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GIOVANNI VIRGA

Motivazione successiva e tutela della pretesa
alla legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo

(pubblicato in Dir. proc. amm. 1993, pag. 507 ss.)

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1.– La esigenza (divenuta sentita e largamente diffusa sotto la spinta di recenti fatti di cronaca) di superare le varie barriere formali che impediscono l’accertamento giudiziale della realtà, pur senza pregiudicare le garanzie sostanziali riconosciute alle parti interessate, impone di verificare la fondatezza delle ragioni addotte da coloro che affermano esistere un divieto per l'Amministrazione di integrare nel corso del giudizio la motivazione del provvedimento impugnato; l'asserita esistenza di tale divieto, infatti, molto spesso impone al giudice di emettere pronunce meramente formali di annullamento per difetto di motivazione, le quali non precludono poi all'amministrazione di reiterare lo stesso provvedimento annullato in sede giurisdizionale con una nuova motivazione.
Lo spunto per riesaminare la questione della c.d. «motivazione successiva» [1] è offerto da alcune recenti pronunce con le quali è stato affermato che l’amministrazione chiamata in causa può integrare con successivo provvedimento la motivazione del provvedimento impugnato [2] e può comunque chiarire - anche attraverso i suoi scritti difensivi - i presupposti su cui si fondano i provvedimenti vincolati emessi [3].
Com’è noto, secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza [4], invece, la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere modificata o integrata in sede di impugnativa giurisdizionale [5], non potendo l'Amministrazione addurre dopo la proposizione del giudizio le ragioni che avrebbe potuto porre a fondamento del provvedimento impugnato [6].
Secondo il medesimo orientamento, il giudice amministrativo deve annullare per carenza di motivazione il provvedimento impugnato in sede giurisdizionale, anche se nel corso del giudizio l'amministrazione abbia dato atto delle ragioni che la indussero ad emanare il provvedimento stesso [7].
Il limite di discrimine sarebbe costituito dalla data di proposizione della domanda giudiziale, la quale precluderebbe all'amministrazione di integrare (non solo mediante gli scritti difensivi, ma anche con autonomo provvedimento) la motivazione originariamente contenuta nel provvedimento impugnato [8].
Com'è stato giustamente notato recentemente da parte dottrina [9], l'orientamento tradizionale della giurisprudenza che esclude la possibilità di integrare la motivazione dei provvedimenti amministrativi dopo la proposizione del ricorso, più che corrispondere ad un motivato convincimento dei giudici amministrativi, sembra piuttosto essere frutto di una «acritica adesione ad una impostazione tralaticia», in considerazione della «sostanziale mancanza di argomentazioni a suffragio di un simile asserto, comunemente sostenuto tramite il richiamo alla “costante giurisprudenza”».
Invero, se si esaminano le innumerevoli pronunce in materia, si può constatare che la maggior parte di esse si limitano ad enunciare il principio della impossibilità di integrare la motivazione dopo la proposizione del giudizio [10], mentre solo alcune contengono degli accenni (peraltro nè univoci, nè tantomeno esaustivi) alle ragioni che giustificano tale orientamento.
Così, per giustificare il divieto di integrare la motivazione originaria che sussisterebbe indifferentemente sia nei confronti dell'Amministrazione, che per coloro che la difendono in giudizio, si fa in talune sentenze riferimento al «principio di inammissibilità della sanatoria processuale degli atti gravati» [11], ovvero al principio secondo cui «la motivazione precedere e non seguire la parte dispositiva del provvedimento» [12] e comunque «non può essere sanata con integrazioni giudiziali» [13], le quali «non sono imputabili all'organo di amministrazione attiva che è l'unico competente a pronunciarsi» [14].
Si tratta, com'è evidente, di giustificazioni eterogenee, le quali finiscono per accomunare ipotesi diverse (e cioè la possibilità per l’amministrazione con autonomo provvedimento di integrare la motivazione, con quella del difensore dell’amministrazione di integrare la motivazione mediante gli scritti difensivi), facendo riferimento all’esistenza di principi del tutto indimostrati (qual è il principio di inammissibilità della sanatoria processuale degli atti gravati) ed a constatazioni del tutto ovvie (qual è quella secondo cui la motivazione deve precedere e non seguire la parte dispositiva del provvedimento).
2.– Il prevalente orientamento della giurisprudenza - come già cennato - è stato disatteso di recente da alcune pronunce [15], particolarmente argomentate, con le quali è stata affermata (sia pure con le limitazioni e le puntualizzazioni di cui si darà conto) la possibilità per l'Amministrazione di integrare la motivazione dei propri provvedimenti nel corso del giudizio.
Alcune di tali pronunce fondano esplicitamente il loro orientamento su di una mutata concezione dell'oggetto del processo amministrativo [16], il quale non costituirebbe più un giudizio sull'atto impugnato, nel quale la res litigiosa è cristallizzata nell'atto stesso.
L'oggetto del giudizio amministrativo, invece, sarebbe più propriamente costituito dalla stessa «pretesa sostanziale che la parte ricorrente fa valere nel processo» [17] e comunque dalla «pretesa con cui il ricorrente allega, per i motivi da lui indicati, l'illegittimità di un provvedimento amministrativo, chiedendo la conseguente rimozione della situazione antigiuridica da esso creata» [18].
Venuta meno la originaria concezione che riteneva immutabile il provvedimento impugnato così come rappresentato nell'atto che lo racchiudeva, sarebbe conseguentemente venuto meno il «presupposto sistematico» o comunque la «giustificazione» che faceva discendere come logico corollario della concezione stessa il divieto per l'Amministrazione di potere utilmente modificare nel corso del giudizio il provvedimento impugnato, integrandone la motivazione.
In senso analogo sembra orientarsi una parte della dottrina [19], la quale sostiene che «una visione sostanzialistica dell'oggetto del giudizio amministrativo consentirebbe di superare anche l'attuale orientamento, in base al quale, con inutile spreco di attività processuale, è possibile pervenire all'annullamento degli atti per meri vizi di forma o per difetto di motivazione, il che potrebbe invece evitarsi ove potesse accertarsi in giudizio che dai predetti vizi non sia derivata alcuna concreta lesione degli interessi del ricorrente».
Tali considerazioni, tuttavia, più che una reale giustificazione del mutato orientamento in ordine alla ammissibilità o meno della c.d. motivazione successiva, sembrano esprimere una esigenza da tempo peraltro rappresentata dalla dottrina più attenta [20], di trasformare un giudizio, qual’è quello amministrativo, originariamente previsto per verificare la legittimità formale dei provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa, in un giudizio di accertamento del reale assetto di interessi sottoposto allo scrutinio del giudice amministrativo.
Le considerazioni in questione, pertanto, sembrano costituire non già un elemento portante che giustifica l'ammissibilità della c.d. motivazione successiva, ma piuttosto lo sfondo entro il quale si collocano o comunque la generale esigenza che esprimono le recenti pronunce di ammissibilità.
Non vi è dubbio infatti che lo strumento processuale così com’è stato originariamente concepito e come talvolta viene ancora oggi utilizzato non soddisfa più la esigenza fondamentale di dare alla controversia un reale e duraturo assetto e che l’esistenza di un divieto di integrazione ex post della motivazione contrasta vivamente con la tendenza di non fornire protezione ai c.d. «interessi illegittimi» [21] e più in generale agli interessi legittimi meramente formali (od indiretti) [22], e cioè a quegli interessi legittimi che sono sganciati da un sottostante interesse materiale protetto o addirittura in contrasto con esso. Nè lo strumento del giudizio di ottemperanza, nonostante gli ampliamenti che nel corso del tempo ha subìto ad opera della giurisprudenza pretoria del Consiglio di Stato, può supplire alle strettoie in cui è ancora in atto costretto il giudizio di cognizione.
Tali considerazioni tuttavia, come già rilevato, più che costituire una reale giustificazione del mutamento dell’indirizzo prevalente, sembrano esprimere una esigenza (o, se si vuole, una tendenza) che non può necessariamente produrre ex se determinate conseguenze.
Nè comunque la definizione dell'oggetto del giudizio amministrativo, concepito di recente in alcune pronunce del Giudice delle leggi come strumento «di controllo della legalità dell'azione amministrativa, attraverso la valutazione dell'esercizio della discrezionalità amministrativa» [23] e comunque di «sindacato sull'esercizio del potere» [24], per vastità del tema, può costituire un sicuro ed unico fondamento per affermare l'ammissibilità della motivazione ex post del provvedimento impugnato.
Analoghe considerazioni possono essere svolte nei confronti di coloro che, ex adverso, ritengono inammissibile la c.d. motivazione successiva, facendo leva sul carattere solo indiretto del sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi [25], affermando che nell’ipotesi in cui tale sindacato «vertesse sull’esistenza obiettiva della fattispecie - se, cioè, sull’organo pubblico incombesse un pieno dovere di verità - non sarebbe giustificato negare all’amministrazione la facoltà di addurre in giudizio ogni mezzo per dimostrare le proprie conclusioni»; con la conseguenza di ritenere ammissibile la integrazione ex post della motivazione, nelle ipotesi in cui sia ammesso un sindacato diretto da parte del giudice.
 Preferibile sembra piuttosto, per dare un supporto teorico alla possibilità di integrazione della motivazione nel corso del giudizio, verificare analiticamente gli argomenti che sono stati adotti per sostenere l’una o l’altra tesi e quale sia l’esatta portata e funzione della motivazione dei provvedimenti amministrativi.
Il procedimento da seguire è quindi inverso rispetto a quello fin qui molto spesso impiegato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali fanno discendere la possibilità o meno di integrare la motivazione del provvedimento amministrativo nel corso del giudizio da una determinata premessa dogmatica (qual’è appunto la definizione dell’oggetto del giudizio amministrativo). E’ invece sul piano più prosaicamente positivo che occorre verificare se sussistono ragioni che impediscono o meno all’amministrazione di integrare la motivazione del provvedimento nel corso del giudizio; ed è solo allorchè si sia data una soluzione positiva o negativa al problema che si potrà considerare tale soluzione come un elemento che contribuisce a definire l’esatto oggetto del giudizio amministrativo.
3.- Un primo argomento che viene solitamente addotto da una parte della dottrina [26] e della giurisprudenza per sostenere l’impossibilità di integrare la motivazione nel corso del giudizio sarebbe costituito dalla necessità di assicurare il rispetto del principio costituzionalmente garantito di parità delle parti nel processo amministrativo.
Secondo tale orientamento, infatti, la possibilità di integrare ex post la motivazione del provvedimento impugnato finirebbe per porre l’amministrazione in una posizione di ingiustificato privilegio, consentendo a quest’ultima - per così dire - di “aggiustare il tiro” una volta che siano state proposte le varie censure.
L’obiezione tuttavia non sembra insuperabile, atteso che - in presenza di una motivazione sopravvenuta - al ricorrente è pur sempre consentito proporre ricorso per motivi aggiunti e, nell’ipotesi in cui l’integrazione postuma determini la cessazione della materia del contendere, agire nei confronti del funzionario responsabile per il risarcimento dei danni [27].
Nè può essere seguita la tesi (che costituisce una variante della precedente) secondo cui [28] ammettere l’integrabilità ex post della motivazione, si risolverebbe non già in un accrescimento, sibbene in «una diminuzione sostanziale delle garanzie poste a tutela della parte ricorrente»; l’esigenza di accrescere le garanzie ed i risultati perseguibili - secondo tale visione infatti - «non sembra invece essere soddisfatta qualora si consenta all’amministrazione di sanare in corso di giudizio un vizio di forma, che incide però sulle potenzialità difensive del ricorrente».
Se l’annullamento di un atto per difetto (assoluto o relativo) di motivazione si concreta - come pur si ammette - nell’annullamento di un atto per «vizio di forma», annullamento che lascia libera l’amministrazione di provvedere nuovamente con un nuovo provvedimento che integri la motivazione mancante, non si vede perché tale integrazione non possa avvenire nel corso del giudizio senza attendere una pronuncia che, riguardando appunto un vizio eminentemente formale, sarà necessariamente dichiarativa e non già di accertamento.
Invero la principale obiezione che può essere mossa ad entrambe le opinioni sin qui esposte (e cioè a quella che, facendo riferimento alla posizione dell’amministrazione, sostiene che ammettere la integrazione ex post della motivazione finirebbe per porre l’amministrazione in una posizione di invidiabile privilegio e quella che, facendo leva sulla posizione del ricorrente, ritiene che la soluzione affermativa menomerebbe le potenzialità e/o comunque le garanzie difensive del ricorrente) è costituita dal fatto che il divieto di integrare la motivazione nel corso del giudizio costringe il giudice ad emettere una sentenza meramente demolitoria che non preclude successivamente all’amministrazione di integrare la motivazione carente, reiterando lo stesso provvedimento [29].
Si costringe così l’interessato a proporre un doppio giudizio, il primo diretto ad ottenere una pronuncia formale di annullamento, il secondo diretto a sindacare la legittimità del nuovo provvedimento che integra la motivazione [30].
Proprio le ragioni di tutela della posizione del ricorrente nonché di economia processuale dovrebbero quindi indurre a ritenere ammissibile che l’Amministrazione possa integrare la motivazione del provvedimento anche nel corso del giudizio, senza attendere una pronuncia meramente formale del giudice amministrativo che annulla il provvedimento stesso per difetto di motivazione.
D’altra parte la possibilità di proporre ricorso per motivi aggiunti od autonomo ricorso (a seconda che si tratti di atto meramente integrativo o di atto formalmente autonomo) avverso il provvedimento con il quale viene integrata la motivazione, ovvero ancora la possibilità offerta al ricorrente di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del funzionario responsabile (nell’ipotesi in cui il provvedimento sopravvenuto determini la cessazione della materia del contendere), sono argomenti di per sè sufficienti per ritenere non violato il principio di parità delle parti nel processo amministrativo.
4.– Secondo un diverso orientamento la possibilità di integrare la motivazione nel corso del giudizio sarebbe preclusa dal principio di inammissibilità della sanatoria processuale degli atti gravati.
Tuttavia vien fatto di obiettare che nell’ordinamento vigente non sembra rinvenirsi alcuna norma che impedisca la sanatoria degli atti amministrativi nel corso del giudizio; esistono, al contrario, delle norme che ammettono tale possibilità, come quella contenuta nell’art. 6 L. 18 marzo 1968 n. 249, la quale consente di sanare con efficacia retroattiva l'atto viziato di incompetenza relativa, ancorchè quest'ultimo sia oggetto di ricorso giurisdizionale o amministrativo pendente [31].
Se è consentito all’autorità amministrativa competente di “appropriarsi”, mediante convalida, dell’atto emesso dall’autorità relativamente incompetente anche nel corso del giudizio, non vi vede come si possa negare poi alla stessa autorità amministrativa di integrare la motivazione del provvedimento che abbia emesso.
Del resto, la stessa giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto in generale la possibilità per l’Autorità di amministrazione attiva di procedere alla convalida dei propri atti nel corso del giudizio ([32]).
Nè si vede come potrebbe essere negata siffatta possibilità, giacché l’Autorità di amministrazione attiva (a differenza dell’autorità di controllo) non esaurisce il proprio potere con l’emissione dell’atto, nè comunque la proposizione di un ricorso contro l’atto emesso può precludere alla Autorità stessa di esercitarlo, specie allorchè (come avviene nel caso di difetto di motivazione) tale potere sia stato esercitato in maniera incompleta [33].
5.– Per pervenire ad una soluzione soddisfacente del problema occorre innanzitutto chiarire che cosa si intenda realmente per motivazione successiva.
Invero, quest’ultima espressione viene spesso impiegata per  indicare ipotesi diverse tra loro e precisamente:
a) la possibilità (o meno) per l’amministrazione di integrare - con autonomo provvedimento adottato nel corso del giudizio - la motivazione del provvedimento impugnato;
b) la possibilità (o meno) per l’amministrazione di integrare - con gli scritti dei suoi difensori - la motivazione del provvedimento impugnato;
c) la possibilità (o meno) per il giudice amministrativo di fondare il proprio convincimento circa la esistenza e/o l’esatta estensione della motivazione del provvedimento impugnato sulla base di atti che - quantunque non richiamati nella motivazione del provvedimento impugnato - sono ricavabili dal procedimento di formazione dell’atto e sono stati prodotti dalle parti o comunque acquisiti al processo.
Si tratta, com’è evidente, di ipotesi diverse che vanno esaminate partitamente e nei confronti delle quali non è possibile dare una unitaria risposta.
6.– Per quanto concerne innanzitutto il problema dell’ammissibilità di un provvedimento integrativo della motivazione adottato dalla stessa Autorità di amministrazione attiva che ha emesso l’atto impugnato, si può richiamare quanto si è in precedenza detto a proposito dell’inesistenza di un principio che impedirebbe la convalida del provvedimento impugnato nel corso del giudizio.
Invero, la proposizione del ricorso (così come una sentenza meramente dichiarativa che annulla il provvedimento per mancanza di motivazione) non preclude all’amministrazione di integrare la motivazione originariamente carente. Nè (tranne che per gli atti di controllo) l’emissione del provvedimento o la sua comunicazione all’eventuale destinatario comporta l’esaurimento del potere esercitato. Tale potere, al contrario, può essere esercitato nuovamente non solo dopo la emissione di una sentenza meramente dichiarativa dell’obbligo di motivare, ma anche nel corso del giudizio sia in senso favorevole per il ricorrente (e cioè con l’eventuale ritiro dell’atto impugnato e conseguente cessazione del contendere) sia in senso sfavorevole per lo stesso (e cioè emettendo un nuovo provvedimento che si sostituisce al precedente, ovvero procedendo alla convalida del provvedimento impugnato, integrando la motivazione originariamente carente) [34].
In quest’ultima ipotesi la convalida - come già osservato - non comporterà alcuna diminuzione delle garanzie processuali del ricorrente, il quale potrà proporre eventualmente ricorso per motivi aggiunti nei confronti del sopravvenuto provvedimento.
D’altra parte il giudice amministrativo rimarrà libero di valutare il nuovo provvedimento, anche alla stregua della giustificazione che verrà data a quest’ultimo.
Invero tra motivazione e dispositivo del provvedimento amministrativo deve sussistere un nesso causale, non nel senso solitamente inteso in alcune pronunce secondo cui la motivazione deve precedere il dispositivo ma nel senso più profondo che la motivazione, essendo la ragione giustificatrice di un determinato deliberato, deve costituire il presupposto che ha indotto l’amministrazione ad adottare il provvedimento.
Tale nesso causale quantunque non formalmente espresso, deve essere comunque obiettivamente rilevabile dal giudice amministrativo attraverso l’esame del procedimento.
Questo è il dato fondamentale che distingue un provvedimento di integrazione della motivazione (che opera, convalidando il precedente provvedimento, con efficacia ex tunc) da un nuovo provvedimento che, sostituendosi al precedente, opera necessariamente con efficacia non retroattiva.
7.– In termini apparentemente più semplici si pone la questione se l’amministrazione possa integrare la motivazione del provvedimento impugnato tramite gli scritti del proprio difensore.
Al quesito invero - almeno nei termini in cui viene solitamente formulato - non può che darsi risposta negativa, non avendo il difensore dell’amministrazione alcun potere di modificare ed integrare il provvedimento impugnato.
La questione si fa più complessa se il quesito riguardi più propriamente la possibilità del difensore dell’amministrazione di fornire elementi che - quantunque non formalmente richiamati nel testo del provvedimento impugnato - hanno costituito uno dei presupposti sulla base dei quali il provvedimento è stato emesso.
A ben guardare, invero, tale questione concerne non tanto il difensore dell’amministrazione (essendo quest’ultimo liberissimo, al pari dei difensori delle altre parti costituite, di fornire elementi che ritenga rilevanti per la decisione della causa), quanto piuttosto il potere del giudice amministrativo chiamato a decidere di utilizzare tali elementi [35].
Secondo una recente pronuncia del Consiglio di Stato [36], fermo restando il principio per cui il provvedimento impugnato non può ricevere integrazioni di motivazione attraverso gli scritti difensivi, si dovrebbe ritenere che il comportamento processuale della Amministrazione, desumibile anche dagli scritti difensivi da quest’ultima prodotti, possa contribuire - se non ad integrare - quantomeno a chiarire la motivazione delle stesso provvedimento, dovendosi a tal fine distinguere, così come insegnato cinquant’anni fa da Jaccarino [37], tra «motivazione vera e propria» e «giustificazione del potere».
La «motivazione vera e propria», ha la funzione di rendere chiaro ed intellegibile l'iter logico seguito dalla pubblica amministrazione nell’assumere una decisione di contenuto discrezionale.
La «giustificazione del potere» consiste invece non solo nella indicazione delle norme che sovrintendono ad esso, quanto soprattutto nella indicazione del tipo di potere esercitato e dei presupposti di esso.
Secondo tale orientamento, nel caso di atti vincolati, emessi cioè al verificarsi di certi presupposti, non potrebbe coerentemente parlarsi di difetto di motivazione ove non siano indicati i presupposti e le giustificazioni del potere stesso. In tali ipotesi, quindi, il successivo comportamento della pubblica amministrazione, anche desumibile dagli scritti difensivi, sarebbe idoneo non già ad integrare una motivazione che tale strettamente non è, quanto piuttosto puntualizzare il provvedimento stesso nei suoi elementi formali.
E’ stato tuttavia obiettato in proposito [38] che la legge n. 241/1990, nel sancire all’art. 3 l’obbligo di motivare «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale», non segue la distinzione tra «giustificazione del potere» e «motivazione vera e propria», facendo riferimento semplicemente alla motivazione.
Tuttavia, vien fatto di rilevare che la medesima norma - la cui formulazione, com’è stato osservato [39], non è esente da pecche - nel definire la motivazione come l’indicazione dei «presupposti di fatto» e delle «ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria», piuttosto che alla tradizionale nozione di motivazione, sembra fare proprio riferimento - al di là del nomen juris impiegato - alla «giustificazione del potere», concepito come non solo l’indicazione delle norme che sovrintendono ad esso, ma anche come l’indicazione del tipo di potere esercitato e dei suoi presupposti.
Tale «giustificazione del potere», non solo costituisce, come osservato dal Consiglio di Stato nella richiamata pronuncia, l’unico presupposto su cui si debbono fondare i provvedimenti vincolati, ma - ad avviso di chi scrive - rappresenta anche, alla luce della disposizione contenuta nell’art. 3 della L. n. 241/1990, il minimo comun denominatore di tutti i provvedimenti amministrativi (sia essi di carattere discrezionale o vincolato) soggetti all’obbligo previsto dalla richiamata norma.
Solo che per i provvedimenti discrezionali non è sufficiente la sola (pur necessaria) giustificazione del potere (e cioè, per usare l’espressione impiegata dal legislatore, l’indicazione dei «presupposti di fatto» e delle «ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria»), ma è anche necessario un quid pluris, costituito dall’indicazione delle ragioni che hanno indotto l’amministrazione a compiere quella scelta che è caratteristica dell’esercizio del potere discrezionale.
Sotto questa prospettiva verrebbero a risolversi gran parte dei problemi che si è posta la dottrina per dare un significato accettabile alla espressione, contenuta nell’art. 3 della L. n. 241, secondo cui «ogni provvedimento amministrativo .. » (e quindi anche gli atti vincolati) «deve essere motivato».
Al di là di queste considerazioni, le quali meriterebbero un approfondimento che esula dai limiti del presente scritto, deve più propriamente rilevarsi con riferimento al tema qui trattato che le argomentazioni impiegate dal Consiglio di Stato riguardano il profilo prettamente probatorio.
Se il sindacato del giudice amministrativo - com’è ormai generalmente ammesso (al di là delle interessanti disquisizioni teoriche circa l’individuazione dell’esatto oggetto del giudizio amministrativo) riguarda non soltanto il provvedimento impugnato ma anche tutti gli atti del procedimento ad esso presupposti e/o comunque connessi, e se la motivazione (rectius: la giustificazione del potere), secondo quanto espressamente stabilisce lo stesso art. 3 L. n. 241, è ricavabile anche dalle «risultanze dell’istruttoria» amministrativa - non vi è dubbio che il giudice amministrativo ha il potere di prendere in considerazione tutti quegli elementi - sia pur evidenziati negli scritti dei difensori dell’amministrazione, ma pur sempre riscontrabili esaminando le risultanze della istruttoria amministrativa - che costituiscono la «giustificazione del potere» del provvedimento sottoposto allo scrutinio di legittimità [40].

 

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[1] Cfr. in proposito M.S. Giannini (voce «Motivazione dell’atto amministrativo», in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 258 ss., spec. a p. 267; id., Diritto amministrativo, vol. II, Milano 1993, p. 260 ss.), il quale impiega la espressione riassuntiva di «motivazione successiva» per riferirsi al problema dell’ammissibilità o meno dell’integrazione della motivazione con atti successivi.

[2] In questo senso v. da ult. C.G.A., 20 aprile 1993, n. 149; ma v. già in precedenza T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno 1987 n. 648, in Foro amm. 1988, I, p. 3721 ss., con nota di S. D'Alessandro, Obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo ed interesse sostanziale del ricorrente ed in Dir. proc. amm. 1989, p. 470 ss., con nota di P. Bartot, La motivazione tra vizio formale e tutela sostanziale in giudizio. Per un precedente più remoto v. Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 1962 n. 807, in Cons. Stato, 1962, I, p. 1907.

[3] V. in questo senso Cons. Stato, Sez. VI, 19 marzo 1992 n. 174, in Foro It. 1993, III, 176 ss., con nota di richiami; nel senso di ammettere l’integrabilità della motivazione attraverso gli scritti difensivi, sia pur non esplicitamente, sembra orientarsi anche il C.G.A. con la sopra indicata sentenza n. 149/1993.

[4] Tra le più recenti pronunce che affermano l'impossibilità di integrare ex post la motivazione dei provvedimenti nel corso del giudizio v. Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 1990 n. 776, in Cons. Stato 1990, I, 1235; id., 12 ottobre 1990 n. 715, e 13 novembre 1990 n. 782, in Foro amm. 1990, 2333 e 2707; id., 6 giugno 1990 n. 501, in Cons. Stato 1990, I,768;

[5] In questo senso v. in part. Cons. Stato, Sez. IV, 26 giugno 1990 n. 519, in Foro amm. 1990, 1450.

[6] Cons. Stato, Sez. V, 10 giugno 1989 n. 374, in Foro amm. 1989, 1767.

[7] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 1990 n. 22, in Foro amm. 1990, 65 ed in Riv. amm. R.I. 1990, 456.

[8] V. in questo senso in part. Cons. Stato, Sez. V, 23 maggio 1984 n. 396, in Cons. Stato 1984, I, 569, secondo cui «la p.a. ha facoltà di integrare con successivi atti la motivazione di atti precedenti che risulti carente o incongrua: tale facoltà, tuttavia, va esercitata entro breve tempo e comunque non oltre l'avvenuta impugnazione dell'atto in sede giurisdizionale».

[9] A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano 1987, p. 394.

[10] V. in questo senso Cons. Stato, Sez. IV, 26 giugno 1990 n. 519, in Foro amm. 1990, 1450; Sez.VI, 9 ottobre 1989 n. 1312, in Giur. it. 1990, III,1,168; Sez. IV, 5 luglio 1989 n. 449, in Cons. Stato 1989, I,895; Corte Conti, sez. contr., 18 dicembre 1986 n. 1718, in Riv. Corte conti 1987, 483; Cons. Stato, Sez. V, 1 ottobre 1986 n. 482, in Cons. Stato 1986, I,1502; Tribunale sup.re acque, 28 gennaio 1989 n. 4, ivi, 1989, II,108; T.A.R. Lazio sez. I, 1 dicembre 1982 n. 1018, in T.A.R. 1983, I,9; Cons. Stato, Sez. V, 26 marzo 1982 n. 256, in Cons. Stato 1982, I, 313; T.A.R. Sardegna 14 maggio 1980 n. 201, in Foro amm. 1981, I, 1462.

[11] Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 1990 n. 776, in Cons. Stato 1990, I, 1235; Sez. V, 6 giugno 1990 n. 489, in Foro amm. 1990, 1464; Sez. V, 27 febbraio 1990 n. 208, ivi 1990, 409; Sez. V, 16 ottobre 1989 n. 649, in Cons. Stato 1989, I, 1196, che in particolare, alla stregua del principio, ha ritenuto irrilevante la circostanza che la domanda di equo indennizzo era stata presentata in ritardo, dato che di tale circostanza non era sto fatto cenno nel provvedimento di diniego; Sez. V, 14 febbraio 1989 n. 123, in Foro amm. 1989, 157; id., 1 aprile 1989 n. 191, ivi 1989, 981; id., 16 maggio 1989 n. 290, ivi 1989, 1394; id., 22 giugno 1989 n. 391, ivi 1989, 1778; Sez. V, 28 ottobre 1988 n. 638, ivi 1988, 2865; id., 12 maggio 1987 n. 283, ivi 1987, 1036; T.A.R. Marche 8 ottobre 1980 n. 292, in Giur. merito 1982, 716.

[12] Cons. Stato, Sez.V, 6 giugno 1990 n. 501, in Foro amm. 1990, 1465 e Sez. IV, 3 dicembre 1986 n. 812, in Cons. Stato 1986, I,1856.

[13] Cons. Stato, Sez. V, 15 gennaio 1990 n. 22, in Foro amm. 1990, 65 ed in Riv. amm. R.I. 1990, 456.

[14] Cons. Stato, Sez. IV, 3 novembre 1982 n. 712, in Foro amm. 1982, I, 1820 .

[15] Si fa riferimento alle sentenze del T.A.R. Veneto, Sez. I, 10 giugno 1987 n. 648, del Cons. Stato, Sez. VI, 19 marzo 1992 n. 174, e del C.G.A. n. 149 del 20 aprile 1993, già citate in precedenza.

[16] In particolare nella sentenza del T.A.R. Veneto, Sez. I, n. 648/1987 si afferma tra l'altro che: «L'unica seria obiezione che al riguardo (e cioè alla possibilità di integrare ex post la motivazione: n.d.r.) potrebbe muoversi è quella che aderendo a tale impostazione verrebbe consentito ad una delle parti, vale a dire all'amministrazione, di modificare il thema decidendum. Senonchè tale obiezione è giustificata solo enfatizzando l'individuazione dell'oggetto del giudizio nel provvedimento impugnato, mentre è noto che la dottrina e la giurisprudenza sempre più sottolineano che quello viene in rilievo essenzialmente in quanto atto d'esercizio della funzione amministrativa e che l'oggetto reale del giudizio è la pretesa sostanziale che la parte ricorrente fa valere nel processo.».

Nella sentenza del C.G.A. n. 149/1993 similmente si afferma che il giudizio amministrativo non è più un giudizio sull’atto impugnato; invece «il vero oggetto del giudizio è la pretesa con cui il ricorrente allega, per i motivi da lui indicati, l’illegittimità di un provvedimento amministrativo, chiedendo la conseguente rimozione della situazione antigiuridica da esso creata. Sicchè sarebbe venuto meno il presupposto sistematico sul quale si fondava l’orientamento tradizionale» secondo cui sussisterebbe il divieto di integrare la motivazione dopo la proposizione del giudizio.

[17] V. in tal senso la motivazione della sentenza del T.A.R. Veneto n. 648/1987, citata in precedenza.

[18] V. in questo senso la sentenza del C.G.A. n. 149/1993, cit.

[19] V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino 1988, p. 411.

[20] V. per tutti G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano 1980, spec. alle pp. 210 ss.

[21] Cfr. in proposito E. Cannada Bartoli, voce «Interesse (dir. amm.)», in Enc. dir. 1972, vol. XXII, p. 23, il quale rileva che «non possono reputarsi illegittimi ... quegl’interessi che contrastano con la normativa sulla legittimità e per i quali sembra appropriata la qualifica d’interessi illegittimi»; sul punto v. anche S. Giacchetti, L’interesse legittimo alle soglie del 2000, in Giur. amm. sic. 1990, p. 625 ss., spec. a p. 627 ss. il quale aggiunge che si è in presenza di un interesse illegittimo «quando l’utilità pretesa non corrisponda ad una attività che il titolare della potestà può compiere legittimamente, nel soggetto richiedente manca in radice una posizione di interesse legittimo».

[22] S. Giacchetti, L’interesse legittimo alle soglie del 2000, cit., p. 627.

[23] Corte Cost., ord. 21 luglio 1988, n. 867, in Giur. cost. 1987, II, p. 1245 ss. ed in Giur. amm. sic. 1990, p. 82 ss.

[24] Corte Cost., sent. n. 251/1989, in Dir. proc. amm. 1990, p. 111 ss.

[25] F. Levi, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino 1967, p. 498 ss.; sul punto v. anche A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, cit., pp. 395-396, il quale aderisce in parte a tale posizione.

[26] A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo, Milano, 1976 p. 313

[27] V. in tal senso in part. la motivazione della sent. del C.G.A. n. 149/1993, cit., nella quale giustamente si osserva che «tenuto conto sia dell’attuale tenore dell’art. 328 cod. pen., sia delle personali dirette responsabilità previste dal decreto delegato sul pubblico impiego 30 dicembre 1992 n. 503, è estremamente improbabile che una amministrazione maliziosa possa oggi utilizzare il difetto di motivazione in funzione di un esercizio arbitrario della sue potestà».

[28] P. Bartot, La motivazione tra vizio formale e tutela sostanziale, cit., p. 480.

[29] Sui poteri dell'amministrazione a seguito dell'annullamento di un provvedimento per difetto di motivazione v. Cons. Stato, Ad. plen., 26 novembre 1984 n. 664, secondo cui perfino il provvedimento annullato per difetto di motivazione e riadottato «in violazione dei criteri enunciati nel giudicato sarà soggetto all'ordinario regime di impugnazione in quanto sarà pur sempre configurabile un rinnovato esercizio della discrezionalità»; conclusione quest'ultima considerata inaccettabile da R. Villata (Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Studi per il centenario della Quarta Sezione Roma, 1989, p. 949 ss., spec. a p. 955) il quale osserva che se la nuova determinazione si pone in immediato contrasto con una statuizione della sentenza, ne rappresenta una diretta violazione; se invece è scorretta per altri profili, resta esterna all'imperatività dell'intervenuta pronuncia, epperò alla relativa esecuzione. Sul punto v. anche G. Vacirca, Riflessioni sulla natura del commissario giudiziale ad acta, in Foro amm. 1983, I, p. 380

[30] V. in proposito A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., p. 404, il quale afferma che «i vizi della motivazione restano pur sempre vizi formali, e la reiterazione del provvedimento mal motivato deve sempre ritenersi, in linea teorica, ammissibile e comunque non pregiudicata dall’annullamento giurisdizionale».

[31] Per l’applicazione di tale norma v. Cons. Stato, Sez. V, 21 dicembre 1989 n. 863, in Foro amm. 1989, p 3337 ss., che ha conseguentemente dichiarato improcedibile la censura di incompetenza relativa a seguito della sopravvenuta ratifica dell'atto impugnato; Cass. civ., Sez. I, 26 marzo 1988 n. 2593, in Giust. civ. 1989, I,181 ed in Giur. it. 1989, I,1,297, secondo cui l’art. 6 l. 18 marzo 1968 n. 249 - che consente la convalida degli atti amministrativi viziati da incompetenza - trova applicazione non solo in pendenza di gravame in sede giurisdizionale innanzi ai giudici amministrativi, ma anche in caso di controversia avanti all'a.g.o.; T.A.R. Emilia Romagna, Sez. Bologna, 12 febbraio 1986 n. 83, in Foro amm. 1986, p. 1862, secondo cui il principio contenuto nell'art. 6 n. 249/1968 ha efficacia precettiva e carattere generale che trascende la norma che espressamente lo prevede ed il suo ambito applicativo, pertanto, trova applicazione anche nei confronti degli atti regionali.

[32] V. in tal senso T.A.R. Trentino Alto Adige sez. Trento, 10 novembre 1988 n. 387, in Foro amm. 1989, p. 2789 ss. con nota di G. Vesperini, secondo cui «la p.a. può esercitare il potere di sanatoria, di convalida, di rettifica e di annullamento di atti che siano stati impugnati in sede giurisdizionale»; T.A.R. Sicilia, sez. Catania, 18 novembre 1981 n. 528, in T.A.R. 1982, I, 328, secondo cui «l'autorità amministrativa può procedere alla convalida di un provvedimento illegittimo anche se impugnato in via giurisdizionale, mediante un provvedimento che contenga la menzione dell'atto da convalidare, l'indicazione espressa e specifica dei vizi, e la manifestazione di volontà di riparare a tali vizi» e T.A.R. Puglia 5 febbraio 1981 n. 9, in Foro amm. 1982, I, 1615, secondo cui «nell'ordinamento giuridico non è rinvenibile alcuna disposizione normativa o di principio che escluda la rinnovazione di un procedimento amministrativo nella parte ritenuta illegittima, qualora sia pendente un giudizio; anzi va riconosciuta forza espansiva all'art. 6 l. 18 marzo 1968 n. 249 - che consente la convalida degli atti viziati da incompetenza relativa anche in pendenza di ricorso - fino a farne espressione di un principio generale che presiede all'esplicazione dell'azione amministrativa».

In senso diverso, anche se non collidente, v. tuttavia Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 1987 n. 792, in Cons. Stato 1987, I,1767 secondo cui «Alla p.a. non è consentito sacrificare retroattivamente diritti soggettivi dei privati, con atti amministrativi ancorchè emessi in sede di convalida di atti precedenti» (il principio è stato affermato con riguardo a delibere impositive di oneri di urbanizzazione, adottate a convalida di licenze edilizie) e Cons. Stato, Sez. VI, 27 giugno 1978 n. 893, in Giur. it. 1979, III,1,72, secondo cui «La regola secondo cui l'amministrazione non può modificare od integrare, con successive pronunce, gli atti impugnati in giudizio vale solo per gli atti provvedimentali, e non anche per gli altri atti amministrativi».

Nel senso di ritenere ammissibile la convalida dei provvedimenti amministrativi nel corso del giudizio è anche la dottrina più recente: P. Virga, Diritto amministrativo - Atti e ricorsi, Milano 1992, p. 149 (ma vedi già ne Il provvedimento amministrativo, Milano 1972, p. 500-501) e A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, 1989, p. 709. In senso contrario era invece la dottrina precedente: Santaniello, voce «Convalida», in Enc. dir., vol. X, p. 503 ss., spec. a p. 505; Vitta, Diritto amministrativo, Torino 1955, p. 472; Alessi, Principi di diritto amministrativo, Milano 1972, p. 402. Intermedia e convincente ad avviso di chi scrive è la tesi espressa da L. Acquarone, L’attività amministrativa, p. 189, secondo cui la convalida del provvedimento è ammissibile anche nel corso del giudizio purchè siano salvaguardate le situazioni consolidate dei terzi, i quali non possono subire alcun pregiudizio dal provvedimento di convalida.

[33] In tal senso sembra orientarsi M.S. Giannini allorchè afferma (voce «Motivazione dell’atto amministrativo», cit., p. 267) che: «se però si accetti che il provvedimento come tale possa essere integrato da provvedimento successivo (ed è difficile negare che ciò non sia possibile, perchè il principio di autointegrazione vale per tutti gli atti programmatici, escluse le sentenze), non si vede come non possa aversi un’integrazione limitata alla motivazione».

[34] Diverso ma non confliggente orientamento è stato espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione civile per ciò che concerne l’impugnazione di provvedimenti in materia tributaria, essendo stato ritenuto che pur essendo inibito all’Amministrazione finanziaria «di dimostrare la fondatezza della sua pretesa allegando criteri diversi da quelli enunciati nell’avviso di accertamento», l’Amministrazione stessa ha comunque «il potere di rinnovare l’atto entro i termini di legge» (sent. 26 ottobre 1988 n. 5787, in Riv. giur. ed. 1989, p. 208 ss. con nota di C. Pennarola, Motivazione sufficiente, motivazione insufficiente e integrazione della motivazione nel contenzioso tributario avente ad oggetto avvisi di accertamento di valore ai fini dell’imposta di registro e dell’INVIM).

[35] Osserva in proposito M.S. Giannini (voce «Motivazione dell’atto amministrativo», cit., p. 267, nota 24) che la questione se sia possibile per il difensore dell’amministrazione integrare la motivazione mediante gli scritti difensivi - questione alla quale si è dato sempre risposta negativa - così come è solitamente formulata «è mal posta e si risolve in un luogo comune; il problema è solo probatorio, in quanto il provvedimento può essere collegato ad altri provvedimenti, a comportamenti, a prassi, che non sono enunciati in alcun atto del procedimento di formazione ma che, se tuttavia, esistono, e se ne dimostra il collegamento, non danno luogo ad alcuna supposizione del difensore all’autorità».

[36] Si tratta della sent. della Sez. VI n. 174 del 1992, in precedenza citata.

[37] La distinzione tra «giustificazione» e «motivazione», intendendo con la prima riferirsi all’indicazione dei presupposti del provvedimento, e con la seconda alla enunciazione delle ragioni dello stesso, è stata elaborata da C.M. Jaccarino, Studi sulla motivazione, con particolare riguardo agli atti amministrativi, Roma 1933, p. 42 ss., ed è stata seguita dalla prevalente dottrina (cfr. tra gli altri G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, Milano 1936, p. 309; A. Amorth, Il merito dell’atto amministrativo, Milano, 1939, p. 58 ss.; G. Roehrssen, Note sulla motivazione degli atti amministrativi, in Riv. dir. pubbl. 1941, I, p. 121 ss.).

La distinzione stessa è stata impiegata altre volte dalla giurisprudenza amministrativa: v. in part. Cons. Stato, Sez. IV, 6 febbraio 1984 n. 75, in Cons. Stato 1984, I, p. 135 e T.A.R. Sicilia Sez. Catania, 21 ottobre 1981 n. 495, Rass. giur. Enel 1982, p. 664.

Per ulteriori riferimenti e per una critica della concezione v. A. Romano Tassone, op. cit., 12 ss.

[38] Cfr. la nota redazionale alla sentenza del Cons. Stato Sez. VI, 19 marzo 1992 n. 174, pubblicata in Foro It. 1993, III, 176 ss.

[39] V. in tal senso V. Italia, in Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti (a cura di V. Italia e M. Bassani), Milano 1991, p. 43 ss., spec. a p. 56; G. Corso-F. Teresi, Procedimento amministrativo e accesso ai documenti, Rimini 1991, p. 57 ss., spec. alle pp. 63-64; A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi, in Dir. proc. amm. 1993, p. 1 ss.

[40] In questo senso sembra anche orientarsi A. Romano Tassone (op.cit., p. 396 ss.), secondo il quale sarebbe ammissibile la «giustificazione della misura adottata attraverso il richiamo, nel corso del processo amministrativo, ad elementi non desumibili dal procedimento, ma suscettibili di verificazione obiettiva ed in grado di legittimare, su un piano di giuridica necessità, la decisione autoritativa».

Cfr. in proposito anche V. Bongiovanni, Verso una motivazione implicita non desumibile dagli atti del procedimento in assenza di richiamo espresso a fatti ed atti di supporto? (nota a Cons. Stato, Sez. V, 24 maggio 1983 n. 172), in Cons. Stato 1983, II, p. 1615 ss.


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