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RICCARDO NOBILE

La competenza dei dirigenti negli enti locali territoriali dopo il D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 fra autoreferenzialità e contraddizioni. 
Un tentativo di soluzione.

Introduzione.

La problematica della competenza dei dirigenti negli enti locali territoriali è specie del più ampio genere che vede contrapposta la legittimazione all’adozione degli atti di gestione piuttosto che gli atti di indirizzo, altrimenti detti “atti di governo”.

L’endiadi “atti di governo” – “atti di gestione” non è nuova per l’ordinamento: essa costituisce infatti il leit motive che sostanzia il più ampio principio di separazione fra organi politici ed organi burocratici, immanente all’ordinamento giuridico a partire dal D.Lgs. 29/1993.

Il principio, non nuovo neppure alla legge n. 142/1990[1], è stato definitivamente trasfuso nella legge n. 127/1997[2], con cui è stato modificato, per quanto qui interessa, proprio l’art. 51 della legge n. 142/1990, radicando in capo alla dirigenza degli enti locali territoriali l’adozione degli atti di gestione.

Sull’intera vicenda è intervenuto più volte il legislatore, dapprima con il D.Lgs. n. 80/1998, in seconda battuta con la legge n. 191/1998, ed in ultima istanza con la legge n. 265/1999.

Con  il primo per ribadire che le competenze all’adozione di atti di gestione prima ascritti agli organi di governo dovevano ritenersi trasferiti tout court in capo alla dirigenza. Con la seconda, per evidenziare che rientrano nella competenza dei dirigenti degli enti locali territoriali anche talune categorie di provvedimenti, fra cui  gli atti di vigilanza del territorio in materia urbanistica, nonché i provvedimenti di demolizione ed in genere i provvedimenti repressivi in subiecta materia. Con la terza per espungere dall’ordinamento la deliberazione a contrattare, di competenza giuntale, per sostituirla con la più agevole omonima determinazione, di competenza del dirigente.

Non sono però mancate vere e proprie involuzioni ontologico-sistematiche, quali l’ammissione che gli organi di governo dell’ente locale possano assumere impegni di spesa, nel qual caso le relative deliberazioni devono essere munite del prescritto parere di regolarità contabile da parte del responsabile del servizio finanziario[3].

Segno evidente, questo, che il trapasso delle competenze, o per meglio dire della legittimazione all’adozione di tutta una serie di atti sia provvedimentali, sia negoziali, è stato connotato in modo negativo dalla prassi applicativa, ed in particolare modo dalla classe politica per motivi francamente più che misteriosi.

L’articolato normativo.

In questo contesto si è inserito il legislatore con l’adozione del D.Lgs. 267/2000, predisposto in attuazione di quanto disposto dall’art. 31 della legge n. 265/1999[4].

Le disposizioni normative in tema di separazione dell’attività di governo dall’attività di gestione sono molteplici, e ricche di mutui rimandi, che danno corpo ad un assetto logico-giuridico di tipo confusionale, che non contribuisce certo a dare compiuta realizzazione al principio in esame.

Quanto appena evidenziato può essere mostrato argomentando in modo non semplice, ma almeno duplice.

In primo luogo, è possibile evidenziare che non sempre, nell’attuale assetto normativo complessivamente inteso, gli organi di governo a composizione collegiale adottano atti ai quali è immanente la natura di atti di indirizzo o di controllo politico-amministrativo, come sembra di primo acchito esigere l’art. 107, comma 1 del D.Lgs. n. 267/2000.

V’è infatti da chiedersi come si possa sostenere che l’approvazione di un progetto preliminare, definitivo ed esecutivo abbia natura di atto di programmazione indirizzo o di programmazione, pacifico essendo che essi sono oggetto di approvazione giuntale. Parimenti più che scontato è chiedersi se tale natura l’abbia l’adozione o la modificazione di una pianta organica, anch’essa rientrante nella competenza della giunta[5].

In secondo luogo, osservando che il legislatore, nella formulazione dell’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000 non ha prestato sufficiente attenzione alle conseguenze logico-giuridiche derivanti dai richiami e dai rinvii cui l’articolato normativo dà luogo.

Ciò può essere mostrato osservando che l’art. 107, comma 5 del D.Lgs. n. 267/2000 prevede che a partire dall’entrata in vigore del testo in esame tutte le disposizioni che attribuivano la competenza all’adozione di atti di gestione ad organi di governo devono intendersi nel senso che “la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’art. 50, comma 3 e dall’art. 54”.

Ora, guardando alle disposizioni oggetto di rinvio non possono non essere individuati evidenti indizi di problematicità.

Gli elementi di incongruenza.

Gli elementi di incongruenza che emergono dall’insieme dei rinvii sono vari.

In primo luogo, l’art. 107, comma 5 del D.Lgs. n. 267/2000, rinviando all’art. 50, comma 3, evidenzia un primo elemento di criticità, in quanto introduce un principio di autoreferenzialità e conseguenze non ammissibili per l’ordinamento.

Il primo elemento di criticità può essere mostrato osservando che la disposizione che esperisce il rinvio, l’art. 107, comma 5, è esso stesso oggetto di rinvio da parte della disposizione cui fa riferimento , l’art. 50, comma 3, per l’appunto.

Il secondo, più serio, può essere mostrato osservando che l’art. 107, comma 5 del D.Lgs. n. 267/2000, che esprime una norma sul riparto di competenze, nel fare riferimento all’art. 50, comma 3, rinvia a normativa sub-primaria che non può in alcun modo derogare al modo di ripartire le competenze fra organi di governo ed organi burocratici [6].

Che lo statuto ed i regolamenti dell’ente locale, espressamente menzionati dalla norma oggetto di rinvio, possano derogare all’assetto di competenze è tesi del tutto destituita di fondamento; e ciò sia che si ammetta che lo statuto è fonte ultralegislativa con riferimento alle norme non di principio[7], sia che si ammetta più pianamente che lo statuto sia un atto puramente e semplicemente a natura regolamentare, e come tale affatto subordinato alla legge[8].

Così, dal primo punto di vista, lo statuto, ed a fortori i regolamenti, non possono derogare alle norme sul riparto di competenze e quindi al principio di separazione per l’ovvia ragione che tale materia è essa stessa ascritta a norme di principio (cfr: art. 107, comma 4 del D.Lgs. n. 267/2000).

Dal secondo punto di vista, per contro, l’immodificabilità discende pianamente dal rango subprimario dello statuto e dei regolamenti dell’ente locale rispetto alla legge, alla quale sola compete la regolamentazione del principio di separazione fra attività di indirizzo, riservata agli organi di governo, ed attività di gestione, ascritta in via esclusiva alla dirigenza.

Se il primo problema, ossia quello della autoreferenzialità, non induce problemi nell’ordinamento, se non mere notazioni di stile, il secondo mette capo a conseguenze del tutto inaccettabili.

Qualche problema è indotto anche dall’art. 48, comma 2 del D.Lgs. n. 267/2000, in materia di competenze della giunta comunale e provinciale.

Qui deve essere solo osservato che la giunta è vista dal legislatore in modo composito, in quanto se da un lato essa svolge funzioni di  autentico indirizzo ogniqualvolta opera come organo di programmazione subprimaria, come accade per l’approvazione dello schema di bilancio (art.174, comma 1), del piano esecutivo di gestione (art. 169, comma 1), del piano triennale per le assunzioni (art. 91, comma 1), o di controllo politico lato sensu quando approva la relazione di efficacia ed efficienza allegata al rendiconto di gestione (art.151, comma 6), talaltra agisce come organo che né indirizza, né gestisce, come quando approva i progetti preliminari, definitivi ed esecutivi di un’opera pubblica[9].

Il tentativo di soluzione.

Alla luce delle considerazioni evidenziate, è di tutta evidenza che il problema della separazione dell’attività di indirizzo dall’attività di gestione, e quindi il problema della separazione delle competenze, debba essere affrontato e risolto in modo netto e possibilmente inequivoco.

Per far ciò occorre guardare alla normativa nel suo complesso. Il che consente di giungere alle seguenti conclusioni.

In primo luogo, il rinvio operato dall’art. 107, comma 5 del D.Lgs. n. 267/2000 all’art. 54 non induce alcun problema, né di ordine teorico-dogmatico, né di tipo pratico.

La disposizione oggetto di rinvio tratta degli atti contingibili ed urgenti adottabili dal sindaco in applicazione di una norma di chiusura dell’ordinamento, e nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, ipotesi che con la separazione delle competenze nulla ha a che fare.

In secondo luogo, il rinvio operato dall’art. 107, comma 5 del D.Lgs. n. 267/2000 all’art. 50, comma 3 deve essere chiaramente considerato ultroneo e giuridicamente errato, in considerazione delle aporie che introdurrebbe nell’ordinamento come sopra mostrato.

In terzo luogo, parimenti inutile si palesa il richiamo operato dall’art. 50, comma 4 alle funzioni attribuite al sindaco quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge. La disposizione, evidentemente brachilogica, è di nessuna utilità, in quanto le conseguenze che da essa si possono trarre possono essere dedotte dall’art. 107, comma 4 del D.Lgs. n. 267/2000, autentica chiave di volta del problema.

In quarto luogo, come è facilmente intuibile, il problema del riparto delle competenze, e quindi il problema della separazione fra attività di indirizzo ed attività di gestione, deve essere visto proprio alla luce del quarto comma dell’art. 107 del D.Lgs. n. 267/2000, da leggere in combinato disposto con il suo quinto comma.

Le  norme che da tali disposizioni si desumono, infatti, enucleano una serie di principi guida, che possono essere così compendiati.

Così, il riparto delle competenze fra organi di governo e dirigenti è riservato alla legge ed ad essa sola, con la conseguenza che lo statuto ed i regolamenti possono solo indicare come le competenze delle due tipologie di organi sono esercitabili, talché se la legge ed essa sola è il topos della titolarità della competenza – e quindi unico momento della legittimazione -, la normativa sublegislativa endocomunale è il suo modus.

Qualunque disposizione antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267/2000 che prevedesse la competenza all’adozione di atti di gestione da parte di un organo di governo, poi,  deve essere intesa siccome de iure riferita al dirigente. L’effetto del principio così enucleato è evidente. Tutte le disposizioni normative che individuavano nel sindaco o nella giunta l’organo competente all’adozione di un determinato provvedimento subiscono gli effetti mutanti voluti dal legislatore.

Il terzo comma dell’art. 50, in tal modo, non può essere usato per determinare la sopravvivenza di alcuna competenza in capo al sindaco[10] (o al presidente della provincia).

La modificazione dell’assetto delle competenza, infine, può essere disposta solo dal legislatore in modo esplicito, e solo per determinate materie, in applicazione dell’art. 107, comma 4 del D.Lgs. n. 267/2000. Ma ciò solo per fattispecie tali nominate dopo l’entrata in vigore della normativa da ultimo citata.


[1] La formulazione originaria dell’art. 51 della legge 142/1990 consentiva di introdurre per via statutaria o regolamentare il principio di separazione di cui è caso. La normativa attuale, ed in primis la legge n. 127/1997, lo hanno introdotto senza la mediazione di atti regolamentari dell’ente locale territoriale, i quali semmai disciplinano non il se, ma il come dell’esercizio delle competenze gestionali dei dirigenti.

[2] La legge n. 127/1997 equipara ai fini che qui interessano i dirigenti, tali perché contrattualizzati, ai responsabili di servizio, i quali nell’attuale assetto delle qualifiche professionali, sono ascritti, di regola al percorso “D”- essendo ex 7^ od 8^ livelli nella logica delle pregresse qualifiche funzionali.

[3] La giustificazione della deroga al generale principio secondo cui gli impegni di spesa sono atti di competenza dirigenziale è raffazzonata: la tesi secondo cui in caso contrario si renderebbe necessario l’adozione di due provvedimenti distinti, uno di indirizzo ed uno di impegno  non può essere obliterata da mere ragioni pratiche. Il diritto ha a che fare con il dover essere, e non con un essere che tale si presenta in casi marginali, quasi sempre dovuti alla mancanza di reale capacità di programmazione da parte degli organi di governo. I casi cui si intende porre rimedio con questo vero e proprio svarione logico-giuridico, sono i soliti casi di confine: le resistenze in giudizio, l’attribuzione di contributi et similia.

[4] Nel corso del lavoro non si intende usare la locuzione “testo unico” volutamente e di proposito, in quanto il D.Lgs. n. 267/2000 è ben lungi dal condividere la natura che a tale forma compilativa si addice.

[5] Il riferimento a tali congerie di argomenti non è peregrino. Per convincersi di ciò è sufficiente ricordare che il consiglio dell’ente locale territoriale approva, per competenza espressa, tutta una serie di atti che davvero hanno natura di atti di indirizzo, di programmazione, di pianificazione e di controllo politico. La giunta, seppur organo a competenza residuale, per contro, approva provvedimenti il cui oggetto non è sicuramente di tal fatta. Esso altro non è, perché propriamente è altro. Cosa poi sia, in un sistema di separazione fra atti di gestione ed atti di indirizzo e di controllo politico non è dato di sapere.

[6] I dirigenti ed i responsabili di servizio sono veri e propri organi dell’ente locale territoriale, in quanto, in forza del principio di immedesimazione organica, formano la volontà dell’ente nel quale sono strutturati.

[7] E’ questa la tesi cosiddetta “municipalista”, secondo la quale lo statuto, con il solo rispetto delle norme di principio ora espresse dal D.Lgs. n. 267/2000 – ma i discorso era sostanzialmente lo stesso nella vigenza della legge n. 142/1990 -, ha efficacia derogatoria rispetto alla legge ordinaria, prevalendo su di essa ratione materiae, in quanto rinveniente il proprio fondamento non nella legge, ma direttamente nel combinato disposto degli artt. 5 e 128 Cost., con l’effetto di abrogare implicitamente l’art. 4 delle disposizioni preliminari al codice civile (le “preleggi”). Per tutti si veda Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Maggioli, 2000, 145.

[8] Lo statuto, in realtà, ha il proprio fondamento non nella norma costituzionale, ma nella legge, e più propriamente nell’art. 6 del D.Lgs. n. 267/2000. La sua natura giuridica è di tipo regolamentare e solo per scelta legislativa, sovraordinato ai regolamenti propriamente e tradizionalmente detti. Esso in quanto sott’ordinato alla legge non deroga affatto all’art. 4 delle “preleggi”, con la conseguenza che soggiace sia alla legge, sia ai regolamenti governativi come tutti i regolamenti locali.

[9] Per la verità non manca chi ritiene che l’approvazione del progetto esecutivo debba essere ascritta al dirigente capo dell’ufficio tecnico, in quanto si tratta di un atto meramente consequenziale al progetto definitivo. La tesi è inconsistente, in quanto talvolta nell’approvazione del progetto esecutivo sono immanenti scelte che non si presentano alla stregua di mere conseguenze logiche, come accade quando in sede di approvazione del progetto esecutivo si replica alle osservazioni dei privati incisi dalle procedure espropriative presentate ai sensi dell’art. 10 della legge n. 865/1971.

[10] Ciò consente di risolvere annosi problemi quali quello della competenza all’adozione dell’ordinanza-ingiunzione o del decreto di archiviazione in tema di sanzioni amministrative ai sensi della legge di depenalizzazione n. 869/1981: il riferimento al sindaco è superato, giacché la competenza è ora radicata in capo al dirigente. Il problema, semmai, diviene quello di individuare il dirigente competente.

Analogamente per quanto attiene agli atti necessitati, ossia agli atti non normativi a carattere generale, che sono previsti, per tipologia e contenuto da specifiche norme di settore.


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