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n. 10/2007 - ©
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GIOVANNI VIRGA
Le "térmiti" comunitarie
ed i "tarli" dei trattati
internazionali
SOMMARIO: 1. Gli effetti sull’ordinamento nazionale delle norme comunitarie e di quelle contenute nei trattati internazionali. 2. Gli effetti della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo sui criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per p.u. e del risarcimento dovuto nel caso di occupazione acquisitiva. 3. Le conseguenze derivanti dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale.
1. Gli effetti sull’ordinamento nazionale delle norme comunitarie e di quelle contenute nei trattati internazionali.
Tre lustri addietro il Pres. Giacchetti, nella sua relazione al XXXVIII convegno di Varenna intitolata "Profili problematici della cosiddetta illegittimità comunitaria" (in Giur. amm. sic. 1992, p. 879 ss., riprodotta altresì nella presente Rivista), aveva paragonato gli effetti prodotti dalle norme comunitarie sull’ordinamento nazionale a quelli delle "térmiti" (insetti della sottoclasse degli pterigoti, ordine degli isotteri, noti in entomologia per il loro modo di approvvigionarsi di cibo), dato che le norme comunitarie, al pari di quanto fanno solitamente le térmiti, avrebbero scavato lentamente dall’interno l’ordinamento nazionale, pur lasciando formalmente intatta la sua struttura esteriore.
Il Pres. Giacchetti non aveva previsto (anche perchè, è bene subito dire, a quel tempo l’art. 117, 1° comma, Cost. prevedeva una disciplina differente, non essendo ancora stato novellato a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione) che analogo effetto avrebbero avuto i trattati internazionali (categoria nella quale rientra, tra l’altro la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950).
Insomma, erano stati previsti gli effetti delle "térmiti" comunitarie, ma non quelli che potremmo definire - continuando ad impiegare il parallelo entomologico - dei "tarli" dei trattati internazionali.
E’ stato merito delle due recenti sentenze della Corte Costituzionale (nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2004) ed, ancor prima delle ordinanze della Cassazione che avevano rimesso le q.l.c., evidenziare gli effetti dei trattati internazionali e, segnatamente, della già citata CEDU, sull’ordinamento nazionale, alla luce della nuova disciplina dell’art. 117, 1° comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione.
Tale norma infatti ormai prevede la necessità di armonizzare il diritto interno con «i vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali», con conseguente obbligo per il legislatore ordinario di rispettare le norme contenute in accordi internazionali.
Prima della novella, come ricordano le sentenze citate, l'inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente normalmente rango di legge ordinaria e, quindi, potenzialmente modificabile da altre leggi ordinarie successive.
A seguito della novella, invece, si è realizzato "un rinvio mobile" alla norma convenzionale di volta in volta conferente, il quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata "norma interposta", che è soggetta a sua volta ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione.
La differenza tra norme comunitarie e norme risultanti da trattati internazionali (o, sempre per usare il parallelo, tra le "térmiti" comunitarie ed i "tarli" dei trattati internazionali) non è lieve.
Le norme comunitarie (e, segnatamente, le direttive c.d. self-executing) operano immediatamente e possono essere applicate direttamente dal giudice di merito, al quale compete anche il potere di disapplicare la norma nazionale contrastante (cfr. Corte cost., sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984).
Le norme dei trattati internazionali, invece, pur condizionando l’interpretazione delle norme nazionali (dovendo sia il giudice di merito che la P.A. applicare queste ultime norme tendendo conto anche dei principi desumibili dai trattati internazionali), in caso di contrasto con la disciplina nazionale non possono essere applicate direttamente nè consentono la disapplicazione della norma nazionale contrastante, ma impongono che della relativa questione venga investito in via incidentale il Giudice delle leggi, invocando il parametro di cui all’art. 117, 1° comma, Cost.; inoltre la Corte costituzionale sarà chiamata a decidere, in quella sede, la conformità delle norme pattizie ai principi della nostra Carta costituzionale.
Così, in particolare, è avvenuto per le norme contenute nel Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea, atteso che la Convenzione stessa - come evidenziato dalla Corte - non contiene norme comunitarie, ma norme pattizie derivanti da un trattato internazionale.
Sotto questo profilo è stato indirettamente censurato quanto affermato da alcune corti di merito (v. per tutte Corte di Appello di Firenze, Sez. I civile, sentenza 14 luglio 2006 n. 1403, in questa Rivista), che avevano ritenuto le norme contenute nella CEDU equivalenti a quelle comunitarie e che, pertanto, avevano immediatamente e direttamente disapplicato le norme nazionali con esse contrastanti.
2. Gli effetti della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo sui criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per p.u. e del risarcimento dovuto nel caso di occupazione acquisitiva.
Come già detto, gli effetti dei "tarli" dei trattati internazionali sull’ordinamento nazionale, non sono meno rilevanti di quelli delle "termiti" comunitarie, anche se agiscono in maniera diversa.
In particolare, l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, così come costantemente interpretato dalla Corte europea, ha finito per demolire il "famigerato" art. 5 bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 e successive modificazioni ed integrazioni il quale, com’è noto agli operatori, da un lato aveva previsto criteri per determinare l’indennità di esproprio (costituita da una semi-somma che finiva per dimezzare il valore di mercato del bene, con la previsione di una ulteriore riduzione del 40% nel caso di mancanza di cessione volontaria), nonchè il risarcimento del danno dovuto ai proprietari nel caso di occupazione acquisitiva (il cui ammontare era pari all’indennità di esproprio, aumentata da un "contentino" del 10%).
Tale norma, della cui legittimità costituzionale si era dubitato fin dall’inizio (sia consentito far riferimento ad una breve nota dello scrivente a margine della sentenza della Corte cost. n. 148/1999, che aveva dichiarato in un primo tempo infondata la q.l.c. dell’art. 5 bis citato, intitolata "Una pronuncia discutibile e pericolosa (ma con un contentino)") era stata confermata - per ciò che concerneva la determinazione dell’indennità di espropriazione - dall’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).
Dal suo canto la Corte europea aveva più volte ritenuto che tale disciplina era contrastante con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (v. per tutte Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, sentenza 30 ottobre 2003 - causa n. 31524/96 - Belvedere Alberghiera, in questa Rivista; ma v. anche la nota sentenza Scordino del 29 marzo 2006).
In relazione a tale situazione, la Corte di Cassazione aveva ritenuto di sollevare q.l.c. con varie ordinanze (v. per tutte Cass. Sez. I civile, ordinanza 20 maggio 2006 n. 11887, in questa Rivista).
Le questioni di legittimità costituzionale sono state ritenuta fondate dalla Corte con le già citate sentenze nn. 348 (riguardante i criteri di determinazione dell’indennità di esproprio) e 349 (riguardante i criteri per la determinazione dell’ammontare del risarcimento del danno nel caso di occupazione acquisitiva) entrambe depositate il 24 ottobre 2007.
La Corte, rivedendo il precedente orientamento negativo, ha ritenuto fondate le questioni facendo applicazione dell’art. 117, 1° comma, Cost. nel testo novellato, il quale impone l’osservanza dei «vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali», tra i quali rientra, come già detto, anche la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
3. Le conseguenze derivanti dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale.
La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5 bis citato, nonché dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico espropriazione) potrebbe comportare che, per la determinazione della indennità di espropriazione, debba farsi riferimento ai criteri previsti dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica), i quali, come noto, ancorano la determinazione dell’indennità di esproprio al valore venale del bene.
Tuttavia, come notato esattamente da un lettore della rivista, l'art. 58, 1° comma, del T.U. espropriazione per p.u. approvato con d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ha espressamente abrogato "la legge 25 giugno 1865, n. 2359, e successive modificazioni ed integrazioni", onde potrebbe sostenersi che, come rilevato dallo stesso lettore, "esiste una vera e propria lacuna nel sistema indennitario, da colmare quanto prima dal legislatore, tenendo conto che l'unica disposizione vigente nell'ordinamento interno che "qualifica" l'indennità di esproprio è l'art. 834 c.c., che peraltro si limita a prescrivere che sia "giusta" (il che vuol dire tutto o niente)".
Va tuttavia osservato che, anche in assenza di apposito riferimento normativo, esiste il principio affermato dalla Corte secondo cui la indennità di espropriazione va tendenzialmente commisurata al valore venale del bene e che, anche in assenza di apposito referente normativo, a tale principio la P.A. deve conformare il proprio operato. In ogni caso la norma di riferimento, per effetto del "rinvio mobile" di cui all'art. 117, 1° comma, Cost., è costituita dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, così come interpretato dalla Corte europea e dalla Corte costituzionale.
Non è tuttavia da escludere un ulteriore intervento del legislatore in materia.
In tal senso, sono significative le precisazioni della Corte costituzionale contenute nella sentenza n. 348/2007.
E’ stato infatti riaffermato che il legislatore, nel disciplinare nuovamente la materia, non ha il dovere di commisurare integralmente l'indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato.
Si è anzi affermato in proposito che sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea non solo concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato, ma che vi è pure concordanza di principio – al di là delle diverse espressioni linguistiche impiegate – sulla non coincidenza necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista del raggiungimento di fini di pubblica utilità.
E' stato in proposito richiamato il tradizionale criterio del "serio ristoro", al quale aveva fatto in passato riferimento la giurisprudenza della Corte: v. per tutte la sentenza n. 283 del 1993, con la quale era stato affermato che l'art. 42 Cost. «non garantisce all'espropriato il diritto ad un'indennità esattamente commisurata al valore venale del bene e, dall'altra, l'indennità stessa non può essere (in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata».
Secondo tale criterio, va esclusa «una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato», dovendosi ritenere ammissibili criteri «mediati», lasciando alla discrezionalità del legislatore l'individuazione dei parametri concorrenti con quello del valore venale.
Il passato criterio del "serio ristoro" va tuttavia affiancato a quello del "ragionevole legame" con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Secondo la Corte costituzionale, quindi, rientra nella discrezionalità del legislatore valutare se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti. Sotto questo profilo, non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo.
Si viene a profilare quindi, per la determinazione dell’indennità di espropriazione, un regime differenziato "all'interno del quale è legittimo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come interpretate dalle decisioni della stessa Corte"; sotto questo aspetto, secondo la Corte, i criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori".
Sembra quindi che secondo la Corte sia legittimo prevedere - per la determinazione dell’indennità di espropriazione - un regime differenziato, distinguendo tra espropriazioni singole, approvate con progetti in variante ed espropriazioni standard, effettuate "secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori".
Come questi principi saranno attuati in concreto, allo stato, tuttavia, non è dato di sapere.
Documenti correlati:
CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 24 ottobre 2007* (richiamando la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo e con riferimento all’art. 117, 1° comma, Cost. ed all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, dichiara illegittimo l'art. 5 bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, nella parte in cui non prevede “un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato”).
CORTE COSTITUZIONALE - sentenza 24 ottobre 2007* (in base a considerazioni analoghe, dichiara illegittimo l’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, nonchè l’art. 37, commi 1 e 2, del T.U. espropriazione per p.u., i quali prevedono criteri di calcolo per determinare l'indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate che conducono "alla corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni oggetto di ablazione").
CORTE DI CASSAZIONE SEZ. I CIVILE, ordinanza 20-5-2006* (solleva q.l.c. dell'art. 3, comma 65°, della L. n. 662/96, secondo cui, alle occupazioni illegittime dei suoli per causa di pubblica utilità antecedenti al 30 settembre 1996, si applica il criterio riduttivo di stima previsto per l’indennità di espropriazione, con esclusione della decurtazione del 40% e l’aumento del 10%).
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SEZ. II, sentenza 30-10-2003 (decisione Belvedere-Alberghiera), pag. http://www.lexitalia.it/p/corte/ceurdiruomo_2003-10-30.htm (sulla necessità, nel caso di espropriazione illegittima, ove non sia possibile procedere alla restituito in integrum, di far riferimento per l’indennità, al valore attuale, maggiorato dal deprezzamento dell’immobile; spetta anche il risarcimento del danno morale, da liquidare in via equitativa).
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 30-4-1999* (ritiene costituzionalmente legittime le norme che riducono l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dalla P. A. a seguito di occupazione acquisitiva), con nota di G. VIRGA, Una pronuncia discutibile e pericolosa (ma con un contentino).
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 7-5-2002* (dichiara inammissibile la q.l.c. dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333/92 nella parte in cui, secondo i giudici remittenti, esso sarebbe applicabile anche alle aree agricole).
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIV, sentenza 11-8-2000* (Espropriazione per p. u. - Occupazione acquisitiva - Risarcimento del danno - Determinazione dell'ammontare - Ex art. 3, 65° comma, della legge 662/96).
TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, sentenza 22-3-2004* (sulla necessità di fare riferimento al metodo cd. sintetico-comparativo per la determinazione dell’ammontare del risarcimento dovuto a seguito di occupazione acquisitiva).