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n. 11/2004 - © copyright

GIUSEPPE DELL’AIRA *

La Corte Costituzionale, Carneade,
il suo Giudice naturale ed un onesto avvocato

(notazioni a margine della sentenza della Corte Cost. 6 luglio 2004, n. 204)

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1) La triste storia del dottor Carneade.

Convinto che un suo credito, mai soddisfatto dalla pubblica Amministrazione, fosse, come tutto faceva pensare, di "pronta e facile" liquidazione e riscossione, Carneade decise un giorno di consultare il suo onesto avvocato di fiducia.

Era il 1994, e Carneade, rassicurato dal coscienzioso professionista, pensava che quei cento milioni di Lire (dell’Euro nessuno aveva ancora cominciato a parlare) sarebbero stati un toccasana per le spese del progettato matrimonio di Lucia, la sua unica figlia femmina.

Non immaginava che, per uno strano gioco del destino, il matrimonio fra Lucia e l’eterno promesso Lorenzo non s’aveva da fare, anche se nessun conoscente della coppia si chiamava Rodrigo e di innominati, in epoca repubblicana, non dovrebbero più circolarne!

Invero, dopo alterne vicende davanti a Collegi più o meno naturalmente costituiti, e non poche rampogne a quell’onesto, ma, a suo dire, poco attivo avvocato, Carneade ebbe l’impressione di toccare con mano l’agognata ricompensa, per di più rivalutata da un attento Consulente Tecnico d'Ufficio. Non sapeva però, e tanto meno ne poteva aver avuto contezza il suo incolpevole e coscienzioso avvocato, che correva l'anno 1999, e frattanto qualcuno, per motivazioni certamente valide, ma completamente estranee alla cultura del buon medico Carneade, aveva deciso di modificare l’intera organizzazione della sanità, seppellendo il passato sotto un solido manto di indefiniti (ed infiniti) meccanismi liquidatori.

Non le sole e proverbiali sette camicie dovette sudare il povero avvocato, poi sprezzantemente sostituito per presunta incapacità, nello spiegare che la Corte di Cassazione aveva vanificato anni di attesa perché la parte pubblica costituita non poteva più ritenersi legittimata al pagamento. Ma Carneade, che frattanto aveva convinto Lucia a sposarsi con frugali festeggiamenti, perché teneva troppo al nipotino, non intendeva darsi per vinto!

Così, incaricato altro valente avvocato, suggerito questa volta dal solito amico bene informato, cui il legale aveva risolto un ingarbugliato caso di occupazione dell’Amministrazione su terreni aviti, decise di continuare a rincorrere il suo credito, davanti ad un Giudice che finalmente avrebbe potuto garantirgli la riscossione.

L’impresa non si rivelò semplice, perché l’avvocato valente era conscio del fatto che, frattanto, altri cambiamenti erano intervenuti, e, per come a Carneade fu spiegato, riguardavano ancora una volta il Giudice Naturale della sua pretesa.

Carneade sapeva poco di diritto naturale e di giudici, ma sapeva che dell’avvocato poteva fidarsi, perché, lo aveva detto l’amico, era uno specialista. E per la prima volta, lui che il medico faceva, e non aveva mai sentito di giustizia bipolare, si disse certo che il rimedio a tutti i suoi mali aveva un solo nome, meglio un acronimo, che tanto evocava, per assonanza alla sua professione di radiologo, avanzate frontiere di diagnosi e cura: il TAR!

Oggi Carneade aspetta, fiducioso, giustizia, anche perché il suo ricorso dovrebbe essere trattato entro tempi brevissimi; non sa ancora, però, che quell’avvocato, ancorché valente, ha incolpevolmente allungato l’infinita distanza che da decenni lo separa dal concretizzarsi, in sonante moneta, del suo "incontestato" diritto.

Non sa, cioè, che, con buona pace dell’impegno progressista nella riforma della Costituzione, cui è fiero di aver contribuito con il suo voto di cittadino, e nonostante gli articoli di fondo, letti sull’autorevole quotidiano preferito, anche questa volta sarà costretto a ricominciare la salita, proprio quando, come recita un ritornello di moda, pensava che fosse finita!

Il suo valente avvocato, frattanto, ha deciso di non rispondere più a nessuna delle telefonate, che da qualche giorno, dopo le anticipazioni apparse sulla stampa, si susseguono ininterrottamente al suo studio; di speranzosi Carneadi ne difende tanti, e non ha argomento alcuno per spiegare che non è sua la colpa del vano trascorrere dell’ultimo quadriennio in attesa della decisione di un Giudice, che su quei diritti, con certezza, non potrà decidere, nonostante, e non è poco, tutti quei Carneadi abbiano puntualmente versato migliaia di Euro per un "contributo unificato" all’efficienza del servizio-giustizia.

Signori si riparte, sperando che in futuro né uno sciopero, né l’indisponibilità del macchinista alla guida, ci riporti daccapo all’inizio di un cammino senza speranza!

Chissà cosa penserà, però, la CEDU - da tempo, a quanto si dice, pronta a stigmatizzare la contraddittorietà fra nomofilachia mutante della giurisprudenza italiana e garanzie che la Convenzione assicura in termini di processo giusto ed effettivo - di questo ennesimo e singolare gioco dell’oca, in cui al cittadino capita sempre più spesso di tornare alla partenza senza poter passare dal traguardo!

2) Quasi due secoli di cammino verso la coerenza: ovvero, una strada senza uscita.

E’ difficile stabilire se in questa storia la vera vittima sia Carneade, o piuttosto i suoi onesti e coscienziosi avvocati, od ancora l’Uomo, i cui diritti fondamentali andrebbero adeguatamente garantiti da tutti gli Stati che ne hanno assunto irrinunciabile impegno.

E’ certo tuttavia che la lettura della sentenza 6/7/04 n. 204 della Corte Costituzionale, finisce per generare negli "addetti ai lavori" la strana sensazione di chi teme d’aver inutilmente impegnato tempo e cervello nell’onesto, e forse superficiale, tentativo di dare un senso al sistema ed al suo evolvere.

Per decenni, e non senza fatica, chi di diritto amministrativo si occupa, ha voluto leggere le continue evoluzioni del sistema bipolare cercando di non perdere mai di vista la storia del pensiero e della politica del Paese. E probabilmente, non più giovanissimo, si sarà convinto che, non volendo negare in radice la logica che regge l’intero sistema, e cioè la costante dicotomia tra potestà e diritti, occorresse guardare alle mutevoli modalità di tutela come tappe di un lungo, ma fattivo, percorso, destinato a realizzare, in più di un secolo e mezzo, il difficile connubio fra "Giudice specializzato dell’Amministrare" e tutela, obiettiva ed effettiva, di situazioni soggettive ontologicamente diverse, ma con pari dignità e valenza oggettiva per l’ordinamento.

Era questo l’insegnamento che sembrava potersi cogliere dall’ondivago percorso, intrapreso con l’abolizione dei Giudici unici nell’Amministrazione in nome dell’incontrastata supremazia illuministica del diritto soggettivo e del conseguente (ma di interesse legittimo sostanziale nessuno si sognava ancora di parlare) obbligo di terzietà del Giudicante. E via via lentamente e scientemente proseguito, anche a dispetto delle deprecabili deviazioni, proprie dei decenni bui del secolo appena concluso e motivate da strumentale consolidazione del potere fine a se stesso, verso un mero e bieco autoritarismo,.

Sicchè dalla lettura della Carta Costituzionale, capace anche di esaltare la stupefacente modernità – a giudizio postumo- delle prospettive che la destra storica aveva aperto all’interesse pubblico, ed alla naturale strumentalità al fine prefigurata per il potere amministrativo, sembrava potersi trarre conferma alla definitiva consacrazione del sistema bipolare di tutela, celebrata dall’accentuato legame tra giurisdizione pura e Giudice dell’Amministrazione voluto nel Titolo IV.

Infine, e quando, non senza criticabili incertezze, il legislatore sembrava avere concluso, con la legge 205/00, la via che porta ad una giurisdizione strutturalmente unitaria, anche se connotata da specializzazione, e conseguente tendenziale riparto per materia (questa volta non più per privilegiare incongruamente la parte pubblica, garantita da un giudice "suo", ma per definitivamente consacrare la pari dignità fra diritto soggettivo ed interesse legittimo) quelle certezze si erano consolidate e, come i personaggi della breve storia, anche ai difensori delle parti pubbliche si era rassicurata la coscienza, già turbata dal sospetto di dover fruire di invisi privilegi a danno del vessato cittadino.

Tutte le convinzioni, indotte anche dalla conseguente, e non certo rivoluzionaria, declaratoria, che l’opera incompiuta della Commissione Bicamerale aveva ipotizzato, modificando il testo dell’art.103 della Costituzione, sono oggi completamente svanite. E non già perché é di nuovo mutata la configurazione dell’intero sistema, sempre più, e nei fatti, poco gradito alla moda del panprivatismo anglosassone, ma perché un’ennesima sentenza, demolitoria e nomopoietica al contempo, ha inteso rileggere, in termini anacronistici di autorità pura, ruoli e garanzie civilmente conquistati nei rapporti fra cittadino ed Amministrazione.

3) L’antitesi paradossale: alla forma dell’art. 103 recede la sostanza del 111.

L’esperienza ha dimostrato che il sistema di tutela, dall’entrata in vigore del tormentato testo degli artt. 33 e 34 D. Lgs. 80/98 e dalla fondamentale modifica introdotta con l’art.7 L. 205/00, si è notevolmente evoluto in direzione dell’effettività di risultati.

Nessuno può credibilmente negare che la garanzia assicurata dal Giudice Amministrativo, il quale ha nella strutturale semplicità e celerità del suo processo un punto di forza incontrovertibile, sia apparsa più efficace, se non altro perché la giurisdizione esclusiva ha sgombrato il campo da ogni bizantinismo, legato all’inutile (in termini di risultato) disquisizione sulla titolarità dello stesso potere di decidere, in tutti i casi in cui all’affermazione del diritto di credito, ed alla conseguente condanna, era strumentale la verifica su contenuti ed effetti degli atti amministrativi presupposti. Ipotesi quest’ultima cui, ancora in tempi abbastanza recenti, anche le Sezioni Unite (sent. 11/3/2002 n. 3533) hanno considerato collegabile la giurisdizione amministrativa già ex art. 5 c. 1 L. 1034/1971.

Certamente la soluzione dei problemi legati al numero delle controversie di nuova instaurazione è ancora da trovare, così come a rimedi efficaci sulla definizione del pendente occorre in tempi brevi pervenire.

Ma se Sparta piange, Atene certamente non ride, e nessuno vorrà al contempo asserire che, in termini assoluti (e sempre di risultato per gli utenti), la giurisdizione ordinaria, con i suoi ritardi clamorosamente consacrati nei costi pubblici che la progressiva applicazione della legge Pinto sta producendo, garantisca tempi più brevi alla realizzazione effettiva del diritto. Senza dire che l’apertura del processo amministrativo agli strumenti di definizione non contenziosa o parziale, su crediti non contestati, ha ulteriormente incrementato il margine di risultato, consentendo di coniugare alla garanzia nominale della condanna, anche quella, effettiva, della celere e reale esecuzione in danno della pubblica Amministrazione inadempiente, che solo davanti al Giudice Amministrativo è concretamente possibile.

Non resta che concludere, allora, in termini di politica giudiziaria, e di realizzazione non nominale dei principi di effettività, giustizia ed efficacia del processo, tradotti in regole costituzionali dal nuovo art. 111, che la decisione della Corte è destinata a produrre effetti recessivi, condannando gli incolpevoli utenti - e di fatto l’intero sistema-giustizia nazionale - a tempi biblici di attesa per la soddisfazione concreta delle legittime pretese.

4) La contraddizione intrinseca del risultato.

Il giudizio critico sugli effetti della sentenza non muta se si guarda agli aspetti di puro diritto, solo apparentemente meno rilevanti per la risposta alla domanda di giustizia, ma in realtà decisivi sul quadro futuro che si è portati ad ipotizzare.

E’ singolare annotare che il ragionamento che conduce alla pronuncia d’incostituzionalità prenda le mosse dal confortante riscontro di una scelta del Costituente, che ha ritenuto indispensabile trasfondere nella Carta Fondamentale i principi che ispirarono la legge "abolitiva " del 1865.

Verità sacrosanta, ma non assoluta!

Non si può infatti al contempo ignorare che, negli oltre ottant’anni che separano i due eventi, l’estrema vitalità dimostrata da dottrina e giurisprudenza ha consentito di disegnare un sistema in costante progresso verso un fondamentale obiettivo ulteriore, anch’esso poi consacrato dalla Carta Costituzionale e rappresentato dalla definita pari dignità e garanzia per diritto ed interesse.

Di conseguenza, è oggettivamente ingiusto, oltre che storicamente inesatto, configurare come frutto di "effetti distorsivi" il ruolo via via riconosciuto dalla legge primaria al Consiglio di Stato, che, nel momento in cui era embrionale l’applicazione di principi destinati ad evolvere verso la tutela giurisdizionale piena anche sull’attività discrezionale dell’Amministrazione, né "aveva ormai esaurito il suo compito", né, tanto meno, si accingeva a coprire "abusivamente" i vuoti di giurisdizione emersi, sin dal 1865, nella contrapposizione del rapporto con l’Autorità alle fattispecie di diritto soggettivo pieno.

Per avallare conclusioni diametralmente opposte, alla Corte sarebbe bastato considerare che la c.d. giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo non è certo nata con la Carta Costituzionale; che storicamente non si può individuare un solo caso in cui la giustizia amministrativa si sia pretoriamente appropriata di "spazi vuoti" residuali ai diritti (piuttosto, solo al Giudice Amministrativo va il merito della progressiva estensione verso la tutela piena dell’interesse legittimo, via via recepita, nel tempo, dalla legge); e che, in forza di quella materiale preminenza, garantita dalla supremazia del "giudicare la giurisdizione", è piuttosto all’ambito "ordinario" del medesimo potere sovrano che dovrebbero imputarsi "forzature" del sistema, espresse da categorie generali come la "carenza di potere in concreto" o il "petitum sostanziale", che per decenni hanno turbato i sonni tranquilli degli studenti di giurisprudenza.

Allora, nel recepire il pensiero di un grande Giurista, inevitabilmente, e per scelta culturale, schierato con la primazia della giurisdizione ordinaria, ci si sarebbe attesi maggiore attenzione alle indicazioni opposte, da altrettanto grandi Giuristi motivatamente fornite con l’esaltare principi di grande civiltà giuridica, sui quali, in contrapposizione ad altri – ancor oggi vigenti – ordinamenti europei, si era consolidato il ruolo di pura giurisdizione svolto dal Consiglio di Stato.

Ne sarebbe derivata, in primis, una più coerente identificazione del tema soggetto al riscontro di costituzionalità, di certo estraneo agli effetti, indiscussi, indotti dalla rivoluzione liberale sulla tutela del diritto soggettivo anche nei confronti della P.A., e invece correlato alla mera opportunità della scelta discrezionale, concretizzatasi nell’art. 33. E probabilmente ne sarebbe derivato un giudizio di piena coerenza al principio costituzionale di pari ordinazione fra diritti ed interessi legittimi, oltre che all’altrettanto pacifico e contestuale riconoscimento esplicito di appartenenza del Giudice Amministrativo all’unitario sistema della giurisdizione pura , deducibile dall’art. 103, 1° comma, della Costituzione.

Se allora in questo senso sembrano orientate le scelte del Costituente, affermare che dalla Carta Fondamentale si tragga per il Giudice Amministrativo solo la certezza della giurisdizione generale di legittimità, e non emerga alcuna apertura all’espansione della giurisdizione esclusiva verso la "particolare materia" del giudicare sull’amministrazione, è argomento frutto di opinabile, anche se qualificata, lettura individuale, oltre che comunque neutro nell’economia generale del tema affrontato.

L’art.103 non recita invero alcun ruolo "accessorio" nella disciplina generale sul riparto, e tanto meno lo svolge il suo primo comma, specie se motivatamente ritenuto espressivo di una particolare (condivisa) esigenza, e cioè quella di conferire la giurisdizione esclusiva per "particolari" materie (e non parti di materie), in cui sarebbe strutturale l’inscindibilità delle questioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo.

A stupire maggiormente è però l’affermazione che, superando confini mai varcati dal Giudice delle leggi, ed invadendo invece il campo della legge sui Giudici, induce la Corte a verificare gli ambiti entro i quali la discrezionalità del legislatore risulterebbe delimitata dalla norma costituzionale.

Parametro anche questo sacrosanto, se di verifica della legittimità di una norma alla stregua di principi espressi si tratta; ma vera e propria espropriazione delle attribuzioni legislative, confermata dal singolare dispositivo "legiferante", se invece, ed ancora una volta testualmente si riproduce la motivazione, il criterio di comparazione finisce per concretizzarsi in un giudizio (che norma costituzionale non è) su contenuti inespressi della previsione costituzionale di raffronto. Tali contenuti, come detto inespressi, vengono per di più soggettivamente "interpretati" come conferimento della sola facoltà di indicare "particolari materie" (rectius, species di materie), e cioè quelle in cui il rapporto può investire anche i diritti soggettivi, identificando ancora le "materie" abilitate con un criterio assolutamente atecnico, atipico, incerto ed impreciso (la "commistione inestricabile").

Invero, la motivazione della sentenza presuppone che la giurisdizione del Giudice amministrativo sui diritti sia stata configurata dal Costituente in termini meramente "integrativi" di quella, ritenuta invece generale, sugli interessi, ed a tale conclusione perviene con un argomento letterale oggettivamente troppo debole.

Basti, in prospettiva meramente semantica, obiettare che la locuzione "anche" può significare soltanto, o più semplicemente, "inoltre", e che nulla consente di ritenere, con altrettanta certezza, che nell’art.103 si esprima invece la ferrea volontà di coniugare, sempre ed indissolubilmente, le "particolari materie" (a loro volta così qualificabili solo perché da espressamente identificare, e non da definire come species del genus "potestà pubblica", ipotesi per cui sarebbe stato più pertinente l’aggettivo "determinate") non tanto alla possibile presenza anche di interessi legittimi (ovviamente sulle materie, e non sulle singole fattispecie dedotte in giudizio), ma all’effettivo e materiale riscontro, in tutte le ipotesi astrattamente coinvolte dalla legge, dell’inestricabile compenetrarsi delle due tipologie di situazioni soggettive.

Il nuovo della sentenza starebbe allora, ed in realtà, nel superamento della tendenziale astrattezza delle previsioni oggetto del giudizio, le quali andrebbero valutate per quanto in concreto può "talvolta" determinarsi, e non per quanto, in via astratta ed ipotetica, se ne può come principio dedurre!

Procedendo cioè dal presupposto che la giurisdizione esclusiva introdotta dalla L. 205/00 sarebbe "qualitativamente diversa" da quella individuata dalla Costituzione nell’intreccio di situazioni soggettive qualificabili (ora) come interessi legittimi e (ora) come diritti soggettivi, si arriva a ritenere incostituzionali i soli passaggi che, pur riferendosi a materie determinate (nella specie servizi pubblici e/o utilizzo del territorio) per discrezionale convinzione del Giudice delle Leggi non potrebbero ricondursi a settori "particolari" di materie più ampie (sembra questo il senso espresso dalla contraddittoria scelta di ritenere invece costituzionalmente legittima la giurisdizione esclusiva sui "rapporti concessori", pur con la singolare esclusione di indennità, canoni ed altri corrispettivi).

Come detto, quanto all’aspetto "letterale" del problema, la motivazione utilizzata dalla Corte si fonda sul significato da attribuire, nella formulazione dell’art.103, ai termini "anche" e "particolari", e sulla lettura dei due termini in necessario collegamento, nel senso cioè che si deve trattare di materie "particolari" rispetto al generale connotato della concomitanza tra diritti ed interessi, in cui in tesi sarebbe ammessa una giurisdizione del Giudice Amministrativo, e che solo in tali "materie" sarebbe possibile concedere "anche" la giurisdizione sui diritti.

Ma, secondo il linguaggio comune, riferire l’uso del termine "anche" alla sola ipotesi di necessaria "convivenza" fra diritti ed interessi nella medesima materia è conclusione che non è espressa in modo univoco dall’art.103. E d’altra parte, se la si legge senza pregiudizi, la norma costituzionale null’altro sembra voler affermare che l’attribuzione della giurisdizione generale di legittimità (cioè, sugli interessi legittimi) al Giudice Amministrativo, ed al contempo il parallelo conferimento del diritto soggettivo alla giurisdizione ordinaria, con l’unica, ovvia frontiera della c.d. riserva di legge, per i casi in cui anche la tutela dei diritti sia consentita alla prima.

Se così non fosse, peraltro, si prospetterebbe incostituzionale la stessa opzione dell’amministrare "per accordi", giacchè dall’accordo nasce sempre, e per definizione, un diritto, e l’amministrare in condizioni di pariteticità sarebbe un non senso; così come un non senso sarebbe prevedere in tali casi una giurisdizione esclusiva, che invece la sentenza dichiara coerente perché espressiva di un "intreccio", smentito dalla stessa tipicità dello strumento utilizzabile.

E’ vero allora che la Corte sembra pervenire alle sue conclusioni solo attraverso il superamento di un limite mai varcato, che è quello del riscontro, in astratto, del pensiero ispiratore della scelta discrezionale riservata al legislatore, piuttosto che attraverso la forma tipica del giudizio incidentale, in cui, com’è noto, solo alla rilevanza ed alla incidenza che la norma può avere sulla fattispecie concreta può e deve farsi effettivo riferimento.

Diversamente operando la Corte legifera, e non lo fa secondo gli scontati schemi della sentenza additiva od anche impropriamente "manipolativa", ma, come eccezionalmente si verifica oggi, abbandonando la veste di Giudice ( e facendosi titolare di quella discrezionalità delle scelte che non le compete) oltre che, come ciascuno può dedurre dal dispositivo, formulando ex novo il testo regolatore, in positivo, delle vicende astratte.

5) Il vero Statuto della giurisdizione amministrativa. L’art. 24 della Costituzione

In totale dissenso rispetto alle premesse che connotano quella che da più parti è stata definita la prima, generalizzante, tranche del ragionamento seguito nella sentenza, un pur superficiale excursus sulla storia della giurisdizione amministrativa da’ riscontro dell’impraticabilità di un approccio che proceda dalla citata legge del 1865.

E’ noto a tutti che in quella sede, in cui, sintomaticamente, non si è mai parlato né di interessi legittimi né di giurisdizione sugli stessi, il legislatore aveva inteso affermare la giusnaturalistica incomprimibilità della garanzia sul diritto soggettivo, ritenendola ineludibile anche nei confronti della pubblica Amministrazione. Una prospettazione, questa, coerente alle linee fondamentali dello Stato di diritto, in cui non si presupponeva spazio alcuno, specie nel momento in cui l’esigenza era quella di eliminare un "contenzioso speciale", ad una giurisdizione diversa sui rapporti di autorità con la pubblica Amministrazione.

E’ altrettanto noto il tormentato percorso verso il contemperamento tra tutela "oggettiva" sugli atti autoritativi e non dichiarata giurisdizionalizzazione dell’Autorità preposta, che si è sviluppato nei decenni seguenti e fino alla redazione della Carta Costituzionale.

Sicchè una lettura coerente dei contenuti della Costituzione, e delle leggi esistenti all’epoca della sua formalizzazione nel testo ancora vigente, non poteva non prendere atto del ruolo per così dire "di sintesi" che il testo medesimo ha avuto nella presa d’atto del sistema di garanzia in vigore.

Il vero, e non certo secondario, contenuto innovatore della Carta è quindi, e soltanto, nell’art.24, in cui, come pure è stato acutamente riscontrato, per la prima volta non soltanto si nomina, in un testo normativo, l’istituto dell’interesse legittimo, ma si attribuisce anche alla situazione soggettiva dignità omogenea a quella del diritto, giurisdizionalizzandone sostanzialmente, con il riconoscimento dell’indispensabilità ed ineludibilità della tutela attraverso l’"azione in giudizio", il ruolo di controaltare alla potestà pubblica.

Ne è seguita una formulazione dell’art.103, non casualmente inserito nel capo relativo alle magistrature, ed altrettanto non casualmente svincolato dall’art.100 – che del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti si occupa come istituzioni "nell’amministrazione" -, meramente e chiaramente ricognitiva della realtà preesistente.

E’ questo, più coerentemente, il senso che appare attribuibile alle "particolari (non già determinate) materie" citate nel testo, anche perché non poteva non darsi atto della non altrimenti riassumibile eterogeneità dei casi a cui l’art. 29 del T.U. sul Consiglio di Stato si era riferito, introducendo ex novo la giurisdizione esclusiva.

Se allora la norma costituzionale si interpreta, senza pregiudizi, come rinvio al tempo stesso statico e dinamico (il Costituente, cioè, prese atto delle norme esistenti, ne confermò l’operatività in subiecta materia e si è avvalso dello strumento tradizionale, atto a garantire che ogni ulteriore integrazione non possa prescindere dalla riserva assoluta alla legge) ogni bizantino argomentare sul significato semantico delle espressioni usate appare davvero riduttivo e non pertinente.

Era cioè solo necessario prendere atto di quanto, per determinati – poco importa se soggettivamente condivisibili - schemi di tutela giurisdizionale, è pesata una scelta di conservazione del sistema, concludendo sulla coerenza di una funzionale apertura, attraverso la detta riserva di legge, verso la specializzazione di un Giudice dell’Amministrare e del pubblico interesse, le cui funzioni vanno rese elastiche, quanto ai diversi rapporti giuridici con i singoli cittadini, in relazione a blocchi di materie.

Sintomatica conferma a questa conclusione si trae proprio dal comma secondo dello stesso art.103, che definisce invece la giurisdizione della Corte dei Conti. In questo caso, l’esplicita opzione per un rinvio, al contempo statico e dinamico, alla situazione esistente ed alla riserva di legge è ancora più evidente, ma, deve presumersi, solo per ragioni di materiale redazione del testo; ogni diversa lettura, infatti, farebbe correre il rischio di ritenere illogicamente sottolineata, rispetto al Giudice Amministrativo, la giurisdizionalizzazione della Corte, perchè dette funzioni vengono addirittura delimitate entro i confini della "contabilità pubblica", concetto ben più indeterminato ed impreciso delle "particolari" materie.

La disposizione contenuta nel secondo comma ha cioè una logica coerenza solo se si ritiene che quel riferimento conduca al T.U 1214/34 sulla Corte, ovvero alla situazione normativa esistente alla data in cui venne formato il testo della Carta Fondamentale; al contempo, l’apertura alle "altre materie indicate dalla legge" da’ contezza della scelta dispositiva effettuata, che è appunto quella di lasciare all’equilibrata discrezionalità del legislatore ordinario l’individuazione dei settori cui eventualmente estendere una giurisdizione, resa specializzata dal coinvolgimento dell’interesse generale alla salvaguardia dell’unitario patrimonio pubblico. E peraltro nessuno può essere oggi indotto a dubitare della coerenza costituzionale di quanto, in termini di responsabilità extracontrattuale soggetta alla giurisdizione della Corte, le leggi del 1994 hanno previsto sul danno erariale prodotto a soggetti pubblici diversi da quelli cui il dipendente è legato da rapporto di servizio.

Così inteso il concetto di "materia" cui il Costituente sembra aver voluto far riferimento nel redigere il Testo fondamentale, risulta acclarato che:

a) materia, nel caso che ne occupa, è il pubblico servizio, perché a detta categoria pressoché omogenea (la riserva è d’obbligo, viste le non producenti diatribe insorte sulla connotazione oggettiva o soggettiva della concettualizzazione) si riferisce la norma contestata;

b) in questa prospettiva, non è oggettivamente chiaro cosa, in contrapposizione, si intenda per blocchi di materie, visto che appunto di servizi pubblici la sentenza è chiamata ad occuparsi, secondo le regole indotte dai connotati devolutivi ed incidentali del giudizio di legittimità costituzionale;

c) altrettanto poco chiaro è quanto incida sul tema all’esame il rapporto tra la materia del pubblico servizio, così delimitata, e l’intreccio strutturale di situazioni soggettive diverse, che di fatto verrebbe preso in considerazione – e come tale, in effetti, sembra rilevare per la Corte – con riferimento non alla materia nella sua astratta configurazione, ma allo specifico rapporto controverso, al punto di determinare le incongruità dispositive sul testo emendato, di cui si dirà in prosieguo.

In altre parole, come puntualmente ha già avuto occasione di rilevare, conseguentemente determinandosi, il Consiglio di Stato (CdS IV, 5/10/04 n.6489), per effetto dell’intervento della Corte Costituzionale ogni Giudice dovrà verificare se nell’ambito del singolo rapporto dedotto sia riscontrabile un coinvolgimento della pubblica amministrazione-autorità.

In caso affermativo, la giurisdizione stessa, ove si tratti di quelle particolari materie, sarà riservata al Giudice Amministrativo come esclusiva, e potrà estendersi alla pronuncia su diritti. Quindi, non la materia o il blocco di materie limita la giurisdizione, ma appunto l’indagine sui connotati del singolo rapporto controverso, con quanto ne segue in termini di palese incertezza nella prodromica fase d’individuazione dell’Autorità cui richiedere la tutela.

6) Unicuique suum: ovvero, la certezza del diritto ed il diritto del cittadino alla certezza.

Fermo quanto si andrà a rilevare in termini di pertinenza dei rilievi alla particolare fattispecie in cui era sorto il dubbio incidentale di legittimità costituzionale, merita ancora una sommaria verifica l’effetto che la manipolazione del testo della decisione ha prodotto sulla disciplina introdotta dall’art.7 della legge 205/00, modificativo degli artt.33 e 34 D. Lgs. 80/98.

Quantunque nei più accreditati motori di ricerca con aggiornamento on line ancora oggi, sintomaticamente, si legga il testo originario della norma, accompagnato soltanto da una nota in calce, che riproduce il testo manipolativamente introdotto dalla sentenza 204, è forse opportuno innanzitutto riportare in dettaglio il risultato di quelle modifiche interpolative: "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481 ". Cassato integralmente il secondo comma, permane un singolare contenuto del terzo, in contraddizione evidente con quanto dispone, invece, la nuova formulazione del primo.

Il nuovo testo, cioè, ha innanzitutto resuscitato il riferimento generico alle concessioni quanto al "blocco di materie" pertinente alla categoria dei pubblici servizi. Altrettanto inopinatamente, però, ha recuperato la deroga per indennità, canoni ed altri corrispettivi, che, come "porzione di materia", esprimevano esemplificativo rinvio ai diritti soggettivi ipotizzabili nel complessivo rapporto controverso (quello, appunto, concessorio), restituendo in parte qua la giurisdizione al Giudice Ordinario.

Scelta questa abbastanza inusuale ed incongrua, rispetto alla verifica di legittimità costituzionale secondo i parametri ipotizzati (eccezionalità della giurisdizione esclusiva, obbligo di specifico riferimento a "settori" di attività peculiarmente connotati e diretta riscontrabilità di inestricabile intreccio delle due situazioni soggettive diversamente tutelabili), perché una volta riconosciuto che nell’ipotesi concessoria è giustificata la giurisdizione esclusiva, la voluta limitazione svuota in concreto contenuti ed effetti dell’istituto, senza alcun possibile riferimento al testo costituzionale, e, piuttosto, con meccanismi di mero rinvio al principio espresso dal comma secondo dell’art.30 TU Consiglio di Stato sulla riserva per i diritti patrimoniali consequenziali.

L’opzione, come detto, è singolare, perché non si può mettere in discussione che, in parte qua, il legislatore abbia legittimamente esercitato, come vuole la Corte, il suo potere discrezionale, in ambiti afferenti materia "particolare", conferendo giurisdizione "anche" su diritti soggettivi; ma è ugualmente incontestabile che il ricordato art. 30 sia disposizione di legge ordinaria, soggetta, come tutte le norme primarie, alla possibile modifica sopravvenuta mediante strumenti di pari forza e valore, e non già parametro immutabile imposto dalle regole costituzionali.

Ma le singolarità del procedere non si fermano qui.

Come pure la citata decisione della quarta sezione ha voluto evidenziare, ancorché timidamente prospettandola come "residua perplessità interpretativa", il testo riformulato dell’art. 33 continua a mantenere un riferimento espresso, come "materia particolare" di giurisdizione anche sui diritti, al servizio farmaceutico, oltre che ai trasporti, alle telecomunicazioni, all’energia elettrica ed al gas (c.d. servizi di pubblica utilità): sicchè, e non lo si ritenga impossibile, visto che il vincolo di assoluta inapplicabilità deriva solo dalla formale decaratoria di illegittimità costituzionale, sarebbe perfettamente coerente al sistema, ma forse non alla logica, ritenere che il farmacista creditore del SSN si rivolga con successo al Giudice Amministrativo, mentre analoga iniziativa è tassativamente preclusa al medico specialista accreditato, come tale molto più credibilmente parte di un vero rapporto concessorio (l’accreditamento, volto all’acquisizione di un servizio pubblico in favore dell’utenza) con l’Amministrazione.

Non minori "perplessità interpretative residue", nascono, sia detto per inciso, sul tema dei comportamenti, che pure la sentenza è chiamata ad affrontare.

Se è convincente l’effetto prodotto sulle tematiche della tutela possessoria, è vero però che la realtà ha già mostrato le inevitabili oscillazioni conseguenti alle diverse fattispecie dell’occupazione appropriativa ed usurpativa, in tesi suscettibili di giurisdizione differenziata per il solo fatto che sussista o meno una "carenza di potere in concreto".

Senza aggiungere che a disciplinare la giurisdizione in subiecta materia è la norma speciale contenuta nell’art.53 del DPR 8/6/2001 n.327, norma di legge e comunque afferente una "particolare materia" (quella appunto disciplinata dalle disposizioni del testo unico, ovvero l’espropriazione per pubblica utilità), sicché né si può pensare ad un effetto "derivatamente invalidante" della verifica di incostituzionalità sulla scelta del "blocco di materie", né – visto che opportunamente anche questa disposizione è già stata rimessa al giudizio della Corte – si può credibilmente presagire una conferma dell’opinione espressa dalla sentenza n.204, che all’incostituzionalità perviene sulla base dell’art.34 D. Lgs. 80/98, oltre che dell’altrettanto anodino riferimento ai momenti comportamentali nell’attività relativa all’uso del territorio.

7) L’inestricabile intreccio, le concessioni e l’accreditamento sanitario: un caso eclatante di contraddittorietà.

Pur volendo ritenere probante quanto la Corte ha ritenuto presupposto nella lettura dei contenuti dell’art.103, la decisione 204 non convince infine neanche in termini di applicazione al caso concreto della regola ipotizzata.

Invero, sarebbe stato lecito attendersi dalla Massima Giurisdizione un’attenzione maggiore nella verifica sul tipo di rapporto controverso, in cui il giudizio incidentale di legittimità era destinato ad operare.

Se lo avesse fatto, probabilmente la Corte non avrebbe neanche potuto confermare la rilevanza della rimessione, visto che proprio in quella materia, e poco importa se sulla base di non condivisi riferimenti a "tutte le controversie" ed al compendio "pubblici servizi", è costantemente riscontrabile l’inestricabile intreccio di diritti ed interessi, che caratterizzerebbe in tesi la pur limitata discrezionalità del legislatore.

Forse si possono condividere severe censure alla forma utilizzata nell’art.33 dal legislatore; ma di certo non si può in astratto confermare che alla materia del pubblico servizio "sanità" sia strutturalmente estraneo ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione-autorità.

Qualunque sia l’accezione che a quella definizione intenda darsi, e qualunque sia, soggettivo od oggettivo, il rilievo attribuito all’aggettivazione "pubblico" riferita al servizio, il dato certo è che, per previsione normativa, prima ancora che per naturale conseguenza dell’amministrare il pubblico interesse, cui l’attività è strumentalmente collegata come "servizio", il settore è per definizione riservato al potere amministrativo, da cui soltanto può, secondo schemi "derivativi", originare ogni forma e modalità di gestione dei terzi a vantaggio dei potenziali fruitori.

E’ superfluo richiamare qui tutto quanto gli ordinamenti europeo e nazionale, anche regolando l’attività decentrata, impongano a garanzia della concorrenza nei criteri di scelta dell’operatore e nelle modalità di accesso da parte dei singoli.

Basta rilevare che, per definizione, tutto l’esercizio di attività riconducibile al genus pubblico servizio ha origini derivate, nel senso che originariamente, in quanto pubblico, non è mai estraneo alle attribuzioni di chi, nell’ordinamento, solo utilizzando un potere autoritativo può nella materia operare.

Sicchè, ed è questo il primo dei presupposti trascurati, non esiste pubblico servizio espletato da privati senza un atto traslativo della funzione, che secondo i principi generali va ascritto alla categoria delle concessioni.

Ma, soprattutto nel settore "cui si riferisce la controversia incardinata davanti al giudice a quo", non esiste alcuna possibilità concreta di rivendicare, davanti al Giudice Amministrativo, l’adempimento delle obbligazioni sottostanti, ed il conseguente pagamento dei crediti non soddisfatti per prestazioni già eseguite, se, a monte, non operi il c.d. accreditamento della struttura sanitaria, ovvero lo strumento concessorio con cui il Servizio Sanitario legittima la struttura privata ad offrire le proprie prestazioni specialistiche a chi, per garanzia costituzionale del diritto incomprimibile alla salute, ha titolo a fruire del servizio pubblico.

Ne segue che il rapporto dedotto nel giudizio a quo non sembrava costituire un normale momento di adempimento contrattuale in una vicenda di diritto privato.

Esso, piuttosto, come conferma tutta la disciplina positiva introdotta sin dalla L. 502/92, ed ulteriormente connotata in termini pubblicistici dalle successive modifiche ed integrazioni (v. per tutte il D. Lgs. 229/99), è paradigmatico della tipica vicenda di diritto pubblico, tradizionalmente articolata tra atto autoritativo di legittimazione del concessionario all’attività e c.d. convenzione accessiva. In questa l’Amministrazione trasfonde, avvalendosi di strumenti solo strutturalmente privatistici, ma le cui vicende sono condizionate dal permanere dell'atto di accreditamento, anche il potere autoritativo che la legge le conferisce sul rapporto, e che, a tacer d’altro, si manifesta nella determinazione dei tetti di spesa individuali, nella definizione delle prestazioni erogabili, nella quantificazione dei compensi riconoscibili in virtù della programmazione, predisposta secondo le potenziali esigenze dell’utenza.

Allora, ed è questo il nodo realmente inestricabile nell’intera vicenda, la sentenza si dimostra incoerente con gli stessi, invero non condivisi, argomenti logico-giuridici su cui fonda la verifica d’incostituzionalità.

La materia cui si riferisce il giudizio a quo, cioè, appare certamente caratterizzata dalla potestà dell’Amministrazione di agire come autorità, è intrisa da "inestricabile intreccio" tra diritti ed interessi, è, soprattutto, relativa a concessione di pubblici servizi e si collega ai poteri di vigilanza e controllo nei confronti del gestore (in quanto, ed in astratto, solo su contestazioni relative a quantità o contabilizzazione delle prestazioni commesse il rifiuto di pagamento potrebbe fondarsi, ed in ogni caso solo dalla verifica sul permanere del rapporto concessorio può desumersi il colpevole inadempimento del concedente).

La norma allora non era, né è, assolutamente incostituzionale nella parte in cui attribuisce al Giudice Amministrativo la giurisdizione esclusiva, né su diverse basi può fondarsi la scelta, questa volta indotta dall’esercizio di una discrezionalità che è, per principio costituzionale ineludibile, riservata al legislatore, di reintrodurre un limite (controversie concernenti canoni, indennità ed altri corrispettivi) che con il carattere della giurisdizione esclusiva non è incompatibile.

8) Le residue speranze di Carneade e del sistema.

Per non essere tacciati di improduttivo disfattismo, si può forse ritenere che, come dimostra il vivace dibattito che ha generato, la sentenza 204 abbia anche un merito, quello di poter sollecitare l’attuazione della scontata modifica costituzionale dell’art.103, nel senso che propende al riparto della giurisdizione per materie ed alla sostanziale, ennesima, presa d’atto dell’evoluzione che la tutela giurisdizionale ha subito, specie negli ultimi decenni.

In questa prospettiva, non rimane che auspicare, in tempi tanto brevi da evitare un’insanabile paralisi nella cura di pubblici interessi così rilevanti una scelta di grande coraggio del legislatore.

Comunque, l’art. 33, nella sua più intima essenza, e non soltanto con riferimento alla materia, merita in parte qua di essere riprodotto nei suoi contenuti originari, se del caso chiarendo che la giurisdizione esclusiva copre l’intera materia anche degli accreditamenti con il Sistema sanitario, in quanto, e si è tentato di dimostrarlo, non soltanto afferente i poteri concessori dell’Amministrazione, ma anche caratterizzata (ed il cospicuo contenzioso sulla legittimità dei provvedimenti che assegnano tetti di spesa alle singole strutture ne è eclatante conferma, in sintonia a consolidata giurisprudenza che all’Amministrazione riconosce il potere unilaterale di fissare quei tetti) da immanente, costante compresenza di diritti soggettivi ed interessi legittimi.

Per quant’altro, ed in assenza di ogni possibilità d’impugnazione ulteriore, non resta che temere, sulla scia dell’inderogabile applicazione del binomio giurisdizione amministrativa - potere autoritativo della p.A., la declaratoria d’incostituzionalità delle norme sulla giurisdizione, ad esempio, in materia di accesso, che interesse legittimo non è, e che quindi non sarebbe "canonico" ricondurre alla giurisdizione amministrativa, od ancora in materia di concorsi interni, che invece sono procedimenti amministrativi, soggetti alla L. 241/90 e, quindi, non possono sfuggire alla giurisdizione generale di legittimità riservata al Giudice Amministrativo.

Ancora una volta a solo danno di quegli incolpevoli personaggi che hanno animato la storia vera d’esordio, e che, a loro volta, dovranno riporre ogni speranza di economica sopravvivenza nell’ondivaga lettura che la giurisprudenza saprà fare dell’art.5 c.p.c. .

Prevarrà l’orientamento, (Cass. SS.UU. 6/5/2002 n. 6487) secondo il quale la declaratoria d’incostituzionalità non consente al principio di cui all’art. 5 c.p.c. di operare, ovvero quello opposto, magari supportato dall’anomalia di una sentenza che in concreto è nuova norma sulla giurisdizione, di ritenere ormai radicato, sulla legge modificata, ma vigente all’epoca in cui furono introdotti i giudizi, le caratteristiche "naturali" del Giudice adito diversi anni prima?

Carneade ed i suoi onesti avvocati, ormai allo stremo, attendono con rassegnazione l’ennesimo verdetto formale: lo Stato, non già la Repubblica con le sue articolate componenti, ne pagherà le spese, perché nessuno saprà mai negare che, quanto meno, la durata dei processi coinvolti è, a tutta evidenza, da considerare irragionevole.

 

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