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PIETRO VIRGA
(Professore emerito di diritto amministrativo)
Rappresentanza in giudizio e jus postulandi
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La recente sentenza della Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2878*, pubblicata in questa Rivista con nota di L. Oliveri) ha chiarito che la rappresentanza in giudizio non spetta ai dirigenti, ancorché prevista dallo statuto e che la autorizzazione a stare in giudizio spetta all'organo collegiale dell'esecutivo (consiglio, giunta) dell'ente locale.
Poiché la legge di riforma degli enti locali aveva completamente ignorato l'istituto dell'autorizzazione ad agire in giudizio, l'art. 6, capv. del t.u. ee.ll. ha cercato di rimediare, devolvendo la disciplina della materia alle norme dello statuto.
Senonché la formulazione dell'articolo è risultata estremamente ambigua ed imprecisa, di guisa che sono sorte incertezze circa le opzioni che vengono offerte al consiglio comunale, in sede di approvazione dello statuto.
Dispone il citato art. 6 che alla competenza consiliare in materia statutaria sono attribuiti i «modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente anche in giudizio». Con tale espressione, ampiamente comprensiva, sono coinvolti tre istituti del tutto diversi e dalla confusione fra tali tre istituti sono derivati i dubbi che in proposito sono stati espressi dalla dottrina.
Tre sono infatti gli istituti che vengono coinvolti:
a) la rappresentanza in giudizio dell'ente;
b) la manifestazione di volontà di stare o resistere in giudizio;
c) lo jus postulandi.
Impropriamente il legislatore ha fatto allusione all'«esercizio» della rappresentanza legale, perché la rappresentanza legale istituzionalmente compete al capo dell'ente pubblico o della amministrazione autonoma, indipendentemente da un atto concreto di «esercizio».
Per il comune, va ricordato che l'art. 5 capv. del t.u. 267/2000 (vigente testo unico sugli enti locali) dispone che «il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente». Tale norma non fa che confermare uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, secondo cui ogni ente è rappresentato in giudizio dal capo della propria amministrazione.
Poiché la rappresentanza in giudizio è legislativamente sancita, non si vede quale determinazione possa essere adottata dallo statuto circa l’«esercizio» della rappresentanza, dal momento che lo statuto non potrà mai sottrarre al sindaco la titolarità della rappresentanza in giudizio.
Altro discorso è quello della determinazione volitiva in ordine alla proposizione dell'azione giudiziaria ovvero alla resistenza in giudizio. Si tratta di una determinazione largamente discrezionale, che comporta valutazioni complesse non solo in relazione alla fondatezza sotto il profilo giuridico delle ragioni del comune, ma anche in relazione alle conseguenze giuridiche ed economiche che possono derivare al comune da una azione o da una resistenza in giudizio soprattutto in previsione della eventualità di condanna alle spese. Strettamente connessa a tale valutazione è la individuazione e la nomina del legale, a cui va affidata la difesa mediante conferimento di incarico fiduciario.
A questo proposito, tradizionalmente e con fondamento, si parla di «autorizzazione» a stare in giudizio, perché l'organo collegiale dell'esecutivo (consiglio, giunta), dopo di avere valutato la fondatezza delle ragioni dell'ente e le conseguenze che potranno derivare dal giudizio, abilita il capo dell'amministrazione a conferire mandato ad un legale per l'azione o per la resistenza in giudizio.
Si tratta di delicate valutazioni che competono agli organi preposti alla direzione politica dell'ente. Tale valutazione va rimessa all'esecutivo e per esso all'organo collegiale (giunta, consiglio).
Infondata appare la tesi sostenuta da una parte della dottrina secondo cui la competenza per la autorizzazione potrebbe essere attribuita al dirigente responsabile dell'ufficio legale. Le attribuzioni dei dirigenti sono circoscritte al «funzionamento degli uffici e dei servizi e alla esecuzione degli atti» e, quindi, il rilascio della autorizzazione non può essere rimessa al dirigente addetto all'ufficio legale, perché si tratta di una funzione rientrante nella sfera delle determinazioni di indirizzo e di controllo politico.
Nessun argomento in contrario può desumersi da quella disposizione eccezionale, che riguarda il personale scolastico (art. 21 della legge 15 marzo 1997 n 59 e successive modificazioni), secondo cui i presidi hanno anche la legale rappresentanza in giudizio dell'istituto scolastico da essi diretto. Tale potere è stato loro attributo, perché nelle vertenze di lavoro è obbligatorio il tentativo di conciliazione. Per la difesa dell'amministrazione, il dirigente scolastico non solo è il rappresentante legale, ma è anche titolare dello jus postulandi, essendo abilitato anche ad assumere la difesa dell'ente in giudizio, nonché ad assumere responsabilmente le determinazioni circa i termini dell'eventuale verbale di accordo. Ma nei normali giudizi innanzi alla giurisdizione amministrativa ai dirigenti non può essere riconosciuta nè la rappresentanza in giudizio, ne tanto meno lo jus postulandi.
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Documenti correlati:
CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE - Sentenza 26 febbraio 2003* (sull’individuazione dell'organo competente ad autorizzare il Comune a promuovere od a resistere a giudizi), in questa Rivista n. 5-2003, con commento di L. OLIVERI, La rappresentanza degli enti locali in giudizio – Una questione mai sopita.
P. VIRGA, Con il testo unico si è raggiunto l'obiettivo della stabilità nella legislazione degli enti locali?, in questa Rivista.