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TRIBUNALE DI CATANIA, SEZ. LAVORO – Ordinanza 18 aprile 2001Giudice Puglisi - Freni (Avv. Romeo) c. Ministero Finanze (Avv.ra Stato).

Pubblico impiego - Generalità - Dirigente - Ordine di reintegrazione emesso dal Giudice del Lavoro - Mancata esecuzione - Conseguenze - Coercibilità dell'ordine mediante l'uso della forza pubblica - Possibilità.

Pur a seguito della cosiddetta privatizzazione (o contrattualizzazione) del pubblico impiego, al pubblico dipendente - a differenza di quanto accade nel caso di lavoratore del settore privato - viene concessa dall'ordinamento giuridico una tutela sostanziale e processuale peculiare, frutto della soggezione del datore di lavoro pubblico ai principi di cui all'art. 97 della Costituzione, e cioè ai principi della legalità, della buona amministrazione e della imparzialità.

Ciò comporta in particolare che, di fronte ad un provvedimento del Giudice del lavoro, da un lato il responsabile della gestione di un ufficio pubblico deve  ottemperare al provvedimento stesso  (incorrendo, altrimenti, in ipotesi sanzionabili sia in sede penale che disciplinare e contabile) e, dall'altro, il  pubblico dipendente può pretendere l'adozione da parte del datore di lavoro pubblico di quei comportamenti e di quella attività, imposti dal giudice anche di natura (tradizionalmente) infungibile (con riferimento al settore privato), servendosi all'uopo (in sede esecutiva) sia del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo (qualora fossero necessarie manifestazioni di volontà ed adozioni di atti amministrativi di organizzazione generale al di fuori dell'ambito proprio del rapporto di lavoro), sia del procedimento esecutivo dinanzi al giudice ordinario (1).

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(1) Alla stregua del principio il Tribunale nella specie ha disposto l'esecuzione coattiva dell'ordine di reintegrare il ricorrente nel posto di dirigente in precedenza emesso, prevedendo che il ricorrente stesso,  accompagnato da un Ufficiale Giudiziario ed assistito, se del caso, dalla forza pubblica, deve essere immediatamente reintegrato nel posto stesso.

V. sul punto il saggio di  D. MERCURIO, Conferimento incarichi dirigenziali - eseguibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., riportato dopo il testo dell'ordinanza in rassegna.

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Il Giudice del Tribunale di Catania, Sezione Lavoro, dr. Ugo Puglisi, a scioglimento della riserva che precede osserva quanto segue.

Con provvedimento cautelare d'urgenza emesso da questo giudicante (e confermato in sede di reclamo) è stato ordinato all’Amministrazione Finanziaria di conferire al Freni Letterio "l'incarico già ricoperto in passato di titolare dell'Ufficio delle Imposte Dirette di Catania".

Il Freni ha intimato precetto, mentre, come da nota prodotta in atti e datata 20\2\2001, il Dipartimento della Funzione Pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (il Freni è stato posto a disposizione della Presidenza stessa) è stata impartita disposizione onde provvedere “in via immediata alla cancellazione del dirigente in questione dall’elenco dei dirigenti collocati a disposizione della Presidenza del Consiglio dei Ministri” e ciò in esecuzione del provvedimento cautelare di questo Ufficio.

La successiva nata dello stesso Dipartimento non sembra porsi in contrasto con la precedente, atteso che nelle more della cancellazione al dirigente Freni si vorrebbe prospettare una collocazione concreta presso un ufficio periferico, senza con ciò determinare una revoca o modifica della già impartita disposizione di attenersi al provvedimento giurisdizionale.

Ciò premesso va rilevato che ad oggi a tale provvedimento giurisdizionale non è stata data esecuzione e concreta attuazione, sicchè il Freni ha proposto ricorso ex art. 669, duodecies, c.p.c., mentre l’Amministrazione datoriale ha proposto successiva opposizione a precetto (i due procedimenti sono stati riuniti, stante l'evidente connessione).

E’ noto che con la cosiddetta privatizzazione (o contrattualizzazione) del pubblico impiego (e del personale dirigente) la regolamentazione del rapporto di lavoro non è più affidata ad atti (amministrativi) emessi, come in precedenza, nell'ambito del potere pubblicistico d'imperio, bensì ad atti (negoziali e paritetici) emessi dal datore di lavoro pubblico con i poteri del datore privato (cfr. art. 4, Dec. Leg.vo n. 29\93, ove viene espressamente stabilito che "le misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro").

Al pubblico dipendente, però, a differenza del lavoratore del settore privato, viene concessa dall'Ordinamento una tutela sostanziale e processuale peculiare, frutto della soggezione del datore di lavoro pubblico ai principi di cui all'art. 97 della Costituzione, e cioè ai principi della legalità, della buona amministrazione e della imparzialità.

Ciò comporta che di fronte ad un provvedimento giurisdizionale (a differenza del privato che è libero di scegliere anche l'opzione risarcitoria, prescindendosi, quindi, dal problema della infungibilità o della concreta eseguibilità in forma specifica dell'ordire del giudice, così come in tema di licenziamento), la pubblica amministrazione deve applicare la legge (sia il precetto normativa generale che quello specifico dettato dal giudice), rispettando così sia i principi di buona amministrazione (come individuati nel provvedimento giurisdizionale) che i canoni della imparzialità (in relazione anche ai dipendenti).

Il responsabile della gestione di un ufficio pubblico, pertanto, non può non ottemperare ad un ordine impartito in sede giurisdizionale (incorrendo, in caso inverso, in ipotesi sanzionabili sia in sede penale che disciplinare e contabile).

Il pubblico dipendente può, dunque, pretendere l'adozione da parte del datore di lavoro pubblico quei comportamenti e di quella attività, imposti dal giudice anche di natura (tradizionalmente) infungibile (con riferimento al settore privato), servendosi all'uopo (in sede esecutiva) sia del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo (qualora fossero necessarie manifestazioni di volontà ed adozioni di atti amministrativi di organizzazione generale al di fuori dell'ambito proprio del rapporto di lavoro), sia del procedimento esecutivo dinanzi al giudice ordinario.

In tale ultima ipotesi è evidente che il giudice potrà adottare atti, conformi alla competenza a lui attribuita nell'ambito del rapporto di lavoro, esulando la possibilità di adottare atti amministrativi in senso proprio di prerogativa della pubblica amministrazione (nel rispetto dell'art. 4 della L. 2248\1865, All. E).

Tutto ciò si evince anche dalle recenti disposizioni positive (sulla riforma del pubblico impiego) laddove viene prevista la possibilità per il giudice ordinario di emettere pronunzia anche costitutiva. alla stregua dell'art. 2932 cod. civ., come, ad esempio, in tema di assunzioni obbligatorie, ove, per converso, la giurisprudenza dominante ha negato tale eventualità in relazione al settore privato.

Nella fattispecie (riguardo al ricorso del Freni ex art. 669, duodecies, c.p.c.) non sono necessari provvedimenti amministrativi (in senso proprio) per attuare il comando giurisdizionale, bensì sono sufficienti comportamenti ed attività materiali (o, comunque, atti negoziali paritetici) idonei a consentire al Freni di ricoprire l'incarico pregresso (di titolare dell'Ufficio delle Imposte Dirette di Catania), previa cancellazione; dall'elenco dei dirigenti collocati a disposizione della Presidenza del Consiglio.

Per tale ultimo profilo si ribadisce che vi è un intento dell'Amministrazione volto a determinare la cancellazione (come da nota prima ricordata), sicché sul punto nota sembra vi sia necessità di impartire ulteriori disposizioni.

Per quanto concerne, invece, la concreta e materiale attuazione del provvedimento cautelare in merito all'ordine di far ricoprire al Freni l'incarico in questione, questo giudicante ritiene che ciò possa essere effettuato, allo stato, senza il ricorso alla nomina di un commissario (come ausiliario ai sensi dell'art. 68 c.p.c.).

E’ noto a tal proposito che il tema riguardante la possibilità per il giudice ordinario di nominare commissari al fine di far eseguire uri provvedimento giurisdizionale è, allo stato, aperto, registrandosi in dottrina e giurisprudenza contrastanti posizioni (la dottrina sembra più favorevole).

Senza addentrarsi in tale vexata quaestio, in questa sede è opportuno e sufficiente disporre che il Freni si presenti presso l'Ufficio in questione accompagnato da un Ufficiale Giudiziario eventualmente coadiuvato dalla forza pubblica) onde assumerne la direzione, previa verbalizzazione da parte dello stesso Ufficiale Giudiziario della attività posta in essere e delle eventuali difficoltà, problemi e contestazioni incontrate.

Le superiori considerazioni sono assorbenti rispetto alle deduzioni di cui al giudizio riguardante l'opposizione al precetto per il quale si rinvia per 1' ulteriore trattazione.

P.Q.M.

visto l'art. 669, duodecies, c.p.c., dispone che il ricorrente dirigente Freni Letterio si presenti presso l'Ufficio cui è stato addetto in passato, accompagnato da un Ufficiale Giudiziario (assistito, se, del caso, dalla forza pubblica) e provvedendo ad assumerne la titolarità e direzione, previa verbalizzazione dell'attività. posta in essere.

Rinvia la causa per l'ulteriore trattazione in ordine all'opposizione al precetto all'udienza dell'11\7\2001.

Si comunichi.

Catania, 18/4/2001.

IL GIUDICE DEL LAVORO

Depositato il 18 aprile 2001.

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DOMENICO MERCURIO
(Dirigente superiore presso il Ministero delle Finanze)

Conferimento incarichi dirigenziali -
eseguibilità del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.

Il problema che intendiamo qui discutere e risolvere è questo: il dirigente escluso illegittimamente dagli incarichi dirigenziali che ha ottenuto un’ordinanza ex art. 700 c.p.c. favorevole, può reclamarne davanti al T.A.R. l’ottemperanza nel caso in cui l’amministrazione si rifiutasse di eseguire l’ordine di “facere” del giudice ordinario?

A nostro parere la risposta non può che essere positiva. Spieghiamo qui di seguito i motivi.

1. Eseguibilità dell’ordinanza ex art. 700 c.p.c.

Com’è noto, i provvedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c. assumono la funzione giuridica di assicurare provvisoriamente la decisione del merito della controversia, al fine di evitare la produzione di un danno nel tempo occorrente per l’accertamento del diritto in sede di cognizione piena. Tali provvedimenti assumono il medesimo contenuto di quello (eventuale) delle decisioni di merito, nei casi in cui l’attuazione di queste ultime non potrebbero essere garantite se non con l’anticipazione provvisoria dei loro effetti. Sia la giurisprudenza che la dottrina sono concordi nel ritenere che trattasi di provvedimenti giurisdizionali ai quali la legge (art. 474 c.p.c.) attribuisce efficacia esecutiva.

A tale efficacia esecutiva non può certo fare eccezione il caso in cui l’ordinanza del giudice del lavoro ordini la reintegrazione del dirigente estromesso dal posto di lavoro ovvero il conferimento dell’ incarico dirigenziale legittimamente spettante.

Come afferma, infatti, la migliore dottrina (v. Sassani), la “civilizzazione”della giurisdizione in materia di pubblico impiego non può essere intesa “come vittoria della soluzione esclusivamente risarcitoria”. In effetti, appare contraddittorio sostenere che, pur avendo il legislatore attribuito al giudice ordinario il potere di costituire o estinguere il rapporto di lavoro tra dirigente e l’amministrazione, questa abbia piena libertà nel conferire al dirigente il dovuto incarico dirigenziale (1).

In tale prospettiva, il giudizio, promosso davanti al giudice amministrativo, al fine di ottenere l’esecuzione dell’ordinanza del giudice del lavoro non dovrebbe incontrare alcun ostacolo per il fatto che la pronuncia non perviene da quest’ultimo giudice. Com’è noto, infatti, l’ottemperanza è nata al servizio del “giudicato” del giudice ordinario, e successivamente il Consiglio di Stato ne ha esteso l’applicabilità anche all’esecuzione delle sentenze amministrative.

Ad ostacolare l’applicazione del rimedio, certo non ha alcun pregio l’argomentazione di chi sostiene che esso contrasterebbe con la “scelta di campo del legislatore”, atteso che non risulta da nessuna norma che tale scelta fosse univoca, nel senso di attribuire tutte le controversie, comprese quelle di esecuzione delle relative pronunce, al giudice ordinario, essendo noti i limiti dell’esecuzione civile rispetto all’esecuzione amministrativa, e cioè la sua impotenza di fronte al potere dell’amministrazione di vanificare il risultato garantito dalla pronuncia del giudice ordinario.

Per quanto riguarda in particolar modo l’esecuzione delle pronunce del giudice del lavoro nei confronti della P.A. vi è chi (cfr. G. Albenzio, Il foro italiano, 1999, pagg. 3475-3484) ritiene che nella specie vi possa essere una doppia tutela processuale, “atteso che il pubblico impiegato resta pur sempre un cittadino, anche nella veste di lavoratore, ed il datore di lavoro pubblico resta pur sempre una pubblica amministrazione, anche nella veste datoriale”.

In effetti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost., non si può non riconoscere al pubblico impiegato il diritto di adire gli organi di giustizia amministrativa per ottenere, in sede di cognizione, l’annullamento di atti amministrativi, ed in sede di esecuzione, l’ottemperanza del “giudicato”.

Come osserva giustamente l’Albenzio, il giudizio sull’attività della P.A., anche se effettuato nel corso di un rapporto di lavoro, deve comunque ispirarsi ai parametri previsti dall’art. 97 della Costituzione: legittimità, proficuità e imparzialità, e non anche ai parametri propri della libera imprenditorialità, di cui all’art. 41 Cost.

Appare, quindi, innegabile che il pubblico impiegato, come lavoratore dipendente a carattere speciale, possa ricorrere: 

1) al giudice civile per chiedere l’esecuzione dei provvedimenti favorevoli emessi dal giudice del rapporto, qualora riguardino prestazioni materiali della parte obbligata (come, ad esempio, arretrati di stipendio, risarcimento danni); 

2) al giudice amministrativo, per chiedere l’ottemperanza del “giudicato” civile, attuabile mediante l’emanazione di un provvedimento amministrativo da parte del datore di lavoro (come, ad esempio, il conferimento di incarichi dirigenziali legittimamente dovuti) (2).

2. Inadempimento agli obblighi di facere/non facere.

Taluni autori, partendo dalla premessa che ora tutte le “determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art. 4, comma 2, d.lgs. 29/93), affermano che l’esercizio di un potere privato esteso agli atti di organizzazione amministrativa c.d. “interna” e relativa a profili operativi gestionali escluderebbe che il potere datoriale possa essere funzionalizzato e quindi soggetto al sindacato del giudice sulla conformità all’interesse pubblico che avrebbe potuto essere perseguito. Si tratta di una tesi apodittica perché non spiega nulla e tende ad avvalorare evidenti prese di posizioni a favore di comportamenti che di per sé possono rivelarsi chiaramente contrari ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento della P.A. 

E’ incontrovertibile, infatti, che ogni dipendente pubblico, compreso quindi il dirigente dell’ufficio di livello generale, deve agire sempre e comunque nell’interesse della collettività (art. 98 Cost.), sicché fino a quando la Costituzione non venga modificata su questo punto ogni argomentazione non può che apparire fumosa e contraddittoria.

Albenzio, a tale riguardo, precisa che “il dirigente responsabile della gestione di un ufficio pubblico non può non adempiere ad un ordine del giudice legittimamente dato (in questo caso dal magistrato competente) e non può esporre l’amministrazione all’onere di un risarcimento di un danno, pena un giudizio negativo sulla sua gestione ed un’azione di responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti”.

E’ impensabile, quindi, che il legislatore con la c.d. “privatizzazione” del rapporto di lavoro di pubblico impiego abbia voluto limitare la tutela dei lavoratori di questo settore, nei cui confronti trovano comunque applicazione il divieto di discriminazione, le clausole generali di correttezza e buona fede, nonché le specifiche norme contenute nelle leggi e nella contratto collettivo a tutela del lavoratore e del sindacato, riguardanti la procedimentalizzazione del potere disciplinare, l’obbligo di motivazione del trasferimento e del licenziamento, i diritti di partecipazione delle organizzazioni sindacali, la possibilità di esercitare il diritto di accesso agli atti di gestione del rapporto di lavoro in base alle disposizioni di cui alla legge n. 241/90 (vedi Consiglio di Stato, Ad. Pl., 22.4.1999, n. 4 e Sez.. V, 6.12.1999, n. 2046).

Se così è, deve ritenersi inaccettabile sotto il profilo logico-giuridico considerare applicabile nella materia “il limite intrinseco dell’esecuzione civile, dell’insurrogabiltà”, cioè, del datore di lavoro privato inadempiente agli obblighi di “facere/non facere”.

E ciò in quanto il potere di conferire incarichi dirigenziali non è attribuito per la soddisfazione di interessi propri del soggetto titolare del potere, ma per la soddisfazione di interessi considerati propri, in modo immediato, dello Stato o dell’ente pubblico. Non si configura quindi a favore del soggetto agente (datore di lavoro pubblico) un diritto soggettivo pieno, a cui l’ordinamento tutela la scelta effettuata, quale essa sia, semprecché mantenuta entro i limiti che circoscrivono dal di fuori il potere stesso.

Nel nostro caso, invece, dal nuovo sistema normativo possiamo agevolmente constatare che il legislatore, preoccupato di prevenire l’eventuale cattivo esercizio delle scelte affidate dagli organi di vertice delle amministrazioni pubbliche, conferisce specifico rilievo all’interesse pubblico da perseguire, imponendo l’obbligo giuridico di svolgere un’attività, anche se mediante strumenti di diritto privato, che dia garanzia del conseguimento dell’interesse medesimo.

E’ da escludere, in sostanza, che il legislatore non abbia voluto conferire carattere funzionale alla situazione soggettiva di vantaggio del titolare del potere di conferimento degli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche. Il carattere funzionale è evidente, ove si consideri che il termine “funzione” esprime il collegamento del potere con interessi non propri del soggetto agente, potere che perciò assume il carattere di munus, di qui l’obbligo che il suo esercizio si effettui in modo da soddisfare la funzione con razionalità, congruità e sulla base di criteri prestabiliti.

Se il procedimento di attuazione del potere deve svolgersi in modo razionale, così da garantire il conseguimento di risultati che non divergono dalle finalità cui è rivolto, occorre di conseguenza ammettere che l’esercizio di tale potere non potrà non essere indirizzato, in ciascuno dei suoi momenti, da criteri a ciò idonei. Pertanto, anche se vi è la massima discrezionalità nella determinazione delle circostanze di fatto da prendere a base della decisione, il soggetto agente nella specie non può sottrarsi al dovere di effettuare una valutazione comparativa delle professionalità acquisite dai diversi interessati ad una determinata posizione organizzativa a carattere dirigenziale, nonchè di offrire, mediante apposita motivazione, la dimostrazione della congruenza esistente fra gli elementi presi a base del giudizio e la decisione presa.

In tale prospettiva, appare inconferente parlare di infungibilità della prestazione, per il dirigente di uffici generali, avente il potere di gestione del rapporto di lavoro con il dirigente di seconda fascia, nel senso che nessuno potrebbe sostituire il dirigente di detto ufficio generale che ha rifiutato il conferimento dell’incarico dirigenziale al dirigente di seconda fascia assegnato al suo ufficio, dal momento che l’infungibilità in parola semmai potrebbe riguardare l’agire dell’imprenditore privato, cui la Costituzione tutela la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).

A confutare tale tesi, del tutto irrilevante si rivela l’argomentazione addotta da taluni, secondo cui i dirigenti degli uffici di livello generale rispondono anche dei risultati della gestione della branca di amministrazione cui sono preposti: innanzitutto perché la normativa (art. 2, comma 1, e art. 4, comma 1, d.lgs. 29/93) pone precisi limiti alla loro gestione, e, in primis, il fatto che per l’individuazione delle risorse umane e quant’altro devono sottostare alle disposizioni dell’organo politico (art. 3, d.lgs. 29/93); secondariamente perché anche l’organo politico non può procedere liberamente all’acquisizione delle risorse umane, ma deve, per legge e Costituzione, attingere prevalentemente dalle graduatorie dei concorsi pubblici, speciali o interni; terzo, perché anche e soprattutto per quanto riguarda le risorse finanziarie, l’organo politico è vincolato agli stanziamenti di bilancio.

Orbene, se è vero che i risultati della gestione devono essere valutati tenendo conto delle risorse disponibili, è anche vero che, mentre non c’è alcun problema per quanto riguarda il calcolo della incidenza delle risorse materiali e finanziarie, lo stesso non può dirsi in merito all’incidenza delle risorse umane, dal momento che qui non rileva solo la quantità ma soprattutto la “qualità”, e poiché non tutto il personale disponibile possiede la stessa capacità professionale, appare difficile determinare a priori o in astratto l’incidenza sui risultati per ogni singolo dipendente (ed è proprio per questo che in materia di reclutamento dei dirigenti è rimasta tuttora valida ed operante la scelta di procedere con le garanzie dei concorsi, i cui risultati non possono essere disattesi dal datore di lavoro che ha indetto i concorsi medesimi).

Se così è, bisogna escludere che il dirigente dell’ufficio di livello generale possa rifiutare l’incarico ad un dirigente di seconda fascia vincitore di concorso. In effetti, l’assunzione dei vincitori di concorso è obbligatoria, salvo che, per esigenze tecnico-organizzative, i posti messi a concorso vengano soppressi tutti o in parte. Ma se ciò non si verifica, gli incarichi dirigenziali devono essere conferiti seguendo possibilmente i risultati di appositi test manageriali, in modo da evitare che si verifichino ipotesi di prestazioni che possano incidere negativamente sul risultato di gestione che l’organo politico ha prefigurato in relazione agli obiettivi programmati. 

Di conseguenza, deve ritenersi illegittimo un immotivato rifiuto di attribuzione di funzioni dirigenziali a carico di un vincitore di un regolare concorso per dirigenti indetto dall’amministrazione, atteso che il superamento delle prove concorsuali porta di per sé a dedurre che quel vincitore ha tutte le carte in regola per esercitare una qualsiasi funzione dirigenziale.

Nessuno può in effetti, salvo che non abbia la sfera di cristallo, conoscere a priori quali saranno i reali risultati di gestione ottenibili da un dirigente-vincitore di concorso, per cui bisogna fare riferimento a misure medie o a stime che devono essere, di volta in volta, corrette tenendo conto delle varie contingenze.

In quest’ottica, al fine di poter rifiutare ogni incarico dirigenziale, non vale addurre, senza alcuna valida dimostrazione, che quel dirigente scombinerebbe i programmi di gestione ovvero impedirebbe di raggiungere i risultati preventivati, perché questi ultimi devono essere sempre calibrati e rivisti in base alle capacità del personale disponibile in concreto e non in astratto.

In effetti, l’obiettivo del dirigente dell’ufficio di livello generale di dotarsi del migliore dirigente disponibile nel ruolo unico della dirigenza non può essere perseguito ad ogni costo, perché, se il tipo di incarico condiziona l’ambito entro cui può cadere la scelta, non può negarsi che la qualità ed il numero dei dirigenti di cui si può disporre devono indurre a rimodulare l’obiettivo stesso. Così, se ad esempio, nel corso del procedimento organizzativo riguardante la scelta del dirigente, si dovesse reclutare un dirigente avente determinati requisiti per raggiungere i massimi risultati, e se detti requisiti non si riscontrano in nessun dirigente disponibile, allora è ovvio che il responsabile del procedimento dovrà ricorrere a soluzioni che portano necessariamente alla ridefinizione dell’oggetto dell’incarico e dei relativi obiettivi.

3. Differenze della posizione giuridica dell’imprenditore privato rispetto a quella del dirigente dell’ufficio di livello generale nella gestione del rapporto di lavoro.

Il dirigente dell’ufficio di livello generale di una pubblica amministrazione si trova in una posizione giuridica diversa da quella dell’imprenditore privato ancorché, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.gs. n. 29/93, agisce “con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. E ciò in quanto l’organo preposto alla gestione del rapporto di lavoro con la P.A. deve operare comunque in materia pubblicistica, perciò, seppur usa lo strumento privatistico del contratto per il conferimento degli incarichi dirigenziali di seconda fascia, non è logicamente ammissibile che possa anteporre il proprio interesse, quale vertice amministrativo, all’interesse pubblico di cui l’ordinamento è portatore, altrimenti si configura un illecito sanzionabile sotto i profili amministrativi, patrimoniali e penali.

Ed infatti, per evitare simili comportamenti illeciti, l’art. 28 della Costituzione stabilisce la responsabilità diretta dei funzionari che agiscono contro il diritto civile, amministrativo e penale.

Che un immotivato mancato conferimento dell’incarico dirigenziale da parte del dirigente generale possa configurare un caso di illecito civile, amministrativo e penale, si può ictu oculi verificare dalle ulteriori seguenti considerazioni:

a) ogni dirigente già incardinato nell’amministrazione statale o pubblica deve potere esercitare le funzioni relative alla sua qualifica, che la legge gli attribuisce (art. 17 D. lgs. 29/93), e il dirigente dell’ufficio generale, per contro, ha il dovere di mettere il dirigente che sta sotto la sua tutela di esercitare la sua funzione, altrimenti viola la legge, compresa quella costituzionale di cui all’art. 54, laddove è sancito che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”;

b) impedendo al dirigente di esercitare la sua funzione senza alcuna valida motivazione, viene violato anche il disposto dell’art. 2060 e dell’art. 35 Cost., laddove è stabilito che il lavoro è tutelato in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali e manuali. Ciò significa che la libera scelta del dirigente di lavorare in una data amministrazione pubblica, dove ha superato un regolare concorso, non può essere in alcun modo disattesa, se non ricorrano le condizioni del recesso da parte dell’amministrazione stessa. Tale libera scelta è tutelata anche dall’art. 4 della Costituzione, riguardante il diritto al lavoro, che obbliga chiunque all’astensione da qualsiasi interferenza nella scelta del tipo di attività lavorativa, salvo i casi, per i dirigenti, di revoca di cui all’art. 21 del d.lgs. 29/93. In sostanza, si può incidere autoritativamente sul diritto individuale di libertà di scelta di esercitare un tipo di attività lavorativa solo se ricorrono determinati presupposti di legge, altrimenti deve ritenersi che il diritto soggettivo del lavoratore viene illegittimamente leso;

c) il dirigente dell’ufficio generale, a prescindere dal tipo di mezzi giuridici adottati (privatistici o pubblicistici), nel momento in cui decide di conferire o di rifiutare un incarico dirigenziale svolge pur sempre un’attività “funzionalizzata”, e cioè “finalizzata” al raggiungimento di interessi pubblici, per cui non è assolutamente libero nel suo agire come lo è l’imprenditore privato, le cui scelte, se sbagliate, ricadono sul suo patrimonio. 

Si tratta quindi di una attività fungibile, per cui il giudice adito può benissimo ordinare al dirigente dell’ufficio di livello generale di conferire il giusto incarico al dirigente, che vanta un vero e proprio diritto soggettivo, giammai una mera aspettativa, posto che quella dell’art. 19 rientra tra le norme di relazione che danno appunto luogo a diritti soggettivi, in quanto volte “a disciplinare i rapporti intersoggettivi e perciò a delimitare le posizioni giuridiche altrui” (Guicciardi). Per contro si può parlare di interessi legittimi se del mancato conferimento dell’incarico dirigenziale si lamenta un soggetto esterno all’amministrazione, che, avendo fatto domanda, si ritiene ingiustamente pretermesso in sede di assegnazione degli incarichi (ed ha, pertanto, interesse all’annullamento dei relativi provvedimenti);

d) se, poi, si pone mente al combinato disposto del primo e secondo comma dell’art. 97 Cost., laddove si rileva che ciascun funzionario della P.A. deve avere attribuzioni e proprie responsabilità e agire in ogni caso al fine di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa, è facile intuire che ogni pubblica amministrazione deve organizzarsi in modo che nell’ambito della stessa non possono esserci dirigenti che concretamente non svolgono le funzioni che la legge demanda loro e quindi non abbiano in concreto precise responsabilità. Di qui il divieto di mettere dirigenti in “disposizione” con retribuzione, seppur ridotta, se hanno dimostrato di essere degni di svolgere le funzioni per le quali sono stati assunti. 

Di qui anche il divieto di mettere in “mobilità” un dirigente esperto o che possieda buone conoscenze nelle materie di competenza di una amministrazione pubblica nel cui seno ci fossero posti dirigenziali disponibili, poiché un simile provvedimento colpirebbe il dirigente nella sua dignità di lavoratore dipendente fedele allo Stato tutelata dall’art. 3, comma 1, e 41, comma 2, della Costituzione e dall’art. 2087 del codice civile e danneggerebbe, tra l’altro, la stessa pubblica amministrazione che dovrebbe sopportare un costo senza ottenere la giusta controprestazione. In sostanza, l’incapacità del dirigente dell’ufficio generale nel gestire, con tutte le risorse umane disponibili, con efficienza il particolare ramo dell’amministrazione in cui è preposto non deve riflettersi negativamente sui dirigenti a lui sottoposti. E’ chiaro che, in questo caso, il dirigente pretermesso viene ingiustamente considerato inidoneo a svolgere funzioni proprio nell’amministrazione in cui ha scelto di prestare la sua attività lavorativa e, quindi, degradato ad oggetto, a mero mezzo, a grandezza fungibile per effetto di disposizioni arbitrarie del datore di lavoro. E’ incontrovertibile che il rispetto della dignità umana del lavoratore richieda il diritto a svolgere le mansioni tipiche della sua qualifica, salvo i casi di perdita dei requisiti e del possesso della capacità giuridica. Ed è incontrovertibile altresì che la Costituzione tutela la pari dignità sociale, come limite dei diritti privati e dei pubblici poteri, ancorché costituzionalmente previsti, e quindi anche come limite della altrui libertà di iniziativa economica privata;

e) in definitiva, deve considerarsi speciosa una tesi che va contro gli stessi interessi dell’Erario e intende accreditare come giuridicamente valida una situazione di spreco di risorse umane utilizzabili, e quindi un esborso di spesa pubblica destinata a retribuire improduttivamente i dirigenti che si trovano incolpevolmente senza incarico, una situazione che all’evidenza è indifendibile in quanto ogni attività dei pubblici poteri, anche se agiscono con i mezzi del diritto privato, incontrano i limiti segnati dalli leggi nei cui ambito assume un ruolo principale e inderogabile la Costituzione, quale legge delle leggi;

f) se quand’anche fosse vero che sussistesse l’impossibilità di imporre al privato datore di lavoro la reintegrazione sul posto di lavoro del dipendente ingiustamente licenziato, in quanto la giurisprudenza prevalente ha finora ritenuto che l’imprenditore è insurrogabile nel compimento degli obblighi di fare o non fare, perché l’ordinamento non ammette interferenze nella libertà di gestione attribuitogli quale diritto di libera iniziativa economica, per cui lo spossessamento è vissuto quale disvalore giuridico, è comunque indubbio che “il funzionario che sia in posizione di superiorità rispetto al altri dipendenti statali (preside, provveditore agli studi, ministro della pubblica istruzione, per semplificare) ha caratteristiche strutturalmente diverse dall’imprenditore o dal dirigente d’impresa fiduciario di questi, in quanto non partecipa sotto nessun aspetto ad una situazione conflittuale di natura economica qualificata pur sempre, in modo mediato o immediato, da una contesa sui margini del profitto: e perciò non può accogliersi la proposizione che l’interesse dell’impresa sia dal punto di vista storico l’equivalente nei rapporti interprivati dell’interesse dell’amministrazione-datore di lavoro nei rapporti di pubblico impiego”(cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 68 del 1980).

In effetti, nei rapporti interprivati, l’imprenditore, ovviamente, risponde con il suo patrimonio, di cui può disporre liberamente per i fini perseguiti, accollandosi per intero il rischio della cattiva gestione fino anche al fallimento, mentre il dirigente nella veste di datore di lavoro si avvale di mezzi e risorse erariali (della collettività), e perciò soggetta anche al controllo contabile di gestione da parte della Corte dei Conti. In questo caso l’eccezione del “facere” infungibile da parte dell’Amministrazione neppure si pone, per la “funzionalizzazione”dell’attività ai fini dell’interesse pubblico, da perseguire in base ai principi di cui agli artt. 97 e 98 Cost., recepiti dal d. lgs. 29/93 (art. 2, comma 2);

g) in proposito appare utile citare la ragione per la quale la Corte Costituzionale non ha ritenuto di dichiarare l’incostituzionalità della nuova normativa sul pubblico impiego con le. ordinanze nn. 313/96 e 309/97: la “flessibilità” nella gestione del rapporto di lavoro è “vista come strumentale ad assicurare il buon andamento dell’amministrazione, salvi peraltro i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate (v. art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 421 del 1992)”. Ne deriva che, anche in vista del rispetto del principio di imparzialità, la stessa amministrazione non può essere completamente libera nell’esplicazione della sua attività, anche in regime privatistico in cui il mezzo per raggiungere i suoi fini è dato dal contratto, posto che la stessa legge pone dei precisi limiti nel disciplinare i diversi aspetti dei rapporti privatizzati (vedi, in particolare per la dirigenza, le norme che disciplinano l’accesso alla dirigenza (art. 28 d.lgs. 29/93), quelle che disciplinano il conferimento, l’avvicendamento e la revoca degli incarichi (art. 19 e 21 stesso decreto), quelle che disciplinano le varie competenze dei dirigenti (art. 17), ecc. Se così è, bisogna ammettere che l’ordinamento (vedi sul punto Corte costituzionale, sentenza n. 406 del 1998) non pone alcuno ostacolo giuridico a costringere l’amministrazione inadempiente ad uno specifico facere, anche nella fase cautelare, tramite l’instaurazione di un apposito procedimento di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, il quale può nominare un commissario ad acta che, indipendentemente da come si qualifica, può sostituirsi financo alla stessa P.A. nell’emanazione dell’atto che questa aveva l’obbligo di emanare. E ciò nell’esigenza di assicurare effettività al provvedimento d’urgenza (alla luce del noto principio chiovediano secondo il quale la lunghezza del processo non deve andare a danno dell’attore che probabilmente abbia ragione, principio cui si inspira anche la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 dicembre 2000 n. 6843).

In tale prospettiva il T.A.R. Lazio, nella vertenza della DIRSTAT c/Amministrazione finanziaria – riconosciuto gli estremi della inadempienza di detta amministrazione nell’indire le procedure di conferimento, avvicendamento e revoca degli incarichi dirigenziali in base alle disposizioni concordate e recepite nel D.M. 1910/VI del 27.12.1997 – ha emesso l’ordinanza n. 1743/2000 del 23.2.2000 di accoglimento dell’istanza di esecuzione dell’ordinanza cautelare n. 2766/99, con cui ordina proprio un “facere”, e cioè l’individuazione e la pubblicazione dei posti disponibili, alla data 1.1.2000, per le funzioni dirigenziali di seconda fascia e quindi tutti gli adempimenti scaturenti dall’art. 22 del vigente CCNL stipulato per i dirigenti dell’area ministeriale, proprio al precipuo fine di addivenire, in esito alla procedura, alla stipula dei relativi contratti. Al riguardo, si ricorda che le ordinanze del TAR in parola sono state confermate dal Consiglio di Stato con ordinanze n. 2261/99 del 30.11.1999 e n. 2367/2000 del 16.5.2000.

Né vale ad escludere il rimedio dell’ottemperanza il fatto che in materia di conferimento di incarichi dirigenziali ora la normativa (art. 19, comma 2, d.lgs. 29/93) prevede la stipula di un apposito contratto individuale in cui devono essere indicati l’oggetto gli obiettivi, la durata dell’incarico nonché il corrispondente trattamento economico. E ciò in quanto tutti i citati elementi possono essere benissimo determinati dal giudice dell’ottemperanza tramite un commissario ad acta con la facoltà di avvalimento a sua volta di un esperto di organizzazione amministrativa: per gli obiettivi dell’incarico, infatti, si può fare riferimento alle direttive annuali emanate dal ministro, per la parte riguardante il particolare settore in cui il dirigente verrà preposto (in tal senso sono stati regolamentati del resto tutti i contratti individuali già stipulate dalle pubbliche amministrazioni); per quanto riguarda la durata, si può ricorrere alla durata media degli analoghi incarichi già conferiti nei comparti di riferimento; quanto all’elemento economico non v’è alcun problema perché in tal senso devono osservarsi le disposizioni del contratto collettivo (art. 24 d.lgs. 29/93); resta da precisare l’oggetto della prestazione, anche qui non vi è alcuna complicazione sia se il dirigente dovesse occupare un posto di direzione di un ufficio operativo, sia se dovesse essere preposto ad un ufficio non operativo, dal momento che nei regolamenti organizzativi di ciascuna amministrazione sono individuati i singoli uffici con le relative competenze, che rimangono invariate fino a quanto il relativo regolamento non venga modificato.

4. I limiti della c.d. “privatizzazione” del rapporto del pubblico impiego.

A favore della permanenza dell’ammissibilità di un giudizio di ottemperanza nelle controversie riguardanti il rapporto di lavoro degli impiegati pubblici militano le argomentazioni addotte dall’Avvocatura dello Stato nei giudizi di legittimità costituzionale, promossi con ordinanze del TAR del Lazio, in ordine alla normativa della “privatizzazione” del rapporto di lavoro dei dirigenti non generali.

Risulta, infatti, nel testo della sentenza n. 313/96 della Corte costituzionale che proprio la stessa l’Avvocatura, nella sede di giudizio di massimo rilievo, ha avuto modo di sostenere che la riconduzione del rapporto dei dirigenti al diritto civile andrebbe circoscritta “esclusivamente alla sfera del trattamento economico” e che l’art. 2, comma 1, lett. a), della legge n. 421 del 1992 fa comunque “salvi i limiti al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate”.

Tale posizione dell’Organo legale risulta addirittura ribadita, come si evince dal testo della sentenza n. 309 del 1997 della Corte costituzionale, laddove lo stesso, nell’imminenza dell’udienza “ha insistito per la declaratoria di infondatezza, sottolineando come la privatizzazione interessi gli aspetti sinallagmatici del rapporto di lavoro, fermi restando gli schemi legali strettamente vincolati, nei quali le amministrazioni operano”.

Proprio sulla base di dette argomentazioni svolte dall’Avvocatura Generale ed altre concordanti da parte del Consigli di Stato, la Corte costituzionale è potuta addivenire alla conclusione di escludere un prospettato “vulnus” all’art. 97 Cost., fondata sulla motivazione riassuntiva che “l’applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la P.A. possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione della idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo – assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio - a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.

In piena sintonia e rispetto di detta visione giuridica da parte della Suprema Corte, si collocano le disposizioni di cui all’art. 19, comma 1, e 21 del d. lgs. 29/93 nonché quelle di cui al vigente CCNL per i dirigenti ministeriali, la cui osservanza costituisce condizione tassativa per l’instaurazione, la modifica e l’estinzione del rapporto di lavoro dirigenziale.

Di qui la conseguenza che il dirigente dell’ufficio generale, che ha a sua disposizioni dirigenti e sufficienti posti dirigenziali da coprire, non può non motivare il mancato conferimento dell’incarico dirigenziale ai dirigenti a cui, per effetto di un provvedimento di riorganizzazione, sono stati soppressi gli uffici di cui erano titolari. E ciò in quanto:

1) come abbiamo detto, il conferimento dell’incarico rientra nella scelta del dirigente dell’ufficio generale, scelta che però non è libera dal momento che deve essere la risultante di una comparazione effettuata secondo appositi criteri obiettivamente verificabili (art. 19, comma 1, d.lgs 29/93 e art. 22 CCNL area dirigenza);

2) l’incarico di funzioni dirigenziali risulta, in effetti, da due diversi atti: un provvedimento di conferimento di funzioni e un contratto “accessivo” a detto provvedimento, necessario per l’acquisizione dell’assenso del dirigente interessato. L’atto di conferimento dell’incarico è un provvedimento a carattere prettamente pubblicistico, in quanto con esso si costituisce il c.d. “rapporto d’ufficio”, per cui giammai può corrispondere ad una proposta contrattuale (D’Alessio). In sostanza, la normativa nella specie prevede un contratto individuale con il quale vengono specificati le condizioni e gli elementi del rapporto di servizio del dirigente, per tutto ciò che non è regolamentato dalle leggi e dal contratto collettivo; in detto contratto, da considerarsi come negozio integrativo del contratto individuale costitutivo del rapporto di lavoro e accessorio rispetto al provvedimento di incarico, deve risultare anche l’oggetto, e cioè la struttura di cui si affida la direzione ovvero il tipo di consulenza, ricerca o quant’altro nel caso in cui viene affidato un incarico non di direzione. 

In proposito, la Corte dei Conti ha avuto modo di precisare che l’art. 19 del d.lgs. 29/93 “ha tenuto nettamente distinto il momento della preposizione agli organi dello Stato dei funzionari che ne assumono la titolarità, dalla fase determinativa della disciplina del rapporto di servizio, rimessa in parte alla contrattazione collettiva ed in parte ai contratti individuali di lavoro”. Precisa altresì la Corte che il primo momento, regolamentato dal di diritto pubblico, “attiene al procedimento di immedesimazione organica ed è preordinato al perseguimento di fini pubblici, nel rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento (v. art. 97 Cost.)”. L’atto di conferimento di funzioni dirigenziali attiene quindi “alla cura degli interessi pubblici inerenti allo svolgimento dei singoli compiti dell’amministrazione” (Corte dei Conti, delibera sezione controllo, 3.6.1999, n. 39). La necessità che per gli incarichi dirigenziali occorra anche un provvedimento amministrativo con cui si attribuisce una potestà pubblica, induce a ritenere che in tale materia la strada di giudizio di ottemperanza sia l’unica percorribile, posto che il giudice ordinario e l’eventuale commissario ad acta da lui nominato incontrano il divieto di cui all’art. 4 della legge n. 2248 del 1965, all. E, quello di non poter adottare, modificare o revocare atti discrezionali della P.A.;

3) il fatto stesso che occorre che vengano seguiti precisi criteri predeterminati dimostra che a monte dell‘attribuzione di una nuova funzione dirigenziale non può che esserci un provvedimento amministrativo a tutti gli effetti di legge, per cui rientrano in gioco tutte le norme a tutela della trasparenza e dell’imparzialità, e, in particolare, quelle di cui alla legge 7.8.1990, n. 241, che stabiliscono espressamente l’obbligo di motivazione (art. 3), al fine di consentirne il controllo in sede giurisdizionale. A questo riguardo, si ricorda che sia la Corte Costituzionale, con le citate sentenze del 1996 e 1997, sia l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con parere emesso in data 22 aprile 1999, hanno riconosciuto che anche quando l’amministrazione agisce in regime privatistico, “resta determinante il rispetto dei valori dell’imparzialità e del buon andamento, sanciti dall’art. 97 della Costituzione”, per cui deve ritenersi avere rilievo pubblicistico gli atti scaturenti da un “procedimento di natura comparativa con criteri precostituiti per la selezione del personale più meritevole e per organizzare con efficacia il servizio”.

5. Conclusioni.

Anche se la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici sembra porre sullo stesso piano dirigente e datore di lavoro, ciò non fa venire meno l’intervento sostitutivo del giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza tutte le volte in cui si tende a vanificare l’ordine del giudice ordinario di reintegrare il dirigente che è stato ingiustamente esautorato da ogni incarico dirigenziale, dal momento che ciò lo richiede, oltre il senso di giustizia, anche l’osservanza dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento. Principi questi che possono ritenersi autenticamente osservati solo nella misura in cui è possibile sostituire all’autoritarismo di un dirigente di un ufficio di livello generale il buon senso del giudice dell’ottemperanza che, nell’occasione, può avvalersi di esperti in materia di organizzazione amministrativa, i quali, nel prendere atto delle le scelte effettuate dall’organo responsabile della gestione del rapporto di lavoro (3), possono ben valutare se esse siano in linea con detti principi.

Abbiamo dimostrato come si rivela apodittica la tesi di chi voglia sostenere, non si sa per quale recondito motivo, che a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego e della devoluzione al giudice ordinario di parte delle relative controversie non sarebbe più attivabile lo strumento dell’ottemperanza, nella indimostrata argomentazione secondo cui vi sarebbe perfetta identità tra impiego pubblico e quello privato, per cui gli atti di conferimento di un incarico dirigenziale non rientrerebbero più nel novero degli atti amministrativi. Tale tesi è smentita dal Consiglio di Stato il quale ha avuto modo di dichiarare che gli atti del rapporto di lavoro pubblico sono comunque atti soggettivamente amministrativi, anche se “adottati in regime privatistico” e sui quali la competenza del giudice ordinario non è esclusiva e inderogabile (Consiglio di Stato, Adunanza generale, 19 giugno 1999, n. 9).

Appare per converso logico e giuridicamente valida la tesi di chi sostiene che nulla osta sul piano normativo all’esperibilità dello strumento dell’ottemperanza in materia di pubblico impiego, la quale materia rimane pur sempre, anche a seguito della nuova regolamentazione, disciplinata da norme di carattere pubblicistico, dovendo l’impiegato pubblico agire comunque nell’interesse della collettività (art. 98 Cost.) e nel rispetto dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. In quest’ottica, si rivela assolutamente inconferente il richiamo a quei diritti primari di valenza costituzionale (diritto di impresa), che costituirebbero secondo taluni la ragione per cui la prestazione del datore di lavoro privato debba considerarsi infungibile.

Che sia possibile ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’adempimento delle statuizioni del giudice del lavoro contenute nell’ordinanza ex art. 700 c.p.c., vale la considerazione che nella specie trattasi di pronuncia avente la medesima efficacia di una ordinanza cautelare emessa dal giudice amministrativo, e come tale deve considerarsi immediatamente esecutiva, salvo il caso in cui, ai sensi degli artt. 669-novies e 669-terdecies, la medesima ordinanza non sia divenuta inefficace per il fatto che il procedimento di merito non sia stato tempestivamente iniziato ovvero per il fatto che il Presidente del tribunale o della corte investiti del reclamo, ravvisati sopravvenuti motivi per cui il provvedimento cautelare possa arrecare gravi danni, disponga con provvedimento inoppugnabile la sospensione dell’esecuzione (cfr. per casi simili TAR Puglia, Sez. II, 16.11.1998, n. 736, e TAR Lazio, Sez. I, 24.4.1995, n. 720).

In effetti, il dirigente pubblico, a favore del quale sia stata pronunciata dal giudice ordinario un provvedimento definitivo ex art. 700 c.p.c., al fine di ottenere la reintegrazione nelle funzioni dirigenziali ovvero il dovuto incarico dirigenziale, non potrebbe chiederne l’attuazione ai sensi dell’art. 669-duodecies, dal momento che nella specie le modalità di attuazione non riguardano semplici operazioni materiali (che, d’altro canto, dovrebbero essere svolte dall’ufficiale giudiziario e non da un commissario ad acta), ma attengono all’emissione di provvedimenti che al giudice ordinario gli sarebbe impossibile emanare “in assenza di quelle potestà di revoca e modifica costituenti il proprium della giurisdizione di merito e di cui dispone invece il giudice dell’ottemperanza” (cfr. Q. Lorelli, Il nuovo processo del lavoro, Maggioli editore).

 

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(1) A tale riguardo corre l’obbligo di precisare che l’ordinamento giuridico, anche a seguito della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego, riconosce, sia ai dirigenti in servizio che ai vincitori di concorsi dirigenziali - salva la soppressione di determinati uffici, comprovata da motivi tecnico-organizzativi, che giustifichi anche l’emanazione di provvedimenti di mobilità - il diritto soggettivo al conferimento di un incarico dirigenziale. Il che si evince chiaramente, oltre che dal tenore letterale dell’art. 19 del d.lgs. n. 29/93, che disciplina le modalità di conferimento (nel senso che indica il come distribuire proficuamente i vari dirigenti disponibili nelle diverse strutture dirigenziali), anche dal nuovo contratto collettivo per l’area dirigenza statale, concernente il periodo 1° gennaio 1998 – 31 dicembre 2001 per la parte normativa. In detto contratto viene espressamente stabilito, al fine di evitare i dubbi interpretativi che taluni avevano prospettato (lecitamente o pretestuosamente), che: a) “tutti i dirigenti hanno diritto ad un incarico” (comma 1); b) “nelle ipotesi di ristrutturazione e riorganizzazione che comportano la modifica o la soppressione delle competenze affidate all’ufficio o una loro diversa valutazione, si provvede ad una stipulazione dell’atto di incarico, assicurando al dirigente l’attribuzione di un incarico equivalente”(comma 4); c) “l’incarico di direzione di uffici dirigenziali non di livello generale ai dirigenti di seconda fascia è conferito dal dirigente dell’ufficio di livello generale a dirigenti dell’amministrazione di appartenenza”(comma 6). 

Comunque, la disposizione di cui all’art. 68 del d. lgs. 29/93 deve lasciare ogni dubbio, poiché è chiaro che se il legislatore avesse attribuito al dirigente o al neodirigente una mera aspettativa, non tutelabile giuridicamente, non avrebbe certo dato al giudice ordinario il potere di decidere in materia di assunzione, conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali nei pubblici uffici (ragionando al contrario, infatti, tale disposizione dovrebbe considerarsi inapplicabile poiché in pratica nessun dirigente potrebbe contestare il mancato conferimento o la revoca dell’incarico dirigenziale, vantando – come si dice – una mera aspettativa).

(2) Al riguardo, non si ignora che la disposizione di cui all’art. 669 duodecies c.p.c. prevede che l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni. In sostanza, in tali casi, non occorre instaurare un vero e proprio procedimento di esecuzione forzata per obblighi di fare o non fare ai sensi dell’art. 612 e ss. c.p.c. 

Ma la suddetta disposizione, ispirata dal principio di economia degli atti processuali, non potendosi applicare in tutti quei casi in cui il giudice si trovi di fronte ad un atto amministrativo, non fa venir meno la possibilità del ricorso al G.A. per l’ ottemperanza dell’ordine del G.O., dal momento che il G.A. può sostituirsi eventualmente all’amministrazione se questa non provveda spontaneamente all’annullamento dell’atto risultato illegittimo. In questo caso, il ricorso al giudice amministrativo non ha funzione sostitutiva del normale meccanismo processuale previsto dal codice di procedura civile, ma ha senz’altro funzione integrativa in quanto può rimuovere atti amministrativi che impediscono l’esecuzione forzata civile (Nigro). 

Riteniamo, tuttavia, che nel caso in cui il G.O. dichiari illegittimo il provvedimento di revoca anticipata di un precedente incarico dirigenziale relativo alla direzione di un ufficio, posto che nella specie occorre reintegrare materialmente (senza, cioè, l’emanazione di un apposito provvedimento amministrativo) nel precedente posto di lavoro il dirigente “revocato”, le modalità di attuazione dell’ordinanza cautelare possano essere effettuate dall’ufficiale giudiziario sotto il controllo dallo stesso giudice che ha emesso l’ordinanza medesima, a nulla influendo il fatto che nel frattempo l’amministrazione abbia insediato in quel posto un altro dirigente, dal momento che anche quell’atto amministrativo, essendo consequenziale a quello di revoca, deve ritenersi illegittimo e quindi disapplicabile dal G.O, sempreché il dirigente illegittimamente nominato non sia rimasto estraneo al giudizio. In questo caso non opererebbe il divieto fissato dalla L.A.C., poiché il G.O. non deve condannare la P.A. ad un facere specifico consistente nell’emanazione o eliminazione di un provvedimento amministrativo, essendo la revoca un atto di gestione privatistica del rapporto. L’oggetto della lite istaurata a seguito dell’emanazione di questo atto di gestione deve ritenersi indivisibile, per cui la dichiarazione della sua inefficacia investe inevitabilmente anche l’atto di conferimento del nuovo direttore dell’ufficio.

(3) E’ appena il caso di ricordare che il concetto di gestione del rapporto di lavoro comprende “l’insieme delle azioni poste in essere dal datore di lavoro per dare esecuzione ed efficacia agli obblighi assunti e per cercare di far coincidere gli effetti del contratto con le esigenze dell’azienda” (cfr. M. Marcucci, La gestione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego privatizzato in www.lexitalia.it). Se così è, l’aspetto gestionale del rapporto di lavoro non dovrebbe comprendere né la fase costitutiva né quella estintiva, fasi queste che in materia di pubblico impiego sono rigorosamente disciplinate da norme a carattere pubblicistico, dal momento che tale rapporto è posto in essere nell’interesse dell’ente e non nell’interesse della “controparte” (Virga), cioè di chi per l’ente firma il contratto.


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