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Salvatore Giacchetti
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)
 
L’esecuzione delle statuizioni giudiziali
nei confronti della P.A. e la foresta di Sherwood

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SOMMARIO: 1.- L’esecuzione delle: a) statuizioni di condanna passate in giudicato; b) statuizioni di illegittimità ad effetto conformativo passate in giudicato; c) statuizioni di condanna o di illegittimità ad effetto conformativo non passate in giudicato, d) statuizioni di sospensione cautelare rimaste senza esito; e) statuizioni di sospensione cautelare «propulsive». 2.- La potestà ordinatoria del giudice amministrativo e la sua strumentalità: a) istruttoria, b) attuatoria; c) cautelare. I limiti generali della potestà ordinatoria. L’ordine giudiziale improprio (a carattere enunciatorio). 3.- L’esecuzione delle sentenze passate in giudicato. 4.- L’esecuzione delle sentenze di primo grado non passate in giudicato. 5.- L’esecuzione delle ordinanze di sospensione cautelare. 6.- L’esecuzione delle ordinanze cautelari «propulsive»: l’orientamento del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana. L’asserito carattere «tralaticio e conservatore», «poco garantista», «erroneo» e «deviante» di tale indirizzo. Le giustificazioni dell’indirizzo stesso: il carattere incidentale della fase cautelare; l’eccessiva dilatazione dei poteri del giudice; la strumentalità della fase cautelare alla decisione definitiva; la possibile coesistenza di provvedimenti incompatibili; la potestà ordinatoria nei soli confronti della pubblica amministrazione; il perdurare del giudizio sull’atto. 7.- I pericoli della foresta di Sherwood.
 

1.- Nella giustizia amministrativa un problema di esecuzione di provvedimenti del giudice nei confronti della pubblica amministrazione si pone con riferimento a cinque principali gruppi di statuizioni:

a) le statuizioni di condanna contenute nel dispositivo di sentenze passate in giudicato (o di provvedimenti equivalenti: decreti ingiuntivi divenuti inoppugnabili), rese in materia di diritti soggettivi dal giudice ordinario ovvero dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva o di giurisdizione di merito;

b) le statuizioni di illegittimità contenute nella motivazione di sentenze di annullamento del giudice amministrativo passate in giudicato e relative ad interessi pretensivi o partecipativi, dalle quali sorga per l’amministrazione il cosiddetto effetto conformativo, e cioè il dovere di provvedere nuovamente in modo legittimo;

c) le statuizioni di condanna, o di illegittimità ad effetto conformativo, contenute in sentenze non passate in giudicato:

d) le ordinanze cautelari di sospensione che non siano state ottemperate;

e) infine, le ordinanze cautelari di sospensione cosiddette «propulsive», che cioè non si limitano a sospendere il provvedimento impugnato ma anche ordinano all‘amministrazione comportamenti positivi, quali in particolare il riesame di una determinata situazione alla luce dei principi di diritto enunciati dal giudice o addirittura l’adozione di uno specifico provvedimento.

Restano fuori dall’area teorica di una possibile esecuzione le sentenze di rigetto, le statuizioni di illegittimità contenute nella motivazione di sentenze di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi e le sentenze di accertamento, e cioè le sentenze cosiddette autoesecutive, che non richiedono ex se l’adozione di provvedimenti ulteriori da parte dell’amministrazione.

Nell’area dell’esecuzione rientrano quindi situazioni molto diverse tra loro. Ed infatti:

- nel caso sub a) l’amministrazione ha l’obbligo di dare esecuzione e l’attore o ricorrente vittorioso ha il diritto soggettivo di pretenderne il puntuale adempimento; lo strumento è il giudizio d’ottemperanza; in tale sede il giudice amministrativo può esercitare, oltre i normali poteri cassatori, anche gli straordinari poteri che gli spettano in sede di giurisdizione di merito, ed in particolare il potere di sostituirsi all’amministrazione nel fare quanto dovuto (che è la manifestazione più evidente del principio secondo cui giudicare l’amministrazione vuol dire amministrare), e quindi a maggior ragione ha il potere di ordinare all’amministrazione di fare quanto dovuto; tali poteri straordinari - da esercitare direttamente o mediante un commissario ad acta - possono essere finalizzati sia alla esecuzione in senso stretto (con riferimento alle statuizioni di condanna dirette, puntuali e specifiche, alle quali il giudice si limita a prestare il braccio armato della legge) sia alla attuazione in senso stretto (con riferimento o alle statuizioni indirette, derivanti cioè dal contenuto conformativo della motivazione, o alle statuizioni strumentali adottate per la prima volta dal giudice per rendere concretamente operante il dictum che si tratta di portare ad effetto; casi entrambi in cui il giudice unisce al braccio armato l’attività concreta di amministratore) (1);

- nel caso sub b) l’amministrazione ha il dovere di dare esecuzione e il ricorrente vittorioso, titolare dell’interesse pretensivo o partecipativo, ha l’interesse legittimo di pretenderlo; lo strumento è la riapertura del procedimento amministrativo e l’eventuale successiva impugnazione del silenzio o del nuovo (e diversamente motivato) provvedimento negativo; il giudizio d’ottemperanza è ammissibile solo se e nei limiti in cui il comportamento dell’amministrazione sia qualificabile elusione del giudicato;

- nel caso sub c) l’amministrazione ha la facoltà di dare esecuzione e l’attore o il ricorrente vittorioso ha solo un interesse semplice in tal senso; non ci sono quindi strumenti giurisdizionali per ottenere coattivamente l’esecuzione;

- nel caso sub d) il ricorrente vittorioso ha diritto di pretendere l’esecuzione; lo strumento è una nuova fase cautelare che assume parte dei contenuti del giudizio d’ottemperanza;

- nel caso infine sub e) tutto dipende dalla soluzione di un problema preliminare: e cioè stabilire se le ordinanze cosiddette propulsive siano ammissibili, e - nell’affermativa - in quale misura. Rinvio pertanto a quanto osserverò al paragrafo 6.

Pertanto quando si parla di «esecuzione» occorre tener presente: a) che si tratta di situazioni non omogenee sotto il profilo sia della situazione soggettiva dell’attore o del ricorrente vittorioso (diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse semplice) sia della situazione soggettiva dell’amministrazione (obbligo, dovere, facoltà) sia della strumento processuale necessario (giudizio d’ottemperanza, giudizio di legittimità, ordinanza cautelare) sia infine dei poteri del giudice amministrativo (sostitutivi, ordinatori, cassatori); sicchè il generico termine «esecuzione» non ha un preciso valore tecnico giuridico ma soltanto il valore puramente descrittivo, dall’esterno di situazioni disparate, i cui principi non sono - di regola - senz’altro esportabili dall’uno all’altro gruppo;

b) che in via generale l’ordinamento prevede che il giudice amministrativo possa adottare solo statuizioni costitutive di annullamento o di sospensione, in quanto le statuizioni di condanna e soprattutto quelle sostitutive (in cui è senz’altro implicito anche la potestà ordinatoria) hanno carattere eccezionale;

c) che pertanto la potestà del giudice amministrativo di adottare statuizioni ordinatorie in sede di giurisdizione di legittimità è sicuramente ammissibile solo nei limiti in cui esse possano svolgere una funzione strumentale.

I cinque gruppi che ho indicato possono essere esaminati sia mediante un criterio trasversale e orizzontale (situazione soggettiva, poteri del giudice, ecc.) sia mediante un criterio verticale (con riferimento allo specifico tipo di giudizio - d’ottemperanza, di legittimità, cautelare, ecc. - in cui vengono in rilievo). Per comodità espositiva e semantica mi atterrò al secondo criterio, che è quello comunemente utilizzato, pur avvertendo che i criteri trasversali sarebbero più interessanti, in quanto meglio in grado di analizzare le convergenze e le divergenze fra i vari gruppi; la maggiore attenzione sarà data al quinto gruppo, e cioè a quello delle ordinanze cautelari cosiddette «propulsive», in quanto per gli altri quattro dottrina e giurisprudenza sono abbastanza stabilizzati e non sussistono più significativi aspetti problematici; sicchè il loro esame avrebbe un carattere essenzialmente espositivo, privo di particolare interesse.

Devo però premettere un breve accenno alla potestà ordinatoria del giudice amministrativo, per chiarire un necessario presupposto logico di quanto dirò dopo.

 

2.- In un quadro generale di divisione dei pubblici poteri, qual’è quello del nostro sistema costituzionale, una potestà ordinatoria del giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione è ammissibile - salvo diverse espresse disposizioni di legge - solo se abbia carattere strumentale.

Tale strumentalità - in astratto - può essere collegata: a) ad una decisione giurisdizionale da prendere in futuro (strumentalità istruttoria); b) ad una decisione giurisdizionale già presa in passato e rimasta inattuata o presa contestualmente e ancora da attuare (strumentalità attuatoria); c) all’esigenza di rendere possibile in modo immediato e diretto, prescindendo cioè dal filtro di un’altra decisione giurisdizionale, la tutela della situazione soggettiva dedotta in giudizio (strumentalità cautelare).

La strumentalità istruttoria è l’unica espressamente prevista dall’ordinamento (art. 44 del R.D. 26 giugno 1924 n. 1054; artt. 26-35 del regolamento 17 agosto 1907 n. 642; art. 21 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034); e non crea particolari problemi sistematici, salvo quelli (non rilevanti in questa sede) relativi all’estensione più o meno piena alla giurisdizione esclusiva del regime probatorio della giustizia civile (cfr. Corte costituzionale 28 giugno 1985 n. 190).

Notevoli problemi creano invece la strumentalità attuatoria e quella cautelare, in quanto, a differenza della precedente, possono essere preordinate ad imporre all’amministrazione l’esercizio non già di un’attività meramente materiale (deposito di atti) o di un’attività di scienza (chiarimenti e verificazioni) ma di una vera e propria attività decisoria, con conseguente incidenza sulla sfera di attribuzioni proprie di un altro pubblico potere.

Proprio per tale incidenza deve ritenersi che, nel silenzio della legge, una potestà ordinatoria piena, con finalità attuatoria o cautelare, sussista solo nei casi in cui il giudice amministrativo giudichi in materia di diritti (perchè in questo caso l’amministrazione non si trova in posizione di potere pubblico ma in posizione di pariteticità; e quindi il ricorrente deve poter fruire di una protezione analoga a quella di cui può fruire l’attore dinanzi al giudice civile) ovvero abbia giurisdizione di merito (perchè in questo caso è proprio l’ordinamento a prevedere, al fine di evitare rotture costituzionali, la norma di chiusura della sostituzione di un potere ad un altro, di cui agli artt. 27, n. 4, del R.D. n. 1054/1924 e 37 della L. n. 1034/1971). In entrambi i casi la pienezza della potestà ordinatoria si giustifica, a ben vedere, con la ragione sistematica che il giudice amministrativo è giudice di diritti e quindi è giudice del rapporto e non dell’atto (che non è necessario e da cui si può comunque prescindere) e con la naturalità della potestà ordinatoria e di condanna che è propria del giudice dei diritti.

Lo scenario muta in sede di giurisdizione di legittimità. In questa sede il giudice è giudice dell’atto e non del rapporto, sicchè l’eventuale esercizio di una potestà ordinatoria - del tutto eccezionale in un sistema che vede il giudice degli interessi unicamente come giudice di annullamento, e che non conosce neppure l’azione di adempimento che altri ordinamenti, ad esempio quello tedesco, conoscono per la realizzazione coattiva di provvedimenti non discrezionali ma vincolati - può ritenersi ammissibile solo nei casi in cui sia necessario per eseguire una precedente statuizione giurisdizionale divenuta irrevocabile (almeno rebus sic stantibu) ovvero per rendere concretamente operante - in modo pieno e concreto - il dictum giudiziale che si va ad adottare: può cioè ritenersi ammissibile solo nei limiti della strumentalità attuatoria E’ - ad esempio - pacificamente riconosciuto che nei casi di impugnazione di diniego di ammissione ad un concorso o ad una gara il giudice possa emanare il cosiddetto «ordine di ammissione con riserva» nei limiti in cui ciò non provochi un’immutazione tendenzialmente irreversibile dello stato di fatto, ammissione i cui effetti - e la circostanza è particolarmente significativa - restano comunque circoscritti nell’ambito dell’atto impugnato e non danno alcun titolo - ad esempio - nè alla nomina al posto messo a concorso nè all’aggiudicazione della gara. Ma a ben vedere in tali casi il termine «ordine» è usato in senso atecnico e descrittivo: perchè se il diniego di ammissione è reso temporaneamente inefficace dall’ordinanza di sospensione è evidente che l’interessato ha pieno titolo a partecipare al concorso o alla gara, senza che ciò richieda o comporti un’ulteriore specifica volizione ammissiva da parte dell’amministrazione; il cosiddetto «ordine» quindi non è altro che una non necessaria enunciazione giudiziale di quello che deve essere il futuro corretto operare dell’amministrazione come conseguenza automatica immediata e diretta della pronuncia principale. Per le stesse ragioni è invece pacificamente escluso che possa ordinarsi il rilascio con riserva di una concessione edilizia o di un qualsiasi altro provvedimento a contenuto decisorio.

Per quanto infine riguarda la strumentalità cautelare nel giudizio di legittimità il problema si risolve in quello dei limiti di ammissibilità delle ordinanze cosiddette «propulsive». Si fa quindi rinvio a quanto osservato al successivo n. 6.

 

3.- Per quanto riguarda l’esecuzione delle sentenze passate in giudicato l’ordinamento si è ormai stabilizzato nel senso che il relativo giudizio, ribattezzato da M. S. Giannini «di ottemperanza»:

a) debba essere inquadrato nella giurisdizione esclusiva, oltre che di merito, del giudice amministrativo, e consenta quindi il pieno esercizio di poteri sostitutivi (2) nonchè limitatamente agli atti paritetici - del potere di disapplicazione (3);

b) è ammissibile anche quando l’amministrazione debba svolgere un’attività non provvedimentale ma materiale (4);

c) è ammissibile anche nei casi di diretta violazione del giudicato (5);

d) si articola in due forme logicamente distinte: e cioè in un obbligo di «esecuzione» in senso stretto, preordinato a realizzare statuizioni puntuali e tassative della sentenza, e in un dovere di «ottemperanza» in senso stretto, preordinato a realizzare quelle statuizioni della sentenza che postulano un potere di scelta da parte dell’amministrazione (6).

La complessa problematica di tale giudizio non può essere utilmente sintetizzata in questa sede. Si fa rinvio pertanto alla relazione al governo Il Consiglio di Stato nel quindicennio 1976-1990, 1995, cap. XI.

 

4.- Per quanto riguarda l’esecuzione delle sentenze di primo grado non passate in giudicato l’art. 33 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 stabilisce da una parte che le sentenze dei T.A.R. sono «esecutive» e dall’altra che il ricorso in appello «non sospende l’esecuzione della sentenza impugnata» e che il giudice d’appello può tuttavia «su istanza di parte» disporre che l’esecuzione sia sospesa «qualora dall’esecuzione della sentenza possa derivare un danno grave e irreparabile».

Queste disposizioni, non perspicue e non chiaramente raccordabili con quelle relative all’esecuzione di giudicato, hanno dato luogo - com’è noto (7) - ad un non ancora sopito dibattito sulla possibilità di esecuzione coattiva immediata delle sentenze di primo grado non ancora passate in giudicato.

In materia l’Adunanza plenaria, con sentenza 23 marzo 1979 n. 12 (8), ha stabilito il principio che le disposizioni suddette vanno interpretate nel senso che l’amministrazione, prima del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, ha una semplice facoltà, e non l’obbligo, di eseguire la sentenza stessa.

Tale principio costituisce ormai ius receptum; sicchè è inutile continuare ad approfondire il suddetto dibattito.

 

5.- L’esecuzione delle ordinanze cautelari di sospensione rimaste di fatto ineseguite ha un fondamento diverso da quello del giudizio d’ottemperanza: non l’esigenza di adeguare l’ordinamento ad una certezza legale, qual è quella che discende dal giudicato, ma l’esigenza di assicurare la serietà della funzione giurisdizionale. Infatti, come incisivamente rilevato dalla Corte Costituzionale proprio in tema di poteri cautelari del giudice amministrativo «deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonchè dell’imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nella pronuncia e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione (eccettuati i casi di impossibilità dell’esecuzione in forma specifica) altro non sarebbe che un’inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto; ....In questi termini la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, in quanto connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria» (9).

Ed era stato per considerazioni simili che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 30 aprile 1982 n. 12 (10), aveva già affermato il principio che il giudice amministrativo ha, per l’esecuzione delle ordinanze cautelari rimaste di fatto ineseguite, poteri analoghi a quelli che ha in sede di giudizio d’ottemperanza, e quindi ha anche poteri sostitutivi.

Questo indirizzo va certamente condiviso, con l’avvertenza: a) che l’esercizio della potestà sostitutiva in sede di esecuzione di precedenti ordinanze di sospensione legittimamente adottate non comporta - ovviamente - la possibilità di esercitare la potestà stessa già in sede di sospensione, in prima battuta. La finalità è diversa: assicurare la serietà della funzione giurisdizionale, nel primo caso; assicurare la legittima funzione e l’utilità concreta del processo nel secondo caso;

b) che l’analogia con il giudizio d’ottemperanza è solo parziale; nel senso che, poichè l’ordinanza cautelare è legata allo status quo ed è quindi revocabile, l’esecuzione può legittimamente essere disposta solo a condizione che non dia luogo a situazioni irreversibili.

 

6.- Problemi continuano invece a sussistere in ordine ai limiti di ammissibilità delle ordinanze cosiddette «propulsive», che per quanto adottate in sede di giurisdizione generale di legittimità costituiscono esercizio di strumentalità cautelare (v. prec. n. 2) e cioè non si limitano a sospendere l’efficacia dell’atto impugnato ma anche ordinano all’amministrazione l’adozione di provvedimenti o comportamenti ulteriori a diretta tutela dell’interesse sostanziale del ricorrente.

Al riguardo si sono formati due indirizzi.

Secondo il primo, al quale aderisce il T.A.R. Catania (11), il giudice amministrativo nella fase cautelare del processo di legittimità avrebbe gli stessi poteri che ha in sede di giurisdizione di merito; e quindi potrebbe ordinare all’amministrazione l’adozione di tutti i provvedimenti e di tutti i comportamenti ritenuti necessari per soddisfare l’interesse del ricorrente.

Secondo un altro indirizzo, al quale aderisce - tra gli altri - il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (12), il giudice amministrativo nella suddetta fase cautelare non avrebbe gli stessi poteri che ha in sede di giurisdizione di merito; e quindi potrebbe ordinare all’amministrazione un facere solo a condizione che esso:

a) costituisca una conseguenza immediata e diretta della sospensione (esempio tipico: l’ammissione con riserva; e al precedente n. 2 si è indicato come in questo caso il termine «ordine» sia improprio);

b) sia compatibile con la natura interinale della misura cautelare; e quindi non determini un’immutazione tendenzialmente irreversibile della situazione controversa e consenta di pervenire alla decisione finale re adhuc integra;

c) non consenta al ricorrente di conseguire un’utilità maggiore di quella che potrebbe ricavare dalla sentenza definitiva, al fine di non rendere praticamente inutile quest’ultima che peraltro è l’unica istanza in cui si possa accertare la legittimità del provvedimento impugnato e quindi il conseguimento della giustizia nell’amministrazione.

In buona sostanza oltre la - pacifica - strumentalità istruttoria il Consiglio di giustizia ritiene in pratica ammissibile solo la strumentalità attuatoria; il T.A.R. invece ritiene ammissibile anche la strumentalità cautelare.

L’indicata divergenza giurisprudenziale ha dato luogo a ripetuti e sistematici annullamenti in appello di ordinanze propulsive che - ad avviso del Consiglio di giustizia - non rispettavano i suindicati limiti; sinchè il T.A.R. ha detto «non ci sto» e ha sottoposto la questione alla Corte Costituzionale con ordinanza 10 novembre 1995 n. 722 (13), in cui si fa un’amplissima ricostruzione della vicenda.

In questa ordinanza si afferma - tra l’altro - che l’orientamento del Consiglio di giustizia:

a) sarebbe «tralaticio e conservatore»;

b) sarebbe «poco garantista» e «in palese e stridente contrasto con i principi e valori costituzionali in materia»;

c) costituirebbe una «interpretazione erronea», una delle «deviazioni ingiustificate e non più accettabili dalla coscienza giuridica maturata ed acquisita dalla collettività in un dato momento storico»; e quindi sarebbe «causa di incertezza insidiosa dell’ordinamento».

Aggiungerei che l’orientamento del Consiglio di giustizia è anche poco gratificante; perchè l’essere conservatore e tralaticio - a differenza dall’essere progressista - non fa notizia, non fa immagine, non fa pubblicità.

A questi addebiti desidero dare un’adeguata risposta, nella mia qualità di estensore delle ordinanze incriminate e di non più componente del Consiglio di giustizia, e quindi libero di parlare a titolo personale.

 

6.1.- Quanto al «tralaticio e conservatore» mi sembra sufficiente osservare che non è una critica giuridica, e quindi lascia il tempo che trova. Dal momento che il principio trotzkista della rivoluzione permanente non mi risulta costituzionalizzato non tutto ciò che è tradizionale (o, se si preferisce, «tralaticio»: fa più fine) è necessariamente da buttar via. Anzi, siccome la giurisprudenza non è fatta - almeno di regola - da ottusi o da incompetenti, l’esistenza di una tradizione fa supporre che una certa logicità e una certa coerenza con l’ordinamento ci siano; sicchè è semmai l’innovazione e non la conservazione che va giustificata.

Debbo però confessare che si tratta comunque di una critica che in un certo senso mi fa piacere. Sinora il Consiglio di giustizia aveva ricevuto critiche di segno opposto: e cioè di propugnare tesi di principio troppo avanzate (in materia di giudizio d’ottemperanza (14), di tutela degli interessi sopravvenuti (15), di integrazione postuma della motivazione del provvedimento impugnato (16), di giudicato amministrativo (17), di revocazione (18), di oggetto del giudizio amministrativo (19), ecc.: tesi, peraltro, poi in gran parte condivise dalla altre Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato). Ora l’essere accusato, per la prima volta, di conservatorismo e l’essere - per così dire scavalcato a sinistra fa ritenere che il Consiglio si sia mosso nel giusto mezzo, come dovrebbe fare ogni giudice.

 

6.2.- Quanto al «poco garantista» va osservato che con tale asserzione si dice la verità, perchè è indubbio che l’orientamento del T.A.R. garantisca meglio l’interesse sostanziale del ricorrente. Si dice la verità ma non si dice tutta la verità; e quindi in termini giuridici si dice una falsità.

Mi spiego.

L’orientamento del T.A.R. è basato su una lettura parziale degli artt. 24, 100 e 113 della Costituzione. Infatti leggendo tali norme si può avere l’impressione che come il giudice ordinario è il garante della tutela dei diritti così il giudice amministrativo sarebbe il garante della tutela degli interessi legittimi.

Ma tale simmetria non è esatta.

Semplificando al massimo, dinanzi al giudice ordinario si presentano un attore e un convenuto, ciascuno dei quali asserisce che il diritto è suo; e il giudice dirime la controversia, dichiarando a chi spetta il diritto.

Dinanzi al giudice amministrativo lo scenario è diverso. Qui non ci sono un ricorrente e un resistente che si contendono un interesse legittimo. Qui c’è un ricorrente che chiede il riconoscimento del proprio interesse legittimo e una pubblica amministrazione che chiede il riconoscimento della propria potestà; sicchè il giudice è il garante non del solo interesse legittimo ma dell’interesse legittimo e della potestà, che almeno processualmente sono situazioni soggettive contrapposte. E sullo sfondo c’è un terzo partecipante al giudizio, silenzioso come un convitato di pietra: ed è quella «giustizia nell’amministrazione» che il giudice è del pari tenuto a tutelare ai sensi dell’art. 100 (e che non è detto affatto che debba coincidere integralmente con la posizione di una della parti in giudizio, specie se, come a me sembra (20), (la giustizia nell’amministrazione vada intesa non solo nel senso formale di legittimità ma anche nel senso sostanziale di buon andamento); ciò tenuto anche conto che nell’attuale situazione di diluvio e conseguente caos normativo in cui sta sprofondando l’ordinamento, nell’attuale situazione di crescente «inquinamento legislativo» come l’ha efficacemente definito il pretore di Venezia, il giudice amministrativo si trova sempre più investito di un’anomala funzione paranormativa di dare forma umana ad un sistema che continuiamo a chiamare così per educazione ma che in realtà - come entità razionale e coerente - esiste sempre meno.

Si ha quindi una sorta di bilancia a tre piatti, che il giudice ha il compito di mantenere in equilibrio tra loro; ed è evidente che se si alza la garanzia di uno si abbassa la garanzia di un altro o di entrambi gli altri. Sicchè il giudice non deve garantire l’interesse legittimo, il solo interesse legittimo: deve garantire l’equilibrio tra interesse legittimo, potestà amministrativa e giustizia nell’amministrazione; con la conseguenza che la sua opera finisce con l’essere condizionata dalla sua visione politica (ovviamente non nel senso di partitica ma di etica della polis). Ad esempio, in sede di sospensiva di un provvedimento di dubbia legittimità relativo all’occupazione di un’area per la realizzazione di una discarica urgente e necessaria per esigenze di igiene pubblica un giudice dall’ideologia liberalindividualistica potrà essere indotto ad ispirarsi soprattutto agli artt. 24 e 113 e a privilegiare il momento della tutela dell’interesse legittimo, concedendo di conseguenza la sospensiva; un giudice dall’ideologia socialsolidaristica potrà essere indotto ad ispirarsi soprattutto agli artt. 2 e 42 e quindi a privilegiare il momento della tutela dell’interesse comune, negando di conseguenza la sospensiva. Nè può dirsi che sotto il profilo giuridico una posizione sia formalmente più esatta o sostanzialmente migliore dell’altra; tutte e due, infatti, hanno una giustificazione sia costituzionale che etico-politica. Ma una cosa certamente si può dire: che è privo di senso cercare di stabilire quale sia la posizione più garantista in assoluto; perchè trattandosi, come ho già detto, di interessi diversi e di regola contrapposti non li si può tutelare tutti contemporaneamente in misura maggiore o minore; si può soltanto modificare l’equilibrio relativo delle loro garanzie. Solo muovendo da una posizione di integralismo liberalindividualistico, che peraltro è fuori dall’attuale Costituzione e dall’attuale realtà sociopolitica (e quindi fuori da quella «coscienza giuridica maturata ed acquisita dalla collettività in un dato momento storico» alla quale il T.A.R. dichiara di ispirarsi), si può giungere ad affermare che il garantismo va riferito esclusivamente alla tutela degli interessi legittimi.

Ciò stante il «palese e stridente contrasto con i principi costituzionali», attribuito all’orientamento del Consiglio di giustizia, risulta privo di qualsiasi fondamento.

 

6.3.- Infine l’ultima critica: che l’orientamento del Consiglio di giustizia costituirebbe una «interpretazione erronea», una delle «deviazioni ingiustificate e non più accettabili dalla coscienza giuridica maturata ed acquisita dalla collettività in un dato momento storico» e quindi sarebbe «causa di incertezza insidiosa» dell’ordinamento. Il Consiglio insomma, dovrebbe ritenersi fortunato che non ci sia più la pena del rogo.

Esaminiamo anche queste ultime asserzioni.

 

6.3.1.- Un primo ordine di considerazioni.

A differenza del procedimento sommario dell’art. 700 c.p.c., che ha una propria vita autonoma, la sospensione cautelare del provvedimento impugnato è un incidente del merito del ricorso e costituisce un accoglimento anticipato, limitato (alla paralisi dell’efficacia dell’atto impugnato), risolubile (essendo legato al rebus sic stantibus) e provvisorio (essendo destinato a caducarsi con l’adozione della sentenza definitiva) del ricorso stesso. Quindi mi pare logico che il giudice in sede di ordinanza cautelare non possa dare in via anticipata, limitata, risolubile e provvisoria niente di più di quanto potrebbe dare in via definitiva, piena e immutabile. L’opposta tesi postula che i poteri del giudice si svolgano secondo un singolare diagramma a cappello di Napoleone: molto ridotti all’inizio del processo avrebbero un’impennata nella fase cautelare per ridiscendere poi nella fase conclusiva del merito, e cioè proprio nella fase in cui - a rigor di logica dovrebbero essere massimi. Ma una visione del genere porta necessariamente ad affermare che il giudice con ordinanza e sulla base di una semplice impressione (il fumus) possa imporre in via provvisoria all’amministrazione obblighi di comportamento che poi non potrebbe nè imporre nè confermare con sentenza definitiva e sulla base di una certezza; porta necessariamente ad affermare che nel caso di contestuale decisione della sospensiva e del merito (che si ha nell’ipotesi di rinvio della sospensiva al merito) al ricorrente che ha ragione potrebbe convenire di avere un’ordinanza anzichè una sentenza, con ciò snaturando la funzione di certezza (e non di probabilità) cui è preordinato il processo e consentendo pericolosi arbìtri del giudice. Al limite potrebbe accadere, paradossalmente, che le statuizioni cautelari «propulsive» adottate in sede di accoglimento della sospensiva verrebbero a caducarsi proprio a seguito della sentenza di accoglimento del ricorso, alla quale, ancora più paradossalmente, il ricorrente finirebbe con l’avere un interesse contrario.

Ora una tesi siffatta si commenta da sola sul piano della logica giuridica; ed è probabilmente frutto di un equivoco. Essa infatti fa riferimento al diritto vivente, ed in particolare a quello che sarebbe stato partorito dalla sentenza della Corte Costituzionale 1 febbraio 1982 n. 8 (21) e dalle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 30 aprile 1982 n. 6 (22) e 8 ottobre 1982 n. 17 (23); e su tali basi ritiene di poter concludere:

a) «che il potere esercitabile dal giudice amministrativo in sede cautelare è di natura identica a quella del potere spettantegli in sede di merito»;

b) che «deve, quindi, ritenersi che il giudice della cautela possa spingersi fin dove può quello dell’ottemperanza».

L’equivoco deriva dal fatto che il termine «merito» ha - come è ben noto - due diversi significati a seconda che si parli di processo di merito o di giurisdizione di merito. La locuzione «processo di merito» è contrapposta a «processo cautelare», e sta ad indicare la fase in cui si decide in via definitiva il ricorso, fermo restando che una questione rientrante nella giurisdizione di legittimità resta in tale ambito. La locuzione «giurisdizione di merito» è invece contrapposta a «giurisdizione di legittimità», e sta ad indicare che il giudice può avvalersi anche di poteri sostitutivi.

Ora la sentenza della Corte Costituzionale n. 8/1982 fa dichiaratamente riferimento al processo di merito e non alla giurisdizione di merito; al processo di merito come strumento «che consenta di anticipare, sia pure a titolo provvisorio, l’effetto tipico del provvedimento finale del giudice» (che è quello di annullamento); si muove quindi sempre nell’ottica della giurisdizione di legittimità. E del resto la stessa Corte, con successiva sentenza 22 aprile 1991 n. 175 (24), opportunamente ignorata nella pur amplissima ordinanza del T.A.R., ha precisato che «le sospensioni ammesse dalla giurisprudenza amministrativa in presenza di dinieghi o di omissioni della pubblica amministrazione... in nessun caso... mirano a fare ottenere quel soddisfacimento dell’interesse sostanziale che solo dall’azione amministrativa può essere realizzato». E per quanto riguarda l’Adunanza plenaria la sentenza n. 6/1982 ammette l’esecuzione di ordinanze di sospensione rimaste di fatto ineseguite, ma non prevede affatto la possibilità di ordinare l’adozione di un provvedimento, e la di poco successiva sentenza n. 17/1982 fa espresso riferimento al citato indirizzo della Corte Costituzionale, al quale aderisce pienamente.

Manca quindi qualsiasi elemento per poter sostenere che nel diritto vivente sia stato posto il principio che il giudice cautelare ha gli stessi poteri del giudice dell’ottemperanza; principio che in giurisprudenza risulta figlio di madre ignota, o quanto meno non figlio di quelle madri (la Corte Costituzionale e l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato) che gli vengono attribuite dal T.A.R.

 

6.3.2.- Un secondo ordine di considerazioni.

Che cosa potrebbe fare il giudice amministrativo secondo l’orientamento del T.A.R.?

La risposta è semplice: tutto.

Nell’ordinanza n. 722/1996 il T.A.R. teorizza «una stretta e significativa integrazione, un nesso indissolubile, tra procedimento e processo amministrativo, superandosi il modello di separazione tra amministrazione e giurisdizione e quindi tra procedimento e processo amministrativo, la cui peculiare caratteristica è quella di costituire un produttivo continuum tra giurisdizione e amministrazione». Si avrebbe così una sorta di costruzione a due piani intercomunicanti (ovviamente a senso unico): nel primo l’amministrazione, nel secondo la giurisdizione amministrativa. E una volta saliti al piano di sopra, dal momento che i poteri di sostituzione non hanno alcun limite normativo, il giudice cautelare potrebbe in ogni caso ordinare l’adozione di qualsiasi comportamento che - secondo la delibazione che ha compiuto - fosse a suo avviso necessario per garantire la piena tutela dell’interesse del ricorrente; potrebbe stabilire, come ha già fatto, la composizione e il calendario di un campionato di calcio; potrebbe ordinare, come ha già fatto, ad un’amministrazione estranea al giudizio (e quindi esente a priori da ogni obbligo di adempimento) - nella specie la prefettura - di far giocare una determinata partita di calcio anzichè un’altra: e tutto questo indipendentemente dalla circostanza che nulla di simile potrebbe ordinare con sentenza ora io non metto in dubbio che tutto ciò sia ispirato da un sincero amore per la giustizia in senso sostanziale e dal lodevole intento di raddrizzare veri o presunti torti. Neppure metto in dubbio che, in qualche caso, un orientamento del genere possa conseguire fini di giustizia sostanziale.

Osservo però che si tratta di una posizione pericolosa.

Pericolosa perchè, in contrasto con un ordinamento fondato sui principi della separazione dei poteri, della responsabilità e del consenso, propri di una democrazia avanzata, ad una pubblica amministrazione che potrà anche lavorare male ma che comunque risponde di ciò che fa sul piano gerarchico, politico-elettorale e giudiziale si verrebbe a sostituire d’autorità un giudice che potrà anche essere illuminato ma che non risponde a nessuno e che, pur se esperto giurista e in perfetta buona fede, non può avere quella conoscenza puntuale e concreta della situazione controversa che ha invece chi da sempre ci vive dentro. Il danno per il buon andamento della pubblica amministrazione e per il sistema democratico potrebbe essere enorme. Forse è il caso di ricordare che nell’odierno acceso dibattito sulla revisione costituzionale dei poteri del giudice il termine «garantismo» ricorre spesso; ma ricorre in opposizione a «giurisdizionalismo», come esigenza di garanzia contro lo strapotere del giudice: é cioè espressione di un’esigenza sempre più acutamente avvertita dalla coscienza sociale, che potrebbe rendere un boomerang l’esigenza diametralmente opposta teorizzata dal T.A.R.

Pericolosa perchè in contrasto con un ordinamento fondato sul principio di legalità si traduce nella creazione di una nuova norma di costituzione materiale attributiva di poteri speciali e innominati al giudice amministrativo in sede cautelare, e cioè con la creazione di una norma rivoluzionaria.

Pericolosa infine perchè la possibilità di operare a tutto campo e extra ordinem (pudicamente definita possibilità di adottare «provvedimenti atipici») può fare insorgere preoccupanti complessi di Robin Hood per i quali - ripeto, in perfetta buona fede - può ritenersi lecito togliere al ricco e al potente per dare al povero e debole.

Ma a quest’ultimo riguardo si può osservare: a) che non è detto affatto che la parte debole sia necessariamente il ricorrente. Questo poteva accadere in un sistema fondato sugli interessi oppositivi; ma in un sistema sempre più fondato sugli interessi pretensivi e sul principio dell’assalto alla diligenza, per cui tutti vogliono dai pubblici poteri più di quanto i pubblici poteri possano ragionevolmente dare, non è infrequente che sia proprio l’amministrazione la parte debole;

b) tutti quanti, da ragazzi, abbiamo simpatizzato con Robin Hood: Ma se un giudice avesse dovuto giudicarlo secondo le leggi dell’epoca non avrebbe potuto fare altro che condannarlo all’impiccagione;

c) dilatare eccessivamente i poteri del giudice può comportare il rischio che un magistrato, in una situazione sottoposta al suo esame, possa ritenersi legittimato ad agire all’insegna di «io questo lo sfascio»; con ciò ponendosi automaticamente fuori da quella posizione di equilibrio e di imparzialità che dovrebbe costituire la caratteristica essenziale del suo operare.

 

6.3.3.- Ad una conclusione diversa non può neppure pervenirsi invocando la natura strumentale dei poteri ordinatori.

Infatti a questo proposito è necessario precisare: strumentale a che?

Da quanto già indicato al prec. n. 2 discende che le risposte teoriche sono sostanzialmente due: a) direttamente strumentale all’accertamento e al soddisfacimento dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio; b) direttamente strumentale alla decisione della domanda giudiziale e solo indirettamente (ed eventualmente) strumentale all’accertamento e al soddisfacimento dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio.

La prima ipotesi ricorre nel caso di giudizio in materia di diritti: Si ha lo schema diritto - inadempimento - domanda giudiziale; in caso di accoglimento della domanda l’accertamento giudiziale si forma in primo luogo sull’esistenza del diritto ed in secondo luogo sul fatto dell’inadempimento; il giudizio ha per oggetto il rapporto tra le parti; su tale oggetto si forma il giudicato.

La seconda ipotesi ricorre nel caso di giudizio in materia di interessi legittimi. Qui non si ha lo schema simmetrico interesse legittimo - lesione - ricorso ma lo schema potestà amministrativa - atto illegittimo - lesione - ricorso; in caso di accoglimento l’accertamento si forma sull’illegittimità dell’atto e non sull’esistenza dell’interesse, che ben potrebbe non esistere affatto anche nel caso di accoglimento del ricorso (ove l’atto venisse annullato per motivi formali o procedurali) come ben potrebbe continuare ad esistere anche nel caso di reiezione del ricorso (ove, ad esempio, fosse possibile riproporre l’interesse pretensivo); il giudizio ha quindi per oggetto l’atto; su tale oggetto si forma il giudicato, prescindendo dalle posizioni sostanziali sottostanti.

Ora poichè l’esercizio di poteri ordinatori nei più ampi limiti teorizzati dal T.A.R. è palesemente preordinata alla tutela dell’interesse sostanziale del ricorrente, si verrebbe ad avere un oggetto del giudizio ambulatorio: sull’atto in sede di sentenza e sul rapporto in sede cautelare: Ma una tesi siffatta, a parte la sua contraddittorietà, è in insanabile contrasto con la meccanica del giudizio sull’esercizio in concreto della potestà, che non consente un diretto accertamento dell’interesse legittimo correlato alla potestà stessa, come autorevolmente riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 175/1991 citata al prec. n. 6.3.1.

 

6.3.4.- Una quarta considerazione.

La sospensione cautelare non annulla il provvedimento impugnato; ne sospende soltanto l’efficacia. Di conseguenza ordinare in sede cautelare l’adozione di un atto diverso comporta che, nel caso in cui la sentenza definitiva respinga poi il ricorso, possa aversi alla fine del processo la contemporanea esistenza di due atti di segno opposto ed entrambi efficaci; con gravi conseguenze di ordine pratico, perchè è tutt’altro che pacifico che i provvedimenti adottati a seguito di ordine cautelare del giudice decadano automaticamente con la sentenza di rigetto o comunque con l’estinzione del processo; fatti questi ultimi che comunque potrebbero intervenire a notevole distanza di tempo, con conseguente formazione nel frattempo di situazioni irreversibili.

 

6.3.5.- Una quinta considerazione.

Nel processo amministrativo le parti sono almeno due (ricorrente e amministrazione) e spesso tre (ricorrente, amministrazione e controinteressato). Ma la potestà ordinatoria in senso proprio (e cioè la potestà di imporre obblighi vincolanti di comportamento, a pena di sostituzione nel caso di inadempimento) sussiste solo nei confronti dell’amministrazione; nei confronti delle altre parti, pubbliche o private che siano, sussiste solo una potestà di imporre oneri il cui inadempimento provoca varie conseguenze di ordine processuale ma non può mai legittimare l’esercizio di poteri sostitutivi. Secondo l’orientamento che qui si contesta si avrebbe quindi una potestà giudiziale dimidiata, esercitabile solo nei confronti di una parte; il che, contraddicendo al principio fondamentale della parità della posizione delle parti in giudizio, darebbe luogo a gravi dubbi di legittimità costituzionale.

 

6.3.6.- Un’ultima considerazione.

Il carattere di merito del giudizio cautelare non può farsi discendere neppure dalla considerazione che si tratterebbe di un giudizio che - secondo la terminologia corrente, alla quale per comodità semantica continuo ad attenermi - verterebbe sul rapporto e non sull’atto; intendendosi nel primo caso un giudizio che avrebbe per oggetto la situazione sostanziale sottostante (l’eventuale) atto impugnato, e nel secondo caso un giudizio che avrebbe per oggetto direttamente la lesione derivante dall’atto impugnato.

Infatti, a parte la considerazione che in altra sede (25) ho cercato di dimostrare che l’antitesi giudizio sull’atto - giudizio sul rapporto è un falso problema perchè il giudizio amministrativo ha per oggetto in ogni caso la pretesa, e cioè la manifestazione di volontà con cui il ricorrente chiede al giudice l’accertamento della lesione di una sua posizione soggettiva e la conseguente rimozione della situazione antigiuridica da essa creata, perchè mai il giudizio cautelare dovrebbe avere un oggetto diverso da quello del giudizio di merito, di cui peraltro costituisce una semplice fase?

A quanto sembra di comprendere, le ragioni sarebbero da una parte che nel giudizio cautelare si verificherebbe una sostituzione, di cui sarebbe espressione la stessa sospensione, e dall’altra che il giudice opererebbe una sorta di giudizio di equità, tenendo conto della situazione sottostante.

Ma entrambe le ragioni non sembrano persuasive.

Quanto alla sostituzione a mezzo della sospensiva c’è da domandarsi che differenza allora ci sia con la sostituzione a mezzo dell’annullamento; tutto il processo di legittimità allora diventa di sostituzione. E quanto alla sostituzione mediante attività ordinatoria la tesi tende ad avvolgersi in una petizione di principio: perchè finisce col giustificare l’esistenza della potestà ordinatoria con l’esistenza della sostituzione e l’esistenza della sostituzione con l’esistenza della potestà ordinatoria.

Quanto poi all’eventualità di un carattere equitativo del giudizio va rilevato che il giudizio cautelare deve essere - com’è noto - definito in base ai criteri del fumus e del periculum in mora. Ma - ovviamente - il fumus è e resta quello relativo alla fondatezza del ricorso; tanto è vero che il giudice non potrebbe mai concedere la sospensiva se ritenesse che il ricorso fosse poi da respingere nel merito. E il periculum - ovviamente - è e resta quello che potrebbe derivare dal provvedimento. L’unica differenza con la sede di merito è quindi che il giudizio sull’illegittimità è sommario e non approfondito. Ma la sommarietà non cambia l’oggetto del giudizio. Vedere una cosa in fretta non significa vedere una cosa diversa da quella che si vedrebbe con più attenzione.

 

7.- Per le considerazioni sopra svolte continuo a ritenere preferibile l’orientamento del Consiglio di giustizia; orientamento peraltro in linea con quello della Corte Costituzionale (26), del Consiglio di Stato (27) e della prevalente dottrina (28). Un eventuale rogo dovrebbe essere un pò troppo grande.

Beninteso non intendo affatto con ciò rinnegare quell’interpretazione creatrice che costituisce uno dei maggiori vanti del giudice amministrativo e che io stesso ho più di una volta invocato con orgoglio. Ma non intendo neppure rinnegare il mio giuramento di fedeltà ad una Costituzione fondata sulla separazione dei poteri e alle leggi che ammettono la supplenza del giudice amministrativo solo in sede di giudizio d’ottemperanza, e cioè solo nel caso in cui vi sia la certezza legale che la pubblica amministrazione si trova in una situazione di illegittimità e di inottemperanza, e quindi vi sia la certezza legale che il permanere dell’illegittimità vanificherebbe la tutela garantita dagli artt. 24 e 113 della Costituzione, con conseguente rottura costituzionale. Che oggi la disciplina normativa sulla tutela degli interessi pretensivi possa risultare inadeguata (ma in questo caso è tutto il processo amministrativo che va organicamente ridisegnato, non il solo processo cautelare) è un fatto. Che questa inadeguatezza normativa possa essere direttamente colmata dal giudice amministrativo anzichè dal Parlamento o - al limite - dalla Corte Costituzionale è un altro fatto. A ciascuno il suo. La normazione giurisprudenziale può anche essere una soluzione opportuna: i paesi di common law ce lo dimostrano. Ma allora bisogna essere coerenti e rideterminare, preliminarmente, le regole del gioco. Non è possibile sostenere contemporaneamente da una parte il principio della normazione giurisprudenziale e dall’altro il principio del primato della legge. Nè la scelta tra i due principi può essere liberamente stabilita dall’operatore.

Ritengo quindi che gli addebiti di interpretare l’ordinamento in modo erroneo e deviante, rivolti al Consiglio di giustizia, possano essere tranquillamente restituiti al mittente, per competenza.

E ritengo anche che sia pericoloso, oggettivamente e soggettivamente, addentrarsi nella foresta di Sherwood. Potrebbe accadere di perdercisi dentro; perchè lì non ci sono strade già tracciate, non ci sono regole obbiettive: c’è solo la legge del più forte e la decisione caso per caso. Invece nell’ordinamento le strade, le regole obbiettive, già ci sono: magari inadeguate ad ansie soggettive di giustizia sostanziale; ma ci sono. Uguali per tutti. Non spetta a noi giudici modificarle. Dobbiamo quindi avere la pazienza e l’umiltà di percorrerle, senza invadere aree riservate ad altri poteri dello Stato. Anche se questo non fa nè notizia nè immagine nè pubblicità.

 

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(1) Sulla generale problematica del giudicato amministrativo e delle situazioni che ne discendono v.: C.G.A., 30 dicembre l990 n. 373, Cons. Stato, I, 907, rimasta semiclandestina perchè pubblicata fuori posto; S. Giacchetti, L'araba fenice del giudicato amministrativo, Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, I, 907.

(2) G.G.A., 21 dicembre 1982 n. 92, Cons. Stato, 1982, I, 1649.

(3) C.G.A., 18 aprile 1990 n. 83, Cons. Stato, 1990, I, 632.

(4) C.G.A.: 2S febbraio 1981 n. 1, in Cons. Stato, 1981, I, 189; 25 gennaio 1989 n. 2, Cons. Stato, 1989, I, 63; 21 dicembre 1982 n. 92, Foro amm., 1983, I, 372; S. Giacchetti, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, Atti del convegno «La giustizia amministrativa in Sicilia», Milano, 1988, 261 ss.

(5) C.G.A., 27 gennaio 1989 n. 7, Cons. Stato, 1989, I, 72.

(6) C.G.A., n. 7/1989, cit.

(7) V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 720 ss.

(8) Cons. Stato, 1979, I, 321.

(9) In Cons Stato, 1995, II, 1497. La vicenda è nota Il C.S.M aveva impugnato dinanzi la Corte Costituzionale, per conflitto di attribuzioni, la decisione cautelare con cui il T.A.R. Lazio aveva nominato un commissario ad acta per l'esecuzione coattiva di una precedente ordinanza cautelare rimasta ineseguita; ed aveva sostanzialmente dedotto la sua pretesa qualità di superiorem non recognoscens, che avrebbe comportato che l'esercizio della potestà giurisdizionale amministrativa nei suoi confronti avrebbe costituito un'indebita ingerenza. La tesi è stata seccamente respinta dalla Corte, che in buona sostanza ha ritenuto temeraria la pretesa secondo cui quella da rendere contro gli altri sarebbe «giustizia» mentre quella da rendere contro di noi sarebbe «ingerenza».

Sotto un profilo di costume può essere interessante notare che quando determinati centri di amministrazione (ad esempio, C.S.M, authorities varie, ecc.) diventano i centri reali del potere politico, e quindi sono interessati ad agire al di fuori di ogni controllo, sorge puntualmente una campagna di stampa che teorizza la necessità della loro sottrazione al giudice naturale (costituzionale, amministrativo e contabile), che sarebbe - quanto meno - «inutile». Due secoli fa il mugnaio di Sans Souci poteva andare tranquillamente a Berlino a far causa al re di Prussia perchè era certo che a Berlino c'erano giudici. Oggi c'è chi continua a concepire il potere politico come summa in cives et subditos legibusque soluta potestas. Quanto è diventata lontana Berlino!

(10) Cons. Stato, 1982, I, 758.

(11) Gazz. Uff., Serie spec., n. 34 del 21 agosto 1986. La letteratura sul processo cautelare è vastissima. Tra gli Autori più recenti sono da citare: E. Barbieri, Sull'esecuzione delle misure di tutela cautelare nel processo amministrativo, Dir. proc. amm., 1996, 747 ss, G. Bozzi, Sono sospendibili i provvedimenti negativi?, T.A.R., 1996, II, 73 ss; V. Caianiello, Manuale, cit, 626 ss.; I. F. Caramazza - F. Basilica, Appunti sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, Rass. Avv. Stato, 1992, II, 1 ss.; G. Caruso, La giustizia cautelare: i provvedimenti negativi e le ordinanze «propulsive» dei T.A.R., Foro amm., 1994, 2283 ss.; G. Corso, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Foro amm., 1987, 1655 ss; E. Follieri, La cautela tipica e la sua evoluzione, Dir. proc. amm., 1989, 646 ss.; S. Giacchetti, Partecipazione e tutela cautelare, Cons. Stato, 1990, II, 1315; G. Moneta, L'evoluzione involutiva della tutela cautelare amministrativa, Dir. proc. amm., 1994, 382 ss.; G. Paleologo, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Cons. Stato, 1991, II, 199 ss.; G. Pugliese, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli, 1989; M. Renna, Spunti di riflessione per una teoria delle posizioni soggettive strumentali e tutela cautelare degli interessi procedimentali pretensivi, Dir. proc. amm., 199S, 811 ss.; A. Romano, Tutela cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, Foro amm., 1985, I, 2491 ss; G. Sorrentino, Il giudice amministrativo, per la tutela cautelare, riunifica il potere distribuito tra più organi competenti in materia ambientale, Dir. proc. amm., 1995, 141 ss. e ordinanza cautelare e ius superveniens, ivi, 451 ss.; A. Travi, La tutela cautelare nei confronti dei dinieghi di provvedimenti e delle omissioni della p.a., Dir. proc amm., 1990, 331 ss.; R. Villata, La Corte Costituzionale frena bruscamente la tendenza ad ampliare la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi, Dir. proc. amm., 1991, 794 ss.; P Virga, Diritto amministrativo, II, Atti e ricorsi, Milano, 1997, 333.

(12) Ordinanze 18 maggio 1994 n 358 e 15 marzo 1995 n 178, Giust. amm. sic., 1996, 372 e Il testo di entrambe è riportato nell'ordinanza del T.A.R.

(13) V. prec. nota 11.

(14) V. in particolare la giurisprudenza citata alla nota n. 4.

(15) C.G.A., 26 febbraio 1987 n. 61, Cons Stato, 1987, I, 249, e 10 maggio 1988 n. 87, Cons. Stato, 1988, I, 861.

(16) C.G.A., 20 aprile 1993 n. 149, Cons Stato, 1993, I, 569. Sulla questione v. S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici: l'integrazione in corso di giudizio del provvedimento impugnato, Dir. proc. amm., 1995, 18 ss. e G. Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell'interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, Dir. proc. amm., 1993, 253 e Giur. amm. sic., 1993, 253.

(17) C.G.A, 22 marzo 1993 n. 114, Cons. Stato, 1993, I, 765, e S. Giacchetti, L'araba fenice, cit, 907.

(18) C.G.A., 25 febbraio 1994 n. 54, Cons. Stato, 1994, 259 e S. Giacchetti, Revocazione, errore di diritto e errore di fatto, Giur. amm. sic., 1994. 874.

(19) C.G.A., 4 novembre 1995 n. 363, Cons. Stato, 1995, I, 1610. La sentenza è pubblicata solo in massima (che non ne coglie l'aspetto innovativo). Il testo è riportato in Dir. proc. amm., 1996, 683, con nota di F. Fracchia, Motivi aggiunti, termine di decadenza e modifiche del petitum.

(20) S. Giacchetti, Gli accordi dell'art. 11 della legge n. 241 del 1990 tra realtà virtuale e realtà reale, 1997, n. 8.

(21) Cons. Stato, 1982, I, 134.

(22) Cons. Stato, 1982, I, 413.

(23) Cons. Stato, 1982, I, 1197.

(24) Cons. Stato, 1991, II, 1497.

(25) S. Giacchetti, L 'oggetto del giudizio amministrativo, Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, 1981, III, 1483 ss.; C.G.A. n. 363/199 cit.

(26) V. nota n. 24.

(27) Adunanza plenaria 5 settembre 1984 n. 17, in Cons. Stato, 1984, I, 971, che ha affermato che «il principio di effettività della tutela giurisdizionale postula la piena coincidenza di contenuti ed ambiti di efficacia tra i provvedimenti attuativi dell'ordinanza (cautelare e i provvedimenti adottabili dal giudice in sede esecutiva del giudicato di annullamento» e che «l'area coperta dalla tutela cautelare non può essere più estesa di quella che la decisione conclusiva del giudizio di merito possa di per sè assicurare al ricorrente», in quanto il giudizio cautelare «non produce utilità finali diverse e comunque disomogenee da quelle che la decisione di merito può procurare alla parte»; Sezione IV, ordd. 12 giugno 1990 n. 626 e 676 e 28 agosto 1990 n. 789 (citate da G. Paleologo, cit., 216), che hanno ritenuto che «il T.A.R. non possa in sede cautelare ordinare all'Amministrazione di emanare un provvedimento che sostituisca quello impugnato in via principale, ossia non possa ordinare cautelarmente alla parte di tenere un comportamento che si risolva nella revoca del provvedimento o nella sua sostituzione con un provvedimento nuovo, sia questo di, uguale o contrario tenore»; Sezione V, 2 giugno 1996 n. 1210, Corr. giur., 1996, 877.

(28) In questo senso, tra gli altri: E. Barbieri, cit., 753, secondo cui «nei poteri del giudice amministrativo rientra l'integrale ripristino della preesistente situazione di fatto e di diritto, ma certo non una sua eventuale immutazione interinale»; E. Follieri, cit., 665, secondo cui «non è pensabile che, in via d'urgenza, si consegni al ricorrente un risultato che non può consolidarsi con la sentenza favorevole e che, quindi, non possa essere mantenuto con la sentenza di merito»; G. Paleologo, cit., 216, che rileva come «il Consiglio di Stato ha ormai avuto più occasioni di precisare come non appaia pertinente al giudizio cautelare una pronunzia che, sotto veste di sospensiva, ordini all'Amministrazione di sostituire il provvedimento impugnato, mettendo così fine al giudizio principale in corso»; G. Pugliese, cit., 263, che ritiene che «tutti i contenuti del giudizio cautelare sono possibili se rispecchiano i contenuti possibili delle decisione finale»; A. Travi, cit., 357, che ritiene che «il principio di strumentalità impone di escludere che attraverso l'ordinanza cautelare possano attribuirsi utilità maggiori di quelle ipotizzabili in caso di esito vittorioso del ricorso; altrimenti il giudizio cautelare diventa una «cellula impazzita» del processo amministrativo, dove tutto risulta consentito indipendentemente dall'oggetto del giudizio e dai poteri del giudice rispetto al ricorso»; P. Virga, cit., 334, secondo cui «non è ammissibile la emanazione di misure cautelari che comporterebbero una sostituzione del giudice all'amministrazione anche attraverso lo strumento del c.d. remand e cioè dell'invito a riesaminare la situazione alla luce dell'ordinanza».

Contra A. Romano, cit., che si richiama agli insegnamenti di Calamandrei (Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 20), secondo cui il provvedimento cautelare mira a far sì che la decisione definitiva «attui la legge come se ciò avvenisse nel momento stesso della domanda giudiziale», e di Chiovenda (Istituzioni, I, 147), secondo cui «La necessità di servirsi del processo per avere ragione non deve tornare a danno di chi ha ragione». Ma potrebbe osservarsi che se la domanda venisse accolta con decisione definitiva immediata il ricorrente non potrebbe ottenere statuizioni propulsive; e che pertanto l'adozione di queste ultime in sede cautelare costituisce per il ricorrente uno strumento per avere non ragione ma più che ragione, e quindi un torto per la controparte.


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