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GIOVANNI VIRGA
I
procedimenti abbreviati previsti
dalla L. 21 luglio 2000, n. 205.
(relazione
al Convegno su: Il processo
amministrativo dopo la riforma,
Palermo, 23 settembre 2000)
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SOMMARIO:
1.- Ambito dell’indagine. 2.- La struttura originaria del processo
amministrativo e la sua evoluzione alla luce delle recenti modifiche. 3.- Il
procedimento abbreviato previsto dell’art. 9 della L. 205/2000. 4.- La nuova
disciplina dei procedimenti speciali introdotta dall’art. 4 della L. 205/2000.
5.- Osservazioni (provvisoriamente) conclusive.
1.- Il tema che mi è stato assegnato riguarda il “procedimento abbreviato” previsto dalla recente legge n. 205/2000; ma forse sarebbe più corretto usare il tema al plurale e parlare di “procedimenti abbreviati”, dato la legge n. 205 contiene vari norme che prevedono forme abbreviate di risoluzione delle controversie.
Nell’ambito
dei procedimenti abbreviati possono ricomprendersi infatti non solo le
previsioni dell’art. 9 della legge (il quale consente di definire la
controversia con sentenza in forma abbreviata e, in alcune ipotesi, addirittura
con decreto) e
dell’art. 4 (il quale disciplina quelli che prima dell’entrata in vigore
della legge erano stati chiamati i procedimenti speciali [1]),
ma anche altre norme le quali prevedono forme celeri di definizione delle
controversie (v. per tutte gli artt. 2 e 3 della legge, i quali prevedono forme
accelerate di decisione delle controversie rispettivamente nel caso in cui sia
stato impugnato un silenzio dell’amministrazione e nell’ipotesi in cui sia
stata accolta la domanda preliminare di sospensione).
La
nuova legge, in linea con le più recenti riforme nel campo processuale, prevede
riti alternativi e comunque canali preferenziali per certe tipologie di
controversie od in alcune ipotesi in cui la controversia è già matura per la
decisione od in cui la decisione è preclusa da alcune evidenti cause ostative
preliminari o pregiudiziali.
In questa sede, per ragioni di brevità e per evitare sovrapposizioni con le altre relazioni previste, mi limiterò ad alcune osservazioni in ordine a quelle norme che dettano una disciplina organica volta ad abbreviare il procedimento giurisdizionale (e quindi, in pratica, mi occuperò dei già citati artt. 9 e 4 della nuova legge), tralasciando tutte quelle disposizioni che finiscono per abbreviare l’iter processuale, prevedendo canali preferenziali per alcune tipologie di ricorsi (v. in part. la nuova disciplina dei ricorsi avverso il silenzio della P.A.) od in alcune ipotesi (v. in part. il 13° comma dell’art. 21 della L. Tar, modificato dall’art. 3 della nuova legge, il quale ormai prevede espressamente che “l’ordinanza del tribunale amministrativo regionale di accoglimento della richiesta cautelare comporta priorità nella fissazione della data di trattazione del ricorso nel merito”).
2.- Partirei da una constatazione generale: la struttura del processo amministrativo esce da questa sia pure incompleta e provvisoria riforma alquanto modificata; anche se altre modifiche, come dirò meglio in seguito, probabilmente si renderanno necessarie in futuro, in considerazione dell’ampliamento del novero delle controversie in materia di giurisdizione esclusiva.
In
origine, così come notato in dottrina [2], il processo
amministrativo era un processo essenzialmente “monoverifica”, tutto
incentrato cioè su una unica udienza (di merito), nel corso della quale
veniva svolta perfino l’attività istruttoria (v. in part. l’art. 44
del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato).
Tale
struttura processuale era prevista ed utilizzata non solo per la giurisdizione
generale di legittimità (essenzialmente “actucentrica”, relativa un
giudizio di mera impugnazione) ma anche per le altre due competenze
giurisdizionali speciali ed aggiuntive (quella di merito e quella esclusiva)
nelle quali sarebbero dovuti venire in rilievo non solo atti ma anche
comportamenti e che comunque avrebbero comportato una maggiore attività
istruttoria.
E’ tuttavia comune la constatazione che il rito delle due competenze speciali ed aggiuntive si è dovuto nel corso del tempo “piegare” al rito della giurisdizione generale di legittimità, al punto che recenti aperture del giudice delle leggi sono cadute nel nulla. Mi riferisco in particolare alla più volte celebrata ma quasi mai attuata sentenza della Corte Costituzionale n. 146 del 10 aprile 1987 [3], che ha ritenuto ammissibili per le controversie in materia di pubblico impiego tutti i mezzi istruttori previsti nel processo del lavoro; sentenza questa rimasta quasi inattuata per la mancanza di nuove forme e procedure (in altri termini, di un nuovo rito) per l’ammissione ed assunzione delle prove testimoniali e delle consulenze tecniche.
Nel sistema
originario del processo amministrativo, come già detto, tutta l’attività,
ivi compresa quella istruttoria, veniva svolta in occasione dell’udienza di
merito. L’unico strumento previsto per l’acquisizione di atti e comunque per
l’assunzione delle prove prima della udienza collegiale era rappresentato
dalla previsione dell’art. 28, 1° comma, del regolamento di procedura del
1907, secondo il quale «se una delle parti domanda l’assunzione di un mezzo
istruttorio e le altre aderiscono, il Presidente, qualora ne riconosca
l’utilità, dà atto alle parti della domanda ed emette le disposizioni che
occorrono per l’esecuzione».
Ciò tuttavia
finiva per fare confluire tutta l’attività istruttoria nell’unica udienza
prevista, essendo ben raro il caso in cui l’accordo tra le parti necessario
per la c.d. fase di istruttoria presidenziale veniva raggiunto [4].
Al fine di mutare
un tale stato di cose era stato suggerito da parte dell’Adunanza generale già
nel giugno 1924, in sede di esame degli schemi di regolamento di procedura
dinnanzi al Consiglio di Stato in s.g. e dinnanzi alle giunte provinciali
amministrative, di scindere il procedimento giurisdizionale in due parti: il
primo si sarebbe dovuto svolgere in camera di consiglio di fronte al presidente,
il secondo in udienza pubblica davanti al collegio [5].
L’intento
tuttavia naufragò a seguito della mancata registrazione da parte della Corte
dei Conti del R.D. 8 agosto 1924 col quale erano stati approvati gli schemi di
regolamento elaborati dal Consiglio di Stato, essendosi ritenuto che la
previsione di una camera di consiglio presidenziale eccedeva i confini della
delega.
Nè
l’idea fu più seguita in sede di adozione del successivo decreto legge 23
ottobre 1924 n. 1642, il quale si limitò (con l’art. 1) ad aggiungere
all’ultimo comma dell’art. 44 del T.U. del 1924 la seguente disposizione:
«I provvedimenti
preliminari alla discussione del ricorso compresi quelli istruttori di cui al
presente articolo, possono essere disposti anche dal presidente di sezione,
secondo le norme da stabilirsi nel regolamento».
In seguito alla
emanazione di quest’ultima norma nacque tuttavia in dottrina una disputa circa
la portata innovativa o meno da attribuirsi ad essa rispetto a quella già
prevista dall’art. 28 del regolamento di procedura del 1907 e conseguentemente
se essa condizionava ancora l’emissione dell’ordine presidenziale
istruttorio al preventivo raggiungimento di un accordo tra le parti.
E poichè al
quesito la maggior parte della dottrina aveva dato risposta negativa [6],
ritenendosi che, anche in seguito della novella introdotta dalla legge
dell’art. 44 del T.U. cit., l’ordine istruttorio presidenziale presupponeva
l’accordo delle parti [7],
si pose il problema di individuare un modo per fare constatare tale accordo.
Fu così che
cominciò a farsi strada l’idea di prevedere una udienza preliminare [8],
non già, così come era stato a suo tempo suggerito dall’Adunanza generale
nel Consiglio di Stato, per rendere funzionale l’attività istruttoria
scindendola in due distinti momenti, ma sotto la spinta dell’esigenza pratica
di rendere possibile la constatazione di un consenso.
Si tentò conseguentemente da parte di alcune Sezioni del Consiglio di Stato di istituire una udienza preliminare istruttoria, di fronte al presidente [9], e venne comunque proposto - in considerazione del fatto che le norme previste non consentivano una udienza istruttoria formale - di ammettere almeno, in via ermeneutica, la possibilità di tenere una udienza istruttoria presidenziale c.d. «informale» [10].
Ma tali tentativi e proposte non hanno avuto più alcun seguito nè, per quel che qui più rileva, trovavano alcun fondamento normativo.
La struttura dell’istruttoria nel processo amministrativo, infatti, continuava ad essere imperniata sul combinato-disposto degli artt. 44 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato e dell’art. 28 del Regolamento di procedura del 1907; e tale struttura, attesa la scarsa funzionalità della attività istruttoria svolta in via preliminare dal Presidente del Collegio, il cui espletamento era stato subordinato al raggiungimento di un accordo preventivo fra le parti, di fatto prevedeva lo slittamento dell’espletamento di tutta l’attività istruttoria (anche di quella c.d. primaria, concernente i fatti principali affermati dalla parti, che teoricamente avrebbe dovuta essere espletata dal presidente) al momento della discussione di merito della causa.
La struttura
essenzialmente monoverifica del processo amministrativo tuttavia è venuta a
mutare sia pure in modo non palese e forse anche non previsto a seguito
dell’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali e dell’impetuoso
sviluppo che ha finito per avere la fase cautelare del giudizio.
La ipertrofia
della fase cautelare nasceva non solo dall’aumentato numero delle controversie
e dal conseguente allungarsi dei tempi per la fissazione del merito del ricorso,
ma anche dall’esigenza di sottoporre la controversia ad un vaglio preliminare,
al fine di ottenere incombenti istruttori senza attendere l’udienza di merito.
Il processo
amministrativo è così divenuto un processo "a doppia verifica", nel quale la
udienza del merito (fissata a distanza di molti anni dalla data di deposito del
ricorso) è quasi sempre preceduta da una camera di consiglio per l’esame
preliminare della domanda di sospensione e
per l’emissione degli eventuali incombenti istruttori che si rendono
necessari.
Tale struttura, tuttavia, ha subito dei mutamenti ad opera di una serie di norme di settore, le quali hanno previsto dei riti alternativi ed abbreviati [11], facendo venir meno quella distinzione prima sacrale tra camera di consiglio (destinata all’emissione di provvedimenti provvisori e comunque istruttori).
Una delle prime
procedure accelerate è stata quella prevista dall’art. 25 della legge n.
241/90; tale norma, com’è noto ha previsto che i ricorsi avverso il diniego
(anche tacito) di accesso agli atti amministrativi andavano proposti nel termine
ridotto di 30 giorni e che i ricorsi stessi sarebbero stati decisi “in
camera di consiglio entro trenta giorni dalla data di scadenza del termine per
il deposito, uditi i difensori delle
parti che ne abbiano fatto richiesta”.
Ancora più significativa è la riforma attuata con
l’art. 19 del c.d. decreto salvacantieri (D.L. 25 marzo 1997 n. 67, conv. in
L. 25 marzo 1997 n. 135), il quale, come dirò meglio in seguito, aveva previsto
un procedimento speciale ed accelerato per le controversie in materia di
appalti di opere pubbliche e delle connesse espropriazioni, stabilendo in
particolare che il Giudice amministrativo può decidere la controversia già in
sede di esame della domanda preliminare di sospensione con sentenza in forma
abbreviata. Il processo amministrativo è divenuto in tal modo (sia pure per
alcune tipologie di controversie) un processo a doppia verifica eventuale, nel
senso cioè che l’udienza di merito, deputata a effettuare la seconda
verifica, poteva anche mancare nell’ipotesi in cui il giudice amministrativo
avesse già ritenuto matura la causa già in sede di esame della domanda
preliminare di sospensione ed avesse in quella sede deciso pertanto di definire
la causa “allo stato degli atti”, e cioè con sentenza in forma abbreviata.
La nuova legge finisce estendere tali forme accelerate di definizione delle controversie a tutti i giudizi, anche se non prevede dei riti alternativi in funzione del tipo di competenza giurisdizionale esercitata. E’ evidente infatti che la giurisdizione esclusiva, specie a seguito del suo ampliamento ad opera del D.L.vo n. 80/1998 e della recente apertura delle Sezioni Unite con la nota sentenza n. 500/1999, richiederebbe un diverso rito, in funzione dei maggiori adempimenti istruttori che sono richiesti per la definizione di tali controversie. Su questo versante la nuova legge si rivela del tutto lacunosa ed incompleta. E' da notare in particolare che il procedimento speciale previsto dall'art. 4 della legge non si applica a tutte le controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva, ma solo ad alcune di esse (non si applica, in particolare, alle controversie in materia di urbanistica ed edilizia previste dall'art. 34 del D.L.vo n. 80/1998, eccezion fatta per quelle relative ad espropriazioni per p.u. connesse alla realizzazione di opere pubbliche).
Detto questo in
linea generale, occorre ora esaminare partitamente i due tipi di procedimento
abbreviato ai quali si è fatto prima cenno e precisamente il procedimento
abbreviato previsto dall’art. 9 della legge ed i procedimenti speciali
disciplinati dall’art. 4.
3.- Dispone l’art. 9 della nuova legge (il quale ha così sostituito l’articolo 26, ult. comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034) che il tribunale amministrativo – già nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare ovvero in una udienza fissata d’ufficio a seguito dell’esame istruttorio previsto dal secondo comma dell’articolo 44 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato – nel rispetto della completezza del contradditorio, può decidere la controversia con sentenza “succintamente motivata” nei casi in cui ravvisi “la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso”.
La norma in questione, se verrà applicata estensivamente, potrebbe avere notevoli effetti deflattivi sul nuovo contenzioso e potrebbe (sia pur indirettamente) avere effetti anche sul contraddittorio delle parti.
La possibilità che il Giudice amministrativo decida “allo stato degli atti” la controversia già in sede di esame della domanda preliminare di sospensione, dovrebbe indurre le parti resistenti ad esternare le proprie difese già in limine litis, riequilibrando l’attuale situazione che vede il ricorrente onerato a dedurre tutti i motivi entro il termine di decadenza, mentre le parti resistenti – tenuto conto dell’orientamento tradizionale che finisce per considerare non perentorio il termine di 30 giorni per la costituzione – possono dedurre tutte le eccezioni e difese in limine judicii, con memoria depositata fino a dieci giorni prima dell’udienza di merito.
Quello che è previsto dall’attuale disciplina del processo amministrativo è un “dialogo a distanza”: il ricorrente deve dedurre tutte le censure entro i termini di decadenza, mentre le parti resistenti possono esternare le proprie difese sino a dieci giorni liberi prima dell’udienza. Di qui l’esistenza di costituzioni “di copertina” da parte dell’Avvocatura dello Stato o di costituzioni scritte meramente formali da parte delle altre parti resistenti.
La possibilità di decidere la controversia già in sede di esame dell’istanza di sospensione forse non piacerà ai difensori delle parti resistenti ed in particolare all’Avvocatura dello Stato che solitamente, a causa della notevole mole di controversie che deve fronteggiare e dei ritardi con i quali le amministrazioni interessate inviano le loro deduzioni, si difende oralmente in sede di esame della domanda di sospensione. Forse tale possibilità non piacerà neanche ai Giudici amministrativi, già oberati da diverse scadenze e precedenze previste dalla legge.
Tuttavia, se la norma verrà applicata estensivamente, consentirà di evitare quelle inutili duplicazioni alle quali in atto si assiste, e cioè cause che in camera di consiglio sono già mature per la decisione o per le quali esistono delle evidenti questioni preliminari che ne precludono l’esame nel merito, ma che non possono essere decise immediatamente.
La possibilità di decidere la controversia già in camera di consiglio non costituisce una novità assoluta; tale possibilità era stata prevista come già detto dal c.d. decreto salvacantieri essenzialmente per le controversie in materia di espropriazione e di appalti di opere pubbliche ed era stata ancor prima suggerita sia in sede di audizioni per la riforma del processo amministrativo che dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato in sede di emissione del parere n. 1997/89 dell’8 febbraio 1990 sul progetto di legge delega n. 1912 approvato dalla Camera dei Deputati in data 12 ottobre 1989 [12].
Con tale parere era stato in particolare suggerito
di prevedere, «nel rispetto dei diritti di difesa e del principio del
contraddittorio e con la possibilità di rinvio della causa alla pubblica
udienza, analogamente a quanto disposto dall’art. 9 delle norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, un procedimento in camera di
consiglio per i ricorsi manifestamente infondati, inammissibili, improcedibili,
ovvero per quelli che pongono questioni di evidente ed immediata soluzione».
Analogamente, nel rispetto del principio del contraddittorio, era stato
suggerito di prevedere «la possibilità che, in sede di decisione sulla
domanda di tutela interinale, con ordinanza concisamente motivata ... venga
deciso anche il merito, qualora la causa sia matura per la definizione e non
comporti l’esame di problematiche complesse».
La possibilità di definire il merito della
controversia sin dalla camera di consiglio fissata per l’esame della domanda
di sospensione, ora estesa a tutte le controversie, è stata tuttavia sottoposta
ad una duplice condizione:
a) innanzitutto il
contraddittorio deve essere completo, il che finisce per escludere
l’applicabilità della norma de quo in tutti quei casi in cui, per la
presenza di molteplici controinteressati, il contraddittorio non risulti integro
al momento dell’esame della domanda di sospensione; analogamente deve
ritenersi, a mio sommesso avviso, in tutti quei casi in cui il contraddittorio
sia formalmente integro per la volontaria costituzione in giudizio di soggetti
non intimati mediante preventiva notifica, ma questi ultimi non abbiano avuto il
tempo di esternare le proprie difese compiutamente; in tali ipotesi il diritto
di difesa dei controinteressati non intimati deve prevalere sul dato formale
della integrità del contraddittorio.
Il requisito
della integrità del contraddittorio non era previsto nel testo originario del
DDL n. 2934 (v. art. 6 del
testo del DDL), ma è stato opportunamente introdotto allorchè il Senato ha
approvato il disegno di legge in data 22
aprile 1999, tenendo conto di quanto
era già stato suggerito nel 1990 dall’Adunanza Generale del Consiglio di
Stato.
b) Secondo
l’art. 9 della legge n. 205/2000, la decisione in forma semplificata è
ammessa solo nei casi il TAR in cui
ravvisi “la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità,
inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso”.
Il testo originario del ddl prevedeva solo la
decisione in forma semplificata nel caso di “manifesta irricevibilità,
inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso”; in sede di
approvazione da parte del Senato è stata aggiunta giustamente la possibilità
di decidere il ricorso in forma semplificata anche nel caso di “manifesta
fondatezza”. D’altra parte, la esclusione di quest’ultima ipotesi per
le decisioni in forma semplificata avrebbe dato luogo a dubbi di legittimità
costituzionale, non essendo ragionevole prevedere che il giudice amministrativo
avrebbe potuto adottare una decisione in forma semplificata solo nei casi di
decisione sfavorevole per il ricorrente. In tal senso peraltro, come si è già
detto, si era orientata l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato.
Che cosa deve intendersi per manifesta
fondatezza, infondatezza, irricevibilità, inammissibilità od improcedibilità?
Dal punto di vista letterale deve ritenersi
che la fondatezza o la infondatezza e tutte le altre ipotesi contemplate (irricevibilità,
inammissibilità, improcedibilità) debbono risultare ictu oculi e cioè
essere facilmente percepibili.
Tuttavia, tenuto conto che nella specie si
tratta di emettere decisioni in forma semplificata, e cioè sentenze la cui
motivazione “può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto
o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”,
sembra possibile ritenere che la manifesta fondatezza od infondatezza deve
essere intesa nel senso espresso dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato
nel richiamato parere del 1990 e cioè nel
senso le controversie che non debbono comportare l’esame di problematiche
complesse.
La non complessità
della questione può derivare anche dal fatto che la questione, pur complessa in
origine, non lo è più, essendo stata affrontata in precedenza con una sentenza
non abbreviata; anzi, in tali ipotesi, secondo quanto si evince dalla
disposizione in parola, la decisione in forma semplificata può fare riferimento
ob relationem alla motivazione di una precedente pronuncia. Tutte le
questioni identiche possono quindi ora essere decise con è una “sentenza
pilota”, seguita da una serie di sentenze abbreviate che fanno ad essa
riferimento.
Quello sulla manifesta fondatezza od infondatezza è
un giudizio rimesso al prudente apprezzamento del Collegio, il quale potrà
emettere una decisione in forma semplificata anche in difetto di richiesta delle
parti e, viceversa, potrà rifiutarsi in teoria di decidere in forma
semplificata anche se tutte le parti del giudizio richiedano concordemente
l’emissione di una sentenza in forma abbreviata.
Dall’interpretazione che i vari TAR daranno alla
norma dipendono in ultima istanza gli effetti deflattivi del contenzioso che la
norma in questione può avere.
E’ infine da
salutare con favore la modifica che è stata introdotta dalla Commissione
Giustizia della Camera al testo originario, il quale inizialmente prevedeva che
le decisioni in forma semplificata avrebbero assunto le forme dell’ordinanza.
Opportunamente è stato invece previsto che le decisioni in questione assumano
la forma di sentenza; in tal modo, anche sotto il profilo della tipologia del
provvedimento, viene confermata la natura definitoria litis che è da attribuire
alle decisioni de quo, natura che è ulteriormente rafforzata dalla previsione
secondo cui “le decisioni in forma semplificata sono soggette alle medesime
forme di impugnazione previste per le sentenze”.
Ancor più
semplificato, anche se paradossalmente molto più macchinoso (per la previsione
di un reclamo), è il procedimento previsto per dare atto della rinuncia al
ricorso, della cessazione della materia del contendere, dell’estinzione del
giudizio e dell’intervenuta perenzione.
In tale ipotesi
la decisione assume la forma del decreto che, viene emesso dal Presidente della
sezione o da un magistrato da lui delegato inaudita et altera parte. Del
decreto la segreteria darà comunicazione alle parti costituite con apposito
biglietto di cancelleria notificato o inviato per raccomandata a.r.
Nel termine di 60 giorni dalla comunicazione,
ciascuna delle parti costituite potrà proporre opposizione al collegio con atto
notificato a tutte le altre parti e depositato in segreteria non nel termine
ordinario di 30 giorni, ma in quello abbreviato di appena 10 giorni
dall’ultima notifica. Nei 30 giorni successivi il collegio deciderà sulla
opposizione “sentite le parti che ne facciano richiesta” sempre con
ordinanza che, nel caso di accoglimento della opposizione, dispone la
reiscrizione nel ruolo ordinario. Nel caso di rigetto viene esclusa addirittura
la compensazione anche parziale delle spese. La disposizione si chiude con la
previsione secondo cui “avverso l’ordinanza che decide sulla opposizione può
essere proposto ricorso in appello. Il giudizio in appello procede secondo le
regole ordinarie, ridotti alla metà tutti i termini processuali”.
La disposizione in questione appare criticabile sotto
vari profili.
Innanzitutto sono state accomunate delle ipotesi tra
loro diverse ed etereogenee. Una cosa è infatti dare atto della rinuncia al
ricorso e della intervenuta cessazione della materia del contendere, altro è
dichiarare la estinzione del giudizio o la sua perenzione.
Mentre per le prime due ipotesi era ammissibile la
previsione di un decreto emesso inaudita et altera parte, per le
rimanenti due ipotesi (estinzione e perenzione) occorreva prevedere una
decisione sia pur in forma semplificata ma assunta in contraddittorio. D’altra
parte, perché prevedere quest’ultimo tipo di decisione per i ricorsi da
dichiarare improcedibili e non anche per quelli da dichiarare perenti ? Al
limite era più razionale prevedere la definizione con decreto dei ricorsi
improcedibili i quali (al pari di quelli rinunciati) presuppongono una
dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse da parte del ricorrente,
mentre era logico aspettarsi che la dichiarazione di perenzione (disposta di
ufficio dal TAR) fosse assunta con sentenza abbreviata nel contraddittorio delle
parti.
Criticabile è altresì la previsione che avverso il
decreto del presidente o del giudice delegato non è proponibile immediatamente
l’appello al Consiglio di Stato, ma è necessario prima proporre un
opposizione al Collegio (subendo peraltro il rischio di una quasi sicura
condanna alle spese) e poi proporre appello.
Ingiustificate sono poi le riduzioni dei termini
previste (di appena 10 giorni dall’ultima notifica per il deposito
dell’opposizione e la riduzione alla metà di tutti i termini processuali in
sede di appello).
La norma in questione sembra infine scarsamente
coordinata con la successiva previsione di una sorta di perenzione automatica
per i ricorsi ultradecennali. Quest’ultima è una norma che già in sede di
approvazione della legge era stata definita da qualcuno come “barbara” [13],
perché finisce per comportare la perenzione dei ricorsi ultradecennali, a meno
che entro 6 mesi dalla data in cui la segreteria notificherà alle parti
apposito avviso, le parti ricorrenti non presentino una “nuova” istanza di
fissazione che tuttavia deve essere sottoscritta dalle parti.
Prevede la norma in questione che nel caso in cui non
sarà presentata una nuova istanza di fissazione, il ricorso verrà dichiarato
perento “con le modalità di cui all’ultimo comma dell’art. 26 della
legge 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente articolo”
(e cioè con la decisione in forma abbreviata prevista per i ricorsi
manifestamente fondati od infondati, irricevibili, inammissibili od
improcedibili).
Non si vede perché la perenzione dei ricorsi
ultradecennali debba essere decisa con sentenza in forma abbreviata in
contraddittorio, mentre la perenzione ordinaria potrà essere decisa con
semplice decreto inaudita et altera parte.
E’ da sottolineare infine il fatto che sia il
termine (di 60 giorni) per la proposizione del reclamo previsto per la
perenzione ordinari, che il termine i 6 mesi per la presentazione della
nuova istanza di fissazione per i ricorsi ultradecennali decorrerà dalla
“notificazione” di apposito avviso da parte della cancelleria.
E’ da chiedersi se a tal fine sufficiente
l’inserimento di apposito avviso nella carpetta di tutti quei difensori che
hanno chiesto ai Presidenti dei TAR di avere comunicato i biglietti di
cancelleria presso la segreteria. E’ da ritenere tuttavia, in considerazione
degli effetti che sono connessi ai biglietti di cancelleria in questione e del
fatto che la legge prevede (per la perenzione dei ricorsi ultradecennali) che il
biglietto i cancelleria venga “notificato” (nel caso della perenzione
ordinaria si prevede analogamente una “formale comunicazione”) che il
biglietto di cancelleria vada notificato o mediante pubblico ufficiale o
mediante raccomandata a.r.; in caso in cui si dovesse ritenere diversamente,
d’altra parte, i difensori si affretterebbero semplicemente ad eliminare la
carpetta.
4.-
La legge n. 205/2000, all’art. 4, ha altresì previsto una più articolata
disciplina per i c.d. procedimenti speciali, originariamente introdotti
dall’art. 19 del già citato D.L. 25 marzo 1997 n. 67, conv. In L. 25 marzo
1997 n. 135).
Innanzitutto è
stato previsto l’ampliamento del novero delle controversie che sono soggette
al particolare rito previsto per i procedimenti speciali.
Nel sistema
originariamente previsto dal decreto salvacantieri, erano soggette a tale rito
particolare solo i giudizi “aventi ad oggetto provvedimenti di
aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica
utilità, ivi comprese le procedure di occupazione ed espropriazione delle aree
ad esse destinate”.
Si trattava
quindi essenzialmente delle controversie in materia di appalti di opere
pubbliche e delle connesse procedure di espropriazione per p.u.
Sono ormai soggette a tale procedura non più solo le controversie in materia di espropriazione per p.u. e di appalto di opere pubbliche, ma anche quelle di affidamento dei servizi pubblici e forniture, nonchè i provvedimenti relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, i provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti, i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni ai sensi dell'articolo 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142, i provvedimenti di nomina, adottati previa delibera del Consiglio dei ministri ai sensi della legge 23 agosto 1988, n. 400, i provvedimenti di scioglimento degli enti locali e quelli connessi concernenti la formazione e il funzionamento degli organi.
L’ampliamento
è evidente anche se scarsamente coordinato.
In primo luogo suscita perplessità la previsione secondo cui (art. 23, 1 comma, lett. b e c) sono soggetti al rito speciale “i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità..” nonché “i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture”.
Il duplice riferimento alla “esecuzione” degli appalti di opere pubbliche e degli appalti di servizi e forniture potrebbe indurre a ritenere che siano state attribuite alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo anche le controversie concernenti la fase esecutiva del rapporto. Il che era stato espressamente escluso dalle Sezioni Unite della Cassazione con una sentenza (30 marzo 2000 n. 72, in questa rivista n. 4/2000) depositata appena 4 mesi prima dell’entrata in vigore della legge n. 205.
Con tale sentenza, infatti, le Sezioni Unite della Cassazione, in sede di esegesi dell’art. 33 del D.L.vo n. 80/1998 (che è stato confermato pressoché immutato dall’art. 7 della legge n. 205) avevano avuto modo di affermare che “deve escludersi che nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa in materia di servizi pubblici, ai sensi dell'articolo 33 D.Lgs 80/98, rientrino anche controversie tra gestore del servizio e suoi fornitori (di beni od attività strumentali) che siano attinenti al momento della esecuzione dei correlativi contratti, ferma restando quella giurisdizione, ex, lett. e) articolo cit., per le controversie afferenti alla fase (di evidenza pubblica e, quindi, correlata a interessi generali) della aggiudicazione”. Era stato conseguentemente ritenuto che rientra nella giurisdizione dell’A.G.O. “una controversia attinente al momento esecutivo di contratti di appalto di fornitura stipulati dal gestore del servizio pubblico per l'acquisizione dei beni e/o prestazioni strumentali all'espletamento del servizio stesso”.
La previsione contenuta nell’art. 4 della legge n 205, secondo cui sono soggette al procedimento speciale ivi previsto anche i provvedimenti relativi alla … “esecuzione” di opere pubbliche o di servizi pubblici e forniture, rimette in discussione tale interpretazione, che sembrava costituire uno dei pochi punti fermi in materia.
Mal formulata è anche la previsione secondo cui rientrano nel procedimento abbreviato i provvedimenti di scioglimento degli enti locali e quelli connessi concernenti la formazione e il funzionamento degli organi. In realtà sarebbe stato preferibile prevedere che sono soggetti alla procedura accelerata i provvedimenti di scioglimento degli “organi” degli enti locali, non potendosi con evidenza sciogliere un ente locale, ma solo i suoi organi rappresentativi.
Discutibile è altresì la inclusione dei “provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici”, nonché di quelli relativi alla “costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni ai sensi dell'articolo 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142”, non ravvisandosi in tale ipotesi quelle ragioni di celerità che giustificano la previsione di una procedura abbreviata. Altrettanto è da dirsi per gli atti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti.
La nuova disciplina del procedimento speciale prevede innanzitutto che tutti i termini processuali previsti sono ridotti alla metà “salvo quelli per la proposizione del ricorso”, che rimane quindi di 60 giorni.
Ben diversa era la disciplina del decreto salvacantieri, il quale prevedeva, sia pure confusamente allorchè fu approvato il decreto legge ed ancor più chiaramente in sede di conversione, che tutti i termini processuali senza distinzione alcuna (ivi compreso, secondo l’interpretazione della giurisprudenza, il termine per l’impugnazione) erano ridotti alla metà.
Ora invece la riduzione dei termini non si applica al termine di impugnazione, che rimane di 60 giorni. Il che suscita perplessità di ordine costituzionale, con riferimento al fatto che, mentre il termine per la proposizione del ricorso non è ridotto, non altrettanto è stato previsto per la proposizione del ricorso incidentale, il quale, è proponibile in un termine già ridotto (è in via ordinaria di 30 giorni). Non si vede perché l’esenzione della riduzione del termine sia stata prevista per il ricorso principale e non anche per il ricorso incidentale (che sarebbe proponibile entro appena 15 giorni). Una esegesi della norma che la renda conforme alla Costituzione impone quindi di ritenere che il legislatore, nel prevedere che la riduzione alla metà dei termini processuali non si applica alla proposizione del ricorso, abbia inteso riferirsi sia al ricorso principale che a quello incidentale.
Rimane inoltre da chiarire se l’esenzione riguardi il solo termine per la notifica del ricorso ovvero anche quello per il suo successivo deposito. La dizione letterale della norma (che fa riferimento alla “proposizione” del ricorso) potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi al termine per la notifica, anche se appare abbastanza incongruo che sia stato previsto il termine ordinario (di 60 giorni) per la notifica ed un termine di 15 giorni per il deposito (la riduzione sembra ancora più incongrua applicando la disposizione ai ricorsi incidentali, dato che il termine per il loro deposito finirebbe per essere di appena 5 giorni, che è irragionevolmente breve).
Il procedimento abbreviato prevede che, salva l’applicazione dell’art. 26, quarto comma della legge TAR (e cioè la possibilità di decidere la controversia già in sede di esame della domanda di sospensione con sentenza in forma abbreviata), il tribunale amministrativo regionale chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio ovvero disposta l’integrazione dello stesso ai sensi dell’articolo 21, se ritiene ad un primo esame che il ricorso evidenzi l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza. Aggiunge il 5° comma che con la stessa ordinanza, in caso di estrema gravità ed urgenza, il tribunale amministrativo regionale può disporre le opportune misure cautelari, enunciando i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso.
Da notare la diversa formula impiegata dal legislatore, il quale mentre per tutti gli altri ricorsi richiede per la concessione della sospensiva (v. art. 3 della legge) l’indicazione dei "profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso", per i ricorsi in questione subordina la emissione dell’ordinanza al fatto che il ricorso deve evidenziare "l'illegittimità dell'atto impugnato", il che impone una motivazione più articolata e puntuale in ordine ai motivi di illegittimità del provvedimento impugnato.
L’aggravio è da spiegare con l’importanza che il legislatore ha attribuito alla controversie in questione e deriva in parte dall’orientamento non proprio favorevole di alcuni settori politici nei confronti delle ordinanze cautelari in materia di appalti, molto spesso viste com un vero e proprio “intralcio”. Non è un caso che circa un anno prima dell’approvazione della nuova legge il Ministro dei LL.PP. Micheli aveva addirittura proposto di precludere l’esercizio del potere cautelare dei giudici amministrativi in materia di appalti ed espropriazioni, prevedendo in alternativa il potere di condannare al risarcimento del danno. Proposta questa che è poi fortunatamente rientrata, essendo stato giustamente rilevato che l’eliminazione del potere cautelare in un settore delicato qual’è quello degli appalti pubblici, tenuto conto anche del fatto che sono venuti meno quasi tutti i controlli preventivi di legittimità, avrebbe consentito all’amministrazione di affidare gli appalti con la massima disinvoltura ad imprese amiche (mi permetto di fare rinvio, anche per ulteriori riferimenti, al mio breve intervento sul tema, intitolato Silvio Spaventa, chi era costui? (a proposito della proposta di abolire "l'anomalo" potere cautelare dei T.A.R. in materia di appalti di opere pubbliche), pubblicato in questa rivista).
Sta di fatto comunque che la previsione di una ordinanza che debba evidenziare (sia pure sommariamente) "l'illegittimità dell'atto impugnato" renderà in molti casi preferibile l’adozione di una sentenza abbreviata. I confini (sotto il profilo contenutistico) tra ordinanza che evidenzia l’illegittimità del provvedimento impugnato e ed una sentenza in forma abbreviata (e cioè di una sentenza la cui motivazione “può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”) diventano molto labili, al punto che, nel caso in cui non sussisteranno problemi di contraddittorio o la necessità di particolari approfondimenti, sarà preferibile emettere una sentenza in forma abbreviata.
Da notare che l’ordinanza prevista dalla norma de quo si limita a fissare “la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza”; si riduce in tal modo il termine (di 60 giorni) previsto dal decreto salvacantieri, pacificamente considerato ordinatorio e non perentorio. L’obbligo di fissare il merito alla “prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza” finisce non solo per ridurre ulteriormente il termine originariamente previsto dal decreto salvacantieri, ma finisce per rendere il termine stesso particolarmente rigido (è individuato direttamente dalla legge nella prima udienza successiva al termine di 30 giorni dalla data di deposito dell’ordinanza); il che complicherà la vita a non pochi Presidenti di sezione. Dal dettato letterale della disposizione sembra inoltre che la data dell’udienza stessa debba essere indicata nel testo dell’ordinanza.
Con l’ordinanza che fissa il merito, ai sensi del 5° comma, “in caso di estrema gravità ed urgenza, il tribunale amministrativo regionale o il Consiglio di Stato possono disporre le opportune misure cautelari, enunciando i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso”.
In sostanza, secondo la disciplina prevista, nei casi in cui il ricorso evidenzi “l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile”, è possibile solo fissare l’udienza di merito ravvicinata per la decisione del ricorso stesso; viceversa, solo nel caso “di estrema gravità ed urgenza” sarà possibile contestualmente disporre la sospensione degli atti impugnati.
Rimane da chiarire che cosa si debba intendere per “estrema gravità ed urgenza”; né risulta chiaro perché nel caso in cui comunque sussista un “pregiudizio grave ed irreparabile” il giudice amministrativo possa solo fissare il merito a 30 giorni.
Nelle more della udienza ravvicinata, allorchè non sia stata disposta anche la sospensione del provvedimento impugnato), la P.A. quale comportamento deve tenere ?
E’ chiaro che, in tale ipotesi, la P.A. potrebbe eseguire il provvedimento (la cui efficacia non è stata formalmente sospesa), ma è in presenza di una ordinanza che pur tuttavia evidenzia “l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile” e per tale motivo fissa una udienza ravvicinata. Ragioni di prudenza e la possibilità che venga chiesto il risarcimento del danno, dovrebbero indurre le Amministrazioni a non porre in esecuzione gli atti. Ma nessun provvedimento nel contempo impedisce loro di andare avanti e mettere tutti davanti al fatto compiuto.
Il
problema è particolarmente grave ed evidente nel caso in cui vengano impugnati
atti espropriativi ed in particolare provvedimenti di occupazione di urgenza. In
tali ipotesi, a mio avviso, dovrà riconoscersi comunque sussistente il
requisito dell’estrema gravità e disporsi, contestualmente alla fissazione
ravvicinata del merito, anche la sospensione degli atti impugnati, evitando
l’evidenziato busillis in cui si verrebbe a trovare altrimenti la P.A.
Ancora più problematica la questione si pone con riferimento alle aggiudicazione di gare d’appalto, tenuto conto che una recente direttiva comunitaria (sia pure non ancora recepita) impedisce l’affidamento dei lavori ad altra impresa nel caso in cui sia già stipulato il contratto di appalto. Anche in tale ipotesi, a mio sommesso avviso, dovrà riconoscersi sussistente il requisito dell’“estrema gravità ed urgenza” ed accordarsi in via preliminare la sospensione dell’atto impugnato, nella more della decisione del merito.
La disciplina in discorso comunque suscita perplessità perché finisce per subordinare la fissazione ravvicinata dell’udienza di merito al duplice requisito dell’”illegittimità dell’atto impugnato” e della “sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile”, il quale dovrebbe già di per sé essere sufficiente non solo per fissare il merito ravvicinato, ma anche per la sospensione degli atti impugnati; l’ulteriore requisito (dell’estrema gravità ed urgenza”) che a quest’ultimo fine è stato previsto sembra un aggravamento irragionevole e incongruo perfino per la stessa P.A. (la quale, come già evidenziato, si troverà di fronte alla difficile scelta tra il dare immediata esecuzione ad un provvedimento nei confronti del quale sono stati evidenziati già profili di illegittimità e che comunque comporta “un pregiudizio grave e irreparabile”, con il rischio di successive azioni di risarcimento del danno, e l’attendere la decisione del merito, fissata ad udienza ravvicinata.
In entrambi i casi qualche Procura della Corte dei Conti potrebbe iniziare una azione di responsabilità per i danni cagionati all’Amministrazione, anche se, si ripete, l’attesa sembra l’atteggiamento più prudente e meno rischioso anche sotto questo profilo.
Non
è da escludere che per la sua irrazionalità e perché comunque comporta
irragionevolmente una compressione del diritto di difesa del cittadino nei
confronti delle prevaricazioni della P.A., venga presto sollevata questione di
costituzionalità della norma, nella parte in cui subordina la concessione della
misura interinale all’ulteriore requisito della estrema gravità ed urgenza,
non ritenendo sufficiente a tal fine il già previsto requisito del pregiudizio
grave ed irreparabile.
5.- Alla fine di questa disamina delle norme riguardanti i procedimenti abbreviati è possibile trarre delle conclusioni, da considerare del tutto provvisorie, tenuto conto della novità della disciplina.
Non vi è dubbio che la previsione di riti alternativi ed abbreviati, se estesamente applicata, potrà velocizzare il processo amministrativo, sgravandolo della zavorra dei ricorsi ripetitivi e talvolta anche pretestuosi.
In particolare, la previsione di cui all’art. 9 della legge (e cioè la possibilità di decidere già in camera di consiglio tutti i ricorsi “manifestamente” fondati, infondati, irricevibili, inammissibili od improcedibili) può costituire l’arma in più di cui il giudice amministrativo ormai dispone per decidere velocemente tutti quei ricorsi che appaiono ictu oculi fondati infondati o per i quali esistono questioni pregiudiziali talmente evidenti da precludere l’esame del merito. In tal modo si eviterà quella inutile duplicazione che è costituita dalla fissazione di una udienza di merito in tutti quei casi in cui già in sede di esame della domanda di sospensione la causa sembra matura per la decisione. L’applicazione della norma in questione dipenderà, in ultima analisi, dall’interpretazione che i giudici amministrativi daranno alla parola “manifestamente”.
Di contro non sembra da salutare con favore l’ulteriore allargamento dei canali preferenziali previsti per alcune tipologie di controversie ritenute dal legislatore più importanti di altre ed in generale la previsione di termini espressamente ridotti non solo per i difensori ma per gli stessi giudici nonché di requisiti particolarmente stringenti e, sotto alcuni profili, irrazionali per la concessione di misure cautelari per alcuni tipi di controversie.
In particolare, la previsione per i procedimenti speciali dell’obbligo – nel caso di accoglimento della domanda di sospensione - di fissare la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza nonché (per i ricorsi avverso il silenzio) di decidere i ricorsi stessi entro 30 giorni dal loro deposito, finirà per impegnare duramente i giudici amministrativi; e ciò a scapito delle altre controversie, specie di quelle in atto pendenti.
Quali saranno le sorti di questa riforma? Difficile prevederlo (i bilanci si faranno tra qualche anno), anche se sembra possibile già intravedere un processo a due velocità.
La riforma appena varata prevede infatti tempi stringenti per i ricorsi in materia di silenzio-rifiuto e silenzio-rigetto (vanno decisi entro 30 giorni, ai sensi dell'art. 2) nonché per i c.d. procedimenti speciali (i quali abbracciano sempre più materie ed hanno un canale preferenziale, ai sensi dell'art. 4). Tutto ciò andrà a scapito dei ricorsi in atto pendenti.
Né comunque il ridotto ampliamento degli organici e la norma "barbara" della perenzione automatica dei ricorsi ultradecennali (la cui attuazione comporterà un turbine di biglietti di segreteria e di carte bollate, nonché l'affannosa ricerca dei clienti) sembrano in grado di risolvere in tempi rapidi il problema dell'imponente arretrato. Occorre peraltro considerare che la maggior parte degli oltre 800.000 ricorsi pendenti non risale a più di dieci anni addietro e per tali ricorsi, quindi, la perenzione automatica finirà per non operare.
Per l'arretrato occorreva quindi prevedere qualcosa di più e di diverso (ad es. l'istituzione di sezioni stralcio, affidando la decisione delle controversie a giudici monocratici; non si vede infatti perché la tutela dei diritti soggettivi di competenza dell'A.G.O. possa essere affidata in primo grado a giudici monocratici, mentre altrettanto non possa essere previsto per i giudizi amministrativi, specie per quelli meno recenti).
La definizione dei nuovi giudizi, di contro, trarrà sicuramente grande beneficio non solo dalla possibilità di emettere sentenze in forma semplificata (art. 9 della legge), ma soprattutto dalla possibilità per il G.A., accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria ed ove ne ricorrano i presupposti, di decidere già in camera di consiglio il merito della controversia.
La nuova legge ha invece sprecato una occasione, che era quella di ridefinire meglio i contorni della nuova giurisdizione esclusiva ex artt. 33 e 34 del D.L.vo n. 80/1998. Riproponendo tali articoli pressocchè immutati si sanerà il vizio di eccesso di delega rilevato recentemente dalla Corte costituzionale (sentenza n. 172 del 17 luglio 2000), ma rimarranno impregiudicati i problemi interpretativi che le richiamate norme avevano posto (basti pensare, ad esempio, alla situazione di incertezza che ancora permane per ciò che concerne le controversie in materia di occupazione acquisitiva).
Anzi, sotto alcuni profili, la nuova legge pone nuovi problemi (il riferimento è in particolare alla previsione dell’art. 4 della legge secondo cui sono soggetti al procedimento speciale ivi disciplinato anche le controversie riguardanti “la fase esecutiva” dei contratti di appalto di oo.pp., di servizi e forniture).
Concludo questo breve intervento nel modo poco originale con il quale talvolta terminano le tesi di laurea e cioè un auspicio.
Mi auguro che coloro che sono incaricati di dare attuazione alla riforma (e cioè i giudici e gli avvocati) cerchino di utilizzare appieno i nuovi strumenti che sono ormai disponibili per velocizzare il processo amministrativo e non rimangano imbrigliati nelle maglie dei (pur stringenti) termini ed adempimenti che sono previsti. L’auspicio vale ovviamente per le nuove controversie.
Per gli oltre 800.000 ricorsi pendenti non rimane invece che sperare nella Divina Provvidenza, la quale si incaricherà di eliminare col tempo se non i ricorsi, almeno i ricorrenti.
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[1] Sui quali v. la recente monografia di F. CARINGELLA e F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano 1999 ed ivi ulteriori riferimenti.
[2]
V. per tutti F. BENVENUTI, voce “Processo amministrativo
(struttura)”, in Enc. Dir., vol. XXVI, Milano 1987, p. 460 ss.;
ma v. già dello stesso A. Struttura del processo amministrativo e
decadenza per mancato deposito dell’atto impugnato, in Giur. Compl.
Cass. Civ.,
1951, XXX, p. 1256 ss.
[3]
Pubblicata in Foro it., 1987, I,
c. 1350 con nota di C.M. Barone; in
Foro amm. 1987, p. 1343 ss., con
nota di G. Vacirca, Prime
riflessioni sul nuovo regime delle prove nelle controversie in materia di
pubblico impiego; in Dir. proc.
amm. 1987, p.
599 ss., con note di A. Travi,
Garanzia del diritto di azione e mezzi
istruttori nel giudizio amministrativo; sulla sentenza n. 146/1987 v.
C.E. Gallo, Prova
testimoniale e processo amministrativo di giurisdizione esclusiva, e F. Saitta,
Nuovi orientamenti in tema di mezzi di
prova del contenzioso sul pubblico impiego; sul punto v. anche G. Verde,
La Corte costituzionale e la disciplina delle prove nel processo del
pubblico impiego, in Riv. dir.
proc. 1987, p. 704 ss.; M.E. Schinaia,
Nozioni sul regime probatorio nelle
controversie di pubblico impiego dopo la sentenza della Corte costituzionale
n. 146 del 1987, in Dir. proc.
amm., 1988, p. 8 ss.; Id, Notazioni
ulteriori sul regime probatorio
nelle controversie di pubblico impiego, in Rass.
Cons. Stato, 1988, II, p. 1507 ss.; G. Serio,
Brevi note sul nuovo sistema
probatorio nelle controversie di pubblico impiego, in Foro amm. 1988, 1282; L. Carbone,
Giurisdizione esclusiva e mezzi istruttori del giudice amministrativo nel
sindacato di legittimità, in Foro
amm. 1987, p. 2503 ss.; M.G. Antoniucci,
L’istruzione probatoria nelle controversie di pubblico impiego, ivi,
1988, p. 824 ss.; I. Franco, Il processo in materia di pubblico impiego fra legislazione e
giurisprudenza, ivi, 1988, p.
1610 ss.; Id., Istruzione
probatoria e struttura del processo amministrativo dopo la sentenza n. 146
del 1987 della Corte costituzionale, in Rass.
Cons. Stato, 1988, II, p. 899 ss.; L. Montesano
e R. Vaccarella, Diritto
processuale del lavoro, 2° ed., Napoli, 1989, p. 300 ss.; R. Vivenzio,
Ampliamento dei mezzi istruttori,
processo amministrativo, connotati della giurisdizione, in Quad.
reg. 1988, 65; S. Veneziano,
L’istruzione probatoria nel contenzioso sul pubblico impiego, in Nomos,
1989, fasc. 2, p. 97 ss.; P. Citarra, Sul sistema probatorio nel processo amministrativo,
in Nuova Rass.,
1990, p. 289 ss.
[4] Per una valutazione positiva della funzione svolta dall’art. 28, 1° comma, del regolamento del 1907, v. tuttavia Acquarone L., Il sistema probatori., p. 147 ss., il quale afferma che: «Sarei irriconoscente se non ammettessi che questa norma è stata in tanti casi preziosa, perchè, anche alla luce di rapporti tra giudici ed avvocati, ed avvocati tra loro che caratterizza l’atmosfera di Palazzo Spada, essa ha accelerato molti processi evitando di attendere la pubblicazione della sentenza interlocutoria»; ma non sempre quel fair play che caratterizzava in passato i rapporti fra avvocati amministrativisti e tra questi ed i giudici si ritrova davanti agli odierni Tribunali e, per quel che qui più rileva, la norma finiva per gravemente condizionare l’emanazione di un provvedimento istruttorio al consenso di entrambe le parti, senza che fossero precisate nel contempo le modalità per fare constatare il consenso.
[5] Adunanza generale, parere n. 83/A, del 4 giugno 1924 (in Archivio centr. Stato; cfr. sul punto Stumpo, I poteri istruttori del presidente, in Foro it., 1970, V, c. 94-95; A. Ingrassia, I poteri istruttori del Presidente del Tribunale amministrativo, cit., p. 114); in tale parere, in particolare, si affermava che: «Occorre evitare che, non istruito, il ricorso sia portato in udienza per la discussione. Occorre quindi provvedere perché l’istruttoria si compia prima e senza pesanti e costose formalità, anche indipendentemente dalla richiesta delle parti, per iniziativa del giudice in camera di consiglio e sulla base di semplice ordinanza che egli emetta, non preceduta dalla pubblica discussione. Propone quindi il consiglio, sostanzialmente, di dividere in due parti il procedimento: il primo si svolgerà in camera di consiglio ad opera del presidente; il secondo in udienza davanti al collegio. Depositato il ricorso, il presidente se ne investe e successivamente dà tutti i provvedimenti del caso perché sia completamente istruito, ordinando anche, eventualmente, la rinnovazione del ricorso stesso o della notificazione o l’integrazione del giudizio e disponendo il deposito di documenti e la raccolta di mezzi istruttori. Quando poi egli creda il ricorso istruito, lo assegna ad una udienza, designando il relatore». Si proponeva in tal modo di istituire un sistema - ancorché imperfetto - di processo a doppia verifica, e la scissione di esso in due fasi, delle quali la prima non era preordinata solo alla raccolta del materiale probatorio, ma anche ad un primo controllo sui c.d. presupposti dell’azione (regolarità della notifica ed integrità del contraddittorio).
[6] Cfr. in termini riassuntivi, con una ampia disamina della varie opinioni dottrinali a suo tempo espresse, Stumpo, I poteri istruttori del presidente di sezione, cit., c. 100 ss.; i contrasti interpretativi circa la portata innovativa dell’ultimo comma dell’art. 44 ed in particolare circa la natura del rinvio in esso contenuto alle disposizioni regolamentari (se cioè se quest’ultimo rinvio doveva intendersi riferito alle norme regolamentari contenute nel regolamento di procedura del 1907 che subordinavano l’emissione dell’ordinanza presidenziale istruttoria al raggiungimento dell’accordo fra le parti, ovvero a norme regolamentari da venire, con conseguente svincolo dalla necessità dell’accordo), hanno finito per riflettersi anche all’interno del Consiglio di Stato; più precisamente, mentre la Sez. VI ritenne che l’esercizio dei poteri presidenziali istruttori non era vincolato all’istanza ed all’accordo tra le parti, le Sez. IV e V, aderendo all’orientamento maggioritario della dottrina del tempo, continuarono a ritenere necessaria, per l’esercizio dei poteri presidenziali, la istanza e l’accordo.
La questione tuttavia ha ormai valore prevalentemente teorico, atteso che, come chiarito in precedenza, la legge istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, ha svincolato i poteri istruttori presidenziali dal raggiungimento dell’accordo; il problema interpretativo potrebbe porsi ancora per il giudizio innanzi al Consiglio di Stato; la giurisprudenza tuttavia è consolidata ormai nel ritenere che l’esercizio del potere del Presidente di Sezione del Consiglio di Stato sia vincolato alla presenza di una istanza ed al previo raggiungimento dell’accordo; non è mancato tuttavia in dottrina chi ha recentemente continuato a sostenere che l’inciso «secondo le norme stabilite dal regolamento» contenuto nell’ultimo comma dell’art. 44 del T.U. cit., è riferita agli emanandi regolamenti e non già al vecchio regolamento del 1907, e l'applicabilità della norma non è subordinata al raggiungimento di un accordo: cfr. sul punto A. Ingrassia, I poteri istruttori del Presidente del Tribunale amministrativo, cit., p. 115.
[7] Contra però Benvenuti, La fase istruttoria nel processo amministrativo, in Problemi del processo amministrativo, Milano 1964, p. 75; id., voce «Contraddittorio (diritto amministrativo)», in Enc. dir., vol. IX, p. 738 ss. e Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, cit., p. 380, nota 1, i quali avevano osservato che l’art. 28 costituiva solo uno dei casi in cui il presidente può emanare un provvedimento istruttorio prima della discussione del ricorso ed esso non impedisse che il presidente potesse provvedere anche in difetto dell’adesione delle controparti.
[8] V. sul punto amplius M. Nigro, L’ammissione delle prove nel processo davanti al Consiglio di Stato: poteri collegiali e poteri presidenziali, in Foro amm., 1966, III, p. 221 ed in Scritti in memoria di A. Giuffrè, III, Milano, 1967, p. 723 ss.; Migliorini, L’istruzione nel processo amministrativo di legittimità, cit., p. 58, nota 58; Id., Il contraddittorio nel processo amministrativo, Padova,1984, 27 ss. Osservava in particolare Benvenuti (voce «Istruzione del processo amministrativo», cit., p. 210): « E’ inutile dire come questa nuova prassi non possa non trovare la piena approvazione di quanti hanno a cuore un andamento rapido del processo amministrativo ed il rispetto del contraddittorio, tanto più in presenza dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il termine previsto dall’art. 37 t.u. Cons.St. per la produzione dei documenti è stato considerato ordinatorio e non perentorio. Nè la nuova prassi può considerarsi illegittima non solo perchè essa corrisponde al valore più vero del metodo acquisitivo; non solo perchè essa trova fondamento nello stesso art. 44 t.u. Cons. Stato; ma anche perchè essa consente di individuare un luogo nel quale sulle istanze di una parte sia possibile ottenere l’adesione delle altre».
[9] La questione venne approfondita nel corso di due successivi convegni di studi sui «Problemi del processo amministrativo» sul progetto Roherssen-Giucciardi, organizzati a Varenna nel settembre 1963 e nel settembre 1964 (cfr. Atti del IX Convegno, Milano, 1964, p. 232 e 312 e Atti del X Convegno, Milano, 1965, p. 124 ed in particolare l’intervento di A. Sorrentino, in Atti del IX Convegno, cit.,p. 151 ss. e di De Marco, Intervento al X Convegno, in Atti, cit., p. 124 ss.) soprattutto per rendere operante l’art. 28 del regolamento di procedura (il quale, com'è noto prevedeva - secondo la interpretazione comunemente accolta all’epoca a cui ci riferiamo - l’accordo fra le parti quale necessario presupposto per l’attivazione dei poteri istruttori del Presidente del Collegio; accordo che comunque doveva essere reso davanti al Collegio od al Presidente). In tale udienza preliminare, che secondo una prima proposta doveva essere svolta davanti al Collegio, ma che poi si ritenne potesse essere svolta davanti al Presidente, la comparizione della parti doveva essere ritenuta comunque facoltativa e la mancata adesione di una della parti alle richieste istruttorie avanzate dall’altra parte, rendendo impossibile l’accordo presupposto dall’art. 28 del regolamento di procedura, avrebbe impedito al Presidente o al Collegio l’emissione di un provvedimento istruttorio di ufficio. Tale circostanza, come rilevato da Stumpo (I poteri istruttori del presidente di sezione nel processo dinnanzi al Consiglio di Stato, cit., c. 89 ss. ed in part. alla nota 5) «spiegano perchè la proposta di udienza istruttoria collegiale, ancorchè segnalata con circolare interna ai presidenti delle sezioni giurisdizionali, non ha mai avuto, per quanto consta, attuazione concreta».
[10] L’idea venne caldeggiata da Nigro, L’ammissione delle prove nel processo davanti al Consiglio di Stato: poteri collegiali e poteri presidenziali, in Foro amm., 1966, III, p. 221 ed in Scritti in memoria di A. Giuffrè, III, Milano, 1967, p. 723 ss., secondo il quale l’iniziativa presidenziale di convocare davanti a sè le parti al fine di emettere una ordinanza collegiale istruttoria, «si riallaccia alla volontà normativa propria dell’art. 28 {1° comma, del regolamento di procedura) e, al di là di essa, alla funzione del presidente (della magistratura o del collegio) di assicurare un ordinato e sollecito svolgimento del processo, esperendo in via informale (anzi, meglio in via informale) il raggiungimento di tale risultato nel rispetto delle competenze e dei diritti dei litiganti»; tuttavia lo stesso A. era costretto ad ammettere che la convocazione delle parti effettuata in via informale da parte del Presidente, «per saggiare la possibilità di emanare una ordinanza di esibizione dei documenti ex art. 28, 1° comma, del regolamento di procedura», in mancanza delle parti o nel caso di loro contrasto, si sarebbe risolta in un nulla di fatto; in questi casi infatti sulle istanze e necessità istruttorie deciderà il collegio». Con ciò ammettendo la pratica mancanza di funzionalità di tale udienza, la cui utilità era rimessa in definitiva alla duplice condizione che le parti fossero state presenti e che avessero raggiunto un accordo sui mezzi istruttori richiesti. E ciò a prescindere dal problema, di carattere preliminare, se una siffatta udienza «informale», non prevista da alcuna norma e non assistita da alcuna garanzia, poteva realmente svolgersi. Problema al quale altri Autori (Stumpo, op. ult. cit., nota 5), avevano dato risposta negativa.
[11] Per una disamina di tali procedure fa rinvio al già citato lavoro di F. CARINGELLA e F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano 1999.