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Articoli e note

n. 1/2004 - © copyright

LUIGI OLIVERI

L’organizzazione intesa come ripartizione tra organi di uno o più uffici delle modalità di esercizio dei poteri attribuiti da altra fonte

(commento a T.A.R. Campania-Napoli, Sez. II, 18 dicembre 2003, n. 15430)

 

La sentenza del Tar Campania-Napoli, Sez. II, 18 dicembre 2003, n. 15430, si fa apprezzare e condividere nella sua generale impostazione, perché rispettosa dell’ordinamento locale e delle norme sugli incarichi di progettazione.

Le conclusioni tratte dal giudice napoletano, anzi, per certi versi potrebbero apparire così inevitabili, da non richiedere alcun ulteriore commento, in considerazione della chiarezza e lucidità con cui sono esposte.

Qualche considerazione, invece, in merito appare necessaria, al solo scopo di inquadrare la sentenza nel momento storico in cui è stata adottata e proiettare la sua affermazione più rilevante sul futuro assetto normativo locale.

Il problema della competenza al conferimento degli incarichi. In realtà, ci si dovrebbe stupire del perdurare dell’attualità del problema legato all’individuazione dell’organo competente ad affidare gli incarichi di progettazione e, ancora, delle modalità attraverso le quali selezionare i professionisti.

Esiste, ormai, una giurisprudenza amministrativa costante, pacifica ed incontroversa che in merito ha deciso all’unisono: il conferimento degli incarichi professionali è atto che attiene alla gestione, di competenza, dunque, della dirigenza, in applicazione del principio della separazione delle funzioni gestionali da quelle di indirizzo politico ed amministrativo e di controllo, le quali ultime spettano agli organi di governo[1].

Non può esservi, dunque, giustificazione alcuna per il perdurare della volontà da parte delle amministrazioni locali di assegnare comunque, in una situazione di chiara violazione di legge, alla giunta la competenza per l’attribuzione degli incarichi.

E’ il segno chiarissimo di una refrattarietà “endemica” degli enti locali ad una misura di attribuzione dei poteri pubblici, il potere di separazione di cui sopra, che pure rappresenta l’inevitabile attuazione degli articoli 97 e 98 della Costituzione.

Sorge, per altro, il fondato dubbio che per ogni sentenza amministrativa in merito (e continuano ad esservene decine ogni anno) si celino situazioni di fatto di aperta violazione dell’ordine delle competenze indicato dal Tar Napoli, che non trovano soluzione giurisdizionale, per varie ragioni.

Del resto, nel corso degli anni, preso atto del costante orientamento giurisprudenziale parecchi enti locali hanno cercato di esperire soluzioni che rimedino alla mal gradita privazione, in capo alla giunta, della competenza al conferimento degli incarichi professionali.

Uno dei sistemi più utilizzato è descritto proprio nella sentenza qui in commento: la creazione di un albo dei professionisti “di fiducia”, ai quali assegnare con criteri analoghi a quello della rotazione, gli incarichi di progettazione.

Si tratta di un evidente sistema di aggiramento della ripartizione delle competenze, che distorce il quadro normativo perchè:

1)                          la qualificazione professionale di ingegneri ed architetti è assicurata dalla loro abilitazione ed iscrizione negli albi professionali, sicchè nessun altro albo può attestare una professionalità maggiore o, comunque, diversa;

2)                          i sistemi per la composizione di tali albi interni sono tutt’altro che ispirati all’apertura: spesso, della notizia di una selezione per l’iscrizione nell’albo sono informati solo coloro che è opportuno ne siano informati e pochi altri, con un’abdicazione a procedure ad evidenza pubblica;

3)                          non si tiene conto che la professionalità e competenza del progettista va guardata in relazione all’opera pubblica in concreto da progettare, e non in base ad astratte capacità professionali, si ripete già attestate dall’abilitazione di Stato;

4)                          occorre, pertanto, un sistema selettivo concretamente agganciato alla specifica attività progettuale da realizzare;

5)                          il sistema di tali albi o delle “rose” di progettisti, fa rientrare dalla finestra la competenza della giunta, che il legislatore ha voluto far uscire dalla porta;

6)                          l’operazione che si compie, infatti, è la seguente: il dirigente individua 3 o più professionisti dall’albo, compone una rosa di candidati di presupposta uguale o equivalente competenza, ottiene dalla giunta la direttiva ad individuare tra questi uno di loro, che poi viene incaricato.

Sono situazioni ai limiti della regolarità, che quando individuate comportano la soccombenza in giudizio dell’ente[2].

Appare, per altro, abbastanza grave che si demandi alla magistratura il compito di salvaguardare il rispetto della corretta applicazione del sistema: è il sintomo che la progressiva riduzione dei controlli, per un verso, e la volontà, per altro verso, di costituire un rapporto di “contiguità” tra organi di governo e dirigenti, mediante un legame fiduciario tra loro, ha abbassato la qualità degli atti e delle decisioni adottate.

Oppure, può trattarsi di un sintomo: l’indicazione che, almeno con riferimento alla materia degli incarichi professionali, l’ordinamento non riesce ad accettare ed attuare la separazione delle competenze tra organi di governo e dirigenza.

Potrebbe essere utile, allora, risolvere una volta e per sempre il problema anche rimettendo in discussione l’attuale assetto ed attribuire nuovamente alla giunta tale competenza, in via espressa ed incontrovertibile.

Il problema della modalità di individuazione del professionista. C’è, tuttavia, da aggiungere che tale eventuale ultima soluzione a ben vedere rimarrebbe di per sé inidonea ad assicurare la legittimità degli atti di conferimento degli incarichi, almeno con riferimento a quelli sotto la soglia di obbligatorietà dell’esperimento di gare mediante licitazione privata o asta pubblica, sulle quali nessuno dubita della competenza dirigenziale alla loro gestione e sulla natura certamente non fiduciaria dell’incarico stesso.

Sotto la soglia contrattuale di 100.000 euro non è sufficiente, perché le giunte si approprino di una competenza che sono propense a ritenere “politica”, quella del conferimento degli incarichi, attribuire loro tale potestà.

La decisione delle giunte, infatti, potrebbe essere configurata come espressione di un potere di discrezionalità politica, ove il conferimento dell’incarico rivestisse carattere fiduciario.

Ma anche su questo punto la giurisprudenza successiva, quanto meno, alla legge 415/1998 è unanime: gli incarichi mediante affidamento diretto, intuitu personae, a prescindere dall’organo che vi provvede, sono illegittimi, perché l’articolo 17, comma 12, della legge 109/1994 richiede comunque:

1)                          una verifica dell’esperienza e della capacità professionale;

2)                          che vi sia la motivazione della scelta;

3)                          che a ciò provveda il responsabile del procedimento, con espressa attribuzione di competenza che, attualmente, ribadisce l’esclusione dell’organo di governo da tale competenza.

E’ evidente che per far riappropriare l’organo di governo di un potere di incaricare i progettisti pieno, occorrerebbe che la legge stabilisse esplicitamente la possibilità di provvedere sulla base della semplice fiducia nella persona e non in relazione alla capacità professionale.

La collocazione storica della sentenza del Tar Napoli. Non è secondario il fatto che la sentenza in argomento sia pronunciata dal Tar Napoli e che il comune soccombente avesse cercato di dimostrare la sussistenza della competenza della giunta su una pronuncia del Consiglio di stato. Si trattava della sentenza della Sezione V, 23 giugno 2003, n. 3717, con la quale i giudici di Palazzo Spada, deviando da un indirizzo interpretativo, invece, sin qui rigorosamente seguito senza scantonamenti, hanno qualificato le disposizioni oggi contenute nell’articolo 107 del d.lgs 267/2000 come norme a valenza solo programmatica, necessitanti preventivamente l’attuazione statutaria. Occorre ricordare, comunque, che con la sentenza 7 novembre 2003 n. 7130, la Sezione V ha prontamente reimboccato la tradizionale strada interpretativa.

In ogni caso, il Tar Napoli ha avuto offerta sul piatto d’argento l’occasione per una critica senza mezzi termini al Consiglio di stato, che con la citata sentenza 3717 aveva proprio annullato una decisione del Tar napoletano.

Non ci si deve stupire, dunque, che la sentenza in commento dichiari espressamente come “non condivisibile” l’orientamento espresso dai giudici di Palazzo Spada in quella isolata pronuncia.

E’ importante, però, sottolineare che il giudice di prime cure si sia sbilanciato in una valutazione sulla decisione 3717 che fornisce una indicazione precisa: l’applicabilità immediata e diretta del principio di separazione, senza alcuna necessità di intermediazione statutaria. E questo, nonostante sia già da qualche tempo in vigore la legge 131/2003, oltre che la riforma costituzionale.

La decisione del Tar Napoli appare di estremo rilievo in particolare per questo motivo. E’ la constatazione che le fonti normative locali non hanno assunto una diversa forza, né una nuova collocazione, nella gerarchia delle fonti.

Nonostante la particolare attenzione riposta dall’articolo 117, comma 6, della Costituzione e dall’articolo 4, commi 3 e 6, della legge 131/2003 alla potestà normativa locale sulla specifica materia dell’organizzazione è la corretta individuazione del contenuto di tale materia uno degli elementi fondamentali per comprendere quale sia la forza normativa di statuti e regolamenti locali in merito, nell’attuale sistema, come nel precedente.

Si è osservato che la costituzionalizzazione della potestà statutaria e regolamentare locale avrebbe comportato una riserva di competenza a tali fonti normative, in merito, in particolare, all’organizzazione dell’ente.

La decisione del Tar Napoli è utile per ricondurre l’osservazione – corretta –secondo cui il rilievo dato dalla Costituzione a statuti e regolamenti non possa rimanere privo di conseguenze, da posizioni eccessivamente propense ad considerare fonti in rapporto di competenza rispetto alla legge, verso posizioni più aderenti al dato storicamente oggi presente. La Costituzione e la legge 131/2003 rappresentano disposizioni che tracciano nei confronti del futuro legislatore le linee di tendenza da seguire, che dovranno necessariamente puntare verso la valorizzazione delle fonti locali, principio, del resto, desumibile dall’articolo 114, comma 2, della carta costituzionale, ed espressamente formulato nelle deleghe legislative contenite nella legge La Loggia.

Se, comunque, si evidenzia qual è il significato della materia “organizzazione” si comprende che la potestà normativa di statuti e regolamenti, anche qualora si dovesse configurare come concorrente con la legge, incontrerebbe limiti molto precisi, tali da non consentire la modifica degli assetti delle competenze, previsti dalla legge.

Enciclopedie e vocabolari concordano nel definire il verbo “organizzare” come attività volta a coordinare un complesso di organi in modo armonico tra loro, per integrarli e concorrere allo svolgimento di una funzione comune.

L’attività di organizzazione, allora, non consiste né nell’individuazione degli organi, né nell’assegnazione a loro beneficio di poteri. Questo genere di funzioni, infatti, attiene all’attività costituente. E’ mediante lo statuto e l’atto costitutivo di una società di diritto civile che si individuano gli organi e si definiscono i loro poteri. Con successivi atti organizzativi, poi, si stabilisce come ciascun organo si avvale di tali poteri, per il conseguimento di fini e strategie di azione. Nell’esercizio della fase “costituente”, comunque, tali soggetti debbono rispettare alcuni limiti e vincoli posti dalla legge (il codice civile), che impone la presenza di alcuni organi e ne fissa le competenze minime, oltre a prevedere precise modalità per rendere pubblici i dati delle persone fisiche che li compongono.

La fase costituente, dunque, si compone di due momenti normativi: uno lasciato alla legge, che fissa l’architettura essenziale delle società; l’altro completato dallo statuto e dall’atto costitutivo.

Questo accade anche nell’ambito pubblico. Con una differenza essenziale: l’estensione della funzione “costituente” della legge è stata, almeno fino ad oggi, notevolmente più ampia rispetto a quella prevista nel diritto civile, sì da determinare una forte compressione delle funzioni costituenti delle fonti normative locali.

Il motivo di tale fenomeno è legato all’articolo 97 della Costituzione, il quale stabilisce che sia la legge a determinare l’organizzazione degli uffici[3]. Pertanto, si è assistito nel corso degli anni ad uno straripamento delle norme di rango legislativo dalla funzione costituente (individuazione di organi e di poteri), alla funzione organizzativa (indicazione di dettaglio delle attività degli organi stessi, delimitazione delle reciproche sfere di competenza, modalità di funzionamento).

Tale straripamento ha anche determinato la storica difficoltà a distingeure ciò che attiene alla materia costituente-ordinamentale, dalla vera e propria funzione di organizzazione.

Una vera e propria valorizzazione delle funzioni normative locali si avrà quando il legislatore nel disciplinare la materia degli organi e dei loro poteri seguirà la falsa riga del codice civile per le società private, senza fissare nel minimo dettaglio né gli organi, né le competenze.

In ogni caso, comunque, se statuti e regolamenti si caratterizzano per una specifica potestà normativa in materia di organizzazione, non si può che concordare col Tar Napoli quando sottolinea che l’articolo 107 del d.lgs 267/2000, nel menzionare lo statuto come fonte destinataria del potere di individuare le competenze dirigenziali in attuazione del principio di separazione:

1)                         attribuisce allo statuto non la potestà “costituente” di stabilire a quale organo locale assegnare la titolarità di poteri pubblici, perché tale titolarità è predeterminata dalla legge;

2)                         si limita ad assegnare allo statuto il compito di precisare le modalità di esercizio dei poteri degli organi dirigenziali.

Lo statuto, allora, fermo restando che le funzioni di gestione sono ascritte in modo invariabile alla competenza dirigenziale, ha il compito di organizzare (o gettare le basi dell’organizzazione) il modo con cui il complesso della dirigenza esercita tali funzioni. Infatti, posto che alla dirigenza siano attribuiti poteri gestionali, poiché tali poteri sono esplicabili nell’estesissima gamma delle funzioni e dei servizi che gli enti locali debbono erogare, occorre stabilire come organizzare l’esercizio di tali funzioni e servizi, fissando le regole per la ripartizione dei vari compiti all’interno degli uffici e dei funzionari di diverso livello.

Organizzare, allora, implica il compito di attribuire compiti operativi, nell’ambito di competenze fissate dalla legge.

Gli enti debbono, quindi stabilire:

1)     di quante strutture di massima dimensione dotarsi;

2)     i modi di attribuzione degli incarichi di direzione di tali strutture;

3)     quali funzioni gestionali assegnare a ciascuna struttura, individuando criteri di omogeneità, influenzati dalla quantità e qualità delle dotazioni di personale, strumentali e finanziarie;

4)     in quante e quali strutture intermedie quelle di massima direzione si scompongono;

5)     quali sono le funzioni di questi ulteriori elementi organizzativi;

6)     quali sono i poteri da assegnare a tali strutture;

7)     quali sono i sistemi di coordinamento delle funzioni e di controllo;

8)     quali sono gli organismi o i soggetti ai quali sono assegnate funzioni di coordinamento (per il coordinamento della dirigenza di vertice è già la legge a prevedere che provveda il segretario comunale o il direttore generale);

9)     quali sono le modalità di esercizio delle funzioni gestionali, indicando risorse, tempi, indicatori di qualità e quantità delle prestazioni;

10) quali sono i processi di workflow, la modulistica da usare, i metodi gestionali concreti.

Si tratta di una serie di operazioni che va dalla macro organizzazione, alla definizione di dettaglio delle modalità operative, dalla strutturazione generale dell’ente, all’attuazione della legge 241/1990.

In questo ambito, lo statuto ha il compito di fissare una disciplina generale, sostanzialmente limitata ai precenti punti 1, 2 e 3, limitandosi, per questo, a sole indicazioni di principio.

Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi interviene a dettagliare meglio i punti da 1 a 3 e a dattare la disciplina di cui ai punti 5, 6, 7, 8.

Il Peg precisa quanto al punto 9.

La concreta gestione, mediante atti di micro organizzazione, attiene al punto 10.

Una volta che si sia così delimitata la funzione organizzativa, non si potrebbe mai porre il problema della competenza degli statuti o dei regolamenti di organizzazione a determinare le titolarità dei poteri degli organi, che sono predeterminate dalla legge senza alcuna possibilità di intervento delle fonti locali, se non per la funzione di “specificare” le attribuzioni normative.

Questo quadro non è stato intaccato dalla legge 131/2003, che consente ai regolamenti di derogare alle disposizioni di legge in tema di organizzazione, ma nel rispetto dei principi generali in materia di organizzazione pubblica e delle disposizioni di legge sull’attribuzione delle competenze.

In sostanza, si consente di trasportare una disciplina organizzativa dalla fonte legislativa a quella regolamentare locale, ma pur sempre nei limiti in cui la legge consenta ai regolamenti di provvedere in tal senso e nella misura in cui la legge non si riappropri di tale funzione.

E’, comunque, da escludere che norme sull’organizzazione possano contenere disposizioni sulla “costituzione” dei poteri, almeno finchè il legislatore non lo disponga espressamente.


 

[1] Si vedano (solo per citarne alcune): Tar Emilia Romagna – Bologna, Sezione II, 23 maggio 2002, n. 769; Tar Basilicata, 26 marzo 2001, n. 192; Tar Calabria, Sezione Reggio Calabria, 8 febbraio 2001, n. 90; Tar Sardegna, 22 giugno 2001, n. 727; Consiglio di stato, Sezione V, 26 gennaio 1999, n. 64.

[2] Si veda in particolare la già citata sentenza Tar Emilia Romagna – Bologna, Sezione II, 23 maggio 2002, n. 769.

[3] Negli enti locali si è, a ciò, aggiunta la iniziale prudenza con la quale il legislatore ha assegnato loro funzioni normative e costituenti. Fino a non più di 20 anni fa, del resto, gli enti locali erano visti ancora non come enti territoriali fondamentali per la costituzione della Repubblica, ma come articolazioni territoriali del potere centrale, autonome, sì, ma nei limiti consentiti dalle leggi dello Stato.


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