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(Dottoranda
di ricerca Università di Bari, Facoltà di Economia)
Riflessioni
sulla nuova frontiera della
risarcibilità degli interessi legittimi
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1.-
Analisi di metodo.
L’analisi che
segue vuole essere un primo approccio di verifica della correttezza metodologica
e di contenuto che ha condotto la Suprema Corte a rivoluzionare le regole del
risarcimento del danno ingiusto con la sentenza 22
luglio 1999 n. 500, ormai ben nota.
A tal fine occorre fornire una rappresentazione dei fatti urbanistici, oggetto della vicenda giuridica, e del tempo nel quale si collocano.
Era accaduto che un soggetto proprietario di aree aveva convenuto in giudizio nel 1996 un comune toscano per sentirlo condannare al risarcimento dei danni conseguenti al mancato inserimento, nel piano regolatore generale, tra le zone edificabili, dell’area in sua proprietà, già fatta oggetto di convenzione precedentemente stipulata.
Sosteneva l’attore nel giudizio che, seppure fosse venuta meno la possibilità di realizzare la convenzione per effetto di successiva variante al p.r.g., dovevano essere risarciti i pregiudizi economici subiti nel periodo di vigenza del piano originario che, annullato in sede giurisdizionale su ricorso dello stesso interessato per difetto di motivazione, aveva illegittimamente impedito la realizzazione della lottizzazione.
Pertanto la questione affrontata in sentenza riguarda la configurabilità della responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 c.c, dell’amministrazione pubblica per il risarcimento dei danni derivanti al soggetto privato dalla emanazione di un provvedimento illegittimo lesivo di una situazione di interesse legittimo oppositivo in una causa civile pendente al 30 giugno 1998.
La Corte nella sentenza in rassegna ha affermato un principio opposto a quello emerso in passato riconoscendo che anche la lesione degli interessi legittimi è, di regola, risarcibile in quanto produttiva di danno ingiusto.
Il ribaltamento del principio tradizionale trova il suo punto di forza nella disciplina introdotta dal d.l.vo n.80 del 31 marzo 1998, il quale – secondo la pronuncia della Corte – “incide in modo significativo sul tema della risarcibilità degli interessi legittimi sia sotto il profilo strettamente processuale, concernente il riparto delle competenze giurisdizionali, sia sotto il profilo sostanziale, in quanto coinvolge il generale tema nell’ambito della responsabilità civile ex art. 2043 c.c., potendosi pervenire al risarcimento soltanto se l’attività illegittima e colpevole della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento.” (sent. 26 marzo 1999 n. 500).
Orbene la Corte conforta la nuova regola della risarcibilità degli interessi legittimi in base a tre dati: il primo di carattere normativo (artt. 33, 34, e 35 d.l.vo 80/98); il secondo di natura logico-interpretativa derivante dalla nuova lettura dell’art. 2043 c.c. originato dal primo dato (legislativo) comprensivo sia di diritti che di interessi; il terzo, anch’esso di natura interpretativa, riguardante la qualificazione della norma di cui all’art. 2043 c.c. intesa quale regola dettata sulla responsabilità con carattere primario, investente precetti volti ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui, quali che siano le posizioni soggettive lese ed il giudice avanti al quale si chiede tutela: ciò in quanto è comune il presupposto di base (danno ingiusto) presente nella norma codicistica e richiamato nell’art. 35 I comma del d.l.vo 80/98.
Ora, se si analizza la sentenza sotto il profilo del metodo viene in primo luogo all’esame il dato normativo preso a base dalla Corte (art.35 I comma d.l.vo 80/98) per cambiare radicalmente il quadro di riferimento nella materia risarcitoria. Con esso il legislatore ha attribuito al giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva (servizi pubblici, edilizia e urbanistica), il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.
Tale norma è stata interpretata nella sentenza in disamina, quale fonte della tutela risarcitoria di diritti e interessi legittimi e poi utilizzata dalla Corte nella fattispecie, oggetto del suo sindacato, quale nuovo parametro di lettura della norma codicistica (art. 2043 c.c.) che sino a quel momento era stata collocata nella luce del principio che vuole limitata la risarcibilità ex art. 2043 c.c. al solo danno da lesione di diritti soggettivi secondo la interpretazione tradizionale che identifica il “danno ingiusto” con la lesione di una posizione soggettiva piena e perfetta, seppure temperata dal riconoscimento della risarcibilità di varie posizioni giuridiche che non avevano la consistenza di diritto soggettivo come il c.d. diritto all’integrità del patrimonio, e la risarcibilità del danno da perdita di chance [1], ma neanche l’inconsistenza….dell’interesse legittimo.
Dal punto di vista metodologico ci si deve porre il problema se sia corretta l’operazione fatta dalla Corte, nell’applicare un parametro legislativo (art. 35 d.l.vo 80/98) entrato in vigore il 1° luglio 1998 cui il giudice ha attribuito un determinato significato giuridico di valenza risarcitoria sia dei diritti che degli interessi legittimi e poi attraverso una regola ermeneutica di trasposizione di quella norma nel corpus codicistico dell’art. 2043 c.c., rendendo quest’ultimo destinatario di un nuovo impulso interpretativo e di una nuova lettura coerente al disposto normativo del 1998 per una questione, oggetto di sindacato giudiziario, pendente al 30 giugno di quello stesso anno.
Analizziamo singolarmente le problematiche poste.
Una prima questione investe la regola della irretroattività della norma del 1998.
Secondo l’art.11, 1° comma, delle disposizioni sulla legge in generale: “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. In base a tale parametro normativo la legge è inapplicabile non soltanto ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore ma anche a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, costituendo la irretroattività un principio generale dell’ordinamento. Seppur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25 II comma Cost.), esso costituisce sempre una regola essenziale del sistema cui, salva una effettiva causa giustificatrice, l’interprete deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini.[2]
Nella ipotesi sindacata dalla S.C. –di giudizio pendente al 30 giugno 1998- si è fatta invece espressa applicazione dell’art.35 del decreto delegato del 1998 (rectius del principio innovativo che quella norma ha introdotto nell’ordinamento) al fine di attribuire, in via retroattiva una nuova portata interpretativa all’art. 2043 c.c. che costituisce il referente normativo proprio delle controversie assegnate alla giurisdizione del giudice ordinario.
L’operazione ermeneutica realizzata dalle sezioni unite s’inquadra in una acquisizione della giurisprudenza la quale ha costantemente avvertito che lo ius superveniens che introduca una nuova disciplina del rapporto in contestazione è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo[3] anche se conduca al rigetto di una domanda inizialmente fondata [4].
Il principio applicato tuttavia si scontra con altra regola elaborata nell’ordinamento processuale : a) degli effetti sostanziali della domanda giudiziale sull’assunto che il tempo del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione; b) dell’applicazione dello ius superveniens – art. 35 d.l.vo 80/98 - (avente anche valore processuale come definito dalla Corte) soltanto agli atti processuali necessari all’entrata in vigore dello stesso.
Ed alcune norme
positive (art.10 legge 6 agosto 1984 n°425; art.7 comma 7 d.l.vo 19 settembre
1992 n. 384 convertito in legge 14 novembre 1992 n°438) su tale presupposto
concettuale attuano per determinati effetti i principi dell’irrilevanza dei
fatti estintivi successivi alla domanda giudiziale e della retroattività della
sentenza alla domanda.
Orbene in un sistema giuridico nel quale trovano applicazione due principi inter se confliggenti è compito dell’interprete approfondire l’esame del corpus normativo positivo e coglierne il significato al fine di stabilire se esista un principio generale di insensibilità della res controversa ai mutamenti in fatto e in diritto verificatisi nel corso del giudizio [5].
Una seconda questione investe la adeguatezza della tecnica utilizzata dalla Corte nell’attribuire un significato giuridico ad una norma (art.35 d.l.vo 80/98) che tocca materie totalmente affidate alla giurisdizione amministrativa, per dedurne una valenza ed una portata che circola nell’area privatistica assoggettata alle regole civilistiche.
Qui la Corte ha operato, dando per scontata l’esistenza di un rapporto di presupposizione tra le due norme (art. 2043 c.c. e art. 35 del decreto del 1998), avendo cioè ritenuto che la prima – che è norma sulla responsabilità aquiliana- non è norma secondaria volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme primarie, bensì norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui.
Secondo questa logica interpretativa dei precetti giuridici la Corte ha collocato la norma di cui all’art.2043 c.c. tra le fonti primarie della responsabilità e le ha attribuito forza fondamentale di base, in essa attraendo ogni altro contenuto innovativo derivante da norme successive (art.35) di valore integrativo.
La tecnica attuata, tuttavia, appare inusuale. Ed invero quando l’ordinamento affida la cognizione di determinate controversie alla giurisdizione esclusiva di un determinato giudice, esige che le valutazioni e le decisioni di questi siano sottratte ad ogni controllo da parte di altre giurisdizioni, ivi compreso quello esercitato dalla Corte di Cassazione in sede di sindacato di legittimità; ciò importa –come scelta di fondo dell’ordinamento- che ogni giudice resti all’interno dell’ambito affidato alla sua cognizione senza alcun potere di valutare eventuali violazioni di legge commesse all’esterno di quell’ambito, essendo a ciascun giudice precluso l’esame della norma che presiede alla soluzione di determinate controversie che sono fuori della sua giurisdizione in quanto appartenenti ad ambiti -legislativo e giudiziario- diversi.
Si vuole qui sottolineare che i due referenti normativi (art.2043 c.c. e art.35 del decreto delegato) toccano ordinamenti diversi e separati (area privatistica ed area pubblicistica) e giudizi altrettanto distinti ed indipendenti: circostanze queste che precludono al primo giudice di muoversi liberamente nell’area dei principi affidata all’altro, a pena di comprometterne la stabilità, di minarne le basi con un’azione che non è solo di disturbo bensì di intrusione.
Cogliere un significato sostanziale dall’art.35 d.l.vo 80/98 (enucleazione della regola risarcitoria per le categorie dei diritti e degli interessi) ed azzardarne una trasposizione nella norma codicistica che si arricchisce di nuovo contenuto qualitativo, costituisce un comportamento interpretativo non condivisibile per almeno due ragioni tre ragioni:
1) perché dal punto di vista del metodo, il giudice naturale precostituito per legge ad interpretare quella norma, è il giudice amministrativo, il quale in via esclusiva si occupa di quella materia e non può tollerare interferenze di sorta da parte di altro giudice;
2) perché a voler, in ipotesi, riscontrare nell’art.35 una regola sostanziale, essa nulla toglie e nulla aggiunge alla forza del referente codicistico essendo comune in entrambe le previsioni normative il riferimento al “danno ingiusto” e mancando soprattutto nella norma sopravvenuta un’indicazione chiara e specifica in ordine alla risarcibilità degli interessi legittimi, aggiuntiva rispetto alla previsione codicistica.
2.-
Analisi di merito.
Fatte queste valutazioni di ordine metodologico, può proporsi un primo esame di merito del principio che ha innovato l’ordinamento giuridico in materia di tutela risarcitoria.
Va innanzitutto rammentato che l’azione di risarcimento degli interessi legittimi ha trovato riconoscimento nell’ordinamento italiano, sotto la spinta delle regole comunitarie [6] che sembrano indirizzate all’armonizzazione di sistemi giudiziari.
La prima direttiva ha previsto che gli Stati membri debbano contemplare poteri che permettano di “accordare un risarcimento danni” alle persone lese dalla violazione di procedure previste per gli appalti pubblici di forniture e lavori; la seconda – che si riferisce agli appalti degli enti erogatori di acqua e di energia elettrica, degli enti che forniscono servizi di trasporto, nonché di quelli che operano nel settore delle telecomunicazioni – ha considerato che debbano sempre essere possibili “richieste di risarcimento danni”.
Come appare evidente, per armonizzare le garanzie prevedibili a favore degli appaltatori nei vari ordinamenti della Comunità, le direttive comunitarie considerano l’esistenza del danno come quaestio facti, concretantesi nella storica determinazione di determinati eventi e la loro possibile connessione con il risultato finale della procedura di appalto.
In particolare secondo la prospettiva comunitaria è il danno, come fattore oggettivamente esistente, che deve legittimare il risarcimento, non la disciplina normativa della responsabilità civile; e ciò perché il diritto comunitario, ha fatto applicazione di una disciplina giuridica che ha tenuto conto della logica dei fatti, anziché degli istituti giuridici affermati formalmente nei singoli Stati membri, pervenendo al risultato di modellare la normativa sulla responsabilità alla “natura delle cose” [7], nel caso specifico all’esistenza del danno.
Sulla base di tali presupposti ogni danno obiettivamente determinato dalla violazione delle procedure comunitarie previste per i vari tipi di appalto è un danno “ingiusto” e come tale risarcibile.
Questo criterio di matrice comunitaria, limitato nella sua applicazione agli appalti, è stato in un primo momento recepito nell’ordinamento italiano (art.13 della legge 19 febbraio 1992) quale norma di inquadramento della risarcibilità dei danni connessi alla violazione della normativa comunitaria sugli appalti come un ipotesi di deroga al diritto comune. E a questa impostazione ha subito fatto eco la giurisprudenza della Corte di Cassazione [8] secondo la quale “non sussiste la responsabilità della pubblica amministrazione per danni cagionati dall’illegittimo diniego di concessione edilizia, in quanto la lesione di interessi legittimi, anche dopo l’entrata in vigore dell’art.13 L. 142 del 1992 non dà luogo ad un danno risarcibile”.
Successivamente il legislatore italiano con l’art.35 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n°80 -che ha abrogato l’art.13 della L. 142/92- ha scelto la strada di immettere il criterio armonizzante della natura delle cose nell’ordinamento interno, estendendolo a settori non comunitari (tutti i servizi pubblici, l’edilizia e l’urbanistica) e avendo preso coscienza e consapevolezza del fenomeno secondo cui non è possibile limitare gli effetti della armonizzazione comunitaria della disciplina della responsabilità fondata sulla esistenza fattuale del danno e sulla sua ingiustizia, intesa come violazione di norme sull’esercizio del potere amministrativo, ad una deroga in materia di appalti.
Il criterio introdotto dalla normativa comunitaria è così diventato nell’ordinamento italiano, con l’introduzione dell’art.35, un criterio generale che incide sulla interpretazione dell’art. 2043 c.c. in base al quale è danno ingiusto anche quello derivante dalla violazione di norme sull’esercizio del potere [9].
Trova in tal modo riconoscimento il criterio comunitario della natura delle cose come criterio di ricostruzione sistematica della teoria della risarcibilità dei danni partendo dal danno (come lesione di un bene della vita) e non dalla qualificazione normativa delle situazioni giuridiche soggettive.
Già nel 1998, prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 80/98 la dottrina [10] più attenta a tali fenomeni aveva avvertito che:
1) la effettività della tutela del diritto soggettivo comunitario non si consegue nell’ordinamento interno con la soppressione della posizione giuridica soggettiva dell’interesse legittimo, bensì con l’estensione dell’interesse legittimo e della relativa tutela attraverso l’ampliamento dell’area della tutela degli interessi dei cittadini europei (diritto soggettivo alla giustizia celere);
2) non è diritto soggettivo ma interesse legittimo del cittadino europeo reso effettivo dalla giurisprudenza comunitaria, quello di ricevere tutela nei confronti dello stato membro condannato a risarcire i suoi cittadini del danno patrimoniale che consegue all’aver tenuto un comportamento omissivo dell’obbligo di tempestivo e fedele recepimento di direttive comunitarie.
Tali valutazioni, preannunciate in dottrina, sembrano essere state condivise dal legislatore italiano che con l’art.35 ha inteso realizzare due obiettivi, il primo volto a garantire un’armonizzazione con l’ordinamento comunitario a misura della crescita della sua influenza; il secondo diretto a soddisfare “l’esigenza di effettività delle tutele paritarie previste ed accordate dall’ordinamento comunitario nel quale il torto, se c’è, lede un interesse” (bene della vita), quale che sia la sua posizione soggettiva e la categoria giuridica nella quale si inscrive, e “il suo accertamento implica comunque il risarcimento” [11].
Occorre a questo punto dell’indagine individuare quale tra i vari interessi legittimi sia meritevole di tutela risarcitoria.
Ha ritenuto la
Corte nella sentenza in rassegna di non accogliere la indiscriminata
risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, ma di
pervenire al risarcimento soltanto se “l’attività illegittima e colpevole
della pubblica amministrazione abbia leso l’interesse al bene della vita e
detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento
positivo”.
Tali interessi legittimi sono, secondo la Corte, da ravvisarsi negli interessi oppositivi e in quelli pretensivi (i primi diretti alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio, i secondi volti a conseguire una situazione di utilità) entrambi sottoponibili al vaglio della consistenza della protezione che l’ordinamento riserva in riferimento alla normativa di settore.
Sono stati esclusi, per implicito, dalla Corte dall’area di risarcibilità, gli interessi legittimi c.d. partecipativi e/o formali; ciò nel presupposto che gli stessi difettano di un collegamento diretto con il bene della vita ovvero con una situazione di vantaggio essendo rivolti a conseguire la mera legittimità formale del provvedimento amministrativo e del procedimento connesso quali presupposti di garanzia dell’esatto ed ordinato svolgimento dell’attività amministrativa.
Tale giudizio di valore, però, esige una precisazione.
L’interesse legittimo postula due nature: una di carattere sostanziale diretta a conseguire una utilitas, l’altra di carattere formale tesa ad assicurare strumentalmente l’osservanza di regole e procedure previste dalla normativa di settore.
Orbene alla stregua dei principi affermati dalla Corte, sono risarcibili senz’altro gli interessi legittimi sostanziali, mentre la risarcibilità degli interessi formali può riconoscersi solo nel caso in cui l’inosservanza delle forme abbia pregiudicato in definitiva il conseguimento del bene della vita [12].
Resta quindi escluso il diritto al risarcimento in tutti i casi in cui la lesione riguarda ed investe la regolarità procedimentale essendo il relativo interesse sottostante privo di protezione ovvero contrastante con le regole sostanziali del diritto [13].
Tale valutazione recupera nell’area della risarcibilità gli interessi partecipativi (interesse di accedere nel procedimento e di dialogare con la pubblica amministrazione per offrire il proprio punto di vista nella questione oggetto di assetto) tutte le volte in cui il mancato o ritardato accesso al procedimento produce danni nella sfera economica del privato allungando i tempi di decisione dell’amministrazione.
Questa prospettiva – relativa all’esistenza del danno e alla sua qualificazione- che individua un sistema intorno all’idea del rimedio avente valenza sostanziale anziché intorno a quella del diritto soggettivo, così come nel civil law trova coerenza e ragione nella regola comunitaria avanti accennata che ne costituisce il criterio ermeneutico di guida nel vaglio delle situazioni meritevoli di tutela.
Appare così concluso il processo di superamento della dicotomia concettuale interesse legittimo-diritto soggettivo, grazie ad una operazione pretoria di trasmigrazione di interessi legittimi nell’orbita del diritto soggettivo ovvero di omogeneizzazione ed equivalenza delle diverse posizioni soggettive.
E’ compito della giurisprudenza lo stabilire se la lesione o alterazione di un bene (o bene-interesse o interesse all’integrità patrimoniale ovvero della personalità del soggetto leso) debba o no considerarsi ingiusta alla stregua di principi e criteri di valutazione risultanti dal diritto positivo.
E’ per questo che la formula della responsabilità civile si esprime con una clausola generale: alla qualificazione di un danno come “ingiusto” alla stregua dell’art.2043 c.c. e dell’art.35 I comma d.l.vo 80/98 deve assegnarsi, nel nuovo canone di lettura mediato dal criterio dell’ordine comunitario, un significato generale allo scopo di soddisfare l’esigenza di disporre di un criterio sufficientemente duttile ed elastico capace di adattarsi alla non definita seria di casi concreti.
Nell’ultima parte della sentenza in esame la Cassazione ha affermato il principio secondo cui l’azione per il risarcimento del danno può essere esercitata senza il preventivo annullamento dell’atto lesivo: ciò sia nel campo degli interessi pretensivi che in quello degli interessi oppositivi.
Il
ragionamento svolto fa leva su due considerazioni: la prima, di merito, che vede
la responsabilità del soggetto svincolata dalla lesione del diritto e
comprendente ogni posizione giuridica soggettiva (quindi anche l’interesse
legittimo) meritevole di tutela [14];
la seconda, di natura processuale e di riparto, che pone le due giurisdizioni su
di un piano di autonomia e di separazione, diversa essendo la qualità delle
rispettive pronunce. Ciò perché il giudice ordinario si occupa di questioni di
responsabilità civile e dei meccanismi del dolo e della colpa e pronuncia
sentenze di condanna, disapplicando incidenter
tantum l’atto amministrativo con effetto inter partes; il giudice amministrativo, invece, si occupa di
questioni attinenti a vizi di legittimità dell’atto amministrativo e
pronuncia sentenze di annullamento con effetti erga
omnes [15].
Questa ultima costruzione svolta dalla Cassazione merita a nostro avviso riflessioni critiche ulteriori. La Corte, infatti, a) non ha tenuto conto dal punto di vista sistematico di due profili: quello, anzitutto, della concorrente valutazione comune, anche se separata, della causa petendi ad opera di entrambi i giudici (riguardante i vizi di legittimità dell’azione amministrativa) seppure finalizzata a diversi petita, l’uno di condanna e di disapplicazione dell’atto, l’altro di annullamento; in secondo luogo il profilo in base al quale la comune valutazione della causa petendi può evolvere in pronunce diverse e contrastanti, l’una di mantenimento della validità dell’atto e l’altra di caducazione con effetti di pesante pregiudizio e di incertezza dell’azione amministrativa – per un verso disapplicata, per altro verso mantenuta in vita - la quale costituisce, sempre nel bene e nel male, il parametro di riferimento e di guida dell’attività della pubblica amministrazione e non può avere valenza diversa a seconda degli amministrati. b) Inoltre nella sentenza n°500 del 1999 si è fatto leva sul nuovo sistema normativo ex art. 29 del d.l.vo 80/98 che, nel prevedere la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di lavoro, ha fissato il principio dell’autonomia delle due giurisdizioni e la conseguente caduta della regola della pregiudizialità amministrativa [16].
I temi della doppia giurisdizione in materia di lavoro pubblico, da una parte, e della giurisdizione sul risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo, dall’altra, sono troppo concettualmente distanti tra di loro per poter essere utilmente collegati allo scopo di dimostrare la validità di una teoria giuridica.
Al più si dica che doppia giurisdizione v’è ai sensi dell’art. 68 del d.l.vo 9 febbraio 1993 n.29 riformulato dall’art. 29 del d.lvo n.80 del 1998 in materia di lavoro pubblico: noi ne dubitiamo, data l’evidente eccezionalità dell’impugnazione di un atto amministrativo dinanzi al T.a.r. da parte di un lavoratore che può ottenere giustizia in concreto solo dal Pretore. Ora non si vede perché doppia giurisdizione dovrebbe sussistere anche nel nostro caso quasi per una improponibile analogia.
Altro punto qualificante della sentenza annotata riguarda le tecniche di tutela impiegate dal giudice chiamato a decidere sulla domanda risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione.
La sequenza
logica riguarda nell’ordine: a) la sussistenza dell’evento dannoso (giudizio
di fatto sull’evento); b) l’ingiustizia del danno (giudizio comparativo tra
la protezione fornita al bene della vita del danneggiato e la protezione fornita
al bene della vita del danneggiante); c) il rapporto di causalità tra evento e
condotta dell’amministrazione (giudizio di relazione riguardante il
collegamento tra danno e condotta della p.a.); d) la sussistenza di colpa o dolo
(giudizio di valore relativo alla natura colposa o dolosa della condotta della
p.a.).
E’ quest’ultimo il punto forse più delicato della sentenza.
Dato per scontato che il dolo può configurarsi solo rispetto al comportamento del funzionario agente[17], le sezioni unite, per quanto riguarda la colpa, precisano che questa non è riferibile al funzionario agente, ma piuttosto alla stessa p.a. intesa come apparato e si traduce in “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione” collocate a mo’ di limiti esterni alla discrezionalità.
Quali il significato e l’interpretazione di questi termini [18]?
Nell’ordinamento
amministrativo l’atto è illegittimo in quanto supera i limiti della
discrezionalità (ove l’amministrazione agisca in area discrezionale);
nell’ordinamento civilistico la colpa è definita come una forma di
negligenza, imprudenza od imperizia del soggetto agente, ovvero inosservanza di
leggi e regolamenti.
Facendo applicazione di tali principi dell’ordinamento, la Corte ha colto la regola diffusa in giurisprudenza[19] secondo cui la responsabilità dell’amministrazione discende non solo dalla violazione di qualsiasi regola e canone di condotta, ma anche dalla violazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento.
Ma
se è così, permane l’equazione atto illegittimo/condotta illecita, sicché
l’accertamento della colpa non richiede un giudizio ulteriore rispetto
all’accertamento della illegittimità, ma è esso stesso giudizio che investe
la legittimità dell’azione o della funzione amministrativa [20],
sia pure con un discrimine: 1) nel giudizio che riguarda un’attività
vincolata, l’illegittimità, come momento di verifica del rispetto della
normativa applicabile al provvedimento o al comportamento, esprime uno stato di
deviazione della funzione che deriva dalla negligenza ovvero dalla scarsa
qualificazione professionale dell’apparato; 2) nel giudizio che tocca
l’attività discrezionale la deviazione della funzione –nel che si connota
lo stato di illegittimità- si concreta nella violazione delle regole di
imparzialità, correttezza e buona amministrazione che si pongono come limiti
esterni alla discrezionalità e che rappresentano nel campo pubblicistico
l’esatto pendent delle regole privatistiche della correttezza e del neminen
laedere.
I parametri individuati dalle sezioni unite attengono a criteri di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1 legge 7 agosto 1990, n.241) quali articolazioni e modi di specificazione della regola dell’imparzialità e buon andamento fissata nell’art. 97 della costituzione.
In particolare il parametro di buona amministrazione richiamato dalla Corte non costituisce né vuole essere un criterio che tocca il merito della funzione amministrativa (non sindacabile perché attinente all’area di riserva dell’amministrazione), ma è esso stesso un parametro di legittimità (e al tempo stesso di verifica dello stato di colpa) letto in chiave moderna di controllo giudiziario che tocca e misura la produttività e i risultati dell’azienda pubblica, una volta che l’attività dei pubblici poteri si vada arricchendo di un tessuto che si struttura e si modella sull’efficienza quale cardine fondamentale dell’apparato amministrativo.
Diventa allora, nell’accertamento della colpa, il parametro della buona amministrazione quello più significativo perché investe e misura il grado di produttività (o improduttività) dell’ente, la sua economia e i suoi risultati: momenti che rientrano –oramai deve ritenersi- nella sfera di cognizione propria dell’esercizio di un potere giurisdizionale.
Nei termini
interpretativi delineati si può cogliere un connotato di continuità
dell’ordinamento giuridico generale nel quale la colpa (in entrambi i versanti
pubblico e privato) ha un significato unitario di inosservanza di norme (di
azione o relazione), di negligenza e di imperizia del soggetto agente che
ridonda sulla qualificazione giuridica e sugli effetti pratici della sua azione.
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[1] Nella decisione in commento la Cassazione in un primo periodo ha ammesso la risarcibilità del c.d. diritto affievolito e cioè della originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio; tra le pronunce risalenti: sent. Cass. S.U. 18 ottobre 1979 n° 5428 in Giust. civ.,1980,I,380; tra quelle più recenti: sentenza 18 novembre 1992 n°12316 in Rass. Cons. St. 1993, II, p. 501; Sent. 9 giugno 1995 n° 6542 in Rass. Cons. St, 1995, II, p. 2185.. Successivamente, quale sviluppo della regola enucleata ha esteso la risarcibilità all’ipotesi della c.d. riespansione della quale beneficia il diritto soggettivo non originario ma nascente da un provvedimento amministrativo qualora sia stato annullato il successivo provvedimento che aveva eliminato la precedente posizione di vantaggio; tra le più rilevanti decisioni che accolgono tale ricostruzione: sent. Cass. S.U. 5 ottobre 1979 n° 5145 in Giust. civ., 1979,I,1810; sentenza 6 aprile 1983 n°2443 in Rass. Cons. St.1983,II,961; Cass. civ. sez. lav. 3 febbraio 1986 n° 656 in Giust. civ. 1987, I, 420; sent. 19 marzo 1997 n° 2436 in Rass. Cons. St. 1997,II,1230; sent. 2 aprile 1998 n° 3384 in Rass. Cons. St. 1998, II, 1272. In tema di risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi,intervenne la Corte Costituzionale nella sentenza 25 marzo 1980 n°35, in Giur. cost. 1980, 1, p. 269, con nota di SANDULLI M.A., e in Giust. civ., 1980,1, p. 995, con nota di MORELLI M.R., Responsabilità civile di pubbliche amministrazioni per risarcimento del danno patrimoniale da lesione di interessi legittimi dei privati:rilancio di una problematica. Con tale pronuncia il giudice delle leggi, pur prendendo atto della indubbia gravità dell’arduo e complesso problema della responsabilità civile della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi demandò di fatto la soluzione dello stesso al legislatore, evidenziando la necessità di “prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali”. In dottrina GUICCIARDI E., Risarcibilità di interessi legittimi, in Giur.it.,1963, I, p. 1106; per un quadro degli indirizzi giurisprudenziali sul tema della risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi cfr., di recente, CARINGELLA F. Commento a Tribunale Voghera, 11/1/96, in Corriere Giur., 1996, p. 1153 ss. e DENTAMARO M. Il danno ingiusto nel diritto pubblico. Contributo allo studio dell’illecito nella decisione amministrativa,I, in Collana Carla Romanelli Grimaldi, dell’Istituto di diritto pubblico della Facoltà di Economia dell’Università di Bari, n°3 Milano,1996. Definisce “pietrificata” la giurisprudenza dell’epoca NIGRO M., Introduzione, in Atti della tavola Rotonda “La responsabilità per lesione di interessi legittimi” , Roma il 24 aprile 1982, in Foro amm.,1982, I, p. 1671.
[2]
In termini cfr. Corte Costituzionale 19 marzo 1990 n. 155 in Rass. Cons.
St.,aprile
1990, parte II, 611.
[3]
Cass.civ. sez. I, 13 gennaio 1995 n° 398 in Giust.civ.1995,74;
Cass.civ. sez. I, 13 giugno 1990 n° 5752 in Giust. civ. 1990, fasc. 6;
Cass. civ. sez. I, 17 ottobre 1989 n° 4158 in Giust
civ. 1989,fasc.10; Cass.civ. sez. lav. 23 giugno 1989 n° 3015 in Giust. civ.
1989, fasc. 6; Cass. civ. sez. I, 13 ottobre 1982 n° 5280 in Giust. civ. 1982, fasc. 9;
Cass. civ. sez. lav. 6 febbraio 1982 n° 716 in Giust. civ. 1982, fasc. 2;
Cass. civ. sez. III, 24 novembre 1981 n°6251 in Giur.it., 1983, I, 332.
[4] Cass. civ. sez. II, 13 aprile 1981 n°2193 in Giust. civ.,1981,fasc.4.
[5] La quaestio iuris sollevata può costituire l’occasione per promuovere un’analisi di studio congiunta tra sostanzialisti e processualisti e verificare l’adeguatezza della regola, allo stato, attuata.
[6] Vedi direttiva 89/665/Cee e direttiva 92/13/Cee.
[7] Cfr. MERUSI F.,La natura delle cose come criterio di armonizzazione comunitaria nella disciplina sugli appalti,relazione al Convegno dell’ANMA 1996, Roma, in Riv.trim.Tar aprile-giugno 1996. Considera l’Autore che la Comunità europea per rimettere ordine fra le norme e costruire un sistema giuridico ha utilizzato una tecnica nota quantomeno dalla Pandettistica (partendo dalla natura delle cose e risalendo dai fatti alle norme) e ha fatto applicazione di un criterio secondo cui armonizzare i fatti è un modo di produzione di un sistema normativo comune più efficace del procedimento di armonizzazione delle norme dei diversi Stati (quale era stato perseguito inizialmente dalle direttive comunitarie di “riavvicinamento” tra i vari ordinamenti della comunità) che l’esperienza ha dimostrato lento e soprattutto difficilmente praticabile quando si tratta non di sostituire norme, ma di addivenire a sistemi normativi comuni. Naturalmente sul presupposto che gli operatori dei singoli ordinamenti, autorità amministrative e giudici, “stiano al gioco”, accettino cioè la regola della “natura delle cose” come strumento interpretativo di ricostruzione sistemica e non tentino di sabotarla facendo ricorso agli effetti paralizzanti dell’incongruo uso di una interpretazione normativa.
[8] SS.UU. 20 aprile 1994 n°3732 in Dir. proc. am.,1996,502.
[9] La dottrina, qualche anno prima della entrata in vigore dell’art. 35 del decreto legislativo 80/98 aveva formulato un ipotesi di studio nella quale si concentrava ogni questione tra cittadino e pubblica amministrazione nel giudice amministrativo, quale generale tutore degli interessi legittimi, in virtù della norma comunitaria (art. 5 del Trattato) che impone al giudice nazionale fornito di giurisdizione di accordare il risarcimento al soggetto danneggiato in situazioni giuridiche protette da norme sovranazionali, soluzione che poi si estenderebbe alla intera gamma degli interessi legittimi, tutelati o meno da norme comunitarie, in forza dell’art. 3 della Cost.: v. CARANTA R., La responsabilità extracontrattuale della p.a., Milano, 1993,p. 464. In senso contrario, ROMANO-TASSONE A., I problemi di un problema. Spunti in tema di risarcibilità degli interessi legittimi,in Riv.trim. di dir. amm., n. 1/97 il quale respinge la soluzione proposta da Caranta “perché, almeno de iure condito, essa condurrebbe ad un’inaccettabile iperprotezione degli interessi materiali del privato, i quali godrebbero così di una piena ed assoluta tutela anche a fronte di atti amministrativi solo formalmente viziati, ma nella sostanza corretti”; sulla questione cfr. anche FOLLIERI E., Risarcimento dei danni per lesioni di interessi legittimi, Chieti, 1984.
[10] CAPUTI JAMBRENGHI V., Diritto amministrativo e diritto comunitario. Riflessioni sulla tutela risarcitoria degli interessi legittimi, in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, I, Milano, 1998, p. 490 e ss. L’a. avvertiva già prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 80/98 che la evoluzione dell’ordinamento comunitario nella direzione risarcitoria provoca sul piano processuale una disparità di trattamento per le imprese comunitarie nell’ordinamento italiano nel quale esse non dispongono di tutela risarcitoria nei riguardi della lesione dell’interesse legittimo a differenza degli altri ordinamenti interni alla comunità nei quali la comune matrice delle situazioni soggettive, che comprime la distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo consente la tutela risarcitoria di tutte le situazioni giuridicamente rilevanti che si accertino lese dalla pubblica amministrazione; concludeva l’autore che “la disparità di trattamento emergente dalla situazione differenziata non può certamente sopravvivere ancora a lungo all’interno di un ordinamento che fa della parità e della concorrenzialità in concreto null’altro che la sua stessa ragion d’essere”. Per la distinzione degli effetti prodotti dal diritto amministrativo comunitario su quello nazionale in diretti o verticali e mediati o orizontali cfr., CASSESE S.,L’influenza del diritto amministrativo comunitario sui diritti amministrativi nazionali, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1993, p. 329 ss. L’a. distingue, in particolare, tra un’influenza diretta, che si svolge lungo i rapporti “verticali” tra la Comunità europea e i singoli diritti amministrativi nazionali e un’influenza mediata che viene prodotta dalla costituzione di un ambiente comune nel quale diventano più agevoli i “trapianti” di istituti giuridici e le imitazioni da un ordinamento giuridico all’altro: nell’ambito della c.d. influenza verticale, peraltro, distingue ulteriormente tra effetti diretti e indiretti, questi ultimi conseguenti alla circostanza per cui il diritto amministrativo interno, oltre ad adeguarsi alle disposizioni comunitarie, tende a seguirle anche per l’area alla quale la disciplina comunitaria non dovrebbe trovare applicazione.
[11] CAPUTI JAMBRENGHI V., op. ult. cit., p. 487. Seguendo la linea argomentativa dell’a., una volta ricostruito il rapporto tra i due ordinamenti (comunitario ed interno) in termini di marcata supremazia del primo sino a qualificarsi come una sovraordinazione tipica della gerarchia delle fonti, consegue quale regola di sviluppo logico interpretativo la parificazione della disciplina di tutela quanto alle garanzie risarcitorie nel processo di adeguamento del nostro ordinamento. E’ questa la tecnica ermeneutica che più propriamente avrebbe potuto e dovuto impiegare la Corte di Cassazione nella sentenza in esame sul versante del collegamento dei due ordinamenti: individuare, nella nuova lettura della norma codicistica, il suo punto di forza normativo nel parametro comunitario nella sua calibratura di diritto vivente e farne applicazione nell’ordinamento interno; fatta questa operazione di carattere ermeneutico – che recupera correttamente l’applicazione del principio dei rapporti tra norme nel tempo- sarebbe stato più agevole considerare l’art.35 del d.l.vo 80/98 una produzione normativa di conferma della regola e del punto di vista comunitari.In termini più generali, VIRGA G. Interessi legittimi e diritti soggettivi:una distinzione ancora utile per conseguire una maggiore tutela, annotazione all’ordinanza della Corte Costituzionale 21 luglio 1988 n. 867, in Dir. proc. amm 1997 ed in Lexitalia.it www.lexitalia.it. L’a. segue l’impostazione generale di tenere distinte le categorie degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi e pone il problema di ampliare la tutela accordata all’interesse legittimo prevedendo, sotto la spinta del diritto comunitario, la possibilità di conseguire il risarcimento dei danni per lesioni di interessi legittimi. Sull’argomento v. anche DELFINO B. Risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi:verso una soluzione sistematica, in Rivista Giust it 1996 p.502 ss. ed ivi ampi riferimenti. Sull’argomento v. anche ROMANO A.,Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili, sono diritti soggettivi, in Dir proc. amm. 1998, p. 1 ss; da ultimo, DUNI G., Interessi legittimi, risarcimento del danno e doppia tutela. La Cassazione ha compiuto la rivoluzione, in Lexitalia.it www.lexitalia.it. L’a., nel ricostruire la evoluzione normativa italiana che prevede la risarcibilità del danno derivante da violazione di norme comunitarie in tema di appalti (art. 13 legge 19 febbraio 1992 n°142 poi soppressa dall’art.35 d.l.vo 80/98) considera, in questo momento di revisione dell’orientamento giurisprudenziale, di rilevanza significativa, dal punto di vista storico, la norma stessa, tenuto conto del primato incontroverso dell’ordinamento comunitario: costruzione che coniuga l’interpretazione che si offre nella nota a commento che vede nella regola dell’adeguamento dell’ordinamento interno al diritto comunitario, la realizzazione del principio della primazia comunitaria e la sua tenuta.
[12] Più specificatamente quid iuris nell’ipotesi in cui il provvedimento sia soltanto formalmente viziato (ad es. perché nel procedimento di formazione del p.r.g. è mancata la pubblicazione prevista dall’art.9 legge 17 agosto 1942 n°1150 finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano adottato dal comune) e sia , invece, nella sostanza intrinsecamente corretto? Sulla questione si possono percorrere due itinera argomentativi diversi: il primo che ammette sempre, una volta annullato l’atto per vizio formale, la risarcibilità del danno in quanto con la caducazione in sede giurisdizionale dell’atto, rimane in vita il precedente provvedimento che attribuisce utilità al soggetto, sicchè l’interesse materiale sottostante, indebolito o compresso dall’atto lesivo, riprende forza a seguito del suo annullamento; il secondo iter muove dal presupposto che l’atto annullato per vizio formale(e sostanzialmente corretto) può essere riadottato, emendato dal vizio e con effetto retroattivo: in tal caso non può dirsi sussistente un periodo di vigenza del piano originario, a seguito dell’annullamento giurisdizionale del successivo piano, essendo stato questo riadottato “ora per allora” e senza soluzione di continuità nei rapporti con il precedente atto: tale circostanza priva il soggetto dell’interesse materiale sottostante il quale non può ricevere alcuna protezione dall’ordinamento.
[13] Cfr. VIRGA G., Il giudice dormiente e la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi, in Lexitalia.it www.lexitalia.it, il quale esclude dalla risarcibilità gli interessi legittimi meramente formali e cioè quelli che sono del tutto sganciati dall’interesse materiale sottostante e, in aggiunta, quelli che sono addirittura in contrasto con esso.
[14] Afferma la Corte in sostanza che, essendo caduto il pregiudiziale esame dell’interesse legittimo da parte del giudice amministrativo, dato che il giudice ordinario si è “scoperto” attributario del potere di sindacare, sotto il profilo risarcitorio, ogni situazione giuridica soggettiva, appare ovvio da ciò desumere la soppressione della regola della pregiudizialità amministrativa.
[15] Contra DUNI G. op.cit., il quale ritiene la pregiudiziale amministrativa “una logica conseguenza del sistema” potendo determinare la doppia tutela una serie di inconvenienti non sempre facilmente risolvibili dal giudice e, in ogni caso, l’indebolimento dell’esigenza di certezza dell’azione amministrativa.
[16] Da ultimo per approfondimento della questione vedi DUNI G. in op. cit. il quale ravvisa l’opportunità che la Cassazione riveda la sua teoria (della doppia tutela) anche in considerazione del fatto che essa non costituisce giudicato in senso tecnico perché eccedente il thema decidendum.
[17] In ordine al problema di determinare quando tale comportamento doloso sia riferibile alla pubblica amministrazione, si veda Cass. pen. 27 aprile 1992, Longo, Foro it., Rep. 1993,voce Danni penali, n. 3, Giur. it 1993, II, 608, nel senso che la responsabilità civile dell’ente pubblico per il fatto delittuoso commesso dal dipendente, che abbia dolosamente agito abusando delle sue funzioni, ma pur sempre nell’esercizio dell’attività demandatagli, produttivo di danno per la persona offesa, è di natura “vicaria” e va inquadrata nell’ambito di quella indiretta del committente prevista dall’art. 2049 cod. civ.; sulla questione si veda anche Cass.,26 giugno 1998, n. 6334, Foro it., Rep. 1998,voce Responsabilità civile, n. 226 e Corriere giuridico 1998,1029, con nota di CARBONE V., Reato del sindaco e responsabilità dell’amministrazione comunale.
[18] TORCHIA L. Il commento in Giornale di diritto amministrativo n. 9/1999, 849: l’A. ritiene che dal giudizio di accertamento e verifica del rispetto “delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione” qualificate come limiti esterni alla discrezionalità “potrebbe derivare una limitazione della responsabilità della pubblica amministrazione, configurabile solo in presenza di condotta colposa, mentre la più moderna lettura dell’art.2043 cod. civ., fatta propria dalla sezioni unite impone di collegare la responsabilità all’ingiustizia del danno operando la colpa come uno fra i diversi possibili criteri di imputazione”.
[19] Da ultimo Cass civ. sez., I, 24 maggio 1991 n°5883 in Rass Cons. St.1991,II,1709; Cass. sez. un. 18 maggio 1995 n° 5477 in Foro it. 1996, I, 1008.
[20] Sembra aderire, nella sostanza, alla tesi che si propone nel testo, CARANTA R. La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità in corso di pubblicazione su Foro it. 1999, secondo il quale, in prospettiva, occorre guardare al modello francese della faute de service che rappresenta il modello più avanzato a livello europeo di responsabilità della p.a. che meglio si adatta alle grandi organizzazioni quali sono, di regola, le pubbliche amministrazioni.