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SALVATORE
GIACCHETTI
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)
Federalismo e futuro della Giustizia amministrativa (*)
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Sommario:
1- Le attuali tensioni al trasferimento di poteri pubblici dal centro alla periferia (cosiddetto federalismo). L'esperienza dei parlamento siciliano da Ruggero il normanno allo statuto del 1946 ed all'attuale costituzione. Le nuove condizioni sociopolitiche che consentono lo sviluppo del federalismo. Federalismo e partecipazione: diversità e complementarità. La funzione positiva del federalismo.
2- L'evoluzione in senso federalista dell'ordinamento e la giustizia amministrativa.
3- La perdurante specificità del giudice amministrativo e la sua giustificazione in un nuovo assetto federalista alla luce dei criteri enunciati dall'ordinanza dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato 30 marzo 2000 n. 1. La formazione di un diritto privato di pubblico interesse. Il giudice amministrativo come giudice della funzione pubblica nella sua unitarietà, comprensiva sia dell'attività di diritto pubblico che dell'attività di diritto privato. L'ampliamento della giurisdizione amministrativa verso il merito. Il nuovo contenuto sostanziale del concetto di legalità amministrativa.
4- La tendenziale non federalizzabilità delle giurisdizioni. La peculiare posizione della giurisdizione amministrativa. L'opportunità di ampliare la partecipazione alla giustizia amministrativa; ed in particolare l'opportunità: di istituire organi periferici di giustizia amministrativa di secondo grado per le questioni di interesse regionale e un organo centrale di secondo grado per le questioni di interesse superregionale o interregionale; di prevedere la partecipazione di magistrati "Laici" designati dalla regione; di istituire un pubblico ministero amministrativo, che elimini l'incongruenza che la tutela giurisdizionale di preminenti interessi pubblici sia rimessa esclusivamente all'iniziativa di ricorrenti privati; di prevedere una funzione consultiva regionale.
5- L'attuale difficoltà di dettare una disciplina processuale precisa ed esaustiva di una giurisdizione in profonda trasformazione, qual è quella amministrativa, e l'opportunità di lasciare spazio alla "interpretazione creatrice" della magistratura amministrativa. Il futuro "interiore" della giustizia amministrativa. La necessità di una magistratura che sappia tutelare i fondamentali "valori" superindividuali che costituiscono le fondamenta di un ordinamento democratico.
6- Note minime (ma non troppo) sull'uso delle maiuscole dal diritto romano allo statuto albertino, alla vigente costituzione, alle attuali proposte di riforma costituzionale relative al federalismo. L'opportunità di non alterare la parità formale tra pubblici poteri e cittadini.
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1.- Ho fatto parte dei Consiglio di giustizia amministrativa per sedici anni; e in quei sedici anni ho potuto constatare la bontà del sistema di giustizia amministrativa realizzato in Sicilia, regione che ha rappresentato - nel bene e nel male - il modello di quell'accentuato trasferimento di poteri pubblici dal centro alla periferia che oggi va sotto il nome di federalismo (o di devolution, per essere più alla moda).
Quest'ultimo termine sarebbe forse preferibile, in attesa di trovarne uno italiano migliore, perché "federalismo" richiamo storicamente l'idea di un sistema stato-regioni, mentre gli attuali progetti di riforma costituzionale mirano essenzialmente a potenziare il ruolo del comune. Comunque, per comodità espositiva, parlerò anch'io di federalismo.
Sotto il profilo dei federalismo la scelta di Palermo, come sede di un convegno ad hoc, mi sembra particolarmente indovinata; perché tutti sappiamo che il parlamento siciliano nacque prima di quello inglese (l'elevazione di Ruggero il normanno da duca a re e la scelta di Palermo come capitale del regno furono deliberate nei parlamenti del 1129 e 1130 (1), e quindi ben prima della magna charta, che è del 1215); ma non tutti sappiamo che questo parlamento, al quale partecipavano - come risulta dalla convocazione di Federico II del 1240 - "duos muncios de unaquaque civitate et unum de unoquoque castro" (2), era composto da persone che rappresentavano non la nazione nella sua interezza (come oggi prevede l'art. 67 della Costituzione) ma le città e i borghi rispettivi; e quindi costituivano, in forma embrionale, una ripartizione orizzontale dei potere quanto meno analoga a quella federale.
Certo il parlamento di Sicilia non ebbe la fortuna e la pubblicità di quello inglese; ma, pur attraverso molte vicende perturbatrici, continuò ad esistere e a resistere decisamente contro i tentativi dei sovrani di diminuirne le prerogative. In un memoriale del 1811, redatto per contrastare un editto reale ritenuto lesivo di tali prerogative, si dice: "da parecchi secoli, senz'alcuna interruzione e sotto le diverse dinastie dei suoi re, il popolo siciliano non aveva mai conosciuto altro mezzo di somministrare danaro al trono reale se non quello dei suoi rappresentanti riuniti in parlamento" (3). Ed è molto significativo che si parli del solo popolo siciliano e non dell'intero popolo dei regno; il che conferma la funzione di tipo federale di questo parlamento.
Venendo al giorno d'oggi una struttura di tipo sostanzialmente federale è quella che risulta, per una regione come la Sicilia, dallo Statuto del 1946 e dall'attuale Costituzione. Vero è che nella relazione presentata all'assemblea costituente Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75 incaricata di redigere il progetto del nuovo testo costituzionale, dichiarò che l'autonomia accordata alle regioni "eccede quella meramente amministrativa: ma si arresta prima della soglia federale, e si attiene al tipo di stato regionale formulato dal nostro Ambrosini" (4).
Ma Gaspare Ambrosini, dì cui sono stato allievo all'università di Roma, non ebbe poi alcuna difficoltà a confessare a noi studenti di aver suggerito quella formula per ottenere un risultato pratico di federalismo senza impressionare troppo coloro che paventavano un'incrinatura al principio della Repubblica "una e indivisibile". E questo sembrava vero quanto meno per la Sicilia; non era altrimenti giustificabile la previsione di un "governo regionale", la partecipazione del presidente della regione al consiglio dei ministri col rango di ministro e con voto deliberativo, la competenza del presidente della regione a decidere i ricorsi straordinari al capo dello Stato, il potere di imposizione tributaria riconosciuto alla regione, un'ampia potestà legislativa esclusiva, addirittura la creazione di una corte costituzionale separata, l'Alta Corte per la Sicilia (poi peraltro venuta meno), ecc.
Tutti questi spunti di federalismo, impliciti o espliciti che fossero e rimasti per lungo tempo quiescenti, oggi tornano di attualità, per un motivo molto semplice. La crescita culturale e politica di una popolazione che, sorretta da un'informazione pluralista e capillare, non sempre riesce ad identificarsi nelle tradizionali istituzioni centraliste, ha fatto sempre più arretrare quella sorta di rassegnato disimpegno proprio del contadino russo che diceva "Dio è troppo in alto e lo zar è troppo lontano", e ha fatto avvertire l'esigenza di gestire in proprio, in sede locale, almeno parte di quegli interessi collettivi nei quali più immediatamente ci si riconosce.
Questa ripartizione dei pubblici poteri per piani orizzontali non era possibile ancora nel primo cinquantennio del secolo scorso, sia per il condizionamento storico-psicologico derivante dalla concezione unitaria della sovranità (nell'Europa continentale il passaggio dallo stato assoluto allo stato costituzionale aveva portato ad una ripartizione verticale del potere pubblico tra sovrano e parlamento, ma non ad una ripartizione orizzontale di tale potere tra centro e periferia) sia per l'affermarsi di ideologie totalitarie sia per un continuo clima di guerra strisciante o latente che imponeva il massimo di coesione interna - e quindi il massimo di organizzazione verticistica - ai paesi europei.
Ma il lungo periodo successivo di pace sostanziale avutosi per la quasi totalità dei mondo occidentale e la sopravvenuta mancanza della funzione dialettica del nemico (che è quella di compattare le forze interne), lo spostarsi della competizione tra stati dal campo militare a quello economico (meno rumoroso e violento ma non meno mortale) ed il clamoroso fallimento dello stato in campo economico hanno innescato - non solo in Italia ma in tutta Europa - spinte centrifughe sempre più forti ed un sempre più accentuato policentrismo che stanno determinando una progressiva perdita di terreno del potere centrale su due fronti: quello del cittadino e quello delle cosiddette formazioni intermedie.
Si è avuta così l'affermazione contemporanea di due ideologie: quella della "partecipazione", che nell'attività amministrativa ha avuto la sua consacrazione nella legge n. 241 del 1990 ma aveva già un'antica tradizione nel processo penale (con le giurie popolari), e quella del "federalismo", in attesa di una definitiva formale consacrazione in sede costituzionale, ideologie in parte complementari, perché nulla vieta che un potere federalizzato sia a sua volta anche partecipato, ed in parte antitetiche, perché la partecipazione è strumento di democrazia diretta che attiene all'esercizio in concreto dei poteri pubblici mentre il federalismo è strumento di democrazia indiretta che attiene alla titolarità in astratto di tali poteri, che vengono ripartiti per piani orizzontali.
Tutto questo, singolarmente, sta avvenendo in apparente contraddizione con il più generale contesto socioeconomico, caratterizzato invece dalla tensione alla globalizzazione economica, che sotto la spinta di soggetti internazionali di nuova generazione, le multinazionali, che costituiscono una sorta di riedizione aggiornata della Compagnie delle Indie dei secoli XVII e XVIII, sta di fatto realizzando - sotto l'aspetto di una societas mercatorum o business community - la ricostituzione di quell'umus ordo vagheggiato nel medio evo e che oggi appare illuminato non più dai due soli dell'imperatore e del papa ma dall'unico sole del capitale, ed in particolare dei capitali finanziari, che con le attuali tecnologie sono in grado di spostarsi in tempo reale da un punto all'altro della terra, sfruttando al massimo le opportunità locali offerte dal noto fenomeno della concorrenza delle legislazioni.
Sicché oggi non può più parlarsi, come faceva A. Smith, di wealth of the nations, di ricchezza delle nazioni: perché la ricchezza non ha più nazione, è un valore transnazionale - e spesso supernazionale - a sé; e per converso le nazioni non hanno più ricchezza: basta pensare ai flussi di capitale che, solo premendo il tasto di un computer, possono uscire dall'Italia per stabilirsi o in paesi europei con più favorevoli regimi fiscali o addirittura in paesi extraeuropei con più interessanti prospettive di sviluppo economico (5).
Faccio questa premessa non per esprimere giudizi sociopolitici, che esulano dalla mia competenza; ma solo per rilevare che se è vero come è vero che la realtà sociopolitica si sta modificando nel senso che con poche e necessariamente sommarie parole ho cercato di descrivere, e se è vero come è vero che il diritto è la forma e lo specchio di questa realtà, anche l'ordinamento giuridico non può sottrarsi nel suo complesso ad una struttura federalista, salvo ad approfondire il subproblema se anche gli apparati giurisdizionali, ed in particolare quello della giustizia amministrativa, debbano necessariamente assumere una struttura del genere.
Sul piano generale si tratta comunque di un problema essenzialmente nominalistico: per l'ottima ragione che, come ho detto, il federalismo - di fatto - c'è già; quello che va precisato è il livello formale da attribuirgli. Ed è un fenomeno che al momento attuale va incoraggiato, pur con i suoi rischi per la Repubblica "una e indivisibile".
Va incoraggiato sotto un profilo sistematico, perché almeno rappresenta un modello coordinato di ordinamento giuridico, smussando le spinte ad un policentrismo esasperato che potrebbero condurre ad una polverizzazione anarcoide del potere in cui tutto è rimesso a posizioni contingenti di forza, al di fuori e al di sopra di un ordine prestabilito.
Va incoraggiato sotto un profilo politico, perché consente, nell'interesse della democrazia reale, che quanto meno in sede locale possano formarsi contrappesi a quello che Alexis de Tocqueville definiva "l'impero psicologico di una maggioranza che non tollera di essere offesa nell'adorazione di se medesima" (6).
2.- Di questa esigenza evolutiva si sono rese interpreti le note proposte di legge costituzionale sulla riforma in senso federale dello Stato, attualmente all'esame del parlamento.
Ora, anche se la materia della giustizia è estranea ai progetti di riforma, l'evoluzione dell'ordinamento in senso sempre più spiccatamente federalista pone nel nostro settore due fondamentali interrogativi:
a) ha ancora ragione d'essere una giustizia amministrativa come settore autonomo e quindi ha ancora ragione d'essere un giudice amministrativo? La domanda sorge perché in un sistema di giustizia amministrativa che, come ribadito dalla legge 21 luglio 2000 n. 205, oramai tende irrimediabilmente verso il superamento - ai fini della giurisdizione - della tradizionale dialettica interessi legittimi-diritti soggettivi sembrerebbe venir meno la giustificazione logica per la permanenza di un sistema di giustizia amministrativa a sé stante, distinto dal sistema della giustizia civile;
b) il modello generale attuale di giustizia amministrativa, ed in particolare il modello di giustizia amministrativa realizzato nella regione siciliana, sono coerenti con le esigenze del federalismo?
3.- La risposta al primo interrogativo deve essere positiva. La giustizia amministrativa non solo conserva ancora la sua autonomia ma è addirittura destinata ad accrescerla.
Va ricordato che l'adunanza plenaria dei Consiglio di Stato, con la nota ordinanza n. 1/2000 (7), ha stabilito i seguenti principi:
a) che, come già rilevato dalle sezioni unite della Cassazione con l'ancor più nota sentenza n. 500/1999, a seguito del decreto legislativo n. 80 del 1998 deve ritenersi "residuale" il tradizionale sistema di riparto di giurisdizione basato sulla distinzione tra diritti e interessi, ormai superato dall'attuale criterio dì riparto per materia (punto 4.1);
b) che nell'ambito della giurisdizione esclusiva la distinzione tra diritti e interessi conserva rilievo essenzialmente solo al fine di stabilire se la tutela della posizione posta a base dei ricorso possa essere chiesta entro il termine di prescrizione ovvero entro il termine di decadenza (punto 4.3);
c) che l'amministrazione, qualsiasi attività sia ad essa imputabile, va vista sempre come "servizio" nell'interesse della comunità, perché, come già rilevato nelle precedenti sentenze dell'adunanza plenaria nn. 4 e 5, del 22 aprile 1999, i principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità "costituiscono valori essenziali di riferimento di ogni comportamento dell'amministrazione" e "riguardano allo stesso modo l'attività volta all'emanazione di provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato sicché "va sempre finalizzata al perseguimento dell'interesse collettivo ogni attività dell'amministrazione senza alcuna eccezione" (punto 8.2.1); il che equivale a dire che l'attività sia di diritto pubblico sia di diritto privato dell'amministrazione costituisce in ogni caso espressione della funzione pubblica;
d) che anche nelle materie di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo deve dare piena ed effettiva tutela al ricorrente per l'attuazione della piena affermazione di quella "giustizia nell'amministrazione" sancita dall'art. 100 della Costituzione (punto 12.3); e che in tale opera deve potere fruire di tutte le potenzialità insite nell'ordinamento processuale amministrativo, ed in particolare dei poteri di merito che gli competono in sede di esecuzione delle proprie decisioni (punto 4.3);
e) che nei confronti della pubblica amministrazione debitrice del risarcimento del danno non trovano sempre applicazione le norme del codice civile e di quelle del codice di procedura civile (punto 4.3), dal momento che le sue funzioni vanno indefettibilmente esercitate (arg. da Corte costituzionale 20 marzo 1998 n. 69, 29 giugno 1995 n. 285, 16 giugno 1994 n. 241 e 21 aprile 1994 nn. 149 e 155).
Ora da questi principi discendono alcune conseguenze, di cui è necessario cominciare a prendere coscienza.
3.1- Se l'attività dell'amministrazione, anche quando si tratta di rapporti di diritto privato, è sempre vincolata al perseguimento dell'interesse collettivo, vuol dire che la pubblica amministrazione non si trova mai in una posizione di autonomia privata ma si trova sempre in una posizione di discrezionalità, che possiamo anche non definire discrezionalità "amministrativa" tout court per non confonderla con quella tradizionale relativa all'attività di diritto pubblico ma che sempre discrezionalità è.
3.2- Se l'amministrazione, anche quando si tratta di rapporti di diritto privato, si trova sempre in una posizione di discrezionalità vuol dire che l'amministrazione non ha mai diritti, che di regola sono da una parte disponibili e dall'altra liberamente esercitabili senza alcun controllo da parte dell'ordinamento, ma ha sempre potestà, che di regola sono da una parte indisponibili e dall'altra debbono essere sottoposte, nel loro esercizio, al controllo dell'ordinamento.
L'area dei diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quindi si spacca. Quelli di cui era già titolare o diventa ora titolare l'amministrazione (ormai pubblica nel senso solo oggettivo di cura dell'interesse pubblico, e non anche nel senso soggettivo e operativo) confluiscono senza residui tra le potestà. Restano come tali solo i diritti di cui sono titolari i privati in senso stretto, e cioè i soggetti privati che non sono né gestori di pubblici servizi né concessionari di opere pubbliche o che comunque non assumono la qualità di "organi indiretti" della pubblica amministrazione (secondo una definizione erronea ma - purtroppo - corrente).
In conseguenza di ciò:
- per l'amministrazione si riduce l'area delle normali facoltà già ad essa spettanti in materia di diritti mentre aumenta l'area dei doveri (derivanti dal vincolo di destinazione dell'attività). Si forma così un diritto privato di pubblico interesse;
per i privati si amplia invece l'area delle normali facoltà, perché a quelle ad essi già spettanti ai sensi del codice civile si aggiungono le nuove facoltà, aventi la natura di interesse legittimo, consistenti nel potere di pretendere che anche nell'ambito dei rapporti privatistici la discrezionalità dell'amministrazione sia esercitata correttamente.
Pertanto, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, non solo la dialettica diritti soggettivi-interessi legittimi viene superata ai soli fini della giurisdizione ma resta valida a tutti gli altri fini (in particolare, il diverso termine per l'impugnazione); ma anche, contrariamente a quanto comunemente si pensa, l'ambito degli interessi legittimi tutelabili si amplia, non si restringe. E si amplia tanto più se si considera che nello scenario aperto dalla mondializzazione e dall'art. 1 della legge n. 241 del 1990 la nuova amministrazione "per risultati" tende a soppiantare sempre più incisivamente la vecchia amministrazione "per atti"; e di conseguenza il concetto di "correttezza" dell'operato dell'amministrazione tende a spostarsi dalla legittimità formale alla bontà sostanziale, e cioè all'effettiva idoneità dell'attività di conseguire fini di utilità comune e di giustizia nell'amministrazione in quadro di pubblicità e di trasparenza, bontà sostanziale che diventa così la stella polare di tutti gli operatori giuridici.
3.3- Il primato della bontà sostanziale sulla correttezza formale tende a rendere sempre più evanescente la distinzione tra legittimità e merito, o quanto meno a relegare tale distinzione in quel ristretto ambito residuale in cui può essere ancora possibile una scelta discrezionale celerìs paribus. Porta anche al superamento della distinzione tra discrezionalità, amministrativa e discrezionalità tecnica (8). D'altra parte quando anche per la pressione del diritto comunitario si attribuisce valore giuridico positivo a principi di merito, come quelli di economicità, di efficacia, di ragionevolezza (9) e di proporzionalità (10) si fa chiaramente comprendere che il fosso ormai è stato saltato. Anche se nessuno ancora lo ammette apertamente il giudice amministrativo è già investito di una giurisdizione non solo di stretto diritto ma anche economica. E per le materie di giurisdizione esclusiva una chiara prova di ciò si avrà quando verrà applicata la proposta del libro bianco della Commissione dell'Unione Europea, che affida ai giudici nazionali il controllo - sulla base di una valutazione essenzialmente economica - delle intese e posizioni dominanti (11).
3.4- Questa profonda trasformazione fa apparire in tutto il suo rilievo l'attuale consistenza di quella "giustizia nell'amministrazione" che la Costituzione affida alla tutela del giudice amministrativo come funzione distinta dalla tutela degli interessi legittimi e che l'adunanza plenaria conferma come funzione autonoma, e cioè indipendente dalla tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi, anche nel nuovo settore dei rapporti regolati dal diritto civile.
Il giudice amministrativo diventa così il giudice della funzione pubblica nella sua unitarietà, irrilevante essendo che tale funzione sia esercitata nelle forme e con gli strumenti del diritto pubblico ovvero nelle forme e con gli strumenti del diritto privato. E poiché la funzione pubblica è cura concreta dell'interesse pubblico (inteso nel più ampio senso sopra delineato) il giudice amministrativo, quando giudica su rapporti privatistici, opera con gli stessi canoni valutativi che utilizza quando giudica su rapporti pubblicistici, e cioè tenendo presente che mentre il privato è libero di agire ed incontra nell'esercizio della sua autonomia solo alcuni lontani ed eventuali limiti esterni, l'amministrazione è sempre soggetta alla finalizzazione interna (e quindi al controllo) del proprio operato. Di conseguenza, anche se giudice civile e giudice amministrativo possono trovarsi ad esaminare lo stesso genere di rapporti privatistici, la prospettiva d'esame ed il canone di valutazione rispettivi (e quindi l'esito del giudizio) sono profondamente diversi tra loro; non c'è possibilità di reductio ad umum delle due giurisdizioni. E' lo stesso concetto di £legalità" che finisce con l'assumere un significato diverso: essenzialmente formale nel giudizio civile ed essenzialmente sostanziale nel giudizio amministrativo.
3.5- Appare di conseguenza il rilievo ordinamentale delle scelte che il legislatore adesso deve compiere. Infatti il legislatore deve stabilire:
a) se vuole davvero che l'attività dell'amministrazione sia in astratto controllabile e in concreto controllata; volontà che oggi sembrerebbe quanto meno dubbia sia per la nota scomparsa di gran parte dei controlli amministrativi sia per l'emanazione di norme quale l'art. 26 della legge finanziaria del 2000 (23 dicembre 1999 n. 488), di cui si raccomanda vivamente l'inquietante meditazione: perché il legislatore, premesso di voler agire "nel rispetto" (sic) "della vigente normativa in materia di scelta del contraente", per una grande quantità di contratti pubblici di fornitura ha eliminato tutte le garanzie della contabilità di Stato: ha eliminato il parere preventivo del Consiglio di Stato e quelli degli altri normali organi di consulenza tecnica, pareri sostituiti da quelli di imprecisate "società di consulenza specializzate, selezionate anche in deroga alla normativa di contabilità pubblica"; ha eliminato le gare formali per la scelta dei fornitori, sostituite da imprecisate "procedure competitive"; ha eliminato il controllo della Corte dei conti. E quindi tutto quello che resta è solo il dubbio se il proclamato "rispetto delle vigente normativa in materia di scelta del contraente" costituisca o no una manifestazione di umorismo involontario (12);
b) se vuole che il controllo sia effettuato da una magistratura od (anche) da un'autorità indipendente. La scelta dipende dal tipo di combinazione che si intende realizzare tra l'esigenza di neutralità e quella di efficacia operativa. Di regola un'autorità nominata dalla maggioranza è come un arbitro nominato da una squadra di calcio: anche se perfetto può far sorgere nell'altra dubbi di parzialità. Invece una magistratura istituzionalmente terza è - sempre di regola - meno soggetta a dubbi del genere. Per converso l'autorità indipendente è in grado di intervenire con maggiore efficacia, anche perché si tratta di interventi ad alto contenuto tecnico che presuppongono la disponibilità di strutture di settore specialistiche di cui di regola il giudice non dispone.
Trattandosi peraltro di controlli non alternativi, l'ordinamento si sta orientando nel senso di un eventuale controllo tecnico dell'autorità indipendente, sottoponibile a sua volta al controllo giuridico della magistratura, ferma restando - ove possibile - la facoltà di adire direttamente la magistratura stessa; il che sembra la soluzione più razionale.
4.- Il secondo interrogativo, e cioè se il modello generale attuale dei sistema di giustizia amministrativa, ed in particolare quello siciliano, siano in grado di rispondere alle esigenze del federalismo, deve avere una risposta articolata.
A parte le peculiarità della Sicilia e ‑ in misura più attenuata ‑ del Trentino‑Alto Adige, il vigente sistema regionale della giustizia amministrativa è pur sempre promanazione del centro e non della periferia; è una ripartizione verticale e non orizzontale e pertanto non ha valenza federalista. E' cioè regionale solo in senso geografico, nel senso che consta non di uffici giurisdizionali della regione o della provincia autonoma ma di uffici giurisdizionali dello Stato dislocati nella regione o nella provincia autonoma.
E riterrei pericolosa una futura federalizzazione della giustizia: perché è un dato di comune esperienza che l'indipendenza reale dei giudice tende ad essere inversamente proporzionale alla grandezza della formazione sociale che l'ha espresso, per il maggior condizionamento politico che le formazioni sociali minori sono in grado di esercitare in sede locale. E' quindi pienamente condivisibile che i progetti di riforma costituzionale escludano la materia della giustizia da quelle oggetto di trasferimento dallo stato agli enti minori.
Detto questo occorre però tenera presente la particolarità dell'oggetto della giustizia amministrativa. Ci sono sistemi giurisdizionali che, almeno per il momento, non sembrano utilmente federalizzabili: basti pensare alla giustizia costituzionale (non a caso l'Alta Corte per la Sicilia è venuta meno molto presto), o alla giustizia penale e a quella civile (entrambe sottratte alla competenza delle regioni); e questo perché essi trattano ‑ salvo tassative eccezioni ‑ l'applicazione di norme che è opportuno che restino identiche in tutto il territorio nazionale.
Ma la giustizia amministrativa opera su materie rientranti in prevalenza nella competenza regionale. Di conseguenza, in periferia la larga maggioranza delle controversie amministrative attiene all'applicazione di norme proprie esclusivamente delle rispettive regioni.
In una situazione di questo genere la soluzione più logica sarebbe innanzi tutto quella di creare distinti organi statali di secondo grado, a livello regionale per le questioni di interesse regionale, ed a livello centrale per le questioni di interesse superregionale o interregionale. Sembrerebbe invece inopportuno attribuire all'organo centrale di secondo grado anche funzioni di nomofilachia e di terzo grado sulle decisioni degli organi di secondo grado a livello regionale, sia perché ciò non atterrebbe all'unità dell'ordinamento (trattandosi appunto di questioni di esclusivo interesse regionale) sia perché nelle controversie amministrative una giustizia sollecita è di regola preferibile ad una giustizia "giusta" (tra virgolette). Era questo in sostanza il disegno tracciato dal Comitato di studio sulle riforme istituzionali nominato nel 1994 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, disegno che per la giustizia amministrativa era stato particolarmente curato dal professor Nazareno Saitta.
Questo sarebbe però soltanto il primo passo. Poiché giudicare l'amministrazione vuol dire amministrare, e poiché il delitto peggiore che oggi si possa compiere contro la pubblica amministrazione è quello di assoggettarla ad un controllo giurisdizionale meramente formale che ne faccia una macchina con una carrozzeria tirata a lucido ma con il motore sfasato, con il rischio di mettere così fuori mercato in prima battuta l'amministrazione e in seconda battuta l'intero paese, sarebbe poi necessario compiere il secondo passo: e cioè quello di integrare i collegi giudicanti con magistrati "laici" designati dalle regioni, che conoscendo a fondo la specifica realtà locale potrebbero meglio illustrare ai giudici togati le conseguenze concrete di un determinato indirizzo, evitando così decisioni velleitarie o intrinsecamente dannose. Va tenuto presente che rilevante in questo senso è il contributo che i consiglieri di nomina governativa e regionale hanno dato e danno - rispettivamente - all'attività delle sezioni romane dei Consiglio di Stato e all'attività del Consiglio di giustizia amministrativa. Non è un caso che il Consiglio di giustizia amministrativa, non di rado in sintonia con gli indirizzi di un Tar vivace e stimolante qual è quello della Sicilia, si sia posto molte volte all'avanguardia dell'evoluzione giurisprudenziale, per quanto riguarda il valore del giudicato amministrativo ed il giudizio d'ottemperanza (13), la tutela degli interessi sopravvenuti (14), la motivazione postuma del provvedimento impugnato (15), i limiti del potere cautelare (16), l'opposizione di terzo (17), ecc.
Sarebbe poi necessario un terzo passo, che finora non è stato esaminato in sede di riforma del processo.
Il giudice amministrativo concorre a determinare la definizione e l'attuazione dei pubblici interessi, che è tenuto ad equilibrare con gli interessi privati nel segno obbiettivo della giustizia nell'amministrazione; svolge così un'attività che è in un certo modo intermedia tra quella del giudice civile, dinanzi a cui la tutela dei pubblico interesse è eccezionale, e quella del giudice penale, dinanzi a cui è invece eccezionale la tutela dell'interesse privato. Ma malgrado la presenza massiccia e necessaria dei pubblico interesse, che è indisponibile, manca - stranamente - presso il giudice amministrativo un pubblico ministero che possa far valere d'ufficio il pubblico interesse, pubblico ministero che invece è di regola presente nel processo civile quando si tratta di diritti indisponibili.
Le ragioni di tale mancanza sono essenzialmente storiche. La giurisdizione amministrativa è nata per tutelare situazioni allora limitate ed inquadrate nelle correnti concezioni dello Stato etico; si trattava cioè di tutelare il singolo nei confronti della pubblica amministrazione; e in quest'ottica era naturale che le parti se la sbrogliassero tra loro.
Il successivo dilagare dell'intervento dello Stato nel campo sociale e in quello dell'economia ha fatto sì che accanto all'originaria esigenza di tutela del singolo sorgesse una nuova esigenza di tutela della collettività nei confronti della pubblica amministrazione: una deliberazione del CIPE, uno strumento urbanistico toccano gli interessi di un'intera collettività, la cui tutela non può essere rimessa ad eventuali ed isolate iniziative processuali di singoli. Ed è a questa tutela allargata, a ben vedere, che fa riferimento la specifica funzione di assicurare la giustizia nell'amministrazione, prevista dall'art. 100 della Costituzione come funzione diversa e aggiuntiva rispetto a quella di assicurare la tutela degli interessi legittimi di cui al precedente art. 24.
In questo nuovo quadro effettuale la mancanza di un pubblico ministero amministrativo capace di sostituire o di adiuvare eventuali ricorrenti si presenta quanto mai necessaria; per due ordini di considerazioni.
In primo luogo, malgrado alcuni recenti ampliamenti, la legittimazione al ricorso è tuttora legata ad un interesse personale ed attuale, e non può quindi ‑ di regola ‑ invocarsi né in caso di interessi diffusi né in caso di atti illegittimi ma ancora non immediatamente lesivi, che quindi, in contrasto con la logica della prevenzione, è necessario che comincino a creare danni per poter essere impugnati e quindi rimossi dall'ordinamento, con il rischio di effetti negativi irreversibili.
In secondo luogo non è infrequente che il ricorso serva come strumento di ricatto per poter poi ottenere vantaggi illeciti (si hanno, ad esempio, singolari casi in cui il ricorrente vittorioso rinuncia agli effetti della sentenza a lui favorevole, pur in materie di preminente interesse pubblico, quale ‑ ad esempio ‑ quella relativa alle operazioni elettorali); e non è neppure infrequente che avvengano casi di collusione, nei quali l'amministrazione adotta premeditatamente un provvedimento suicida soltanto per farselo annullare e poter poi dimostrare che quello che ha fatto l'ha dovuto fare perché costretta dalla magistratura, o ‑ secondo una più recente locuzione ‑perché costretta dall'uso improprio" della funzione giurisdizionale amministrativa.
In tutti questi casi la presenza nel giudizio di un soggetto pubblico potrebbe impedire questi squallidi giochi e potrebbe assicurare realmente la giustizia nell'amministrazione, dal momento che in uno stato moderno non può più ritenersi ammissibile che la tutela giurisdizionale di preminenti interessi pubblici sia rimessa esclusivamente all'iniziativa privata, specie in un momento in cui le attuali tensioni federaliste fanno presagire un ulteriore ridimensionamento dei poteri di annullamento d'ufficio tuttora spettanti al governo centrale. Privatizzare può essere - di regola - una buona soluzione; ma privatizzare addirittura la cura dell'interesse pubblico mi sembra eccessivo.
Questa cura dovrebbe essere invece affidata ad un soggetto pubblico, sia pure con compiti limitati ad alcune particolari materie, che potrebbe - tra l'altro - utilmente assorbire le varie figure di difensore civico, rimaste per lo più puramente decorative, e potrebbe ad esempio avere il compito di impugnare quei provvedimenti che sono stati oggetto di disapplicazione per (presunta) illegittimità, assicurando così un'efficace opera sia di raccordo tra le giurisdizioni (oggi incredibilmente mancante) sia di pulizia dell'ordinamento che consenta la scomparsa di una serie di gusci vuoti che da una parte restano in formalmente in circolazione disorientando gli operatori e dall'altra creano una molteplicità di microsistemi clandestini - in quanto la disapplicazione non è oggetto, com'è noto, di alcuna forma di conoscenza legale - che sono l'opposto sia del diritto che della giustizia.
Occorrerebbe infine un quarto ed ultimo passo.
L'attuale concezione dello stato-azienda ed il conseguente primato dei valori economici e sostanziali richiede un sistema che non solo sia posto in grado di correggere gli errori ma anche, e soprattutto, sia posto in grado di non sbagliare; perché l'errore rappresenta comunque un danno per la collettività. Nessuna azienda seria si sognerebbe di immettere sul mercato prodotti non testati. Sarebbe quindi quanto mai opportuno estendere a tutte le regioni quell'ormai collaudata funzione consultiva che attualmente viene esercitata solo dal Consiglio di giustizia in Sicilia.
Se tutti questi passi strutturali venissero compiuti potrebbe realizzarsi pragmaticamente un assetto parafederalista che da una parte non comprometterebbe il carattere "uno e indivisibile" della Repubblica e dall'altra assicurerebbe alle singole regioni sia una significativa presenza nella decisioni delle questioni di rispettivo interesse sia la possibilità di risolvere in sede locale le questioni stesse.
In conclusione, l'avvicinamento della giustizia amministrativa alla realtà locale andrebbe attuato non in base al principio del trasferimento, proprio del federalismo, ma in base al principio della partecipazione, già realizzato da un cinquantennio e in modo positivo dal Consiglio di giustizia amministrativa, la cui cinquantennale concreta esperienza merita quindi la più attenta considerazione (18).
E' ovvio peraltro che tale ampliamento della partecipazione presuppone le predeterminazione di adeguati filtri, per assicurare nei magistrati "laici":
a) il possesso di una specifica professionalità (attestata, ad esempio, da una scelta tra i professori universitari di materie giuridiche o tra avvocati cassazionisti);
b) l'inesistenza di situazioni di conflitto d'interessi;
c) la designazione da parte dell'assemblea regionale e non da parte dell'amministrazione regionale, che appare sempre più destinata ad essere la semplice cinghia di trasmissione della volontà del presidente della regione e che quindi non può concorrere a designare giudici di controversie che hanno per oggetto proprio atti o comportamenti dell'amministrazione stessa;
d) la preclusione ad incarichi regionali per un congruo periodo successivo alla cessazione dalle funzioni di magistrato amministrativo.
5.- Le riforme strutturali dell'assetto della magistratura amministrativa richiedono certamente l'intervento del legislatore.
Ma oltre a queste riforme interventi strutturali occorre anche, e soprattutto, un nuovo organico disegno della disciplina del processo amministrativo che, completando la riforma parziale introdotta dalla legge 21 luglio 2000 n. 205, consenta di far fronte alle nuove esigenze operative originate dall'attuale dislocamento della giurisdizione amministrativa su basi di giurisdizione esclusiva.
Purtroppo ottenere questo è particolarmente difficile; perché la giurisdizione amministrativa sta attraversando una fase di profonda trasformazione che investe sia il suo oggetto formale (che tende a spostarsi sui diritti soggettivi e quindi sull'attività di diritto privato, marginalizzando gli interessi legittimi; il che richiede l'introduzione di tecniche proprie del diritto processuale civile) sia per quanto riguarda il suo oggetto sostanziale (che, in un sistema generale in cui i principi di economicità e di efficienza sono divenuti principi di costituzione materiale economica ed in cui il modulo operativo è quello dell'amministrazione "per risultati", tende a spostarsi su questi ultimi, marginalizzando il rilievo della legittimità formale; il che richiede l'introduzione di tecniche proprie del controllo aziendale).
Di conseguenza, bisogna onestamente riconoscere che nessuno al momento attuale è in grado di stabilire una disciplina completa e precisa di questa giurisdizione, quando solo l'esperienza concreta sul campo potrà veramente metterne a fuoco i problemi reali. Sarebbe quindi opportuno che il legislatore, indicati gli obbiettivi da raggiungere, consentisse alla magistratura amministrativa di prendere esempio dalla Corte di cassazione, che com'è noto si sta impegnando in un'assidua e produttiva opera di riscrittura di gran parte della disciplina codicistica, utilizzando se necessario anche sedi improprie, quale quella scelta dall'ormai celebre sentenza 22 luglio 1999 n. 500 sulla cosiddetta risarcibilità degli interessi legittimi, che - a rigore - essendo una declaratoria di inammissibilità avrebbe dovuto concludersi in poche righe (19).
L'immagine del giudice amministrativo moderno non può più coincidere con l'immagine del "Judge asleep", il giudice dormiente della National gallery di Dublino, efficacemente ricordata dal professor Giovanni Virga (20): deve invece coincidere con quella del giudice impegnato al massimo ad utilizzare, con coraggio, quello strumento della "interpretazione creatrice" che ha permesso alla Cassazione la sentenza 500, ha permesso alla magistratura amministrativa di creare pressoché dal nulla gran parte dell'attuale sistema del diritto amministrativo. E' indubbiamente un compito difficile; ma occorre farlo nell'interesse di quei valori costituzionali alla cui tutela questa magistratura è preordinata. Ed occorre farlo nel segno della concretezza perché, nel pubblico interesse, occorre che le magistrature possano far procedere parallelamente l'evoluzione giuridica e l'evoluzione economica.
Uno che di evoluzione se ne intendeva, Charles Darwin, ha scritto: "Quelli che sopravvivono non sono né i più forti della specie né i più intelligenti, ma quelli più pronti a reagire ai mutamenti" (21).
Il futuro della giustizia amministrativa è quindi un futuro ricco di promesse: ma è essenzialmente un futuro interiore: è cioè un futuro che non appartiene solo al parlamento ma anche a tutte le altre forze vive - magistratura, dottrina e foro - interessate all'effettività della giustizia amministrativa; forze che debbono prima acquisire consapevolezza al proprio interno delle nuove esigenze sostanziali e processuali e quindi impegnarsi a costruire un nuovo sistema concreto. Due brevi esempi per tutti. In sede giurisdizionale il soddisfacimento concreto del ricorrente attualmente richiede - di regola - due condizioni, e quindi due fasi successive: l'accoglimento del ricorso e gli ulteriori adempimenti dell'amministrazione (o la decisione d'ottemperanza).
Ora, atteso il dovere di assicurare quell'effettività della giustizia di cui sono componenti necessarie la tempestività e la razionalità, ritengo che ben si potrebbe non limitare il dispositivo all'annullamento ma caricarlo fin dal primo momento anche di tutti quelle statuizioni costitutive e ordinatorie che possano garantire, anche sotto il potere temporale, un soddisfacimento reale di chi ha ragione. Un secondo esempio. La legge n. 205/2000 ha giustamente potenziato il momento cautelare sia in sede consultiva (attribuendo valore vincolante al parere della Sezione).
Ma in sede consultiva i meccanismi del procedimento sono tali da non consentire al ricorrente di ottenere una sospensione in tempi rapidi. Quindi il ricorrente abbiente, che può permettersi la costosa sede giurisdizionale, può ottenere molto di più del ricorrente non abbiente, che può permettersi solo la semigratuita sede consultiva. In una situazione dei genere, al limite della costituzionalità, ritengo che ben si potrebbe instaurare in via interpretativa una prassi secondo cui, ai soli fini della sospensiva, il ricorrente in via straordinaria una volta proposto il ricorso possa adire direttamente la sezione consultiva senza sobbarcasi al defatigante iter dell'art. 11 del decreto presidenziale sui ricorsi n. 1199/1971 .
Anche questo sarebbe "leale cooperazione" tra poteri dello Stato; leale cooperazione tanto più necessaria in quanto nel quadro generale della globalizzazione l'asse reale della rilevanza tende a spostarsi dal momento formale astratto al momento operativo concreto, rivalutando così la funzione della giurisprudenza rispetto a quella della legge.
Certo quando si parla di "interpretazione creatrice" è inevitabile correre due rischi.
Il primo rischio è che ci sia diversità di idee tra i vari collegi giurisdizionali. Ma questa diversità, quando - come sinora è avvenuto - è frutto di una sincera volontà di perseguire la giustizia nell'amministrazione anche se non può essere sempre condivisa da tutti va sempre rispettata da tutti, perché le idee diverse, come i raggi di una ruota, partono da punti diversi ma convergono tutti allo stesso centro; e comunque è sempre positiva, perché il peggio che possa accadere al pensiero giuridico è quello di essere colpito da una sorta di ictus professionale che lo immobilizzi sulla sedia a rotelle dell'abitudine e del conformismo. E nessuno, a nessun livello, può pretendere di avere il monopolio della verità, anche se ad un certo punto, per la certezza del diritto, è necessario che si formi una verità legale, valida per tutti.
Il secondo rischio, quando una magistratura lavora in condizioni di questo genere, al di fuori di rigidi binari normativi, è quello di cadere nell'eresia. Ma a volte l'eresia può essere il rischio necessario di chi si propone di avvicinarsi alle fonti dell'ortodossia. E' la vita stessa ad essere un rischio.
E quindi, come insegna Pascal, il faut parier: bisogna scommettere su questo futuro. Ci sono due buoni motivi per farlo. Il primo motivo è che finora nell'esercizio della sua funzione di interpretazione creatrice la magistratura amministrativa ha ampiamente meritato la fiducia e la considerazione dell'ordinamento, che in gran parte ha costruito il sistema normativo proprio recependo le indicazioni giurisprudenziali. Il secondo motivo è che l'alternativa al rischio è quella dell'immobilismo psicologico e ideale sull'equazione tradizionale pubblica amministrazione = provvedimento amministrativo; e così di fare da una parte le vestali di un diritto ormai in via di estinzione e dall'altra i burocrati di questo diritto. Ma oggi per far questo non ci sarebbe bisogno di una magistratura. Basterebbe predisporre un buon software e fare una giustizia computerizzata.
Solo che così si avrebbe un progressivo scollamento tra ordinamento quale finora è stato e ordinamento nel suo divenire reale, con grave pericolo per la stessa democrazia - perché, come affermava Vittorio Emanuele Orlando - la libertà reale è frutto non tanto delle leggi civili quanto delle leggi amministrative (che costituiscono, oltre tutto, la massima parte della produzione legislativa) e soprattutto dell'applicazione concreta delle leggi amministrative. E non è certo questo scollamento che noi tutti vogliamo.
Occorre quindi un impegno concorde di tutte le forze vive della giustizia amministrativa perché possa davvero realizzarsi una riforma del processo amministrativo fondata sulla centralità dell'interesse pubblico; e quindi fondata su una nuova concezione che non indulga né ad una ormai anacronistica adorazione del mito del provvedimento amministrativo né ad un altrettanto anacronistico ingresso massiccio dei principi civilistici e processualcivilistici, fondati sull'opposta base della parità solo formale degli interessi in gioco, il cui assetto sostanziale viene lasciato alla legge del mercato, che altro non è che la legge della giungla in gessato grigio. Se questa nuova concezione non prevarrà, se cioè il legislatore e gli operatori giuridici non sapranno coniugare il contenuto pubblico (e cioè l'interesse pubblico) con la forma privatistica, la giustizia amministrativa perderà ogni autonoma ragione d'essere.
Ma, cosa ben più grave, potrebbero essere compromessi "valori" ben più sostanziali di solidarietà politica, economica e sociale, di pari dignità sociale di tutti i cittadini, di tutela della qualità della vita e del lavoro, di giustizia sostanziale nell'amministrazione; valori che costituiscono le fondamenta di un ordinamento realmente democratico e sui quali il senatore Pellegrino ed il professor Guido Corso hanno giustamente richiamato l'attenzione di tutti nel convegno sull'ambiente svoltosi a Genova nell'ottobre dell'anno scorso.
6.- Vorrei concludere con un appello che potrebbe sembrare solo di colore ma che credo abbia anche un minimo di sostanza.
Nel diritto romano non si era mai pensato di scrivere con l'iniziale maiuscola le parole rex, consul, imperator, senatus, repubblica e simili. Nei voti dei parlamenti siciliani del 1129 1130 i titoli di Ruggero il normanno di dux (prima) e di rex (poi) erano scritti con l'iniziale minuscola. Nello statuto albertino del 1848 due soli soggetti erano indicati con l'iniziale maiuscola: "Iddio" e "Stato"; forse è per questo che nell'ottocento Silvio Spaventa poteva confessare di "adorare lo Stato" (22). Tutti gli altri soggetti - re, senato, camera dei deputati, ecc. - erano indicati con l'iniziale minuscola.
La situazione non era cambiata neppure nel periodo fascista: i termini re imperatore, capo del governo, gran consiglio del fascismo, e simili erano indicati con l'iniziale minuscola.
Da questa tradizione ultrabimillenaria si è distaccata la Costituzione repubblicana, in cui i termini Costituzione, Repubblica, Presidente della Repubblica, Governo, Consiglio dei ministri, ecc., sono sempre scritti con l'iniziale maiuscola.
A quest'uso, ovviamente, si adeguano le attuali proposte di legge sul federalismo. Tutte le maiuscole però si fermano al "pubblico", senza raggiungere il termine "popolo", malgrado proprio nel popolo, e quindi nei cittadini, l'art. 1 della Costituzione ponga la sede della sovranità e quindi la fonte che legittima l'esistenza e l'operato di qualsiasi potere pubblico. E questa regressione formale del "non pubblico" non sembra coerente con un ordinamento in cui i singoli, che costituiscono il popolo, hanno finalmente abbandonato le dimesse vesti di "amministrati", di mero oggetto della potestà pubblica, per acquistare lo status di "cittadini" pleno iure, che cooperano attivamente e in posizione di parità con le pubbliche istituzioni alla determinazione del destino comune; e desta anche qualche preoccupazione perché oggi il soggetto se non proprio da adorare quanto meno da trattare con subordinata reverenza non è più "lo Stato", considerato nella sua interezza (che abbraccia tutti), ma qualsiasi centro del potere pubblico, sottolineando così la distanza tra istituzioni e cittadini.
Perciò mi permetto di rivolgere un sommesso appello agli autorevoli parlamentari in ascolto: per favore, valutate la possibilità che tutti noi semplici cittadini si possa ottenere una posizione di parità formale corrispondente a quella parità sostanziale che siamo riusciti ad ottenere con tanta fatica. Valutate la possibilità che nella nuova Costituzione vengano eliminate le maiuscole di troppo. E se proprio ritenete che le maiuscole non siano eliminabili valutate almeno l'opportunità che con l'iniziale maiuscola sia scritto anche il termine "popolo".
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(*) Relazione presentata al convegno di studi sul tema "La Giustizia Amministrativa tra nuovo modello regionale e modello federale", svoltosi a Palermo il 30 e 31 ottobre, 2000.
(1) G. AMBROSINI, Lezioni di diritto costituzionale, Colombo, II, 1955, 9.
(2) Ult. cit., 10.
(3) Ult. cit., 11.
(4) Ult. cit., 95.
(5) F. GALGANO ed altri, Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, il Mulino, 1993, 13 ss.
(6) Citato da I. C. ERMES, La lezione di Tocqueiville, in Realtà, n. 2/2000, 12.
(7) Ord. 30 marzo 2000 n. 1, in Cons. Stato, 2000, 1, 767.
(8) S. BACCARINI, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in Sospensive, 2000, 21199.
(9) V. Cons. Stato, ad. plen. 6 febbraio 1993 n. 3, in Cons. Stato, 1993, 1, 153, e R. LASCHENA, Discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato, che rileva che "i principi di celerità, di snellezza del procedimento, di efficienza, di efficacia, di economicità, per citare solo quelli che con maggiore frequenza ed enfasi sono richiamati dalle norme, operano come canoni integrativi del parametro di legittimità dell'azione amministrativa e richiedono, quindi, che il giudizio non sia solo un giudizio di corrispondenza (fra norma e atto) ma anche un giudizio di idoneità".
(10) Nel saggio La proporzionalità dell'azione amministrativa, CEDAM 1998, A. SANDULLI rileva: "In realtà, clausole generali ispirate all'economicità e all'efficacia dell'azione amministrativa sono da sempre presenti nel nostro ordinamento. Soltanto la visione ristretta dei concetti di legalità e di legittimità e la costruzione del sindacato di legittimità come giudizio di corrispondenza tra norma e atto hanno impedito alle stesse di fungere "da canoni integrativi del parametro di legittimità dell'azione amministrativa".
La funzione "veicolare" svolta dalla legge n. 241/1990 e dal diritto comunitario sembra aver rimosso definitivamente questa concezione ed introdotto nel sindacato del giudice amministrativo un flessibile giudizio di corrispondenza dei mezzi rispetto ai risultati, volta ad una valutazione che tenga conto anche dei principi di celerità, snellezza procedimentale, efficienza, efficacia, economicità" (pag. 283), dal momento che non è "detto che tali ultimi profili debbano essere necessariamente inquadrati nel cd. merito amministrativo" (pag. 316).
(11) A. Frignani, E. Gentile e G. Rossi, La devolution dell'antitrust. Prime riflessioni intorno al "libro bianco" sulla modernizzazione, in Mercato, concorrenza, regole, n. 1/2000, pag. 171 ss.
(12) S. GIACCHETTI,La finanziaria 2000 apre la caccia ai controlli pubblici, in Cons. Stato, 2000, II, 789.
(13) C.G.A., 22 marzo 1993 n. 114, in Cons. Stato, 1993, I, 434; S. GIACCHETTI, L'araba fenice del giudicato amministrativo, in Scritti in onore di Pietro Virga, Giuffré, 1994, 907.
(14) C.G.A., 26 febbraio 1987 n. 61, in Cons. Stato, 1987, I, 249, e 10 maggio 1988 n. 87, in Cons. Stato, 1988, I, 761.
(15) C.G.A., 20 aprile 1993 n. 149, in Cons. Stato, 1993, I, 569; S. GIACCHETTI, Fontanazzi giuridici: l'integrazione in corso di giudizio del procedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1995, 18.
(16) Ordinanze 18 luglio 1990 n 228 e 9 ottobre 1993 n. 536, su cui v. S. GIACCHETTI, L'esecuzione delle statuizioni giudiziali nei confronti della P. A. e la foresta di Sherwood, in Cons. Stalo, 1997, II, 409 e Giur. Amm. Siciliana, 1997, 1071, ripubblicato in questa rivista elettronica.
(17) C.G.A., 13 giugno 1996 n. 196, in Cons. Stato, 1996, I, 1027.
(18) Cfr. al riguardo V. SALAMONE, La funzione di consulenza al Governo regionale e il ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana. Intervento al convegno oggetto della presente relazione, par. 6, in corso di stampa e pubblicato in Diritto e Diritti, n. 11/2000.
(19) Rileva V. CAIANIELLO, Postilla in tema di riparto di giurisdizioni, in Foro amm., 1999, 2037, che "il primo interrogativo che ci si deve porre è se la Cassazione ‑ una volta correttamente ritenuto che la questione della risarcibilità degli interessi legittimi sia una questione di merito e non di giurisdizione ‑ potesse ugualmente affrontarla e risolverla positivamente in un giudizio su ricorso per regolamento di giurisdizione che contemporaneamente è stato dichiarato inammissibile. Trattandosi di questione di merito non ne era precluso l'esame "nel merito" in sede di giudizio sulla giurisdizione, potendo essere affrontata dalla Cassazione soltanto su ricorso ex art 360 c.p.c.? Ma cosa fatta capo ha".
(20) G. VIRGA, Il giudice dormiente e la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi, in Lexitalia.it.
(21) Citato da C. DE BENEDETTI, L'avventura della nuova economia, Longanesi, 2000, 23.
(22) Citato da S. CASSESE, Lo Stato introvabile. Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, Donzelli, 1998, 23.