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Articoli e note

n. 12/2005 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Considerazioni sullo schema di riforma
del testo unico sull’ordinamento delle autonomie locali

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Per riassumere con una parola sola la sensazione complessiva che dà la lettura dello schema di riforma del testo unico ee. ll., non si può che pensare al termine “delusione”.

Chi si aspettava una revisione profonda e di sistema della normativa locale, tocca con mano un altro risultato: un restyling solo parziale, qualche intervento su specifiche norme ed istituti, che tiene molto sullo sfondo la soluzione ai problemi di compatibilità del contenuto generale del d.lgs. 267/2000 con il nuovo ordinamento costituzionale e la legge 131/2003.

Lo schema di testo unico per lo più si limita a riconoscere ed enfatizzare l’autonomia normativa locale, ma non detta alcuna regola “geometrica” sui rapporti intercorrenti tra le leggi statali ed i regolamenti locali. Non viene, infatti, chiarita, come sarebbe stato necessario, la posizione di statuti e regolamenti nella gerarchia delle fonti. E, soprattutto, il testo unico ignora del tutto e nella maniera più assoluta un “convitato di pietra”, come la legge regionale. Prova ne sia la modifica al comma 4 dell’articolo 1, ove si legge che “le leggi statali non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni”. Ma, poiché la materia dell’ordinamento locale è solo in parte (funzioni fondamentali, organi di governo e legislazione elettorale) riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, anche le regioni dispongono, per la residua parte della materia, di una potestà legislativa che, semplicemente, lo schema di testo unico nemmeno prende in considerazione.

Si potrebbe ritenere che tale atteggiamento del legislatore confermerebbe l’esclusione di una potestà legislativa regionale in tema di ordinamento locale, immaginata da alcuni interpreti che vedono l’ordinamento riservato alla disciplina della legge statale, in relazione agli argomenti indicati sopra, ed agli statuti e regolamenti locali, con esclusione, dunque, della legge regionale.

Tuttavia, tale tesi non trova una conferma nella norma fondamentale in tema di competenze legislative statali e regionali, cioè la Costituzione. E lo schema di testo unico non fa che acuire i problemi interpretativi ed operativi già posti dall’articolo 117 della Costituzione e dalla legge 131/2003.

In effetti, il sistema probabilmente migliore di valorizzare la potestà statutaria e normativa locale (come del resto aveva espressamente previsto la delega contenuta nella legge 131/2003) sarebbe consistito in un deciso arretramento della disciplina normativa, per dare maggiore spazio alla normativa locale.

Sarebbe stato auspicabile, nella logica della riforma della Costituzione, che il testo unico, da norma composta da 275 articoli, spesso talmente pervasivi da lasciare realmente pochissimo spazio all’autonomia intesa nel senso letterale di potere di darsi norme da sé degli enti locali, si trasformasse in un articolato leggero, composto di molti meno articoli, tutti impostati come norme di principio.

Questo obiettivo, però, è del tutto mancato. Il restyling operato lascia la struttura del testo sostanzialmente inalterata come i suoi contenuti.

Per altro, si assiste ad incongruenze per certi versi sconcertanti. Il nuovo schema di testo unico non aveva certamente alcun vincolo operativo. Il legislatore, in altre parole, non era chiamato a porre in essere né un testo meramente compilativo, né di mero coordinamento: ai sensi dell’articolo 2 della legge 131/2003, invece, si doveva realizzare una vera e propria “revisione” delle disposizioni in materia locale. Dunque, v’era ampia libertà di rivedere la normativa nel suo complesso, accorpandola, coordinandola, riformandola, tenendo anche conto delle pronunce giurisprudenziali nel frattempo assestatesi come giurisprudenza pacifica.

Niente di tutto questo. Paradossalmente, il testo unico rinuncia del tutto ad uno degli obiettivi fondamentali: ridurre ad unità la materia dell’ordinamento locale.

Ne è prova il nuovo comma 1 dell’articolo 6, in tema di statuti, il cui testo attuale prevede che “i comuni, le province e le città metropolitane esercitano la potestà statutaria prevista dall’articolo 114 della Costituzione, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’articolo 4 della legge 5 giugno 2003, n. 131”. Si assiste ad un rinvio normativo ad altra norma e proprio in un ambito, quello dell’esercizio della potestà statutaria, fondamentale ai fini della revisione ordinamentale in adeguamento alla Costituzione. Non si può fare a meno di chiedersi che testo “unico” sia una norma che rinuncia del tutto a dettare una disciplina sull’autonomia normativa, rinviando ad altra norma. Sarebbe stato semplice e doveroso quanto meno riprodurre la norma richiamata nel corpo del nuovo testo unico e, comunque, anche questa si sarebbe rivelata un’operazione dal respiro eccessivamente corto.

Anche su altri ambiti lo schema appare “rinunciatario”. In merito all’ordinamento professionale dei segretari comunali, ad esempio, il nuovo comma 1 dell’articolo 97 dispone che “fino al riordino della disciplina dei segretari comunali e provinciali, ivi compresa  quella relativa all’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali e alla Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale, si applicano le disposizioni contenute nel presente Capo”. Ma, trattandosi di un testo unico in revisione del precedente ordinamento, quale migliore sede per il riordino, così solo prefigurato, dell’ordinamento dei segretari comunali vi sarebbe potuta essere?

Lo stesso atteggiamento si riscontra nel nuovo comma 1 dell’articolo 7 in materia di potestà regolamentare: anche qui v’è una completa rinuncia a definirne la portata ed un mero rinvio ad altra disciplina, laddove si legge che “I comuni, le province e le città metropolitane esercitano la potestà regolamentare prevista dall’articolo 117, comma 6, della Costituzione, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’articolo 4 della legge n. 131 del 2003”.

Indirettamente, comunque, la potestà regolamentare degli enti locali trova una traccia di maggiore definizione in una nuova norma. Si tratta dell’articolo 12-sexies, comma 3, a mente del quale “nell’ambito dell’autonomia riconosciuta ai comuni, alle province e alle città metropolitane dall’articolo 114 della Costituzione e nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 117, sesto comma, della Costituzione, la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni fondamentali loro attribuite, comprese quelle affini, presupposte, strumentali e complementari, è riservata alla potestà regolamentare di ciascun ente”.

Si tratta di una norma in qualche modo interpretativa della portata dell’articolo 117, comma 6, della Costituzione, da alcuni letto come norma che riserva alla potestà regolamentare esclusiva dei regolamenti locali “l’ordinamento e l’organizzazione” degli enti stessi.

Al contrario, la previsione contenuta nello schema di testo unico conferma che l’articolo 117, comma 6, non contiene alcuna riserva, la quale impedirebbe alla legge (sia statale, sia regionale, di avere voce in capitolo) in materia di ordinamento ed organizzazione.

I regolamenti locali non possono dettare regole ordinamentali: la potestà normativa loro riconosciuta dalla legge riguarda, semmai, l’organizzazione delle funzioni, dunque il modo col quale gli enti definiscono al loro interno le regole operative per svolgere dette funzioni, non certo l’assetto istituzionale delle competenze e degli organi, non solo di governo, ma anche gestionali [1].

La rinuncia di fatto ad una revisione completa ed esaustiva dell’ordinamento cagiona risultati addirittura del tutto contrastanti con l’obiettivo dell’esaltazione dell’autonomia normativa locale.

Si legge, infatti, nel nuovo comma 4 dell’articolo 10, in tema di diritto di accesso, che “per quanto non previsto dal presente decreto legislativo si applicano le disposizioni generali sull’accesso di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 ed al decreto del Presidente della Repubblica 27 giugno 1992, n. 352 e relative modifiche e integrazioni”.

Nulla quaestio rispetto al doveroso rinvio alle disposizioni della legge 241/1990. Ma il richiamo, invece, al D.P.R. 352/1992, norma di rango regolamentare che pacifiche dottrina e giurisprudenza hanno sempre ritenuto esclusivamente applicabile alle amministrazioni dello Stato, ritenendo che gli enti locali dovessero dotarsi di un proprio regolamento sull’accesso, rende direttamente applicabile all’ordinamento locale una norma regolamentare (si sottolinea, regolamentare) statale. Ciò in assoluta e piena violazione dell’articolo 117, comma 6, che assegna agli enti locali una potestà regolamentare propria in tema di organizzazione delle funzioni.

A meno che il legislatore non abbia inteso la disciplina regolamentare di cui al D.P.R. 352/1992 come potestà appartenente ad una materia di competenza esclusiva della legge (il diritto di accesso quale esplicazione della materia relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, di cui all’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione), tale da esplicarsi una potestà regolamentare esclusiva dello Stato. Ma tale interpretazione andrebbe in contrasto frontale con l’articolo 22, ultimo periodo, della legge 241/1990, a mente del quale “resta ferma la potestà delle regioni e degli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela”.

Deludente è anche l’individuazione delle funzioni fondamentali di comuni e province. Laddove il testo unico avrebbe dovuto essere esaustivo e dettagliato, ci si imbatte, invece, in un elencazione di funzioni di carattere generale (se non generico) e talmente ampio che l’interprete dovrà ancora e necessariamente ricorrere al d.lgs 112/1998 ed alle norme regionali attuative, per individuare in modo chiaro i confini delle competenze tra i vari enti territoriali.

Più consapevole appare la complessiva operazione di revisione del testo unico nella materia del personale, con specifico riferimento alla potestà normativa, nonché ai direttori generali ed ai dirigenti.

In primo luogo, l’articolo 12-bis, comma 2, lettera c), qualifica come fondamentale la funzione di organizzazione e gestione del personale. L’intento è chiaro: qualificando tale materia come funzione fondamentale, si ottiene il risultato di esaltare la potestà regolamentare in materia.

Ma, si commette l’errore di confondere un elemento tipico dell’autonomia degli enti, l’autonomia organizzativa, dalla quale deriva evidentemente la potestà regolamentare, con l’esercizio di una funzione, posto che le funzioni sono attività di carattere amministrativo (diverse dai servizi) che l’ente svolge per il perseguimento degli interessi pubblici che la legge rimette alla sua cura.

In ogni caso, la riforma degli articoli 88 e seguenti del testo unico, mira a costituire il seguente quadro normativo:

1)     il testo unico svolge essenzialmente una funzione di accertamento delle fonti in tema di organizzazione del personale, con l’eccezione della disciplina del direttore generale e dei dirigenti;

2)     il d.lgs 165/2001 viene configurato come norma che, insieme con la Costituzione, detta i principi generali in tema di organizzazione e gestione del personale, specificamente nelle materie relative a:

a.    adempimento degli obblighi derivanti dai contratti collettivi di lavoro,

b.    responsabilità dirigenziale,

c.     modalità di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali e di delega delle relative funzioni,

d.    disciplina delle incompatibilità e del cumulo di impieghi e di incarichi,

e.    mobilità,

f.     trasferimento di attività,

g.    eccedenza e mobilità collettiva,

h.    requisiti e modalità di accesso al pubblico impiego e alle qualifiche dirigenziali,

i.       flessibilità del rapporto,

j.      ruolo e limiti della contrattazione collettiva integrativa,

k.    diritti e prerogative sindacali,

l.       disciplina delle mansioni,

m.  sercizio del potere disciplinare;

3)     i regolamenti, nel rispetto dei principi relativi alle materie sopra indicate, disciplinano i rapporti di lavoro e di impiego nonché le procedure per le assunzioni dei dipendenti degli enti locali, ivi compresi i dirigenti;

4)     la disciplina della giurisdizione resta affidata alla legge dello Stato;

5)     la normativa regolamentare rimane limitata dall’ambito di applicazione della disciplina contenuta nella contrattazione collettiva, che è sottratta, come noto, ad ingerenze normative di qualsiasi tipo.

Il quadro è completato dall’articolo 89, comma 1, a mente del quale “l'organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie, tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva. Gli enti locali adeguano i propri ordinamenti in base a criteri di autonomia, funzionalità ed economicità di gestione e secondo principi di professionalità e responsabilità, per il migliore funzionamento dei servizi nel rispetto degli equilibri di bilancio”.

In apparenza, i confini tra le varie norme che regolano l’organizzazione ed i rapporti di lavoro sono chiari. A ben guardare, al contrario, laddove non si individuino con precisione i principi in materia di disciplina dell’organizzazione e gestione del personale, contenuti nel d.lgs 165/2001, non sarà possibile individuare con precisione l’estensione della potestà regolamentare locale. Laddove i principi siano espressamente enunciati, l’operazione interpretativa può risultare relativamente razionale. Ma, quando occorra desumere detti principi, gli elementi di incertezza saranno così rilevanti che, ancora una volta, solo la giurisprudenza potrà risolvere i nodi gordiani che si manifesteranno.

In tema di personale, non potevano mancare norme in sintonia con lo spoil system all’italiana, sistema finalizzato non tanto a permettere agli organi di governo di poter contare su uno staff tecnico-politico di propria fiducia, quanto mirante alla creazione di una dirigenza soprattutto “affine”.

Dunque, largo ai direttori generali esterni in tutti i comuni, qualunque sia la loro dimensione, siano o meno obbligati ad adottare il piano esecutivo di gestione, in mancanza del quale la figura del direttore generale rimane svuotata. Largo, ovviamente, alla possibilità di individuare come dirigenti i dipendenti privi di qualifica dirigenziale appartenenti al medesimo ente, estendendo la portata dell’attuale testo dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 anche agli enti locali. Con la novità che gli incarichi di dirigente ai dipendenti appositamente posti in aspettativa potranno essere attribuiti non solo extra dotazione organica, ma anche nell’ambito della dotazione, dal momento che il nuovo comma 5 dell’articolo 110 non limita la sua portata ai soli incarichi extra dotazional.

Si tratta chiaramente di una “norma-ombrello”, elaborata a copertura degli incarichi illegittimamente, fin qui, attribuiti da tantissime amministrazioni locali, che a regime può condurre al risultato dell’eliminazione della dirigenza di ruolo, a vantaggio di una dirigenza “interinale” creata di volta in volta dalla struttura politica, senza, per altro, che la norma individui quelle modalità selettive, invece necessarie per una qualsiasi progressione verticale o anche una mera assunzione a tempo determinato e part-time per un posto anche solo ausiliario.

Scontate e dovute le abrogazioni della normativa che riguardava i controlli dei Co.Re.Co., si assiste ad un rafforzamento molto deciso dei poteri di controllo sugli organi da parte delle prefetture ed anche in questo caso la coerenza col dettato costituzionale è da sviscerare con cura.

Particolarmente pervasivo è lo schema di testo unico, invece, in materia di controlli interni. Curiosamente, risulta molto più ampia la potestà regolamentare in materia riconosciuta dal vigente d.lgs 267/2000 rispetto a quella data dal nuovo testo, nonostante le sue enunciazioni vadano in segno opposto.

L’elenco delle delusioni non si ferma qui. La revisione del testo unico avrebbe potuto fornire l’occasione per chiare alcuni punti da sempre problematici, anche raccogliendo le indicazioni della recente giurisprudenza.

In tema di competenza alla costituzione in giudizio, si sarebbe potuto dire una parola definitiva e chiarificatrice, specie a seguito della sentenza della Cassazione Sezioni Unite civili 16 giugno 2005 n. 12868, che ritiene la costituzione in giudizio atto gestionale di competenza dirigenziale.

In tema di competenza all’adozione dei provvedimenti di erogazione dei contributi, era opportuno approfondire l’argomento, tenendo conto della sentenza del Tar Sicilia-Catania, Sez. I, 17 giugno 2005, n. 1032, secondo la quale l’assegnazione dei contributi è competenza anch’essa dalla dirigenza.

In tema, in generale, di competenza all’assegnazione degli incarichi, tenendo conto dell’unanime giurisprudenza, che esclude radicalmente gli organi di governo, come attesta, da ultimo, il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 9 settembre 2005 n. 4654.

Nulla di tutto ciò. Il testo unico non si addentra minimamente nell’annosa questione della corretta definizione dei confini che separano le competenze degli organi di governo da quelle gestionali, lasciando tutto ancora aperto. Sarebbe, invece, stata doverosa una presa di posizione chiara, non necessariamente conforme alla giurisprudenza segnalata, ma tale da risolvere definitivamente ogni questione e, magari, provare ad eliminare, previa razionalizzazione ordinamentale, l’articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, che rappresenta ancora un vulnus al principio di separazione e, soprattutto, ai principi discendenti dagli articoli 97 e 98 della Costituzione.

 

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