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CARMINE VOLPE (*)
La reintegrazione in forma specifica ed il giudice amministrativo
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Inquadramento normativo. 3. La reintegrazione in forma specifica: nozione e tendenze giurisprudenziali. 4. La preferibile soluzione civilistica. 5. L’azione di adempimento. 6. Alcune considerazioni in tema di pretesa diversità del giudizio amministrativo e di sussidiarietà della tutela risarcitoria. 7. Conclusioni di sistema. 8. Bibliografia.
1. Introduzione.
La l. 21 luglio 2000, n. 205 ha rappresentato un punto di svolta nell’ambito dell’effettività della tutela giurisdizionale, soprattutto con riguardo alle problematiche inerenti gli interessi legittimi di tipo pretensivo. Quelli di tipo oppositivo, infatti, anche se travestiti da diritti soggettivi affievoliti ad interessi legittimi dall’esercizio del potere amministrativo, avevano conseguito già da tempo, da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione, tutela identica (sotto l’aspetto risarcitorio) ai diritti soggettivi.
Tra le novità più significative si pone la reintegrazione in forma specifica.
2. Inquadramento normativo.
La reintegrazione in forma specifica nel giudizio amministrativo è stata prevista per la prima volta dall’art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, il quale, a sua volta, ha dato attuazione all’art. 11, comma 4, lett. g), della l. 15 marzo 1997, n. 59, che parlava generalmente di controversie (da attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) aventi ad oggetto il risarcimento del danno.
La reintegrazione in forma specifica è stata dapprima consentita nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nelle quali questi, ai sensi del comma 1 del citato art. 35, poteva disporre, “anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. La norma è rimasta invariata nel nuovo testo dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. c), della l. n. 205/2000.
Con quest’ultima legge il giudice amministrativo, conoscendo del risarcimento del danno a seguito della lesione di situazioni di interesse legittimo, è diventato il giudice che conosce di tutti gli effetti conseguenti all’illegittimo esercizio della funzione pubblica; effetti sia di tipo demolitorio (annullatorio) che risarcitorio (art. 7, comma 1, lett. c, della l. n. 205/2000, che ha sostituito l’art. 7, comma 3, primo periodo, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034). Egli, quindi, nell'ambito di ogni controversia in cui ha giurisdizione, pure solo generale di legittimità, “conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.
Tutte le norme citate si collocano in un contesto di tipo risarcitorio.
La reintegrazione in forma specifica è stata recentemente considerata dall’art. 14 del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190 (“Attuazione della L. 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale”), il quale ha disposto, al comma 2, che, “in applicazione delle previsioni dell'articolo 2, comma 6, delle direttive 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, e 92/13/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, la sospensione o l'annullamento giurisdizionale della aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatori; in tale caso il risarcimento degli interessi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica”.
Il citato art. 14, comma 2, ha attuato il primo criterio direttivo posto dall’art. 1, comma 2, lett. n), della l. n. 443/2001 (così detta legge obiettivo), che ha demandato al decreto legislativo la previsione, “dopo la stipula dei contratti di progettazione, appalto, concessione o affidamento a contraente generale, di forme di tutela risarcitoria per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica”, nonché la “restrizione, per tutti gli interessi patrimoniali, della tutela cautelare al pagamento di una provvisionale”. Il secondo criterio, infatti, è rimasto inattuato.
In ambito civilistico al risarcimento in forma specifica è intitolato l’art. 2058 c.c., il quale, inserito nel titolo IX sui “fatti illeciti”, prevede, al comma 1, che “il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile”. Il successivo comma 2 prescrive però che “il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
3. La reintegrazione in forma specifica: nozione e tendenze giurisprudenziali.
Il risarcimento del danno è diretto alla completa restitutio in integrum, per equivalente o in forma specifica, del patrimonio leso [1]. La reintegrazione in forma specifica rappresenta una modalità risarcitoria alternativa al risarcimento per equivalente e si concreta in un facere oggetto di condanna. La sua funzione è quella di ripristinare la situazione antecedente al fatto illecito, in conseguenza del noto principio di solidarietà (art. 2 Cost.), e rientra pur sempre nella categoria generale del risarcimento del danno.
Nei confronti della pubblica amministrazione, alla possibilità di chiedere il risarcimento in forma specifica consegue la condanna della stessa ad un facere specifico, che si può sostanziare anche nel compimento di un atto. La situazione, dai confini ben delineati in presenza di diritti soggettivi soprattutto di natura reale, assume connotati diversi in presenza di interessi legittimi, specie quelli di tipo pretensivo; laddove l’interesse sostanziale per essere soddisfatto abbisogna di un’attività della pubblica amministrazione, a differenza degli interessi legittimi oppositivi in cui si contrasta, sulla base di posizioni precostituite, l’attività provvedimentale di tipo autoritativo.
In tema di reintegrazione in forma specifica si percepisce una certa confusione nella giurisprudenza, non solo dei Tribunali amministrativi regionali ma anche del Consiglio di Stato.
Le tendenze giurisprudenziali sono sostanzialmente ispirate a due indirizzi: uno di tipo pubblicistico e l’altro di tipo civilistico.
L’indirizzo pubblicistico riconnette la reintegrazione in forma specifica all’annullamento dell’atto piuttosto che all’area del risarcimento: sarebbe, quindi, implicita in ogni domanda di annullamento. Si parte dall’osservazione, di per sé esatta, secondo cui “risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente costituiscono forme alternative di ristoro, di cui la prima, ove praticabile, di regola elimina l’area del danno da risarcire per equivalente, ovvero la riduce al solo danno emergente”. Si afferma, però, che la domanda di annullamento di un atto amministrativo contiene in sé, implicita, la domanda di risarcimento in forma specifica, mediante il rinnovo, legittimo, dell’atto annullato [2].
L’indirizzo civilistico ha a sua volta due varianti.
La reintegrazione in forma specifica, date le peculiarità del giudizio amministrativo, viene vista come un istituto speciale, con caratteri propri, del diritto processuale amministrativo [3]. Così che l’eccessiva onerosità per il debitore, prevista dall’art. 2058 c.c., deve essere valutata alla stregua di eccessiva onerosità per il pubblico interesse e per la collettività [4].
Altra parte della giurisprudenza la considera come il medesimo istituto di cui all’art. 2058 c.c. [5]. Ed è questa la soluzione che sembra più confacente alla natura giuridica della reintegrazione in forma specifica.
Si inserisce poi un ulteriore filone giurisprudenziale, che intravede nella reintegrazione in forma specifica una sorta di anticipazione dell’attività di conformazione dell’amministrazione [6]. Una volta accertata l’illegittimità della lesione dell’interesse legittimo pretensivo del ricorrente al conseguimento del bene della vita, il carattere vincolato e dovuto dell’attività ulteriore da svolgere da parte dell’amministrazione consente al giudice amministrativo di disporre la reintegrazione in forma specifica, e soddisfare così l’interesse sottostante al rapporto del privato con l’amministrazione; ordinando conseguentemente a quest’ultima di disporre l’aggiudicazione della gara di appalto in favore del ricorrente che, se non fosse stato illegittimamente escluso, se la sarebbe aggiudicata.
4. La preferibile soluzione civilistica.
Deve essere rilevato, in primo luogo, che, malgrado la l. n. 205/2000, il diritto processuale positivo non prevede una domanda tesa ad ordinare all’amministrazione l’emanazione di provvedimenti amministrativi, anche se di carattere vincolato, o ad accertare un obbligo in tal senso. La l. n. 205/2000 ha consentito tutto questo solo nel rito speciale previsto per il silenzio dell’amministrazione.
La reintegrazione in forma specifica è menzionata, dall’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 80/1998 (sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. c, della l. n. 205/2000) e dal nuovo testo dell’art. 7, comma 3, della l. n. 1034/1971, nell’ambito del risarcimento del danno e come ulteriore rimedio di cui dispone il giudice amministrativo; ma sempre ai fini della condanna al “risarcimento del danno ingiusto”.
Essa deve essere considerata alla stregua di un’alternativa risarcitoria, potendo quest’ultima intervenire anche per equivalente ai sensi dell’art. 2058 c.c.. La reintegrazione in forma specifica rimane un rimedio risarcitorio (o comunque riparatorio), ossia una forma di reintegrazione dell’interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio.
Non va confusa con l’azione di adempimento, con la quale si chiede la condanna del debitore all’adempimento dell’obbligazione, malgrado il tentativo di configurare un rapporto di tipo obbligatorio tra pubblica amministrazione e privato nell’ambito del procedimento amministrativo e con riguardo agli obblighi posti a carico della prima dalla l. 7 agosto 1990, n. 241; tentativo non assecondabile, data la non assimilabilità di siffatta relazione, di tipo pubblicistico e non civilistico, al rapporto esistente tra creditore e debitore nelle obbligazioni.
La reintegrazione in forma specifica non può essere confusa nemmeno con il diverso rimedio dell’esecuzione in forma specifica, quale strumento per l’attuazione coercitiva del diritto e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli.
La forma specifica non è una forma né eccezionale né sussidiaria di responsabilità, ma uno dei modi attraverso i quali il danno può essere risarcito; la cui scelta spetta al creditore, salva l’ipotesi di eccessiva onerosità (art. 2058, comma 2, c.c.) o di oggettiva impossibilità.
L’adozione, da parte dell’amministrazione, di un determinato provvedimento attiene a profili di adempimento e di esecuzione e non a quelli risarcitori; in presenza di accertata spettanza del provvedimento amministrativo preteso, l’emanazione dello stesso non costituisce una misura risarcitoria, ma rappresenta la doverosa esecuzione di un obbligo che grava sull’amministrazione. Ciò a prescindere dall’esistenza dei requisiti previsti dalla legge per conseguire il risarcimento del danno (extracontrattuale o contrattuale che sia); quali la sussistenza della lesione di una situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento (il danno ingiusto), la colpa o il dolo dell’amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale, ed il nesso di causalità tra l’illecito e il danno subito.
Riportare anche tale fase nell’ambito della reintegrazione in forma specifica e, quindi, della tutela risarcitoria, significa estendere a essa tutti i limiti di siffatta tutela, che sono più rigorosi rispetto a quelli previsti per l’esecuzione. Inoltre, mentre la reintegrazione in forma specifica richiede una verifica in termini di onerosità, ai sensi dell’art. 2058, comma 2, c.c., tale verifica non è richiesta in relazione alle forme di esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta, per le quali rileva la sola sopravvenuta impossibilità; unico limite a cui è assoggettato l’obbligo conformativo dell’amministrazione.
In pratica, l’accoglimento di un ricorso avverso un provvedimento di aggiudicazione di una gara di un appalto pubblico comporta l’annullamento del provvedimento impugnato e, nel caso in cui si è sicuri che la gara si sarebbe dovuta aggiudicare a colui il quale ha proposto il ricorso (che, ad esempio, si era classificato al secondo posto della graduatoria stilata dall’amministrazione), la necessaria aggiudicazione, ora per allora, in favore del medesimo; ma quest’ultima come effetto di conformazione, da parte dell’amministrazione, alla sentenza di annullamento e sempre che il contratto non abbia avuto completa esecuzione (se l’esecuzione è stata parziale, residua l’interesse per quanto non ancora realizzato). E qualora l’amministrazione non vi provvede, il ricorrente può conseguire l’effetto della sentenza con il giudizio di ottemperanza. Tutto questo anche se non sussistono i presupposti del risarcimento del danno.
Se invece il giudice amministrativo, sempre nel caso prospettato, ha respinto la domanda risarcitoria, ad esempio sul profilo della carenza dell’elemento soggettivo in capo all’amministrazione rilevando l’errore scusabile della stessa, non può conseguirsi il risarcimento del danno, ma la tutela annullatoria consente sempre, solo con il limite conseguente all’avvenuta completa esecuzione contrattuale, di avere quel bene della vita per il quale si è agito in giudizio; ossia l’aggiudicazione della gara e la stipula del contratto.
Ne consegue la difficile ipotizzabilità della reintegrazione in forma specifica negli interessi legittimi di tipo pretensivo, mentre il problema si pone diversamente nel caso degli interessi legittimi di tipo oppositivo; si pensi alla possibilità, per il giudice amministrativo, di condannare l’amministrazione a ricostruire un fabbricato illegittimamente abbattuto in esecuzione di un’ordinanza di demolizione, poi annullata dal giudice stesso, oppure al caso della riconsegna e del ripristino del bene illegittimamente sottratto al privato dall’amministrazione (a seguito dell’esercizio del potere ablatorio, di occupazione o di esproprio).
Ma anche in tali ipotesi, se l’annullamento giurisdizionale è avvenuto per un motivo formale o procedimentale (si pensi, ad esempio, alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento previsto all’art. 7 della l. n. 241/1990) e qualora il potere dell’amministrazione possa essere riesercitato (il che non avviene, ad esempio, nel caso del potere espropriativo se l’opera pubblica è stata già realizzata), occorre che l’amministrazione si pronunci rimuovendo il vizio accertato dal giudice. Al quale non è consentito sostituirsi all’amministrazione, al di fuori del giudizio di ottemperanza, e attribuire direttamente il bene della vita preteso. Il potere deve essere riesercitato e se l’amministrazione riconferma il provvedimento impugnato, depurandolo del vizio rilevato dal giudice, non vi sarà l’illegittimità dell’atto (in forza del principio della presunzione di legittimità), necessaria per accedere alla tutela risarcitoria (per equivalente o in forma specifica) conseguente all’illegittimo esercizio del potere.
Una certa confusione si percepisce anche nel ricorso alla terminologia della “reintegrazione in forma specifica” da parte di recenti interventi normativi, quali quello di cui all’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 190/1990; laddove, in ambito di infrastrutture strategiche, si intende salvaguardare il contratto, una volta stipulato, dall’annullamento o dalla sospensione dell’aggiudicazione successivamente disposti dal giudice amministrativo, e consentire solo il risarcimento del danno per equivalente. Si tratta, quindi, della conformazione dell’attività dell’amministrazione, che viene impedita, e non della reintegrazione in forma specifica quale rimedio risarcitorio.
In presenza di istituti che provengono dal diritto civile, semplicemente estesi al giudizio amministrativo, il punto di partenza, ma anche quello di arrivo, non può che essere il diritto civile; al quale, in mancanza di disposizioni specifiche, non è consentito derogare in virtù del preteso “dogma” della specialità del diritto amministrativo.
Così che non sembra condivisibile quanto affermato dal T.A.R. Campania, Napoli[7], il quale considera implicita nella domanda di annullamento del provvedimento impugnato anche quella di reintegrazione in forma specifica, e lascia all’amministrazione la scelta se reintegrare in forma specifica o disporre il risarcimento del danno per equivalente, valutando la ricorrenza dei presupposti (materiale possibilità e non eccessiva onerosità per l’interesse pubblico) per fare luogo alla reintegrazione in forma specifica della parte ricorrente vincitrice nella sua pretesa a conseguire l’aggiudicazione di un appalto.
La tutela annullatoria e quella risarcitoria, sia per equivalente che in forma specifica, hanno presupposti differenti e si riconnettono a domande diverse; ed è il giudice il quale, ai sensi dell’art. 2058, comma 2, c.c., come anche in virtù del nuovo testo dell’art. 7, comma 3, della l. n. 1034/1971, può disporre che il risarcimento avvenga soltanto per equivalente qualora la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore.
5. L’azione di adempimento.
Con la reintegrazione in forma specifica è stato conferito al giudice amministrativo il potere di attribuire direttamente quel bene della vita cui aspira il ricorrente?
La risposta non può che essere negativa.
L’azione di adempimento, la vertglichtungsklage del diritto tedesco, è prevista dai paragrafi 42 e 113 della l. sul processo amministrativo del 21 gennaio 1960. Il primo paragrafo, dal titolo “Azione di impugnazione e di adempimento”, dispone che può essere promossa sia nel caso di provvedimento espresso di diniego che di inerzia dell’amministrazione. Con essa “il giudice afferma la sussistenza in capo all’amministrazione dell’obbligo di emanare un atto amministrativo non reso o esplicitamente rifiutato”.
Il paragrafo 113, dal titolo “Sentenze nelle azioni di impugnazione e di adempimento”, prescrive che: “nella misura in cui il rifiuto o l’omissione dell’atto amministrativo è illegittimo e l’attore ne risulta leso nei propri diritti, il tribunale dichiara l’obbligo dell’autorità amministrativa di porre in essere la richiesta attività dell’ufficio, se la questione è matura per la decisione. Altrimenti esso dichiara l’obbligo di decidere nei confronti dell’attore nel rispetto della concezione giuridica del tribunale”.
L’azione di adempimento, a differenza del diritto tedesco, non è prevista in via generale dal nostro ordinamento. Solo in alcuni casi la legge consente al giudice amministrativo di ordinare un facere all’amministrazione (art. 25, comma 6, della l. n. 241/1990, in tema di accesso, e art. 21-bis, comma 2, della l. n. 1034/1971, come inserito dall’art. 2 della l. n. 205/2000, in ambito di silenzio).
Non può quindi convenirsi con il tentativo di identificare il potere conferito al giudice amministrativo di disporre la reintegrazione in forma specifica con l’azione di adempimento nei confronti dell’amministrazione, consentendosi ad esso di sostituirsi a questa al fine di soddisfare la “pretesa di provvedimento” del ricorrente. Si tratta del tentativo di sollevare il privato dall’onere di esperire un duplice ricorso; prima di cognizione ordinaria e poi di esecuzione. L’esigenza è senza dubbio da perseguire in una riforma del processo amministrativo, ma, allo stato, il sistema normativo non ne consente la realizzazione.
In mancanza di espressa previsione non è permesso sostituirsi al legislatore, a prescindere da esigenze, da tutti condivisibili, connesse alla previsione, non solo in caso di silenzio e con il rito camerale, di un sistema che consenta sempre e subito al giudice di sostituirsi all’amministrazione, direttamente o tramite commissario, per far conseguire al ricorrente quel bene della vita per il quale agisce in giudizio. Tutto questo, anche se potrebbe portare ad una tutela veramente effettiva, non è stato previsto dalla l. n. 205/2000, e potrà essere realizzato solo a seguito di un nuovo intervento legislativo.
Per le stesse ragioni non è condivisibile, allo stato della normativa, quella tesi intermedia (Caringella) secondo cui, qualora il risarcimento del danno in forma specifica riguardi la lesione cagionata da attività autoritativa della pubblica amministrazione ed in caso di interessi legittimi, per le attività vincolate l’ordine del giudice potrebbe spingersi sino al contenuto dell’atto da adottare; mentre, per le attività meramente discrezionali, l’ordine non potrebbe che avere carattere procedimentale, ossia costringere l’amministrazione a riprendere il procedimento senza predeterminazione dell’esito, rimesso alla valutazione discrezionale dell’amministrazione.
La reintegrazione in forma specifica è rimedio di tipo risarcitorio, che esula anche da problematiche attinenti l’attività di conformazione dell’amministrazione alla statuizione contenuta nella sentenza del giudice; attività di momento successivo, e che risponde a presupposti diversi, tendenti comunque alla realizzazione della pretesa anche attraverso la sostituzione (da parte del commissario ad acta) all’amministrazione stessa.
6. Alcune considerazioni in tema di pretesa diversità del giudizio amministrativo e di sussidiarietà della tutela risarcitoria.
L’elaborazione da parte della giurisprudenza amministrativa di un sistema differenziato ed autonomo, rispetto a quello della giurisdizione ordinaria in tema di responsabilità civile per danno ingiusto provocato al privato dall’illecito di altro privato, non appare tendenza da supportare. La responsabilità civile trova la sua regolamentazione nel diritto civile ed è stata sino a pochi anni fa “pascolo esclusivo” del giudice ordinario; ed è in queste direzioni che deve indirizzarsi anche il giudice amministrativo.
Ciò che appare peculiare è, invece, la situazione conseguente all’annullamento di provvedimenti che incidono su interessi legittimi di tipo pretensivo; laddove il potere amministrativo deve riesercitarsi e, a meno che non sia stata accertata la fondatezza della pretesa, la domanda risarcitoria può essere valutata solo all’esito della riedizione del potere ed alla soddisfazione della pretesa sostanziale (come avviene, ad esempio, nel caso di annullamento giurisdizionale, per difetto di motivazione, di un diniego di concessione edilizia [8], o comunque di un diniego di atto di tipo autorizzatorio).
Altro punto è il seguente.
Si sostiene che l’interesse legittimo ha bisogno di una riparazione per equivalente solo quando la reintegrazione in forma specifica non gli può essere arrecata. E’ ricorrente l’affermazione secondo cui nel giudizio amministrativo di annullamento la tutela del ricorrente è affidata in primo luogo agli effetti immediati e diretti dell’annullamento, di natura cassatoria, e, in via indiretta e mediata, agli effetti ulteriori conformativi del successivo esercizio del potere; tale insieme di effetti realizza una particolare forma di tutela ripristinatoria reale della posizione giuridica lesa. Così che il risarcimento del danno per equivalente in sede di giurisdizione generale di legittimità assume un ruolo successivo, sussidiario e residuale, cui si può ricorrere se ed in quanto il rimedio ripristinatorio non abbia potuto conseguire risultati satisfattivi [9].
Tutto ciò è vero nel senso in cui l’annullamento, la reintegrazione in forma specifica ed il risarcimento del danno per equivalente costituiscono tutti strumenti che tendono alla soddisfazione della pretesa per la quale si agisce in giudizio. Ma il risarcimento per equivalente ha veramente funzione residuale e sussidiaria? E se tale funzione sussiste, verso cosa si rapporta?
Premesso che annullamento giurisdizionale e reintegrazione in forma specifica sono istituti distinti e separati, che operano in campi diversi e presuppongono condizioni differenti, il risarcimento del danno consegue all’aver subito, a seguito dell’illegittimo esercizio della funzione pubblica, una lesione patrimonialmente apprezzabile. Così che, se ciò si è verificato, non basta la rimozione del provvedimento a ripristinare la situazione pregressa.
E’ vero, invece, che una relazione di sussidiarietà si instaura tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente, essendo di regola la prima rimedio “principe” nell’ambito della tutela risarcitoria. Il che dà luogo a due distinte situazioni soggettive di credito, concorrenti, nel senso che la soddisfazione dell’una produce anche l’estinzione dell’altra, ma autonome. Il giudice, investito dell’istanza di risarcimento in una forma, non può disporre per l’altra, in forza del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
Proprio per la detta relazione di sussidarietà, l'attribuzione al danneggiato del risarcimento per equivalente, invece della richiesta reintegrazione in forma specifica, non viola il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in quanto il risarcimento per equivalente, che il giudice può disporre anche d'ufficio nell'esercizio del suo potere discrezionale, costituisce un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica; sicché la relativa richiesta è implicita nella domanda giudiziale di reintegrazione in forma specifica. Non è, invece, consentito al giudice, senza violare l'art. 112 c.p.c., nel caso in cui sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta[10].
7. Conclusioni di sistema.
L’interesse concreto di chi agisce in giudizio è quasi sempre incentrato sul “bene della vita” preteso, più che sul ristoro economico. Anche se la chiave di volta è rappresentata dall’individuazione degli esatti confini entro cui circoscrivere il “bene della vita”, dato che il giudizio non può concludersi con un risultato più vantaggioso rispetto a quanto chiesto dal ricorrente. Ma il ristoro compete solo se il processo si sia concluso con l’accertamento della spettanza del “bene della vita”; e se non vi è stato siffatto accertamento, non potrà esservi un problema di reintegrazione in forma specifica bensì solo di risarcimento per equivalente (spesso in misura minore, come nel caso della chance).
Il riportare la reintegrazione in forma specifica nell’ambito dell’annullamento giurisdizionale, con una tendenza di assimilazione, significa solo che l’eliminazione dell’atto invalido dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, ricostituisce la situazione precedente la sua emanazione, restituendo alla posizione lesa la sua condizione antecedente. Ma la reintegrazione in forma specifica attiene all’ambito risarcitorio e si aggiunge alla tutela annullatoria, presupponendo, oltre l’illegittimità del provvedimento, anche il danno risarcibile e tutti gli altri elementi essenziali alla responsabilità risarcitoria.
In presenza di interessi legittimi di tipo oppositivo, la reintegrazione in forma specifica manifesta tutte le sue potenzialità, dato che tende alla piena ricostituzione della situazione pregressa all’illegittimo esercizio della funzione, proprio perché c’è da reintegrare un patrimonio già preesistente. Così che, ad esempio, in caso di annullamento giurisdizionale di una concessione edilizia assentita al vicino in violazione delle norme sulle distanze, il giudice amministrativo, in accoglimento dell’ulteriore domanda di reintegrazione in forma specifica, potrà demandare al Comune l’adozione dei provvedimenti idonei, come la demolizione delle parti di edificio costruite in violazione delle norme stesse[11].
In ipotesi di interessi legittimi di tipo pretensivo, una volta accertata l’illegittimità dell’esercizio del potere, occorrerà la riedizione del potere da parte dell’amministrazione; essenziale per costituire una situazione patrimoniale. A meno che non sia stata acclarata dal giudice la fondatezza della pretesa; ma anche qui ci sarà, in ipotesi di mancata esecuzione della statuizione del giudice, un problema di conformazione, da risolvere con il giudizio di ottemperanza.
In conclusione, la reintegrazione in forma specifica nel giudizio amministrativo:
a) va collocata, così come effettuato dal legislatore, nell’ambito del processo di cognizione e non in quello di esecuzione;
b) non costituisce una generale tutela di tipo ripristinatorio a fronte della lesione di interessi legittimi e non si identifica nello specifico ristoro dell’interesse leso a seguito del rinnovo della procedura da svolgersi per effetto della sentenza;
c) non deve essere confusa sempre con l’attribuzione di quel bene della vita a cui il ricorrente aspira;
d) non si identifica con l’azione di adempimento, inesistente a livello generale nel nostro ordinamento.
Non appena si sono incontrati, tra la reintegrazione in forma specifica ed il giudice amministrativo è stato un colpo di fulmine; ma se si tratta di infatuazione o di amore vero solo il tempo potrà dirlo. Intanto, la meditazione non può che aiutare a sedimentare il rapporto.
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VOLPE C., Risoluzione delle controversie e norme processuali nella legge obiettivo. Alcune considerazioni sugli artt. 12 e 14 del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, in www.giust.it, n. 10-2002 ed in lexitalia.it;
VOLPE C., Profili di effettività nella disciplina processuale del risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, in www.giust.it, n. 4-2003 ed in lexitalia.it.
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* Consigliere di Stato.
[1] Cass., sez. III, 16 dicembre 1988, n. 6856, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc. 12.
[2] Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2001, n. 6281, in Cons. Stato, 2001, I, 2676.
[3] Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169, in Cons. Stato, 2001, I, 1304.
[4] T.A.R. Lazio, sez. III ter, 13 febbraio 2003, n. 962, in Urbanistica e appalti, 2003, 957.
[5] Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338, e 3 aprile 2003, n. 1716, in, rispettivamente, Cons. Stato, 2002, I, 1328 e Urbanistica e appalti, 2003, 928.
[6] Indicativa in tal senso è la sentenza del T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 27 febbraio 2002, n. 1108, in Trib. amm. reg., 2002, I, 65.
[7] Sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, in www.giust.it, n. 6-2002.
[8] T.A.R. Abruzzo, Pescara, 8 maggio 2003, n. 507, in Foro amm.: TAR, 2003, 1711.
[9] TAR Campania, Napoli, sez. I, 19 settembre 2001, n. 4485, in Urbanistica e appalti, 2001, 1349.
[10] Cass., sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552, in Giust. civ. Mass., 2002, 94.
[11] In questo senso, T.A.R. Abruzzo, Pescara, 8 maggio 2003, n. 506, in Foro amm.: TAR, 2003, 1711.