|
|
ANTONIO VETRO
(Presidente on. della Corte dei conti)
L’arricchimento senza giusta causa. I criteri di calcolo
dell’indennizzo ex art. 2041 c.c. secondo la più recente giurisprudenza della
Cassazione.
Determinazione della "utilitas" per la pubblica
amministrazione: riflessi sulla quantificazione del danno erariale, per
pagamenti indebiti relativi a contratti nulli per violazione di norme imperative
di evidenza pubblica, tenendo conto degli ultimi indirizzi del Consiglio di
Stato.
![]()
La Cassazione, con sentenza n. 5696/2011, ha stabilito che "in tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto d’opera tra la P.A. ed un professionista, l’indennità prevista dall’art. 2041 cod. civ. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace".
Dello stesso tenore è la sentenza n. 3905/2010, secondo cui "essendo pacifico che nel caso di specie si verte in tema di prestazioni effettuate in esecuzione di un contratto di incarico professionale nullo, si rileva che un recente arresto delle Sezioni unite di questa Corte suprema (sentenza n. 1875 del 27.1.2009) ha riaffermato il principio - richiamandosi espressamente a precedenti pronunce (n. 23385/2008 delle stesse Sezioni unite e n. 9243/2000) - secondo cui in materia di azione d'indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all'assenza di un valido contratto d'opera, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito nel caso in cui il contratto d'opera fosse stato valido ed efficace".
Con la sentenza 11.9.2008 n. 23385, le Sezioni unite hanno risolto un contrasto giurisprudenziale nell’ambito delle stesse Sezioni della Cassazione, riguardo ai criteri di quantificazione dell’indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c.
Nel caso esaminato, riguardante un contratto di appalto d’opera, stipulato da un comune con un’impresa, successivamente annullato dal giudice amministrativo, la Corte ha statuito che, nel computo dell’indennità spettante alla stessa impresa per il danno conseguente alla diminuzione patrimoniale subita, non può comprendersi il lucro cessante che sarebbe dovuto nel caso di rapporto contrattuale valido ed efficace, ma solo il danno emergente da dimostrare in termini di effettivo decremento patrimoniale.
La sentenza è di particolare interesse, chiarendo il discrimine, che si era venuto appannando in alcune sentenze della stessa Cassazione, fra l’azione di arricchimento senza giusta causa e le azioni risarcitorie per i casi di responsabilità contrattuale ed aquiliana.
La Corte ha considerato "la chiara lettera della norma, saldamente ancorata alla tradizione romanistica rivolta a riparare il detrimentum sofferto dall’impoverito, attraverso le numerose condictiones indebiti via via apprestate" ed ha "dato atto del significato testuale inequivoco della formula, che trova un significativo completamento nell’espressione "pregiudizio" utilizzata dall’art. 2042 c.c., a riprova dell’intento del legislatore di evitare qualsiasi confusione con il "danno ingiusto" ex art. 2043 c.c., e con le sue componenti. … Finalità sostanziali cui sono rivolte ed ispirate le disposizioni suddette sono di eliminare l’iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione: perciò disposta in funzione e nei limiti dell’arricchimento, e non già in dipendenza di una variabile legata al concreto ammontare del danno subito, come avviene nell’azione risarcitoria. Sicché soltanto questo e non altro può ritenersi il fondamento dell’istituto. … Gli è estraneo il ruolo ... di assicurare all’autore di una prestazione eseguita malgrado l’invalidità di un contratto, il medesimo profitto che avrebbe ricavato nello stesso periodo di tempo da altre attività remunerate.
Esso non tiene in alcun conto che l’attività negoziale della p.a. è soggetta a specifiche condizioni e limitazioni costituite dalle regole c.d. dell’evidenza pubblica che presidiano e condizionano l’attività negoziale della p.a. costituenti un vero e proprio sistema rigido e vincolante. … Le regole suddette, rivolte a sollecitare un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni, sono ricollegabili al buon andamento di dette amministrazioni in un quadro di certezza e di trasparenza e trovano oggi fondamento nello stesso art. 97 Cost..
Si tratta, dunque, di regole assolutamente inderogabili ed aventi forza talmente cogente da invalidare e travolgere qualsiasi convenzione con esse confliggente, per cui è per lo meno illogico utilizzare il rimedio dell’art. 2041 c.c., per renderle inoperanti e ricollocare l’autore della prestazione nella situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo proprio quel contratto che la legge considera assolutamente invalido o addirittura giuridicamente inesistente. … L’obbligazione risarcitoria nell’art. 2043 c.c., nasce da un comportamento illecito che è origine dell’obbligazione in quanto fatto esclusivo causante il danno, laddove con riguardo al rimedio dell’art. 2041 c.c., impoverimento ed arricchimento non sono in rapporto di causa ed effetto, ma sono entrambi due effetti, i quali producono direttamente la nascita dell’obbligazione. … Solo un salto logico può indurre ad attribuire a detta tutela il carattere di rimedio extra ordinem, che, da un lato, comprenda tutti i benefici derivanti da un contratto valido, e dall’altro lo trascenda per aggiungervi anche quelli altrimenti non consentiti dalle condizioni e dai limiti che nell’ordine normativo presidiano l’attività negoziale degli enti pubblici, il che è quanto è avvenuto nella fattispecie. … Proprio per impedire tale risultato … il legislatore, in un’ottica di risanamento delle finanze locali, ne ha radicalmente modificato la possibilità di applicazione nei confronti dei comuni e di altri enti locali.
Ed a partire dalla legge n. 144 del 1989 non ha più consentito il ricorso alla prassi di conferire, senza il rispetto di dette normative, appalti, incarichi e forniture, poi egualmente remunerati con il ricorso alla regola dell’indebito arricchimento, rendendo l’amministratore o il funzionario locale direttamente responsabile del conferimento ed attribuendo all’autore della prestazione le normali azioni contrattuali direttamente nei confronti di costui, con conseguente impossibilità di esperire l’azione di indebito arricchimento senza causa nei confronti dell’ente locale, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
Anche l’interpretazione logico – sistematica dell’art. 2041 c.c., induce, conclusivamente, il Collegio a ribadire che nel periodo antecedente alla legge suddetta il rimedio debba mantenere il carattere di mezzo di tutela residuale e sussidiaria che l’ordinamento mette a disposizione del privato - allorché non dispone nei confronti della P.A. di nessun’altra specifica azione sia essa contrattuale, o al di fuori del contratto - al fine di garantirgli la conservazione della posizione patrimoniale. … Neppure nell’ambito di quest’ultima via, residua perciò spazio per trasformare l’azione restitutoria in un meccanismo rivolto ad assicurare il "giusto corrispettivo" dell’incarico o dei lavori eseguiti; e comunque, più in generale, per garantire gli effetti sostanziali dell’azione contrattuale attraverso l’artificio di valutazioni parametriche.
Ed anche allorché esperita nei confronti della P.A., la depauperazione di cui all’art. 2041 c.c., deve comprendere tutto quanto il patrimonio ha perduto (in elementi ed in valore) rispetto alla propria precedente consistenza, ma non anche i benefici e le aspettative connessi con la controprestazione pattuita quale corrispettivo dell’opera, della fornitura, o della prestazione professionale, non percepito: quale esemplificativamente, il profitto di impresa, le spese generali, nonché ogni altra posta rivolta ad assicurare egualmente al richiedente quanto si riprometteva di ricavare dall’esecuzione del contratto.
Resta da queste statuizioni risolta anche la questione della utilizzabilità della revisione prezzi nella determinazione dell’indennizzo dovuto all’imprenditore che ha eseguito l’opera al di fuori di un valido contratto di appalto. … Dovendo l’indennizzo essere calcolato nei soli limiti in cui la relativa prova era stata fornita … non aveva senso il riferimento al valore dei beni realizzati e dei servizi utilizzabili, né tanto meno all’aumento percentuale dei prezzi correnti di mercato subìto nel periodo considerato, che è lo strumento di analisi tipico dell’istituto contrattuale: anche perché nel caso non poteva esservi il dato iniziale di raffronto solitamente costituito dai prezzi di capitolato, indispensabile per quantificare l’eventuale differenza. … L’istituto (della revisione prezzi) non era applicabile perché ne difettavano i presupposti previsti dalla legge: a cominciare dall’esistenza di un valido contratto di appalto tra le parti, senza il quale dunque il compenso revisionale non poteva essere corrisposto né direttamente, né per via indiretta (Cass. 5951/2008; 10868/2007)".
------------------------------------------
Così sintetizzata, nei passaggi essenziali, la lunghissima sentenza 11.9.2008 n. 23385, appare evidente che la Cassazione, con giurisprudenza consolidata nelle citate sentenze di data recente, in presenza di contratti di appalti o forniture fra privati e pubbliche amministrazioni, affetti da nullità assoluta per violazione delle norme di evidenza pubblica, "regole assolutamente inderogabili, costituenti un vero e proprio sistema rigido e vincolante e ricollegabili al buon andamento di dette amministrazioni in un quadro di certezza e di trasparenza (art. 97 Cost.)", ammette l’indennizzo previsto dall’art. 2041 c.c., nei limiti della depauperazione subita dal privato, con esclusione assoluta dei benefici e delle aspettative connessi con la controprestazione pattuita, con particolare riguardo al "profitto di impresa".
Trasferendoci al settore della responsabilità amministrativa, la cui giurisdizione è devoluta alla Corte dei conti, ai sensi dell’art. 103, II comma, della Costituzione, la giurisprudenza della Cassazione appare illuminante per la determinazione del danno erariale conseguente al pagamento integrale, comprensivo dello "utile d’impresa", della controprestazione al privato prevista da rapporti contrattuali da ritenere radicalmente nulli per violazione delle inderogabili norme di evidenza pubblica.
Ulteriore contributo, al fine indicato, è fornito dalla recentissima sentenza n. 4089, dell’8 luglio 2011, pronunziata dal Consiglio di Stato, secondo cui:
"L’eventuale annullamento o accertamento di illegittimità dell’aggiudicazione è potenzialmente idoneo a produrre effetti caducanti sul contratto stipulato, anche ex tunc (come stabilito dagli artt. 121 e 122 c.p.a.) o a rendere comunque sine titulo il rapporto intercorso tra stazione appaltante e impresa. A dimostrazione dell’interesse dell’aggiudicataria a difendere la legittimità della aggiudicazione in suo favore, il nuovo codice del processo amministrativo ha stabilito che l’eventuale beneficiario dell’atto illegittimo sia parte necessaria del giudizio anche di solo risarcimento (art. 41, comma 2, c.p.a). L’introduzione di tale previsione è stata giustificata con l’esigenza di provocare la formazione del giudicato sull’illegittimità dell’atto anche nei confronti dei suoi eventuali beneficiari, potendo sorgere obblighi restitutori dallo svolgimento di un rapporto reso senza titolo a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione.
La possibilità di obblighi restitutori si evince anche dal considerando 21 della c.d. direttiva ricorsi (direttiva 2007/66/CE dell’11 dicembre 2007, del Parlamento europeo e del Consiglio). … Con tale periodo si ipotizza che la declaratoria di inefficacia del contratto con effetti ex tunc possa comportare il recupero delle somme versate all’aggiudicatario "illegittimo" e ciò può avvenire nei limiti dell’arricchimento. La questione era stata in precedenza solo "sfiorata" dalla giurisprudenza, che aveva invitato ad esplorare il ruolo da riconoscersi alle norme in tema di restituzione dell’indebito, o di arricchimento senza causa (l’indebito sarebbe costituito dall’utile di impresa, che potrebbe così essere in tutto o in parte restituito dalla controparte privata che ha svolto il rapporto sine titulo sulla base di un contratto viziato e successivamente dichiarato inefficace dal giudice; Cons. giust. Sic., 21 luglio 2008 n. 600)".
Come ricordato nel precedente articolo dello scrivente in data 13 giugno 2011, concernente "il danno erariale conseguente alla violazione delle norme comunitarie ed interne di evidenza pubblica", con particolare riguardo al c.d. "danno alla concorrenza", la Sezione Lombardia della Corte dei conti, con sentenza n. 598/2009 (ed altre quattordici di analogo contenuto), ha individuato una fattispecie di danno erariale nella violazione delle regole di evidenza pubblica in un contratto di appalto, per "violazione dei canoni costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), eretti a fondamento della legge sul procedimento amministrativo (art. 1, l. n. 241/1990, testo novellato), di cui l’osservanza delle regole della concorrenza costituisce un elemento di primaria importanza". Riguardo alla quantificazione del danno, la Sezione ha richiamato il criterio "determinato dalla giurisprudenza amministrativa in una percentuale del valore dell’appalto, 10 % o 5 % a seconda che si tratti di appalto di lavori o di forniture di beni e servizi. Trattasi del criterio liquidatorio dell’utile d’impresa, che viene mutuato dalle cause di risarcimento per equivalente, nel caso in cui non sia possibile la reintegrazione in forma specifica della pretesa dell’impresa ricorrente vittoriosa. Esso muove dal presupposto della spettanza, al privato contraente a causa dei vizi della procedura ad evidenza pubblica, del solo arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041 c.c., in luogo del corrispettivo contrattuale. In applicazione di tale criterio, il danno (alla concorrenza), nel giudizio di responsabilità, viene individuato nei pagamenti eccedenti la quota riconducibile all’arricchimento senza causa, sicché l’utile di impresa rappresenta la misurazione di tale eccedenza".
Come appare evidente, il danno individuato dalla Sezione Lombardia nel pagamento al privato dello "utile d’impresa" appare perfettamente in linea con la citata, consolidata giurisprudenza della Cassazione, anche a Sezioni unite, e con la recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato, sulla base delle direttive comunitarie.
Nel precedente articolo è stato ricordato che la sentenza della Sezione regionale è stata tuttavia annullata, con sentenza n. 198/2011, dalla Sezione II centrale la quale, in punto di fatto, ha ritenuto, erroneamente, che il danno rilevato in primo grado non consistesse "nei pagamenti eccedenti la quota riconducibile all’arricchimento senza causa", e quindi nello "utile di impresa" che "rappresenta la misurazione di tale eccedenza", bensì nei maggiori costi derivanti dalle migliori condizioni che l’Amm.ne avrebbe ottenuto da un corretto concorso di più imprese nella gara pubblica, nel rispetto delle norme sulla concorrenza. Dall’erronea premessa la Sezione centrale ha tratto l’erronea conseguenza sul presunto difetto di prova di un danno la cui determinazione è stata arbitrariamente riferita alla Sezione territoriale ed individuata senza alcun fondamento nel "minor prezzo che sarebbe stato ottenibile dal confronto di più offerte".
Nello stesso articolo è anche stato detto che "i principi contenuti nella sentenza d’appello, che ha negato il diritto al risarcimento del danno di cui ha sofferto l’erario, secondo il giudice di I grado, in conseguenza della manifesta violazione delle norme imperative sulla tutela della concorrenza, con conseguente indebita corresponsione di compensi oltre i limiti dell’indebito arricchimento, se ulteriormente confermati, porteranno a conseguenze, che non si ha difficoltà a definire devastanti, soprattutto nei numerosissimi casi in cui la condotta dei pubblici funzionari che hanno alterato il corretto svolgimento delle gare sia caratterizzata da attività criminosa".
Tali conclusioni, alla luce della giurisprudenza citata, vanno ribadite con la massima determinazione. Si esprime quindi l’auspicio che le Procure regionali, malgrado le irrisorie disponibilità di uomini e di mezzi alle quali non si vuole porre riparo, intensifichino la propria azione nei confronti dei pubblici amministratori e funzionari cui sia imputabile, per dolo o colpa grave, l’espletamento di gare in violazione delle norme imperative di evidenza pubblica, con conseguente indebito pagamento di compensi eccedenti "i vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione" (utilitas prevista dall’art. 3 del d.l. n. 543/96, conv. in legge n. 639/96), da cui va, ovviamente, escluso in ogni caso l’utile d’impresa. Tale azione dovrebbe trovare puntuale conferma nelle relative sentenze di condanna, ribaltandosi l’inaccettabile criterio adottato nella, ancora isolata, sentenza d’appello.
Ovviamente, alla responsabilità dei soggetti cui sono imputabili le irregolarità nelle gare, potrebbe aggiungersi la responsabilità di altri pubblici funzionari che abbiano omesso di agire doverosamente nei confronti della "controparte privata che ha svolto il rapporto sine titulo sulla base di un contratto viziato", la quale, come ricordato dal Consiglio di Stato, sarebbe tenuta a restituire l’indebito "costituito dall’utile di impresa".