d. «canali di recupero» attraverso cui l’ordinamento riduce in vario modo la portata della nullità: limitando – ad es. – il novero dei soggetti legittimati a farla valere (c.d. nullità relativa) o il tempo per esercitare l’azione, senza però accedere al regime della annullabilità (Puccini, L. Studi sulla nullità relativa, Milano, 1967, Tommasini, R., Nullità (dir. priv.),Enc. Dir., vol. XXVIII, Milano, 1978. Il problema della nullità vive nel dilemma tra ciò che accade (o che non accade) in fatto e quanto invece dovrebbe (o non dovrebbe) accadere in diritto (Tommasini, R., Nullità (dir. priv.), cit., 2); compresa l’eventualità che l’atto sia portato ad esecuzione o che la situazione di illiceità sia accettata o non contestata; e con la ulteriore variante che l’atto inefficace, a seconda dei casi, può essere “recuperato” dalla legge (come fatto) per combinarsi in un meccanismo produttivo di effetti ex lege.

[50] Cass. S. U. 4 settembre 2012, n.1428, che hanno espresso il seguente principio di diritto: alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale, e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti “ex actis”, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta); il giudice di merito, peraltro, accerta la nullità “incidenter tantum”, senza effetto di giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini, disponendo, in ogni caso, le pertinenti restituzioni, se richieste.

[51] Cons. St. sez. IV, 4 marzo 2011, n.1415; la quale evidenzia la delicatezza della valutazione cui è chiamato il giudice amministrativo in sede di ottemperanza laddove si tratta di individuare gli elementi sintomatici di un ipotetico sviamento di potere all’interno di un contesto in cui le valutazioni dell’Amministrazione, almeno nell’esercizio ordinario delle proprie attribuzioni, sono connotate da amplissima discrezionalità, anche in connessione con la rilevanza costituzionale dell’organo di autogoverno cui dette attribuzioni sono conferite dal legislatore; confermata da Cass. S. U. 19 gennaio 2012, n.736 per quanto concerne la sussistenza nella fattispecie della giurisdizione del giudice amministrativo; Corte cost. 31 ottobre 2012, n. 245, secondo cui il giudicato costituzionale è violato non solo quando il legislatore emana una norma che costituisce una mera riproduzione di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche laddove la nuova disciplina miri a «perseguire e raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti» (sentenze n. 223 del 1983, n. 88 del 1966 e n. 73 del 1963).

[52] Cons. St. Sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 369, che ritiene inadeguata la motivazione fornita dall’amministrazione nell’atto rinnovato a seguito di annullamento per difetto di motivazione, per essere stata del tutto obliterata la prospettiva giuridica sostanziale tracciata dalla decisione, non fornendo alcuna valida ragione del mancato ricorso alla precedente ed ancor valida graduatoria, eludendo pertanto le esigenze affermate dal “dictum” giudiziale.

[53] Per la legge tedesca sul procedimento l’atto nullo, invece, è ritenuto privo di efficacia.

[54] TAR Lazio Sez. I quater, 13 giugno 2012, n. 5360.

[55] TAR Calabria-Catanzaro n.923/2012.

[56] Per una ricostruzione aggiornata dell’azione di annullamento V. la citata sentenza Cons. di St. Sez. VI, n.717/2009.

[57] U. Borsi, Il silenzio della pubblica amministrazione, in G. I. 1893, IV, c.273, ove è riportato per intero l’intervento del sen. Cavallini.

[58] La prima decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, che ammette il ricorso nel caso di impugnativa avverso il provvedimento dell’autorità inferiore in quanto ritenuto tacitamente confermato dal ministro (essendo all’epoca necessario il provvedimento definitivo per ricorrere al giudice amministrativo) è del 22 agosto 1902, n. 429. In essa si precisa che proposto ricorso al ministro e non ottenendosi risposta per alcuni mesi e quindi l’interessato notifichi un atto invitandolo a decidere entro dieci giorni e non riceva risposta , non potrebbe non riconoscersi nel prolungato silenzio del superiore la determinazione di far proprio il provvedimento dell’autorità inferiore.

[59] Con la sentenza Cons. St. A. P. n.8/1960 il ricorso avverso il silenzio rifiuto è stato poi ritenuto di accertamento dell’illegittimità della mancata risposta della p.a. avendo il silenzio rifiuto solo effetti processuali, come avvertito dalla dottrina più avveduta (U. Forti, il silenzio della pubblica amministrazione e i suoi effetti processuali, in Studi di diritto pubblico, vol.II, 1937).

[60] Cons. St. sez. IV, 7 settembre 1928, n. 582. Orientamento che è considerato tuttora valido essendo stato recentemente precisato che non sussiste a carico della p.a. un obbligo giuridico di pronunciarsi su istanza diretta a sollecitarne l’esercizio del potere di autotutela, non essendo coercibile dall’esterno l’attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell’atto amministrativo mediante l’istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall’art. 117 c. p. a.) ; infatti, il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere (di recente, Cons. St. , VI, n. 4308 del 2010, sez. V n. 6995 del 2011, citate da Cons. St. sez. V, 3 ottobre 2012, n. 5199).

Alquanto diversa è la posizione della giurisprudenza della Cassazione in tema di autotutela tributaria, affermandosi che il contribuente che richiede all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi a dedurre eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto. Ne consegue che contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria (Cass. S. U. 6 febbraio 2009, n. 2870, e Cass. sez. V, 12 maggio 2010, n.11457).

[61] Cons. St., sez. VI, 18 maggio 1955, n. 352. Attualmente l’art. 6 l.n.241/1990 prevede che il responsabile del procedimento trasmette gli atti, ove non ne abbia la competenza, all’organo competente per l’adozione dell’atto.

[62] Cons. St., sez.IV, 4 dicembre 2012, n.6183.

[63] Cons. St. sez. IV 16 gennaio 1962, n. n.46, con nota contraria di F.G. Scoca, che correttamente ritiene necessario l’emanazione del provvedimento finale per escludersi il silenzio rifiuto, essendo insufficiente un’attività istruttoria o interlocutoria dell’amministrazione (Cons. St., 1962, p. 489 e segg.).

[64] E’ stato recentemente precisato (Cons. St. sez. IV, 22 giugno 2011, n.3798) che il preavviso di rigetto, essendo atto meramente interlocutorio finalizzato a stimolare il contraddittorio infraprocedimentale, non è idoneo ad assolvere l’obbligo dell’Amministrazione di concludere il procedimento con una determinazione espressa, come sancito dall’art. 2 della stessa legge nr. 241 del 1990.

[65] Cons. St. A. P. n.24/1940 e sez. V, 13 febbraio 1940, n. 74; sez. IV, 19 ottobre 1956, n.992.

[66] Cass., S.U., 28 novembre 2008, n. 28346.

[67] Cons. St., sez. VI, 29 ottobre 1951, n.534.

[68] Cons. St., Sez. IV, 10 ottobre 2007, n. 5311

[69] Le ipotesi in cui il giudice amministrativo può pervenire a tale condanna sono due:: la prima concerne i casi di attività vincolata in astratto, il che raramente si verifica in quanto in genere vi sono comunque aspetti discrezionali di competenza dell’amministrazione (TAR Calabria, 5 marzo 2011, n. 324) e la seconda riguarda le ipotesi di discrezionalità esaurita per effetto di scelte già effettuate dall’amministrazione in precedenza oppure per effetto di vincoli derivanti da accordi tra le parti (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 4 giugno 2014 n. 1347) o da attività istruttoria svolta nel corso del giudizio (TAR Lombardia – Milano, 8 giugno 2011, n.1428).

[70] Cons. St., sez. III , 18 febbraio 2013, n. 953.

[71] Cons. St., sez. V, 28 aprile 2014, n. 2184.

[72] La giurisprudenza è stata tradizionalmente contraria a riconoscere controinteressati nel ricorso avverso il silenzio rifiuto, per la semplice ragione che in tal caso difetta l’atto da impugnare e conseguentemente il beneficiario di esso, dal momento che appunto si chiede in giudizio l’accertamento dell’obbligo di emanare l’atto richiesto(Cons. St. sez. VI, 30 marzo 1982, n. 144. Però recentemente , una parte della giurisprudenza ha riconosciuto la necessità della notifica al controinteressato, identificato nel soggetto che, nei giudizi di accertamento, riceverebbe un pregiudizio immediato dall’accertamento dell’obbligo di provvedere (Cons. St. sez. IV, 9 agosto 2005, n. 4231), salvo la difficoltà pratica di individuarlo. Una ipotesi concreta di controinteressato è stata individuata nel soggetto nei cui confronti il ricorrente richiede all’amministrazione l’adozione di sanzioni con il rimedio del silenzio rifiuto (Cons. St. sez. V; 9 aprile 2014, n.1696).

[73] : Cons. St. sez. V, 5 dicembre 2013, n.5798.

[74] Cons. St. sez. III, 27 agosto 2013, n. 4276; 21 gennaio 2013, n. 329.

[75] Cass. S. U. 28 novembre 2008, n. 28346.

[76] Cons. St. sez. V, 27 marzo 2013 n. 1754; 17 gennaio 2011, n.2010, la quale ha precisato che l’art. 2 della l. n. 205/2000, che ha introdotto l’art. 21 bis della l. n. 1034/1971 in tema di ricorso avverso il silenzio serbato dall’amministrazione, poi confluito nell’art. 31 del c.p.a., non ha inteso creare un rimedio di carattere generale, esperibile in tutte le ipotesi di comportamento inerte della pubblica amministrazione, e pertanto sempre ammissibile indipendentemente dalla giurisdizione del G.A. (il quale si configurerebbe quindi come giudice del silenzio dell’Amministrazione), ma soltanto un istituto giuridico relativo alla esplicazione di potestà pubblicistiche correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio dell’attività amministrativa discrezionale.

[77] Cons. St. sez. V 14 aprile 2009, n. 2291.

[78] Cons. St. sezs. IV, 25 giugno 2007, n. 3602.

[79] V. Lopilato, Esecuzione e cognizione nel giudizio di ottemperanza, sito del Consiglio di Stato, novembre 2012.

Per la giurisprudenza anteriore al c.p.a. V. Cons. St. sez. VI, 30.12.2004, n. 8275 e sez. V 17 aprile 2002, n. 2006; Cass. sez. 3, 18.6.2003, n.9709, la quale ritiene che gli atti del commissario siano impugnabili innanzi al giudice dell’ottemperanza solo quando siano direttamente ricollegabili ad un’attività di conformazione al giudicato, ed invece soggetti all’ordinario controllo di legittimità, ove siano espressione di poteri discrezionali ultronei rispetto alla vicenda ottemperativa disegnata nel giudicato. Per cui la cd. teoria mista è ritenuta la più adeguata a comprendere l’istituto nella sua complessa tipicità, perché se, in buona sostanza, il commissario ad acta agisce quale longa manus del giudice ma sostituendosi alla p.a. per eseguire un giudicato, due elementi sono incontestabili: che nel momento genetico dell’investitura il commissario assume le vesti di organo ausiliario del giudice, ma, nel momento funzionale, pone in essere i provvedimenti omessi dall’amministrazione inottemperante, e pertanto agisce attraverso atti amministrativi che però, per la loro particolare collocazione nella vicenda rivolta all’ottemperanza sono impugnabili davanti al giudice amministrativo solo in sede di legittimità oppure anche di merito.

[80] Cons. St., sez. V, n.2006/2002, cit.

[81] In tal senso è la sentenza TAR Puglia-Lecce 18 settembre 2013, n. 1943, che ritiene necessario il ricorso ordinario nel caso in cui il giudicato abbia lasciato margini di discrezionalità nel compito affidato al commissario ad acta.

[82] L’orientamento giurisprudenziale antecedente al Codice in prevalenza riteneva inammissibili i motivi aggiunti proposti avverso il nuovo atto nel corso del giudizio sul silenzio rifiuto per incompatibilità con il rito accelerato del silenzio.(cons. St. sez. IV, 12 febbraio 2010 n. 773)

[83] Come è noto la nozione di azione di condanna non è pacifica. Per la tesi tradizionale la condanna deve essere preordinata alla formazione di un titolo esecutivo che consenta l’esecuzione forzata nelle forme previste dal c.p.c. Per la dottrina processualistica più recente invece sono azioni di condanna tutte quelle dirette ad imporre un comportamento specifico , che soddisfi la pretesa dell’interessato, indipendentemente dalla loro idoneità ad essere titolo esecutivo.In particolare, A. Proto Pisani ritiene che la condanna possa avere ad oggetto l’adempimento dell’obbligazione quale ne sia il contenuto, anche se non suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica, e che la condanna possa assolvere una funzione di tutela preventiva e non soltanto repressiva della violazione (Appunti sulla giustizia civile, la tutela di condanna, p. 170, 1982). A questa seconda nozione si è ispirato il c.p.a. che prevede la condanna della p.a. al rilascio del provvedimento richiesto nei limiti previsti dall’art. 31, 3° comma, e all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio ai sensi dell’art. 34. comma 1 lett. c, c.p.a.

[84] Cons. St., A.P., 26 ottobre 1953, n. 17. Il prof. Nigro ha espresso il proprio dissenso da tale orientamento giurisprudenziale osservando che non si era mai capito il motivo per cui il giudice amministrativo si dovesse limitare ad accertare come dovuta una somma di denaro e non potesse mai condannare l’amministrazione al pagamento di tale somma (Giustizia amministrativa, 1979.p.286).

[85] Cass., S.U., 13 giungno 2006, n. 13659.

[86] Cass., S.U., 23 dicembre 2008, n. 30254.

[87] E’ stato recentemente precisato (T.A.R. Lazio Sez. II quater, 26 febbraio 2014, n.2257)che nel caso del silenzio rifiuto (artt. 31 e 117 c.p.a.), accertata giudizialmente l’illecita violazione dei termini, la richiesta del ricorrente è circoscritta alla condanna dell’amministrazione a provvedere entro il termine “di regola” di trenta giorni o comunque entro altro termine assegnato all’ente dal giudice amministrativo per concludere il procedimento che lo vede diretto ed esclusivo interessato; nel caso di class action pubblica (art. 1 comma 1 d. l.vo n. 198 del 2009) la domanda giudiziale del ricorrente è molto più articolata e non è tesa ad ottenere la tempestiva conclusione del procedimento che lo riguarda, bensì è volta ad ottenere che d’ora in poi quell’amministrazione ponga fine al comportamento costantemente violativo delle regole imposte dall’ordinamento sul rispetto dei termini procedimentali, pretendendosi dal giudice amministrativo l’emanazione di un provvedimento giudiziale particolarmente penetrante e complesso nella sua attuazione da parte dell’Ente idoneo a rimuovere.

[88] Cons. St., A.P., nn.3 e 15 del 2011.

[89] Cons. St., sez. V, 9 ottobre 2013, n. 4968.