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RICCARDO NOBILE

Le competenze dei dirigenti degli enti locali territoriali ed il sindaco-ufficiale di governo nel D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. 
Un tentativo di riconduzione ad unità del sistema.

1.Introduzione.

La problematica della competenza dei dirigenti negli enti locali territoriali è specie del più ampio genere che vede contrapposti gli “atti di gestione”, funzionalmente attribuiti agli apparati burocratici, agli  “atti di governo”, ascritti in modo del tutto analogo agli organi di estrazione politica degli enti locali territoriali[1].

L’endiadi “atti di governo” - “atti di gestione” non è nuova per l’ordinamento: essa costituisce infatti il leit motive che sostanzia il più ampio principio di separazione fra organi politici ed organi burocratici, immanente all’ordinamento giuridico a partire dal D.Lgs. 3/2/1993 n. 29 [2].

Il principio, a ben vedere non nuovo neppure alla legge 8/6/1990 n.142 [3] [4], è stato prima ribadito de plano dall’art 27, comma 9 del D.Lgs. 25/2/1995 n. 77 nella sua formulazione originaria [5], e poi definitivamente trasfuso nella legge n. 25/5/1997 n. 127 [6], con cui è stato modificato, per quanto qui interessa, proprio l’art. 51 della legge 8/6/1990 n. 142, consolidando  in capo alla dirigenza degli enti locali territoriali la competenza all’adozione degli atti di gestione.

Sull’intera vicenda è intervenuto più volte il legislatore, dapprima con il D.Lgs. 31/3/1998 n. 80, in seconda battuta con la legge n. 18/6/1998 n. 191, ed in ultima istanza con la legge n. 31/8/1999 n. 265.

Con  il primo per ribadire che le competenze all’adozione di atti di gestione prima ascritti agli organi di governo dovevano ritenersi attribuiti tout court alla dirigenza. Con la seconda, per evidenziare che rientrano nella competenza dei dirigenti degli enti locali territoriali anche talune categorie di provvedimenti, fra cui  gli atti di vigilanza del territorio in materia urbanistica, nonché i provvedimenti di demolizione ed in genere i provvedimenti repressivi in subiecta materia. Con la terza per espungere dall’ordinamento la deliberazione a contrattare, di competenza giuntale, per sostituirla con la più agevole omonima determinazione, di competenza del dirigente [7].

Nonostante l’intendimento del legislatore, definitivamente chiarito con il D.Lgs. 31/3/1998 n. 80, non sono mancate vere e proprie involuzioni in materia, quali la previsione che gli organi di governo dell’ente locale possano assumere impegni di spesa, nel qual caso le relative deliberazioni devono essere munite del prescritto parere di regolarità contabile da parte del responsabile del servizio finanziario [8] o, cosa ancor più grave, che nei comuni con popolazione inferiore a 3000 abitanti il sindaco e gli assessori possano adottare atti di gestione in qualità di responsabili dei servizi [9], previa modifica del regolamento per la disciplina degli uffici e dei servizi.

In questo contesto si è inserito il legislatore con il D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 in attuazione dell’art. 31 della legge n. 31/8/1999 n. 265 [10], fonte normativa alla quale è immanente, fra gli altri, proprio il principio di separazione fra attività di gestione ed attività di governo.

Le disposizioni normative in tema di separazione dell’attività di governo dall’attività di gestione sono molteplici, e ricche di mutui rimandi al punto che esse danno corpo ad un complesso ordinamentale non pienamente lineare, non contribuendo certamente a far chiarezza sulla reale portata del principio, soprattutto nelle materie in cui il sindaco agisce in qualità di ufficiale del governo, ambito nel quale sono posti in essere provvedimenti ed attività imputate in via immediata non all’ente locale, ma allo stato [11].

Quanto appena evidenziato può essere argomentato in modo non semplice, ma almeno duplice.

In primo luogo, sottolineando che non sempre, nell’attuale assetto normativo complessivamente inteso, gli organi di governo, ed in particolare gli organi collegiali, adottano atti ai quali è immanente la natura di atti di indirizzo o di controllo politico-amministrativo, come esige l’art. 107, comma 1 del D.Lgs. n. 18/8/2000 n. 267 [12].

In secondo luogo, osservando che il legislatore, nella formulazione dell’art. 107 del D.Lgs. n. 18/8/2000 n. 267 non ha prestato sufficiente attenzione alle conseguenze logico-giuridiche derivanti dai richiami e dai rinvii cui l’articolato normativo può dare luogo se non correttamente inteso.

Ciò può essere mostrato osservando che l’art. 107, comma 5 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 prevede che a partire dall’entrata in vigore del testo in esame tutte le disposizioni che attribuivano la competenza all’adozione di atti di gestione ad organi di governo devono intendersi nel senso che “la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’art. 50, comma 3 e dall’art. 54”. Ed è proprio guardando alle disposizioni oggetto di rinvio che non possono non essere evidenziati indizi di possibile criticità ordinamentale.

Per ragioni di completezza sistematica, a quanto appena evidenziato è bene premettere un’importante notazione di sistema e di metodo, che condiziona l’intero modo di enucleare utili paradigmi atti ad individuare gli ambiti di competenza all’adozione di atti e provvedimenti negli enti locali territoriali.

Il problema cui si allude è, evidentemente, quello della demarcazione dei confini fra attività di gestione ed attività di governo. Nell’individuazione dell’estensione delle due specie di attività, a ben vedere, possono essere seguite due metodologie concettualmente differenti. Secondo una prima opzione, ognuna delle due specie di attività presenta caratteristiche peculiari sue proprie, talché la demarcazione fra di esse può essere declinata correttamente solo ricostruendo l’esatta natura dell’una e dell’altra. Secondo un’opzione alternativa, per contro, è sufficiente individuare l’estensione di una delle due attività, per inferire, a contrario, l’ambito dell’altra, poiché entrambe sono mutuamente esclusive e congiuntamente esaustive.

Fra le due opzioni di metodo delineate, quella da seguire è sicuramente la seconda.

Ciò può essere mostrato osservando che il legislatore, sin dall’art. 3 del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29, ha inteso proprio contrapporre le due tipologie di attività, definendo esemplificativamente le attività di gestione, ed enucleando l’attività di governo in termini di indirizzo politico e di controllo sull’attività degli apparati burocratici.

Fatta questa premessa, diviene evidente che tutte le attività che non sono riconducibili alle categorie dell’attività di indirizzo e programmazione, da un lato, ed all’attività di controllo sul conseguimento degli obiettivi ascritti ai responsabili della gestione, dall’altro, sono attività non di governo, ma gestionali, e come tali sottratte alla competenza degli organi politici.

Per gli enti locali territoriali, in particolare, la tesi che si vuole accreditare è confermata testualmente dall’art. 107, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, il quale individua le competenze dei dirigenti in modo non tassativo, ma esemplificativo [13]. L’art. 107, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 è quindi di particolare importanza sia per ciò che evoca, sia per ciò che indica.

Per ciò che evoca, in quanto le competenze dei dirigenti sono trattate direttamente in termini ascrittivi, e quindi di attribuzione necessaria, il cui titolo legittimante si rinviene direttamente nella legge, talché lo statuto ed i regolamenti altro far non possono se non indicare il modo dell’azione amministrativa, senza poterne modificare il titolo. Per ciò che indica, giacché all’attività di gestione non è affatto estranea la valutazione del pubblico interesse, come si ricava agevolmente dalla lettura della lettera f) dell’art. 107 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, il che equivale a dire che è del tutto falso pretendere di asserire che l’attività di gestione è priva di discrezionalità amministrativa.

 

2.    La sistematica delineata dall’ordinamento

Come precedentemente adombrato, in questa sede deve essere prestata particolare attenzione alla sistematica dei mutui rimandi cui dà luogo la formulazione letterale dell’art. 107, comma 5 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, il quale prevede che a partire dalla sua entrata in vigore tutte le disposizioni che attribuivano la competenza all’adozione di atti di gestione ad organi di governo devono intendersi nel senso che “la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’art. 50, comma 3 e dall’art. 54”.

Ora, guardando alle disposizioni oggetto di rinvio non possono non essere individuati evidenti indizi di problematicità.

Gli elementi di incongruenza che emergono dall’insieme dei rinvii sono vari.

In questa sede non importa tanto mostrare quali siano gli errori di stile nei quali è incorso il legislatore [14], quanto piuttosto evidenziare due ordini di considerazioni.

In primo luogo, deve esser rimarcato con forza che l’art. 107, comma 5 del D.Lgs. n. 18/8/2000 n. 267 esprime una norma sul riparto di competenze che, nel fare riferimento all’art. 50, comma 3, rinvia ad una normativa sub-primaria che non può in alcun modo derogare al modo di ripartire le competenze fra organi di governo ed organi burocratici[15]. Infatti, che lo statuto ed i regolamenti dell’ente locale, espressamente menzionati dalla norma di rinvio, possano derogare all’assetto delle competenze è tesi del tutto destituita di fondamento; e ciò sia che si ammetta che lo statuto è fonte ultralegislativa con riferimento alle norme non di principio[16], sia che si ammetta più pianamente che lo statuto è un atto puramente e semplicemente a natura regolamentare, e come tale affatto subordinato alla legge[17].

Così, dal primo punto di vista, lo statuto, ed a fortori i regolamenti, non possono derogare alle norme sul riparto di competenze e quindi al principio di separazione per l’ovvia ragione che tale materia è essa stessa ascritta a norme di principio [18].

Dal secondo punto di vista, per contro, l’immodificabilità discende pianamente dal rango subprimario dello statuto e dei regolamenti dell’ente locale rispetto alla legge, alla quale sola compete la regolamentazione del principio di separazione fra attività di indirizzo, riservata agli organi di governo, ed attività di gestione, ascritta in via esclusiva alla dirigenza.

Quanto appena elucidato rende immediatamente evidente che il richiamo all’art. 50, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 operato dal successivo art. 107, comma 5 è del tutto ultroneo, e, come tale, privo di conseguenze giuridiche in tema di riparto delle competenze fra organi di gestione ed organi di governo.

In secondo luogo, e questo è il problema che più propriamente interessa il presente lavoro, deve essere sottoposto ad attenta esegesi logico-giuridica l’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, per verificare, anche alla luce del precedente art. 14, quale sia il modo nel quale il sindaco esercita le proprie funzioni in qualità di ufficiale di governo.

 

 3. L’analisi dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

 Il problema evocato dall’interpretazione dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 è di principio, e, come tale, trasversale a tutte le funzioni che il sindaco esercita in qualità di ufficiale di governo.

In considerazioni di ciò, è di tutta evidenza che il problema della separazione dell’attività di indirizzo dall’attività di gestione, e quindi il problema della separazione delle competenze, debba essere affrontato e risolto in modo netto e possibilmente inequivoco.

L’analisi che qui interessa riguarda propriamente il comma 1 dell’art. 54, giacché le sue restanti articolazioni non presentano elementi di criticità ordinamentale di sorta in quanto che la competenza sindacale in materia di ordinanze contingibili ed urgenti sia impermeabile rispetto alle competenze dei dirigenti [19] è cosa che mai è stata revocata in dubbio. Infatti, la disposizione oggetto di rinvio che tratta degli atti contingibili ed urgenti adottabili dal sindaco in applicazione di una norma di chiusura dell’ordinamento, e nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, è fattispecie che con la separazione delle competenze nulla ha a che fare [20].

Per contro, non è immediatamente evidente come il sindaco debba o possa intervenire per assicurare l’esercizio delle funzioni delegate dallo stato, e nelle quali egli agisce non in qualità di capo dell’amministrazione locale, ma in quanto ufficiale del governo, e, come tale, immedesimato organicamente nell’amministrazione dello stato.

Le materie nelle quali in sindaco agisce in qualità di ufficiale del governo sono molteplici, variamente normate, e comunque menzionate espressamente dal combinato disposto degli artt. 14 e 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. Più in particolare, il sindaco agisce nella qualità de qua nelle materie in cui si articolano i servizi elettorali, di stato civile, di anagrafe, di leva militare, di statistica, nonché di ordine pubblico e di sicurezza pubblica, di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria nei limiti indicati dalla legge.

Dall’analisi dell’art. 54, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, e dal suo confronto con i successivi commi 2 e 3, si evince che il legislatore ha inteso differenziare i settori in cui il sindaco opera in qualità di ufficiale di governo in due grossi ambiti, solo nel secondo dei quali è ammissibile l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi in modo diretto.

Il caso a cui si allude è rappresentato, in primo luogo, dalla ordinanze contingibili ed urgenti tradizionalmente note come provvedimenti amministrativi che il sindaco adotta in casi in cui, nel solo rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento [21] non sia possibile provvedere in altro modo previsto per fare fronte ad eventi non previsti, né prevedibili [22].

Il caso cui si fa riferimento è poi, in secondo luogo, quello delineato dall’art. 54, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, che riproduce quanto già previsto dall’art. 38, comma 2 bis della legge 8/6/1990 n. 142, nel testo modificato dall’art. 11, comma 16 della legge 31/8/1999 n. 265, in materia di emergenze connesse all’inquinamento atmosferico o acustico.

In tutti i restanti casi, ossia in quelli di cui al combinato disposto degli artt. 14 e 54, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, al sindaco sono attribuiti, secondo la lettera della legge, non l’adozione di atti o di provvedimenti amministrativi, ma sole funzioni di sovrintendenza [23] all’esercizio delle relative funzioni, di cui il sindaco stesso è peraltro titolare. Le funzioni di sovrintendenza cui fa esplicito riferimento il legislatore attengono, di volta in volta, ad attività formalmente rilevanti, nelle quali è prevista l’adozione di atti o provvedimenti amministrativi, ovvero attività materiali, nelle quali rilevano, per contro, meri comportamenti.

Fatta la suddetta premessa, ciò che si intende evidenziare è che, nonostante la sua  formulazione solo apparentemente ambigua, l’art. 107, comma 5 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, non ha sottratto alla competenza dei dirigenti l’adozione degli atti e dei provvedimenti che devono essere adottati per garantire il soddisfacimento e la gestione delle funzioni di competenza statale demandate all’ente locale nella persona del sindaco.

Il sindaco, secondo il modello organizzatorio che si propone, è sì titolare delle funzioni ascrittegli in qualità di ufficiale di governo, ma non le può gestire con assunzione ed adozione in via diretta e personale dei relativi provvedimenti, salvi i soli casi di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

La gestione in concreto delle relative funzioni, pertanto, deve essere coniugata con il principio di separazione fra le attività di indirizzo e controllo politico, da un lato, e le attività di gestione, dall’altro. Il sindaco, che, giova ripeterlo, è titolare delle funzioni demandategli in qualità di ufficiale di governo, salvi i poteri di sovrintendenza sul loro esercizio, non può che gestirle attraverso i dirigenti o i titolari delle posizioni organizzative [24] da lui autonomamente nominati ai sensi dell’art. 50, comma 10 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

In definitiva, il riparto delle competenze fra organi di governo - e quindi anche del sindaco in qualità di ufficiale di governo - e dirigenti è riservato alla legge ed ad essa sola, con la conseguenza che lo statuto ed i regolamenti possono solo indicare come le competenze delle due tipologie di organi sono esercitabili, talché se la legge ed essa sola è il topos della titolarità della competenza - e quindi unico momento della legittimazione -, la normativa sublegislativa endocomunale può essere solo il suo modus.

La sistematica che inerisce alla materia de qua può essere ricondotta ad unità osservando poi che qualunque disposizione antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 che prevedesse la competenza all’adozione di atti di gestione da parte di un organo di governo - e quindi anche del sindaco -  deve essere intesa siccome de iure riferita al dirigente. L’effetto del principio così enucleato è evidente. Tutte le disposizioni normative che individuavano nel sindaco l’organo competente all’adozione di un determinato provvedimento subiscono gli effetti mutanti voluti dal legislatore.

La modificazione dell’assetto delle competenze, poi, può essere disposta solo dal legislatore in modo esplicito, e solo per determinate materie, in applicazione dell’art. 107, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, ma ciò solo per fattispecie tali nominate e solo temporalmente dopo l’entrata in vigore della normativa da ultimo citata.

Ciò che si intende evidenziare è che il legislatore ben può attribuire al sindaco la competenza funzionale all’adozione di atti e provvedimenti amministrativi, posto che il principio della necessaria separazione fra attività di gestione ed attività di governo non sembra godere di un’esplicita copertura costituzionale, anche se è di indubbia evidenza che sia espressione del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost [25].

In questa direzione ha operato il legislatore, ad esempio, con l’art. 4 bis del D.P.R. 20/3/1967 n. 223 nel testo modificato dall’art. 26 della legge 24/11/2000 n. 340, che ha demandato al sindaco dei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti la titolarità dell’ufficio elettorale in luogo della Commissione elettorale comunale per la tenuta e l’aggiornamento delle liste elettorali [26].

 

 

[1] Della competenza dei dirigenti degli enti locali nella vigenza del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 si è già avuto modo di trattare in un precedente apporto: Nobile, La competenza dei dirigenti negli enti locali territoriali dopo il D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 fra autoreferenzialità e contraddizioni. Un tentativo di soluzione

[2] Per chiarezza, ed anche perché è stata la prima disposizione normativa in subiecta materia vale la pena di riportare il testo dell’art.3, commi 1 e 2  del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29: “Gli organi di governo definiscono gli obiettivi ed i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite. Ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e d amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei relativi risultati”.

[3] La formulazione originaria dell’art. 51 della legge 8/6/1990 n.142 consentiva di introdurre per via statutaria o regolamentare il principio di separazione di cui è caso. La normativa attuale, ed in primis la legge n. 25/5/1997 n. 127, lo hanno introdotto senza la mediazione di atti regolamentari dell’ente locale territoriale, i quali semmai disciplinano non il se, ma il come dell’esercizio delle competenze gestionali dei dirigenti.

[4] La norma rilevante era allora l’art. 51, comma 3 della legge 8/6/1990 n. 142, secondo la quale “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che le legge e lo statuto non riservino espressamente agli organi di governo dell’ente”.

[5] La norma ribadiva sostanzialmente il principio secondo cui il passaggio della competenza all’adozione di atti di gestione da parte dei responsabili dei servizi era mediato dall’adozione di regolamenti, e più precisamene del regolamento di contabilità: “il regolamento di contabilità disciplina le modalità con le quali i responsabili dei servizi …. assumono atti di impegno”.

[6] La legge 25/5/1997 n. 127 equipara ai fini che qui interessano i dirigenti, tali perché contrattualizzati, ai responsabili di servizio, i quali nell’attuale assetto delle qualifiche professionali, sono ascritti, di regola al percorso “D”- essendo ex 7^ od 8^ livelli nella logica delle pregresse qualifiche funzionali.

[7] Sulla vicenda è intervenuto a scopo chiarificatorio il Ministero dell’interno, il quale con le proprie circolari in materia ha evidenziato più volte che la competenza all’adozione degli atti di gestione da parte dei vertici burocratici degli enti locali trova il proprio titolo direttamente nella legge, e non richiede affatto l’intermediazione di atti di fonte regolamentare comunque connotati. La tesi è da condividere appieno, giacché in subiecta materia il legislatore ha sempre parlato di competenze attribuite, con ciò volendo proprio denotare e connotare l’immediatezza della fonte del passaggio delle competenze.

[8] La giustificazione della deroga al generale principio secondo cui gli impegni di spesa sono atti di competenza dirigenziale è raffazzonata: la tesi secondo cui in caso contrario si renderebbe necessaria l’adozione di due provvedimenti distinti, uno di indirizzo ed uno di impegno  non può essere obliterata da mere ragioni pratiche. Il diritto ha a che fare con il dover essere, e non con un essere che tale si presenta in casi marginali, quasi sempre dovuti alla mancanza di reale capacità di programmazione da parte degli organi di governo. I casi cui si intende porre rimedio con questo vero e proprio svarione logico-giuridico, sono i soliti casi di confine: le resistenze in giudizio, l’attribuzione di contributi et similia. Quanto alla rappresentanza in giudizio dell’ente, gli enti locali devono dettare norme specifiche in sede statutaria ai sensi dell’art. 6, comma 2 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. Il criterio più ragionevole in subiecta materia sembra essere quello di riservare agli organi di governo la competenza a promuovere e resistere a giudizi avverso i propri atti, lasciando i singoli dirigenti liberi se resistere o meno in giudizio avverso i propri provvedimenti determinativi ovvero gli altri provvedimenti comunque denominati purché di loro competenza ai sensi dell’art.107, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. In questo senso, del resto, si esprime l’art. 16 del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29 con riferimento alle prerogative dei direttori generali delle amministrazioni dello stato ed ai soggetti ed essi equiparati.

[9] Una vera e propria involuzione normativa è quella che è stata di decente consumata con l’approvazione dell’art. 53, comma 23 della legge 28/8/2000 n. 338, con la quale il legislatore ha consentito di demandare la responsabilità dei servizi agli assessori ed al sindaco nei comuni con popolazione inferiore ai 3000 abitanti. Su tutto ciò, Nobile, I responsabili dei servizi nei comuni con popolazione inferiore a 3000 abitanti fra il D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 e la legge 23/12/2000 n. 388. Una querelle mai sopita, in “www.giust.it”, 2001, Barusso, Competenze gestionali a sindaco ed assessori, in “Prime note”, 2001, 184, Nobile, I responsabile dei servizi nei comuni con popolazione inferiore a 3000 abitanti fra il D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 e la legge 23 dicembre 2000 n. 388. L’art. 53, comma 23 introduce un’irrazionale, incoerente e contraddittoria deroga al principio di separazione delle competenze, in “Prime note, Livorno, 2001, 189, Maccapani, Commento all’art. 53, comma 23 della legge 338/2000, in “Prime note” 2001, 181 .

[10] Nel corso del lavoro non si intende usare la locuzione “testo unico” volutamente e di proposito, in quanto il D.Lgs. 18/8/200 n. 267 è ben lungi dal condividere la natura che a tale forma compilativa si addice così come previsto dalla relativa legge-delega..

[11] Quando il sindaco opera in qualità di ufficiale di governo, il principio di immedesimazione organica che lo avvince rende imputabile la sua attività non al comune, ma direttamente allo stato. Ciò rende particolarmente attuale il problema se nelle materie de quibus il titolare della funzione ne sia anche il gestore in via provvedimentale.

Sulla figura del sindaco in qualità di ufficiale del governo la letteratura è ampia. Per tutti, Virga, L’amministrazione locale, Giuffrè, Milano, 1991, 133; Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali 1990 – 2000. Dieci anni di riforme, Maggioli, Rimini, 2000, 940; Sorge, Il governo dell’ente locale. Attribuzioni e competenze del sindaco e della giunta, in “Comuni d’Italia”, 1999, 1343; Alberti, Il sindaco ufficiale del governo. Storia e problemi, Giappichelli, Torino, 1994, 108; Marchese, Il sindaco quale località locale di p.s. nella normativa vigente, “Nuova rass.”, 1993, 2393.

Nella vigenza del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, delle funzioni del sindaco in qualità di ufficiale del governo si occupano gli artt. 14 e 54. Per un commento sistematico in subiecta materia, AA.VV., Commento al Testo Unico in materia di ordinamento degli enti locali, Maggioli, Rimini, 2000, 133 e 238.

[12] Non è questa la sede per discutere se tutta una serie di provvedimenti che sono demandati alla competenza degli organi di governo siano davvero atti non di gestione. Per tutti, vale la pena di menzionare l’approvazione delle progettazioni esecutive di opera pubblica, alle quali tutto è proprio, fuorché la natura di atti a contenuto politico.

[13] Secondo l’art. 107, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, “Sono attribuiti ai dirigenti tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi (… gli organi di governo di cui al comma precedente …) tra i quali, in particolare ……”

[15] I dirigenti ed i responsabili di servizio sono veri e propri organi dell’ente locale territoriale, in quanto, in forza del principio di immedesimazione organica, formano la volontà dell’ente nel quale sono strutturati.

[16] E’ questa la tesi cosiddetta “municipalista”, secondo la quale lo statuto, con il solo rispetto delle norme di principio ora espresse dal D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 – ma i discorso era sostanzialmente lo stesso nella vigenza della legge 8/6/1990 n. 142 -, ha efficacia derogatoria rispetto alla legge ordinaria, prevalendo su di essa ratione materiae, in quanto rinveniente il proprio fondamento non nella legge, ma direttamente nel combinato disposto degli artt. 5 e 128 Cost., con l’effetto di abrogare implicitamente l’art. 4 delle disposizioni preliminari al codice civile (le “preleggi”). Per tutti si veda Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Maggioli, Rimini, 2000, 145.

[17] Lo statuto, in realtà, ha il proprio fondamento non nella norma costituzionale, ma nella legge, e più propriamente nell’art. 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. La sua natura giuridica è di tipo regolamentare e solo per scelta legislativa, sovraordinato ai regolamenti propriamente e tradizionalmente detti. Esso in quanto sott’ordinato alla legge non deroga affatto all’art. 4 delle “preleggi”, con la conseguenza che soggiace sia alla legge, sia ai regolamenti governativi come tutti i regolamenti locali.

[18] Secondo l’art. 107, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 “Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’art. 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.

[19] D’ora in poi il riferimento ai vertici burocratici dell’ente locale sarà attualizzato in riferimento ai soli dirigenti contrattualizzati. Nelle realtà locali in cui tali figure mancano, le loro attribuzioni sono disbrigate dai responsabili dei servizi, che il sindaco nomina ai sensi del combinato disposto degli artt. 50, comma 10 e 109, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

[20] Per contro, molto hanno a che fare con la problematica de qua i cosiddetti atti urgenti e necessitati, i quali non hanno il loro fondamento nei poteri di ordinanza di cui è caso. Negli atti necessitati, la norma legittimante la loro adozione indica con precisione che cosa deve essere fatto allorché si verifichi la necessità urgente di procedere e provvedere, talché il loro contenuto è precostituito dalla legge. L’atto necessitato, pertanto, è un atto di gestione di competenza del dirigente preposto al plesso interessato. Diverso concettualmente è il caso del potere di ordinanza, nel quale alla necessitas urgens di procedere e provvedere si fa fronte mediante un provvedimento amministrativo il cui contenuto non è previsto in modo specifico da alcuna norma giuridica, talché l’ordinanza  “od è emessa in deroga al diritto, nel senso che il provvedimento viene adottato per la disciplina di una fattispecie non espressamente prevista dall’ordinamento (ed a questo proposito si parla di residualità delle ordinanze d’urgenza), ovvero essa viene adottata in deroga a specifiche norme che prevedono per quella fattispecie, in condizioni di ‘normalità’, una differente disciplina. In vario senso, quindi, le ordinanze di urgenza hanno carattere necessariamente derogatorio”. Su tutto ciò, testualmente, Nobile, Note intorno al potere di requisizione della proprietà privata ex art. 7 della legge di abolizione del contenzioso, in “Uff. tecn.”, 1990, 1410. Se le norme ascrittive dei poteri di ordinanza contingibile ed urgente consentono di derogare, nell’ambito del relativo potere, ad un numero tendenzialmente indeterminato di norme nel solo rispetto dei principi generali dell’ordinamento, gli atti necessitati si limitano ad evidenziare cosa in un caso in cui è necessario procedere con urgenza è possibile o doveroso fare previa adozione di un provvedimento amministrativo, laddove è evidente che esso non dispone in deroga a norme giuridiche, ma attualizza per quella data fattispecie proprio il contenuto di una specifica norma. Su tutto ciò, Rescigno, Ordinanza e provvedimenti di necessità e di urgenza, in Novissimo Digesto, U.T.E.T., Torino, 1968, XII, 93.

[21] In questo senso si è più volte espressa la Corte costituzionale investita della questione di costituzionalità delle norme ascrittive del relativo potere.

[22] Sulle ordinanze contingibili ed urgenti la letteratura è davvero copiosa.

Per le dovute precisazioni sul potere di ordinanza, Rescigno, Ordinanza e provvedimenti di necessità e di urgenza, in Novissimo Digesto, U.T.E.T., Torino, 1968, XII, 89, nonché il fondamentale Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in “giur.compl.cass.civ.”, 1948, XXVII, 386.

Per l’analisi più specifica delle ordinanze contingibili ed urgenti, Aimonetto, Le ordinanze del sindaco, Maggioli, Rimini, 1991; Nobile, Note intorno al potere di requisizione della proprietà privata ex art. 7 della legge di abolizione del contenzioso, in “Uff. tecn.”, 1990, 1409; Virga, L’amministrazione locale, Giuffrè, Milano, 1991, 135.

[23] Il concetto è ben compendiato da Iudicello, in Paolini-Saija-Santucci (ed.), Il comune. Manuale sull’organizzazione, le attività, le funzioni, Prime note, Livorno, 1999, 219, il quale osserva che mentre nella logica dei testi unici il sindaco era destinatario dell’incarico di svolgere le funzioni di ufficiale di governo sotto la sorveglianza delle autorità superiori, “nel nuovo ordinamento il sindaco, invece, non e più ‘incaricato’, ma ‘sovrintende’ all’esecuzione dei servizi di competenza statale. Nella differente formulazione adottata dal legislatore della riforma deve cogliersi la scelta che distingue la responsabilità del sindaco dall’effettiva esecuzione delle attività, che, invece, compete alla struttura burocratica, non più sotto la direzione, ma nel rispetto delle disposizioni della legge e dei regolamenti”.

[24] I titolari di posizioni organizzative sono i soggetti indicati dall’art. 11 del c.c.n.l. del 31/3/1999 per il comparto enti locali, tuttora vigente per la parte non modificata dal c.c.n.l. 1/4/1999 e dal successivo c.c.n.l. 14/9/2000.

[25] A proposito del principio di buon andamento ed imparzialità deve essere osservato che  se è ovvio che l’attività della pubblica amministrazione è  assoggettata alla legge, non meno ovvio è che la legge non può prevedere discipline particolari che inficino il principio di buon andamento ed imparzialità. Il soddisfacimento dei due principi, infatti, presuppone sì l’intervento del legislatore con atti aventi forza di legge, con ciò soddisfacendo quanto previsto dall’art.  97, comma 1, prima parte Cost. La norma, però, non può introdurre elementi di disturbo al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa, né può contenere elementi di irragionevolezza, a pena di contrastare con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. nell’interpretazione che di esso è stata data dalla Corte costituzionale. Nel disegno complessivo attuato dalla Costituzione, la produzione normativa in materia di organizzazione degli uffici pubblici, infatti, non è fine a sé stessa, ma deve essere funzionalizzata ad assicurare “il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”, determinando, fra l’altro, “le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari” (art. 97, comma 2 Cost.).

[26] La disposizione, proprio in considerazione di quanto evidenziato nella nota precedente, è fortemente criticabile, in quanto il legislatore avrebbe dovuto, in modo più coerente con il principio di separazione, puramente e semplicemente abolire la commissione elettorale tout court ed attribuire la titolarità del relativo ufficio al dirigente nominato dal sindaco ai sensi dell’art. 50, comma 10 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, operante nell’ambito della sovrintendenza di cui all’art. 54, comma 1.

Il non aver proceduto in questo senso è un chiaro indice della confusione sulla materia, nella quale neppure il legislatore mostra di avere le idee chiare.


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