![]() |
|
Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog |
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE - sentenza
16 ottobre 2007 n. 21748 - Pres. Luccioli,
Rel. Giusti - E.B., nella qualità di tutore della figlia interdetta E.E. (Avv.ti
Angiolini e Vacirca) e Alessio, nella qualità di curatore speciale
dell'interdetta E.E. (Avv. se stesso) c. Procura Generale della Repubblica di
Milano ed altro (n.c.) - (riuniti i ricorsi, li accoglie nei sensi e nei limiti
di cui in motivazione; cassa il decreto della Corte d'appello di Milano
depositato il 16 dicembre 2006). Igiene e sanità - Malati in stato vegetativo permanente -
Tenuti artificialmente in vita tramite alimentazione ed idratazione forzata -
Potere del giudice di autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario -
Su richiesta del tutore che rappresenta il malato, e nel contraddittorio con il
curatore speciale - Sussiste - Condizioni - Individuazione. Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella
specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale
incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita
mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione,
su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il
curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio
sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e
dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei
seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base
ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun
fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a
livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un
qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una
percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente
espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della
voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero
dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti,
corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza,
l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non
sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data
incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di
salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto
interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della
vita stessa. ------------------------------------------------------- Documenti correlati: TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - sentenza 26
gennaio 2009 n. 214, pag.
http://www.lexitalia.it/p/91/tarlombmi3_2009-01-26.htm (annulla il
provvedimento con il quale la Regione Lombardia aveva negato la possibilità di
eseguire, nelle proprie strutture sanitarie, la sospensione dell'alimentazione e
dell'idratazione artificiali nei confronti di Eluana Englaro), con nota di
commento di O. CARPARELLI. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. - Con ricorso ex art. 732 cod. proc. civ.,
E.B., quale tutore della figlia interdetta E.E., ha chiesto al Tribunale di
Lecco, previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell'art. 78 cod. proc.
civ., l'emanazione di un ordine di interruzione della alimentazione forzata
mediante sondino nasogastrico che tiene in vita la tutelata, in stato di coma
vegetativo irreversibile dal 1992. Il curatore speciale, nominato dal Presidente
del Tribunale, ha aderito al ricorso. Il Tribunale di Lecco, con decreto in data 2
febbraio 2006, ha dichiarato inammissibile il ricorso ed ha giudicato
manifestamente infondati i profili di illegittimità costituzionale prospettati
in via subordinata dal tutore e dal curatore speciale. Nè il tutore nè il curatore speciale - hanno
statuito i primi giudici - hanno la rappresentanza sostanziale, e quindi
processuale, dell'interdetta con riferimento alla domanda dedotta in giudizio,
involgendo essa la sfera dei diritti personalissimi, per i quali il nostro
ordinamento giuridico non ammette la rappresentanza, se non in ipotesi tassative
previste dalla legge, nella specie non ricorrenti. Inoltre, la mancata previsione normativa di
una tale rappresentanza è perfettamente aderente al dettato costituzionale, e la
lacuna non può essere colmata con una interpretazione costituzionalmente
orientata. Peraltro, anche ove il curatore o il tutore
fossero investiti di tale potere, la domanda - ad avviso dei primi giudici -
dovrebbe essere rigettata, perchè il suo accoglimento contrasterebbe con i
principi espressi dall'ordinamento costituzionale. Infatti, ai sensi degli artt.
2 e 32 Cost., un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo,
indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso,
non solo è lecito, ma dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà
posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando, come nella specie, il
soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. In base agli artt. 13 e 32 Cost. ogni persona,
se pienamente capace di intendere e di volere, può rifiutare qualsiasi
trattamento terapeutico o nutrizionale fortemente invasivo, anche se necessario
alla sua sopravvivenza, laddove se la persona non è capace di intendere e di
volere il conflitto tra il diritto di libertà e di autodeterminazione e il
diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest'ultimo,
in quanto, non potendo la persona esprimere alcuna volontà, non vi è alcun
profilo di autodeterminazione o di libertà da tutelare. L'art. 32 Cost. porta ed
escludere che si possa operare una distinzione tra vite degne e non degne di
essere vissute. 2. - Avverso tale decreto ha proposto reclamo
alla Corte d'appello di Milano il tutore, chiedendo che, previa opportuna
istruttoria sulla volontà di E., a suo tempo manifestata, contraria agli
accanimenti terapeutici e, ove occorra, incidente di costituzionalità, venga
ordinata l'interruzione dell'alimentazione forzata di E., in quanto trattamento
invasivo della sfera personale, perpetrato contro la dignità umana. Il curatore speciale, costituitosi, ha chiesto
l'accoglimento dell'impugnazione, ed ha proposto egli stesso reclamo, da
intendersi anche come reclamo incidentale. Il pubblico ministero ha concluso per la
reiezione del reclamo, ritenendo condivisibili le argomentazioni poste dal
Tribunale a fondamento del provvedimento impugnato. 3. - La Corte d'appello di Milano, con decreto
in data 16 dicembre 2006, in riforma del provvedimento impugnato, ha dichiarato
ammissibile il ricorso e lo ha rigettato nel merito. 3.1. - La Corte ambrosiana non condivide la
decisione del Tribunale in punto di inammissibilità della domanda, giacchè i
rappresentanti legali di E. domandano che sia il giudice a disporre
l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali, sul
presupposto che tale presidio medico costituisca un trattamento invasivo
dell'integrità psicofisica, contrario alla dignità umana, non praticabile contro
la volontà dell'incapace o, comunque, in assenza del suo consenso. Secondo la Corte territoriale, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 357 e 424 cod. civ., nel potere di cura della
persona, conferito al rappresentante legale dell'incapace, non può non ritenersi
compreso il diritto-dovere di esprimere il consenso informato alle terapie
mediche. La "cura della persona" implica non solo la cura degli interessi
patrimoniali, quanto - principalmente - di quelli di natura esistenziale, tra i
quali vi è indubbiamente la salute intesa non solo come integrità psicofisica,
ma anche come diritto di farsi curare o di rifiutare la cura: tale diritto non
può trovare limitazione alcuna quando la persona interessata non è in grado di
determinarsi. La presenza in causa - indicata come
necessaria dalla Corte di cassazione con l'ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291 -
del curatore speciale che si è associato alla richiesta del tutore supera ogni
problema di possibile conflitto tra la tutelata ed il tutore. E, in considerazione dello stato di totale
incapacità di E. e delle gravi conseguenze che la sospensione del trattamento in
atto produrrebbe, il tutore o, in sua vece, il curatore speciale deve adire il
giudice per ottenerne l'interruzione. 3.2. - Nel merito, la Corte d'appello osserva
che E. - la quale non può considerarsi clinicamente morta, perchè la morte si ha
con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo - si trova in
stato vegetativo permanente, condizione clinica che, secondo la scienza medica,
è caratteristica di un soggetto che "ventila, in cui gli occhi possono rimanere
aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma
non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione all'ambiente e le
uniche risposte motorie riflesse consistono in una redistribuzione del tono
muscolare". Lo stato vegetativo di E. è immodificato dal 1992 - da quando ella
riportò un trauma cranico-encefalico a seguito di incidente stradale - ed è
irreversibile, mentre la cessazione della alimentazione a mezzo del sondino
nasogastrico la condurrebbe a sicura morte nel giro di pochissimi giorni. La Corte territoriale riferisce che dalle
concordi deposizioni di tre amiche di E. - le quali avevano raccolto le sue
confidenze poco prima del tragico incidente che l'ha ridotta nelle attuali
condizioni - emerge che costei era rimasta profondamente scossa dopo aver fatto
visita in ospedale all'amico A., in coma a seguito di un sinistro stradale,
aveva dichiarato di ritenere preferibile la situazione di un altro ragazzo, F.,
che, nel corso dello stesso incidente, era morto sul colpo, piuttosto che
rimanere immobile in ospedale in balia di altri attaccato ad un tubo, ed aveva
manifestato tale sua convinzione anche a scuola, in una discussione apertasi al
riguardo con le sue insegnanti suore. Secondo i giudici del reclamo, si tratterebbe
di dichiarazioni generiche, rese a terzi con riferimento a fatti accaduti ad
altre persone, in un momento di forte emotività, quando E. era molto giovane, si
trovava in uno stato di benessere fisico e non nella attualità della malattia,
era priva di maturità certa rispetto alle tematiche della vita e della morte e
non poteva neppure immaginare la situazione in cui ora versa. Non potrebbe
dunque attribuirsi alle dichiarazioni di E. il valore di una personale,
consapevole ed attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione
di causa. La posizione di E. sarebbe pertanto assimilabile a quella di qualsiasi
altro soggetto incapace che nulla abbia detto in merito alle cure ed ai
trattamenti medici cui deve essere sottoposto. La Corte d'appello non condivide la tesi -
sostenuta dal tutore ed avallata dal curatore speciale - secondo cui, di fronte
ad un trattamento medico - l'alimentazione forzata mediante sondino nasogastrico
- che mantiene in vita E. esclusivamente da un punto di vista biologico senza
alcuna speranza di miglioramento, solo l'accertamento di una precisa volontà,
espressa da E. quando era cosciente, favorevole alla prosecuzione della vita ad
ogni costo, potrebbe indurre a valutare come non degradante e non contrario alla
dignità umana il trattamento che oggi le viene imposto. Innanzitutto perchè, in base alla vigente
normativa, E. è viva, posto che la morte si ha con la cessazione irreversibile
di tutte le funzioni dell'encefalo. In secondo luogo perchè - al di là di ogni
questione inerente alla natura di terapia medica, di accanimento terapeutico (inteso
come cure mediche svincolate dalla speranza di recupero del paziente) o di
normale mezzo di sostentamento che si possa dare alla alimentazione forzata cui
è sottoposta E. - è indiscutibile che, non essendo E. in grado di alimentarsi
altrimenti ed essendo la nutrizione con sondino nasogastrico l'unico modo di
alimentarla, la sua sospensione condurrebbe l'incapace a morte certa nel volgere
di pochi giorni: equivarrebbe, quindi, ad una eutanasia
indiretta omissiva. Secondo i giudici del gravame, non vi sarebbe
alcuna possibilità di accedere a distinzioni tra vite degne e non degne di
essere vissute, dovendosi fare riferimento unicamente al bene vita
costituzionalmente garantito, indipendentemente dalla qualità della vita stessa
e dalle percezioni soggettive che di detta qualità si possono avere. "Se è indubbio che, in forza del diritto alla
salute e alla autodeterminazione in campo sanitario, il soggetto capace possa
rifiutare anche le cure indispensabili a tenerlo in vita, nel caso di soggetto
incapace (di cui non sia certa la volontà, come nel caso di E.) per il quale sia
in atto solo un trattamento di nutrizione, che indipendentemente dalle modalità
invasive con cui viene eseguito (sondino nasogastrico) è sicuramente
indispensabile per l'impossibilità del soggetto di alimentarsi altrimenti e che,
se sospeso, condurrebbe lo stesso a morte, il giudice - chiamato a decidere se
sospendere o meno detto trattamento - non può non tenere in considerazione le
irreversibili conseguenze cui porterebbe la chiesta sospensione (morte del
soggetto incapace), dovendo necessariamente operare un bilanciamento tra diritti
parimenti garantiti dalla Costituzione, quali quello alla autodeterminazione e
dignità della persona e quello alla vita". Detto bilanciamento - a giudizio
della Corte d'appello - "non può che risolversi a favore del diritto alla vita,
ove si osservi la collocazione sistematica (art. 2 Cost.) dello stesso,
privilegiata rispetto agli altri (contemplati dagli artt. 13 e 32 Cost.),
all'interno della Carta costituzionale"; tanto più che, alla luce di
disposizioni normative interne e convenzionali, la vita è un bene supremo, non
essendo configurabile l'esistenza di un "diritto a morire" (come ha riconosciuto
la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 29 aprile 2002 nel caso P.
c. Regno Unito). 4. - Per la cassazione del decreto della Corte
d'appello il tutore E.B., con atto notificato il 3 marzo 2007, ha interposto
ricorso, affidato ad un unico, complesso motivo. Anche il controricorrente curatore speciale
Avv. Franca Alessio ha proposto ricorso incidentale, sulla base di due motivi. Il ricorrente ed il ricorrente incidentale
hanno, entrambi, depositato memoria in prossimità dell'udienza. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Con l'unico mezzo illustrato con memoria
- denunciando violazione degli artt. 357 e 424 cod. civ., in relazione agli artt.
2, 13 e 32 Cost., nonché omessa ed insufficiente motivazione circa il punto
decisivo della controversia - il tutore, ricorrente in via principale, chiede
alla Corte di affermare, come principio di diritto, "il divieto di accanimento
terapeutico, e cioè che nessuno debba subire trattamenti invasivi della propria
persona, ancorché finalizzati al prolungamento artificiale della vita, senza che
ne sia concretamente ed effettivamente verificata l'utilità ed il beneficio".
Qualora tale risultato ermeneutico sia precluso per effetto dell'art. 357 cod.
civ. e art. 732 cod. proc. civ., ovvero di altre norme di legge ordinaria, il
ricorrente chiede che sia sollevata questione di legittimità costituzionale di
tutte tali norme legislative, per violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost., da
cui si assume discendere la piena operatività del divieto di accanimento
terapeutico. Secondo il ricorrente, la Corte d'appello di
Milano avrebbe frainteso e travisato completamente il significato da attribuirsi
alla indisponibilità ed irrinunciabilità del diritto alla vita. Il predicare
l'indisponibilità del diritto alla vita, a differenza di quel che accade per
altri diritti costituzionali e fondamentali, si riallaccia al fatto che, nella
mappa del costituzionalismo moderno, esso costituisce un diritto diverso da
tutti gli altri: la vita è indispensabile presupposto per il godimento di
qualunque libertà dell'uomo e, proprio per questo, non può ammettersi che la
persona alieni ad altri la decisione sulla propria sopravvivenza o che il
diritto si estingua con la rinuncia. E tuttavia, l'indisponibilità ed
irrinunciabilità del diritto alla vita è garantita per evitare che soggetti
diversi da quello che deve vivere, il quale potrebbe versare in stato di
debolezza e minorità, si arroghino arbitrariamente il diritto di interrompere la
vita altrui; ma sarebbe errato costruire l'indisponibilità della vita in
ossequio ad un interesse altrui, pubblico o collettivo, sopraordinato e distinto
da quello della persona che vive. Del resto - ricorda il ricorrente - la Corte
costituzionale ha precisato che nella tutela della libertà personale resa
inviolabile dall'art. 13 Cost. è postulata la sfera di esplicazione del potere
della persona di disporre del proprio corpo. E la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, nel ricostruire di recente come fonte di responsabilità del medico
il solo fatto di non avere informato il paziente, o di non averne sollecitato ed
ottenuto previamente l'assenso per il trattamento, ha chiarito che qui siamo
fuori dall'ipotesi in cui il consenso dell'avente diritto vale come esimente da
responsabilità giuridica per chi ha agito praticando la cura invasiva della
sfera individuale: il consenso libero ed informato è piuttosto percepito come un
requisito intrinseco perché l'intervento di chi pure sia professionalmente
competente a curare risulti di per sè legittimo. Il che - ad avviso del ricorrente - sottolinea
come il diritto alla vita, proprio perchè irrinunciabile ed indisponibile, non
spetti che al suo titolare e non possa essere trasferito ad altri, che lo
costringano a vivere come essi vorrebbero. Ciò che la Corte ambrosiana avrebbe trascurato
è che, nel caso di E.E. come in qualunque altro caso di trattamenti praticati
dal medico o da altri sulla persona per mantenerla in vita, a venire in rilievo
non è il diritto alla vita, ma "solo ed esclusivamente la legittimità della
decisione di un uomo, che solitamente e per fortuna nel caso nostro è un medico
professionalmente competente, di intervenire sul corpo di una persona per
prolungarne la vita". Ad avviso del ricorrente, la garanzia del
diritto alla vita è più complessa per soggetti incapaci di intendere e di volere,
come E.E., che non per chi abbia coscienza e volontà. Per chi sia cosciente e
capace di volere, invero, la prima garanzia del proprio diritto alla vita
risiede nella libertà di autodeterminazione rispetto all'ingerenza altrui, ove
pure consista in una cura da erogarsi in nome del mantenimento in vita. Lo stesso tipo di garanzia non è sostenibile
per chi sia in stato di incapacità. La giurisprudenza ha da tempo individuato,
come criterio di azione, l'autolegittimazione dell'intervento medico, in quanto
dedito a curare e dotato all'uopo di convenienti capacità ed attitudini
professionali. Secondo il ricorrente, resterebbe l'esigenza, di rango
costituzionale, che il trattamento invasivo della persona, quando non sia e non
possa essere assentito da chi lo subisce, sia erogato sotto il diretto controllo
dell'autorità giudiziaria, in quanto sicuramente ricadente nell'ambito di
applicazione dell'art. 13 Cost.. La Corte d'appello di Milano avrebbe svolto,
sotto questo profilo, un ragionamento alquanto contraddittorio. Per un verso,
nel dichiarare ammissibile il ricorso del tutore, la Corte territoriale non
avrebbe negato ed avrebbe anzi ammesso la necessità che il trattamento di cura
invasivo della persona di E. sia sottoposto al controllo dell'autorità
giudiziaria; mentre, nel contempo e per altro verso, la stessa Corte avrebbe poi
rifiutato, giudicando nel merito, di rilevare ogni e qualunque limite
all'intervento del medico, quando il trattamento di cura incida sul diritto alla
vita. Questa contraddizione, ad avviso del
ricorrente, sarebbe frutto di una impostazione radicalmente errata, giacchè
l'autolegittimazione del medico ad intervenire, anche per trattamenti incidenti
sul bene della vita, deve arrestarsi quando i trattamenti medesimi configurino
ciò che costituisce accanimento terapeutico. Secondo il codice di deontologia medica (art.
14), il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti da cui non si
possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un
miglioramento della qualità della vita. In questo si rispecchiano l'idea di non
accanirsi in trattamenti "futili", presente nell'esperienza anglosassone, o le
prescrizioni della riforma del Codice della salute francese introdotte dalla L.
22 aprile 2005, n. 370, sulla sospensione e la non erogazione, a titolo di "ostinazione
irragionevole", di trattamenti "inutili, sproporzionati o non aventi altro
effetto che il solo mantenimento artificiale della vita". Sicchè, quando il trattamento è inutile,
futile e non serve alla salute, sicuramente esso esula da ogni più ampio
concetto di cura e di pratica della medicina, ed il medico, come professionista,
non può praticarlo, se non invadendo ingiustificatamente la sfera personale del
paziente (artt. 2, 13 e 32 Cost.). Il ricorrente contesta la tesi - fatta propria
dalla Corte di Milano - secondo cui, poichè la conservazione della vita è un
bene in sè, qualsiasi trattamento volto a tale scopo non potrebbe configurare
accanimento. Difatti, in frangenti come quello in cui si trova E., non è lo
spegnersi, bensì il protrarsi della vita ad essere artificiale, ad essere il
mero prodotto dell'azione che un uomo compie nella sfera individuale di un'altra
persona la quale, solo per tale via, viene, letteralmente, costretta a
sopravvivere. Si sostiene che anche per i trattamenti tesi
al prolungamento della vita altrui, come per qualunque altro trattamento medico,
deve essere verificato se essi rechino un beneficio o un'utilità al paziente o
non incorrano nel divieto di accanimento terapeutico. Ad avviso del ricorrente, il divieto di
ostinazione in cure per cui non sia accertabile ed accertato un beneficio o un
miglioramento della qualità della vita non sarebbe in contraddizione con il
divieto di trattamenti diretti a provocare la morte: giacchè una cosa è che il
medico non debba uccidere, neppure sotto le mentite spoglie del curare; altra
cosa è che il medico possa e debba astenersi da quei trattamenti che, pur
suscettibili di prolungare il vivere, fosse accertato non rechino beneficio o
utilità per il paziente, nel sottrarlo all'esito naturale e fatale dello stato
in cui si trova e nel forzarlo a mantenere talune funzioni vitali. Nel ricorso si sostiene che il diritto alla
vita è in uno - e non è contrapponibile, come viceversa vorrebbe la Corte
d'appello milanese - con la garanzia dell'individualità umana di cui agli artt.
2, 13 e 32 Cost.. Il modo normale di garantire l'individualità di un uomo è
l'autodeterminazione; ma quando, come nel caso di E., l'autodeterminazione non è
più possibile, perchè la persona ha perso irreversibilmente coscienza e volontà,
bisogna perlomeno assicurarsi che ciò che resta dell'individualità umana, in cui
si ripone la "dignità" di cui discorrono gli artt. 2, 13 e 32 Cost., non vada
perduta. E tale individualità andrebbe perduta qualora un'altra persona, diversa
da quella che deve vivere, potesse illimitatamente ingerirsi nella sfera
personale dell'incapace per manipolarla fin nell'intimo, fino al punto di
imporre il mantenimento di funzioni vitali altrimenti perdute. Il divieto di accanimento terapeutico - si
sostiene - nasce proprio da qui: esso nasce affinchè l'intervento del medico,
artificiale ed invasivo della sfera personale di chi è incapace e perciò inerme,
sia entro i confini dati dall'autolegittimazione del medico come professionista,
il quale, come tale, deve curare e quindi recare un tangibile vantaggio al suo
paziente. Siffatta accurata verifica della utilità o del beneficio del
trattamento per chi lo subisce andrebbe fatta proprio e soprattutto quando il
trattamento miri a prolungare la vita, poichè "proprio e soprattutto quando il
trattamento stesso miri a prolungare la vita, il medico, come professionista, si
spinge al massimo dell'intromissione nella sfera individuale dell'altra persona,
addirittura modificando, o quanto meno spostando, le frontiere tra la vita e la
morte". Certamente non ci si deve permettere, neppure
ed anzi a maggior ragione per chi sia incapace o abbia minorazioni, di
distinguere tra vite degne e non degne di essere vissute. Il che non toglie,
tuttavia, che vi siano casi in cui, per il prolungamento artificiale della vita,
non si dia riscontro di utilità o beneficio alcuno ed in cui, quindi, l'unico
risultato prodotto dal trattamento o dalla cura è di sancire il trionfo della
scienza medica nel vincere l'esito naturale della morte. Tale trionfo è però un
trionfo vacuo, ribaltabile in disfatta, se per il paziente e la sua salute non
c'è altro effetto o vantaggio. Non è la vita in sè, che è un dono, a potere
essere mai indegna; ad essere indegno può essere solo il protrarre
artificialmente il vivere, oltre quel che altrimenti avverrebbe, solo grazie
all'intervento del medico o comunque di un altro, che non è la persona che si
costringe alla vita. La Corte d'appello di Milano, ad avviso del
ricorrente, avrebbe inoltre finito con il travisare e distorcere il significato
dell'istruttoria effettuata durante il giudizio, nel quale è stato appurato, per
testi, il convincimento di E., anteriormente all'incidente che l'ha ridotta in
stato vegetativo permanente, che sarebbe stato "meglio" morire piuttosto di
avere quella che "non poteva considerarsi vita". I convincimenti di E. sarebbero
stati chiesti e sarebbero stati oggetto di istruttoria non perchè taluno potesse
pensare che essi, manifestati in un tempo lontano, quando ancora E. era in piena
salute, valgano oggi come manifestazione di volontà idonea, equiparabile ad un
dissenso in chiave attuale dai trattamenti che ella subisce. L'accertamento dei
convincimenti di E., quando ancora poteva manifestarli, sarebbe stato richiesto
e fatto, invece, perchè la Corte d'appello, nel pronunciarsi sul mantenimento
dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali, potesse valutare e ponderare
ogni elemento disponibile. Lo stato vegetativo permanente (SVP) in cui
giace E. è uno stato unico e differente da qualunque altro, non accostabile in
alcun modo a stati di handicap o di minorità, ovvero a stati di eclissi della
coscienza e volontà in potenza reversibili come il coma. Nello stato di SVP, a
differenza che in altri, può darsi effettivamente il problema del riscontro di
un qualunque beneficio o una qualunque utilità tangibile dei trattamenti o delle
cure, solo finalizzate a posporre la morte sotto l'angolo visuale biologico. 2.1. - Con il primo motivo, illustrato con
memoria, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 357 e 424 cod.
civ., in relazione agli artt. 2, 13 e 32 Cost., il curatore speciale, ricorrente
in via incidentale, chiede che sia affermato come principio di diritto il
divieto di accanimento terapeutico. Ripercorrendo le medesime argomentazioni
contenute nel ricorso principale, nel ricorso incidentale si sottolinea come E.
non sia in grado di esprimere alcun consenso riguardo ad atti che si configurano
come invasivi della sua personale integrità psico- fisica, e si richiama la
giurisprudenza costituzionale sull'attinenza della tutela della libertà
personale a qualunque intromissione sul corpo o sulla psiche cui il soggetto non
abbia consentito. Si pone l'accento sulla tutela della dignità umana,
inscindibile da quella della vita stessa, come valore costituzionale, e si
invoca, tra l'altro, l'art. 32 Cost., che preclude trattamenti sanitari che
possano violare il rispetto della persona umana. Si sostiene che, quando il
trattamento è inutile, futile e non serve alla salute, sicuramente esso esula da
ogni più ampio concetto di cura e di pratica della medicina, ed il medico, come
professionista, non può praticarlo, se non invadendo ingiustificatamente la
sfera personale del paziente. 2.2. - Il secondo mezzo del ricorso
incidentale denuncia omessa ed insufficiente motivazione circa il punto decisivo
della controversia e chiede che la Corte si pronunci in ordine al principio che
nessuno debba subire trattamenti invasivi sulla propria persona, ancorchè
finalizzati al prolungamento artificiale della vita, senza che ne sia
concretamente ed effettivamente vetrificata l'utilità ed il beneficio. Ad avviso
del ricorrente in via incidentale, l'osservanza del divieto di accanimento
terapeutico doveva essere assicurata dalla Corte d'appello di Milano
nell'accezione del divieto di attività svincolata dalla speranza di recupero del
paziente, indipendentemente dall'essere il trattamento in questione finalizzato
al mantenimento in vita. Anche nella memoria si sottolinea che la Corte
d'appello erroneamente avrebbe, dopo averle ammesse, ritenuto ininfluenti le
testimonianze delle amiche di E.. Secondo il ricorrente in via incidentale,
un'eventuale dichiarazione circa la propria volontà a non essere mantenuti in
vita durante lo stato vegetativo permanente non può che essere formulata ex
ante, da chi si trovi ancora in piena salute e perfettamente in grado di
comprendere e di volere, non avendo alcuna rilevanza il fatto che la ragazza,
allora, fosse in giovane età. Non sarebbe condivisibile il giudizio della Corte
d'appello secondo cui le determinazioni di E. avrebbero avuto valore solo
nell'attualità della malattia. 3. - Il ricorso principale ed il ricorso
incidentale devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 cod. proc civ.,
essendo entrambe le impugnazioni proposte contro lo stesso decreto. 4. - Trattandosi dell'impugnazione di un
provvedimento depositato il 16 dicembre 2006 - quindi nella vigenza del D.Lgs. 2
febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di
processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma della
L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2), in base alla disciplina transitoria
recata dall'art. 27, comma 2 - il ricorso per cassazione per violazione di legge
comprende la possibilità di dedurre, altresì, il vizio di omessa, insufficiente
o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il
giudizio, ai sensi del novellato art. 360 cod. proc. civ.. Le proposte impugnazioni vanno pertanto
scrutinate anche là dove prospettano il vizio di cui al numero 5 del citato art.
360 cod. proc. civ.. 5. - I motivi in cui si articolano il ricorso
principale ed il ricorso incidentale, stante la loro stretta connessione,
possono essere esaminati congiuntamente. Essi investono la Corte - oltre che del
quesito se la terapia praticata sul corpo di E.E., consistente
nell'alimentazione e nella idratazione artificiali mediante sondino nasogastrico,
possa qualificarsi come una forma di accanimento terapeutico, sull'asserito
rilievo che si verserebbe in fattispecie di trattamento invasivo della persona,
senza alcun beneficio od utilità per la paziente che vada oltre il prolungamento
forzoso della vita, perchè oggettivamente finalizzato a preservarne una pura
funzionalità meccanica e biologica - anche della questione se ed in che limiti,
nella situazione data, possa essere interrotta quella somministrazione, ove la
richiesta al riguardo presentata dal tutore corrisponda alle opinioni a suo
tempo espresse da E. su situazioni prossime a quella in cui ella stessa è venuta,
poi, a trovarsi e, più in generale, ai di lei convincimenti sul significato
della dignità della persona. Quest'ultima questione è preliminare in ordine
logico. Dall'esame di essa, pertanto, conviene prendere le mosse. 6. - Occorre premettere che il consenso
informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento
sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è sicuramente
illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso
libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà
dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il principio del consenso informato - il quale
esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e
paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del
paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri
del medico - ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art.
2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua
identità e dignitànell'art. 13, che proclama l'inviolabilità della libertà
personale, nella quale "è postulata la sfera di esplicazione del potere della
persona di disporre del proprio corpo" (Corte cost., sentenza n. 471 del 1990);
e nell'art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo,
oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di
trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge,
qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente
specificata con l'esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le
cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze. Nella legislazione ordinaria, il principio del
consenso informato alla base del rapporto tra medico e paziente è enunciato in
numerose leggi speciali, a partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario
nazionale (L. 23 dicembre 1978, n. 833), la quale, dopo avere premesso, all'art.
1, che "La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto
della dignità e della libertà della persona umana", sancisce, all'art. 33, il
carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. A livello di fonti sopranazionali, il medesimo
principio trova riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d'Europa sui
diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, resa
esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001, n. 145, la
quale, all'art. 5, pone la seguente "regola generale" (secondo la rubrica della
disposizione): "Une intervention dans le domaine de la sante ne peut atre
effectuee qùapres que la personne concernee y a donne son consentement libre et
eclairè". Dalla Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, si evince come il
consenso libero e informato del paziente all'atto medico vada considerato, non
soltanto sotto il profilo della liceità del trattamento, ma prima di tutto come
un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più
generale diritto all'integrità della persona (Capo 1^, Dignità; art. 3, Diritto
all'Integrità della persona). Nel codice di deontologia medica del 2006 si
ribadisce (art. 35) che "Il medico non deve intraprendere attività diagnostica
e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del
paziente". Il principio del consenso informato è ben
saldo nella giurisprudenza di questa Corte. Nelle sentenze della 3^ Sezione civile 25
gennaio 1994, n. 10014, e 15 gennaio 1997, n. 364, si afferma che
dall'autolegittimazione dell'attività medica non può trarsi la convinzione che
il medico possa, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè
il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi
consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello
stato di necessità di cui all'art. 54 cod. pen.), intervenire senza il consenso
o malgrado il dissenso del paziente. Più di recente, Cass. civ., Sez. 3^, 14
marzo 2006, n. 5444, ha precisato che "la correttezza o meno del trattamento non
assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del
consenso informato, essendo del tutto indifferente ai fini della configurazione
della condotta omissiva dannosa e dell'ingiustizia del danno, la quale sussiste
per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione,
non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una
volontà consapevole delle sue implicazioni": il trattamento eseguito senza
previa prestazione di un valido consenso è in violazione "tanto dell'art. 32
Cost., comma 2, quanto dell'art. 13 Cost. e della L. n. 833 del 1978, art. 33,
donde la lesione della situazione giuridica del paziente inerente alla salute ed
all'integrità fisica". "La legittimità di per sè dell'attività medica -
ribadisce Cass. pen., Sez. 4^, 11 luglio 2001 - 3 ottobre 2001 - richiede per la
sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso
del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento
medicochirurgico. Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla
sua autodeterminazione, nonchè alla sua libertà fisica intesa come diritto al
rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della
libertà personale proclamata inviolabile dall'art. 13 Cost.. Ne discende che non
è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non
avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una
posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il
solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi
dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare,
situazioni soggettive, queste, derivanti dall'abilitazione all'esercizio della
professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano,
di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve
sottoporsi". 6.1. - Il consenso informato ha come correlato
la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento
medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere
consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella
terminale. Ciè è conforme al principio personalistico che
anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico
in sè, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed
assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in funzione della
persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del "rispetto
della persona umana" in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento
della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del
fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano
le sue determinazioni volitive. Ed è altresì coerente con la nuova dimensione
che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma
come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in
relazione alla percezione che ciascuno ha di sè, anche gli aspetti interiori
della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Deve escludersi che il diritto alla
autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorchè da esso
consegua il sacrificio del bene della vita. Benchè sia stato talora prospettato un obbligo
per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di
rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o
addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il
Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di
imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del
diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che
tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene
rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della
persuasione, perchè il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il
supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di
sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia
informato, autentico ed attuale. Ma allorchè il rifiuto abbia tali connotati non
c'ò possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio
di ordine pubblico. Lo si ricava dallo stesso testo dell'art. 32
Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi
espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone
sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute
degli altri e che l'intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla
salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118
del 1996). Soltanto in questi limiti è costituzionalmente
corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale,
come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi,
di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni
di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire. Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche,
anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di
eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando
positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di
scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E
d'altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura
sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo giuridico di praticare o
continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l'obbligo,
fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo il dovere giuridico del
medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure - quando il
consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui. Tale orientamento, prevalente negli indirizzi
della dottrina, anche costituzionalistica, è già presente nella giurisprudenza
di questa Corte. La sentenza della 1^ Sezione penale 29 maggio 2002 - 11 luglio
2002 afferma che, "in presenza di una determinazione autentica e genuina"
dell'interessato nel senso del rifiuto della cura, il medico "non può che
fermarsi, ancorchè l'omissione dell'intervento terapeutico possa cagionare il
pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la
sua morte". Si tratta evidentemente - si precisa nella citata pronuncia - di
ipotesi estreme, "che nella pratica raramente è dato di registrare, se non altro
perchè chi versa in pericolo di vita o di danno grave alla persona, a causa
dell'inevitabile turbamento della coscienza generato dalla malattia,
difficilmente è in grado di manifestare liberamente il suo intendimento": "ma se
cosi non è, il medico che abbia adempiuto il suo obbligo morale e professionale
di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta e abbia verificato la
libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla,
giacchè di fronte ad un comportamento nel quale si manifesta l'esercizio di un
vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno
contrario diviene doverosa, potendo, diversamente, configurarsi a suo carico
persino gli estremi di un reato". La soluzione, tratta dai principi
costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi
da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente,
anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle
prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, "in
presenza di documentato rifiuto di persona capace", il medico deve "in ogni caso"
"desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito
alcun trattamento medico contro la volontà della persona". Inoltre tale
soluzione è legislativamente sancita in altri ordinamenti europei. Significativo
in questa direzione è l'art. 1111-10 del code da la santè publique francese,
inserito dalla L. 22 aprile 2005, n. 370 relative aux droits des malades et a la
fin de via, a tenore del quale "Lorsqùune personne, en phase avancee ou
terminale d'une affection grave et incurable, quelle qùen soit la cause, decide
de limiter ou d'arreter tout traitement, le medecin respecte sa volontè apres
l'avoir informee des consequences de son choix. La decision du malade est
inserite dans son dossier medical". Nè la configurabilità di un dovere
dell'individuo alla salute, comportante il dovere del paziente di non rifiutare
cure e terapie che consentano il mantenimento in vita, può ricavarsi dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 29 aprile 2002, nel caso
Pretty c. Regno Unito. La Corte di Strasburgo afferma che l'art. 2 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali protegge il diritto alla vita, senza il quale il godimento di
ciascuno degli altri diritti o libertà contenuto nella Convenzione diventa
inutile, precisando che tale disposizione, per un verso, non può, senza che ne
venga distorta la lettera, essere interpretata nel senso che essa attribuisca il
diritto diametralmente opposto, cioè un diritto di morire, nè, per l'altro
verso, può creare un diritto di autodeterminazione nel senso di attribuire a un
individuo la facoltà di scegliere la morte piuttosto che la vita. Siffatto
principio - che il Collegio condivide pienamente e fa proprio - è utilizzato
dalla Corte di Strasburgo non già per negare l'ammissibilità del rifiuto di cure
da parte dell'interessato, ma per giudicare non lesivo del diritto alla vita il
divieto penalmente sanzionato di suicidio assistito previsto dalla legislazione
nazionale inglese ed il rifiuto, da parte del Director of Public Prosecutions,
di garantire l'immunità dalle conseguenze penali al marito di una donna
paralizzata e affetta da malattia degenerativa e incurabile, desiderosa di
morire, nel caso in cui quest'ultimo le presti aiuto nel commettere suicidio.
Coerentemente con tale impostazione, la stessa sentenza della Corte europea ha
cura di sottolineare: che, in campo sanitario, il rifiuto di accettare un
particolare trattamento potrebbe, inevitabilmente, condurre ad un esito fatale,
e tuttavia l'imposizione di un trattamento medico senza il consenso di un
paziente adulto e mentalmente consapevole interferirebbe con l'integrità fisica
di una persona in maniera tale da poter coinvolgere i diritti protetti dall'art.
8.1 della Convenzione (diritto alla, vita privata); e che una persona potrebbe
pretendere di esercitare la scelta di morire rifiutandosi di acconsentire ad un
trattamento potenzialmente idoneo a prolungare la vita. Analogamente, secondo la sentenza 26 giugno
1997 della Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso V. e altri c. Q. e altri,
ciascuno, a prescindere dalla condizione fisica, è autorizzato, se capace, a
rifiutare un trattamento indesiderato per il mantenimento in vita, mentre a
nessuno è permesso di prestare assistenza nel suicidio: il diritto di rifiutare
i trattamenti sanitari si fonda sulla premessa dell'esistenza, non di un diritto
generale ed astratto ad accelerare la morte, ma del diritto all'integrità del
corpo e a non subire interventi invasivi indesiderati. 7. - Il quadro compositivo dei valori in gioco
fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera disponibilità del bene
salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di
intendere e di volere, si presenta in modo diverso quando il soggetto adulto non
è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale
incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorchè era nel
pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso
dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato
ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a
trovarsi in uno stato di incoscienza. Anche in tale situazione, pur a fronte
dell'attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario
ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al
giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro
dei principi costituzionali (cfr. Corte Cost., sentenza n. 347 del 1998, punto
n. 4 del Considerato in diritto). 7.1. - Risulta pacificamente dagli atti di
causa che nella indicata situazione si trova E.E., la quale giace in stato
vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma
cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole
quando era ventenne), e non ha predisposto, quando era in possesso della
capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di
trattamento. Questa condizione clinica perdura invariata
dal gennaio 1992. In ragione del suo stato, E., pur essendo in
grado di respirare spontaneamente, e pur conservando le funzioni cardiovascolari,
gastrointestinali e renali, è radicalmente incapace di vivere esperienze
cognitive ed emotive, e quindi di avere alcun contatto con l'ambiente esterno: i
suoi riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è in lei alcun segno di
attività psichica e di partecipazione all'ambiente, nè vi e alcuna capacità di
risposta comportamentale volontaria agli stimoli sensoriali esterni (visivi,
uditivi, tattili, dolorifici), le sue uniche attività motorie riflesse
consistendo in una redistribuzione del tono muscolare. La sopravvivenza fisica di E., che versa in
uno stato stabile ma non progressivo, e assicurata attraverso l'alimentazione e
l'idratazione artificiali somministratele attraverso un sondino nasograstrico. E. è stata interdetta ed il padre è stato
nominato tutore. 7.2. - In caso di incapacità del paziente, la
doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi
costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono
l'effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse
terapeutico del paziente. E tuttavia, anche in siffatte evenienze,
superata l'urgenza dell'intervento derivante dallo stato di necessità, l'istanza
personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di
parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di
capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di
elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine
alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il
legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati. Centrale, in questa direzione, è la
disposizione dell'art. 357 cod. civ., la quale - letta in connessione con l'art.
424 cod. civ. -, prevede che "Il tutore ha la cura della persona"
dell'interdetto, cosi investendo il tutore della legittima posizione di soggetto
interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in
favore dell'incapace. Poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona
che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 cod. civ. e ss.,
introdotti dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina
contenere l'indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela
degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405 c.c., comma
4). A conferma di tale lettura delle norme del
codice può richiamarsi la sentenza 18 dicembre 1989, n. 5652, di questa Sezione,
con la quale si è statuito che, in tema di interdizione, l'incapacità di
provvedere ai propri interessi, di cui all'art. 414 cod. civ., va riguardata
anche sotto il profilo della protezione degli interessi non patrimoniali,
potendosi avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione della volontà del
soggetto con quella della persona nominata tutore pure in assenza di patrimoni
da proteggere. Ciò avviene - è la stessa sentenza a precisarlo - nel caso del
soggetto "la cui sopravvivenza è messa in pericolo da un suo rifiuto (determinato
da infermità psichica) ad interventi esterni di assistenza quali il ricovero in
luogo sicuro e salubre od anche il ricovero in ospedale" per trattamenti
sanitari: qui il ricorso all'(allora unico istituto dell')interdizione è
giustificato in vista dell'esigenza di sostituire il soggetto deputato a
esprimere la volontà in ordine al trattamento proposto. E, sempre nella medesima
direzione, possono ricordarsi le prime applicazioni dei giudici di merito con
riguardo al limitrofo istituto dell'amministratore di sostegno, talora
utilizzato, in campo medico-sanitario, per assecondare l'esercizio
dell'autonomia e consentire la manifestazione di una volontà autentica là dove
lo stato di decadimento cognitivo impedisca di esprimere un consenso realmente
consapevole. E' soprattutto il tessuto normativo a recare
significative disposizioni sulla rappresentanza legale in ordine alle cure e ai
trattamenti sanitari. Secondo il D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 211, art.
4 (Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all'applicazione della buona
pratica clinica nell'esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per
uso clinico), la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che non hanno
dato o non hanno rifiutato il loro consenso informato prima che insorgesse
l'incapacità, è possibile a condizione, tra l'altro, che "sia stato ottenuto il
consenso informato del legale rappresentante": un consenso - prosegue la norma -
che "deve rappresentare la presunta, volontà del soggetto". Ancora, l'art. 13 della legge sulla tutela
sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza (L. 22
maggio 1978, n. 194), disciplinando il caso della donna interdetta per infermità
di mente, dispone: che la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza,
sia entro i primi novanta giorni che trascorso tale periodo, può essere
presentata, oltre che dalla donna personalmente, anche dal tutore; che nel caso
di richiesta avanzata dall'interdetta deve essere sentito il parere del tutore;
che la richiesta formulata dal tutore deve essere confermata dalla donna. Più direttamente - e con una norma che,
essendo relativa a tutti i trattamenti sanitari, esibisce il carattere della
regola generale - l'art. 6 della citata Convenzione di Oviedo - rubricato
Protection des personnes n'ayant la capacitè de consentir - prevede che "Lorsque,
selon la loi, un majeur n'a pas, en raison d'un handicap mental, d'une maladie
ou pour un motif similaire, la capacitè de consentir à une intervention,
celle-ci ne peut atre effectuee sans l'autorisation de son representant, d'une
autoritè ou d'une personne ou instance designee par la loi", precisando che "une
intervention ne peut etre effectuee sur une personne n'ayant pas la capacitè de
consentir, que pour son benefice direct". E - come esplicita il rapporto
esplicativo alla Convenzione - quando utilizza l'espressione "pour un motif
similare", il citato art. 6 si riferisce alle situazioni, quali, ad esempio, gli
stati comatosi, in cui il paziente è incapace di formulare i suoi desideri o di
comunicarli. Ora, è noto che, sebbene il Parlamento ne
abbia autorizzato la ratifica con la L. 28 marzo 2001, n. 145, la Convenzione di
Oviedo non è stata a tutt'oggi ratificata dallo Stato italiano. Ma da ciò non
consegue che la Convenzione sia priva di alcun effetto nel nostro ordinamento.
Difatti, all'accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora eseguito
all'interno dello Stato, può assegnarsi - tanto più dopo la legge parlamentare
di autorizzazione alla ratifica - una funzione ausiliaria sul piano
interpretativo: esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e
deve essere utilizzato nell'interpretazione di norme interne al fine di dare a
queste una lettura il più possibile ad esso conforme. Del resto, la Corte
costituzionale, nell'ammettere le richieste di referendum su alcune norme della
L. 19 febbraio 2004, n. 40, concernente la procreazione medicalmente assistita,
ha precisato che l'eventuale vuoto conseguente al referendum non si sarebbe
posto in alcun modo in contrasto con i principi posti dalla Convenzione di
Oviedo del 4 aprile 1997, recepiti nel nostro ordinamento con la L. 28 marzo
2001, n. 145 (Corte cost., sentenze n. 46, 47, 48 e 49 del 2005): con ciò
implicitamente confermando che i principi da essa posti fanno già oggi parte del
sistema e che da essi non si può prescindere. 7.3. - Assodato che i doveri di cura della
persona in capo al tutore si sostanziano nel prestare il consenso informato al
trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità,
si tratta di stabilire i limiti dell'intervento del rappresentante legale. Tali limiti sono connaturati al fatto che la
saluta è un diritto personalissimo e che - come questa Corte ha precisato
nell'ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291 - la libertà di rifiutare le cure "presuppone
il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro
fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche)
extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive". Ad avviso del Collegio, il carattere
personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento
all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è
investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di
disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza.
Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello
stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a
un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo
interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non
"al posto" dell'incapace nè "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi,
ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di
cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della
perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità,
dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e
dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. L'uno e l'altro vincolo al potere
rappresentativo del tutore hanno, come si è visto, un preciso referente
normativo: il primo nell'art. 6 della Convenzione di Oviedo, che impone di
correlare al "benefice direct" dell'interessato la scelta terapeutica effettuata
dal rappresentante; l'altro nel D.Lgs. n. 211 del 2003, art. 5, ai cui sensi il
consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica deve
corrispondere alla presunta, volontà dell'adulto incapace. Non v'è dubbio che la scelta del tutore deve
essere a garanzia del soggetto incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a
preservarne e a tutelarne la vita. Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno
trascurare l'idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato
manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della
vita e della morte. 7.4. - Questa attenzione alle peculiari
circostanze del caso concreto e, soprattutto, ai convincimenti espressi dal
diretto interessato quando era in condizioni di capacità, è costante, sia pure
nella diversità dei percorsi argomentativi seguiti, nelle decisioni adottate in
altri ordinamenti dalle Corti nelle controversie in ordine alla sospensione
delle cure (ed anche dell'alimentazione e idratazione artificiali) per malati in
stato vegetativo permanente, in situazioni di mancanza di testamenti di vita. Nel leading case in re Quinlan, la Corte
Suprema del New Jersey, nella sentenza 31 marzo 1976, adotta la dottrina -
seguita dalla stessa Corte nella sentenza 24 giugno 1987, in re Nancy Ellen
Jobes - del substituted judgement test, sul rilievo che questo approccio è
inteso ad assicurare che chi decide in luogo dell'interessato prenda, per quanto
possibile, la decisione che il paziente incapace avrebbe preso se capace.
Allorchè i desideri di un capace non siano chiaramente espressi, colui che
decide in sua vece deve adottare come linea di orientamento il personale sistema
di vita del paziente: il sostituto deve considerare le dichiarazioni precedenti
del paziente in merito e le sue reazioni dinanzi ai problemi medici, ed ancora
tutti gli aspetti della personalità del paziente familiari al sostituto,
ovviamente con riguardo, in particolare, ai suoi valori di ordine filosofico,
teologico ed etico, tutto ciò al fine di individuare il tipo di trattamento
medico che il paziente prediligerebbe. Nella sentenza 25 giugno 1990 nel caso C., la
Corte Suprema degli Stati Uniti statuisce che la Costituzione degli USA non
proibisce allo Stato del Missouri di stabilire "a procedural safeguard to assure
that the action of the surrogate conforms aa best it may to the wishes expressed
by the patient while competent". Nella sentenza 17 marzo 2003, il
Bundesgerichtshof - dopo avere premesso che se un paziente non è capace di
prestare il consenso e la sua malattia ha iniziato un decorso mortale
irreversibile, devono essere evitate misure atte a prolungargli la vita o a
mantenerlo in vita qualora tali cure siano contrarie alla sua volontà espressa
in precedenza sotto forma di cosiddetta disposizione del paziente (e ciò in
considerazione del fatto che la dignità dell'essere umano impone di rispettare
il suo diritto di autodeterminarsi, esercitato in situazione di capacità di
esprimere il suo consenso, anche nel momento in cui questi non è più in grado di
prendere decisioni consapevoli) - afferma che, allorchè non è possibile
accertare tale chiara volontà del paziente, si può valutare l'ammissibilità di
tali misure secondo la presunta volontà del paziente, la quale deve, quindi,
essere identificata, di volta in volta, anche sulla base delle decisioni del
paziente stesso in merito alla sua vita, ai suoi valori e alle sue convinzioni. Nel caso B., l'House of Lords 4
febbraio 1993, utilizzando la diversa tecnica del best interest, perviene alla
conclusione (particolarmente articolata nel parere di Lord Goff of Chieveley)
secondo cui, in assenza di trattamenti autenticamente curativi, e data
l'impossibilità di recupero della coscienza, è contrario al miglior interesse
del paziente protrarre la nutrizione e l'idratazione artificiali, ritenute
trattamenti invasivi ingiustificati della sua sfera corporea. 7.5. - Chi versa in stato vegetativo
permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere
rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla
vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perchè in
condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente. La tragicità estrema di tale stato patologico
- che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua
dignità di essere umano - non giustifica in alcun modo un affievolimento delle
cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario deve continuare ad
offrire e che il inalato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano,
ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve
mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure
e i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la
lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da
quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive. Lo reclamano tanto
l'idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l'altrettanto
universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i
soggetti più fragili. Ma - accanto a chi ritiene che sia nel proprio
miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile,
anche privo di coscienza - c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità
alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente
contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione
di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato, come il nostro, organizzato, per
fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei
valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di
autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche
quest'ultima scelta. All'individuo che, prima di cadere nello stato
di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente,
abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti,
il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l'inaccettabilità per sè
dell'idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla
mente, l'ordinamento da la possibilità di far sentire la propria voce in merito
alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale. Ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione
del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del
diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione
delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo
sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia
alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello
internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benchè minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di
ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che
tale condizione - tenendo conto della volontà espressa dall'interessato prima di
cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello
stesso - sia incompatibile con la rappresentazione di sè sulla quale egli aveva
costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di
intendere la dignità della persona. Per altro verso, la ricerca della presunta
volontà della persona in stato di incoscienza - ricostruita, alla stregua di
chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei
precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato, ma anche sulla base dello
stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell'integrità e dei suoi
interessi critici e di esperienza - assicura che la scelta in questione non sia
espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante,
ancorchè appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non
sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma
sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all'identità complessiva
del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza,
l'idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di
completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la
decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in
questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello
stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e
più genuina voce. Da quanto sopra deriva che, in una situazione
cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta
della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto
dell'autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta,
proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento
medico che lo tiene artificialmente in vita, allorchè quella condizione,
caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di
relazione e di conoscenza - proprio muovendo dalla volontà espressa prima di
cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della
persona in stato di incapacità - si appalesi, in mancanza di qualsivoglia
prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la
dignità della vita e la sofferenza nella vita. 7.6. - Non v'è dubbio che l'idratazione e
l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un
trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un
sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da
non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico
implicanti procedure tecnologiche. Siffatta qualificazione è, del resto,
convalidata dalla comunità scientifica internazionale; trova il sostegno della
giurisprudenza nel caso C. e nel caso B.; si allinea, infine, agli orientamenti
della giurisprudenza costituzionale, la quale ricomprende il prelievo ematico -
anch'esso "pratica medica di ordinaria amministrazione" - tra le misure di "restrizione
della libertà personale quando se ne renda necessaria la esecuzione coattiva
perchè la persona sottoposta all'esame peritale non acconsente spontaneamente al
prelievo" (sentenza n. 238 del 1996). 8. - Diversamente da quanto mostrano di
ritenere i ricorrenti, al giudice non può essere richiesto di ordinare il
distacco del sondino nasogastrico: una pretesa di tal fatta non è configurabile
di fronte ad un trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sè, non
costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e che
rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del
soffio vitale, salvo che, nell'imminenza della morte, l'organismo non sia più in
grado di assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno stato di
intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di
alimentazione. Piuttosto, l'intervento del giudice esprime
una forma di controllo della legittimità della scelta nell'interesse
dell'incapace; e, all'esito di un giudizio effettuato secondo la logica
orizzontale compositiva della ragionevolezza, la quale postula un ineliminabile
riferimento alle circostanze del caso concreto, si estrinseca nell'autorizzare o
meno la scelta compiuta dal tutore. Sulla base delle considerazioni che precedono,
la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla
vita come bene supremo, può essere nel senso dell'autorizzazione soltanto (a)
quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso
apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico,
secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che
lasci supporre che la persona abbia la benchè minima possibilità di un qualche,
sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del
mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base
ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del
rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi
convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato
di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Allorchè l'una o l'altra condizione manchi, il
giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata
prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di
autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato, dalla
percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa, nonchè
dalla mera logica utilitaristica dei costi e dei benefici. 9. - Nei limiti appena tratteggiati, il
decreto impugnato non si sottrae alle censure dei ricorrenti. Esso ha omesso di ricostruire la presunta
volontà di E. e di dare rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi,
alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti. Sotto questo profilo, la Corte territoriale -
a fronte dell'indagine istruttoria, nella quale è stato appurato, per testi, che
E., esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella stessa sarebbe
venuta, poi, a trovarsi, aveva manifestato l'opinione che sarebbe stato per lei
preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di
coma - si è limitata a osservare che quei convincimenti, manifestatisi in un
tempo lontano, quando ancora E. era in piena salute, non potevano valere come
manifestazione di volontà idonea, equiparabile ad un dissenso in chiave attuale
in ordine ai trattamenti praticati sul suo corpo. Ma i giudici d'appello non hanno affatto
vetrificato se tali dichiarazioni - della cui attendibilità non hanno peraltro
dubitato -, ritenute inidonee a configurarsi come un testamento di vita,
valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze
dell'istruttoria, la personalità di E. e il suo modo di concepire, prima di
cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona, alla
luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi,
culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive; e quindi
hanno omesso di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento
formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita
della figlia. Tale accertamento dovrà essere effettuato dal
giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall'istruttoria
e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore
speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza. 10. - Assorbito l'esame della questione di
legittimità costituzionale, i ricorsi sono accolti, nei sensi di cui in
motivazione e nei limiti in essa indicati. Ne segue la cassazione del decreto impugnato e
il rinvio della causa ad una diversa Sezione della Corte d'appello di Milano. Detta Corte deciderà adeguandosi al seguente
principio di diritto: "Ove il malato giaccia da moltissimi anni
(nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente
radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto
artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua
nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel
contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la
disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle
misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del
paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la
condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento
clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli
standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre
la benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della
coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che
tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari,
univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue
precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e
dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere
in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o
l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione,
dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita,
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e
di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere,
della qualità della vita stessa". 11. - Ricorrendo i presupposti di cui al
D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 2, (Codice in materia di
protezione dei dati personali), a tutela dei diritti e della dignità delle
persone coinvolte deve essere disposta, in caso di riproduzione della presente
sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste
giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica,
l'omissione delle indicazioni delle generalità e degli altri dati identificativi
degli interessati riportati nella sentenza. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, li accoglie nei
sensi e nei limiti di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e rinvia la
causa a diversa Sezione della Corte d' appello di Milano. Dispone che, in caso di diffusione della
presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su
riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati
identificativi degli interessati riportati nella sentenza. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio
della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 ottobre 2007. Depositata in Cancelleria il 16 ottobre 2007.
n.
1/2009 - ©
copyright