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Articoli e note

n. 7-8/2004 - © copyright

GIROLAMO SCIULLO
(Ordinario di Diritto amministrativo
nell’Università di Bologna)

Stato, Regioni e servizi pubblici locali

nella pronuncia n. 272/04 della Consulta

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Sommario: 1. Generalità. – 2. I servizi pubblici locali nel quadro delle competenze legislative dell’art. 117 Cost. – 3. L’impiego della ‘illegittimità consequenziale’. - 4. Lo ‘spessore’ del legittimo intervento dello Stato. – 5. L’attuale statuto dei servizi pubblici locali ‘privi di rilevanza economica’. – 6. Un diverso orientamento nella pronuncia n. 26 del 2004?

 

1. Molteplici sono i motivi d’interesse offerti dalla pronuncia n. 272 del 2004 della Corte costituzionale, con la quale sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi l’art. 14, comma 1, lett. e), e comma 2, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. nella l. 24 novembre 2003, n. 326, nonché, per illegittimità consequenziale (ex art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87), l’art. 113, comma 7, secondo e terzo periodo, e l’art. 113-bis del Tuel come innovati dall’art. 35, commi 1 e 15, della l. 28 dicembre 2001, n. 448, tutti in tema di servizi pubblici locali.

Tali motivi vanno dalla collocazione della materia all’interno della trama delle competenze legislative previste dal nuovo art. 117 Cost. agli spazi di intervento legislativo che risultano disponibili per lo Stato e le Regioni, dall’impiego nella sentenza dell’illegittimità consequenziale al ruolo effettivamente ricopribile dalla legge statale e da quella regionale, fino all’assetto attuale dei servizi non di carattere economico per i quali più consistente si palesa l’incidenza degli effetti della pronuncia.

Si tratta di temi, tranne l’ultimo, che investono l’intera materia dei servizi pubblici locali, indipendentemente dalla partizione interna fra servizi ‘di rilevanza economica’ e servizi privi di detta rilevanza, e che richiedono di essere esaminati distintamente anche alla luce di questa partizione.

2. La collocazione dei servizi pubblici locali nel quadro delle competenze legislative fissato dall’art. 117 Cost. emerge chiaramente dall’iter argomentativo seguito dalla Corte. Il giudice costituzionale osserva che la disciplina censurata non appare riferibile né alla competenza legislativa statale in tema di <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali>> (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.), giacché essa <<riguarda precipuamente servizi di rilevanza economica e comunque non attiene alla determinazione di livelli essenziali>>, né a quella in tema di <<funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane>> (art. 117, comma 2, lett. p), Cost.), giacché <<la gestione di detti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria e indefettibile dell’ente locale>>. Viceversa tale disciplina <<può essere agevolmente ricondotta nell’ambito della materia ‘tutela della concorrenza’, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato>> [1]. Peraltro detta riconducibilità è affermata solo per i servizi ‘di rilevanza economica’. Per quelli privi di tale rilevanza il titolo di legittimazione costituito <<dalla tutela della concorrenza non è applicabile …, proprio perché in riferimento ad essi non esiste mercato concorrenziale>> [2].

Sulla scorta di tali affermazioni si può ritenere che, secondo la Corte, relativamente ai servizi ‘di rilevanza economica’, non c’è base per l’intervento legislativo dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost., perché la <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali>> è per così dire estranea a tali servizi, che, quanto ai servizi ‘privi di rilevanza economica’, non c’è del pari titolo ex art. 117, comma 2, lett. e), Cost., perché non si pone un problema di concorrenza, che relativamente, infine, a entrambi i tipi di servizi, il fondamento non è neppure rinvenibile nell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost., la loro gestione non potendosi ricondurre a funzioni proprie e indefettibili dell’ente locale (l’affermazione è testualmente riferita ai servizi ‘di rilevanza economica’, ma non pare dubbio che nel pensiero della Corte valga anche per gli altri: in caso contrario non ci sarebbe stata la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, d.l. 269 e dell’art. 113-bis Tuel).

Non per questo è escluso in assoluto la possibilità d’intervento legislativo statale. Per i servizi ‘di rilevanza economica’, lo Stato può legiferare ex art. 117, comma 2, lett. e), Cost. (<<tutela della concorrenza>>) e, per quelli ‘privi di rilevanza economica’, in forza dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. (<<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni>>). La seconda asserzione non è formulata esplicitamente, ma è implicitamente desumibile dalla pronuncia, giacché l’esclusione di tale titolo legittimante è riferita ai soli servizi ‘di rilevanza economica’ e motivata in ragione del carattere proprio di detti servizi [3].

Riepilogando, il quadro complessivo risulta il seguente. L’intervento dello Stato non trova aggancio, per i servizi ‘di rilevanza economica’, nella competenza in tema di <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni>> e, per i servizi ‘privi di rilevanza economica’, in quella in tema di <<tutela della concorrenza>>, mentre in nessun caso lo rinviene nella competenza in ordine alle ‘funzioni fondamentali’ degli enti locali. Simmetricamente la competenza quanto a <<tutela della concorrenza>> e a <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni>> offre titolo giuridico allo Stato per legiferare a proposito rispettivamente dei servizi ‘di rilevanza economica’ e di quelli privi di tale rilevanza.

La specifica natura delle due materie che costituiscono gli unici titoli –almeno in termini generali- per l’intervento dello Stato, ossia il loro essere ‘materie-trasversali [4], indica che i ‘servizi pubblici locali’ rientrano di per sé nella sfera di competenza residuale delle Regioni ex art. 117, comma 4, Cost. Anche questa conclusione non è esplicitata nella sentenza, ma è indubbio che si desuma inequivocabilmente dall’iter argomentativo e dal dispositivo della pronuncia. Al riguardo possono citarsi i passi in cui il giudice costituzionale, a proposito dei servizi ‘di rilevanza economica’ afferma che <<solo le predette disposizioni [che con carattere generale e a tutela della concorrenza disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali] non possono essere derogate da norme regionali>>, mentre , riguardo ai servizi ‘privi di rilevanza economica’, nota che <<ci sarà dunque spazio per una specifica ed adeguata disciplina di fonte regionale ed anche locale>> [5].

Che le Regioni avessero titolo a legiferare in tema di servizi pubblici locali sotto un profilo organizzativo, che potessero quindi ‘interloquire’ in un ambito dell’assetto ordinamentale di Comuni e Province, non era proprio pacifico nel dibattito acceso dalla riforma del Titolo V [6]. E non si era mancato, anche autorevolmente, di ritenere la competenza legislativa regionale in tema di organizzazione locale preclusa dal congiunto operare della competenza statale ex art. 117, comma 2, lett. p), e di quella statutaria e regolamentare di Comuni e Province ex artt. 114, comma 2, e 117, comma 6, Cost. [7]

La sentenza in commento rappresenta quindi un importante contributo che travalica anche il pur significativo ambito dei servizi pubblici locali per investire il più ampio tema dell’organizzazione di Comuni e Province: un ulteriore passo nella ‘decifrazione’ dei nuovi rapporti fra Regioni e enti lungo un cammino avviato dalla nota giurisprudenza in tema di controlli regionali sostitutivi [8].

Quanto ai limiti cui sono soggette la legislazione statale e quella regionale, la pronuncia n. 272 ben delinea l’ambito dell’intervento statale legittimato dalla <<tutela della concorrenza>>: esso può comprendere sia la <<promozione>> sia la <<protezione>> dell’assetto concorrenziale del mercato, ma la disciplina disposta è tenuta all’osservanza di un criterio di proporzionalità-adeguatezza rispetto agli obiettivi attesi [9]. In ordine alla legislazione regionale sarà in questa sede sufficiente il rilievo che essa dovrà lasciare un congruo spazio alle scelte organizzative dell’ente locale e quindi atteggiarsi fondamentalmente come normazione di principio.

3. Come accennato, la sentenza utilizza la norma dell’art. 27 della l. n. 87/1953 (per i quale la Corte dichiara <<quali sono le altre disposizioni la cui illegittimità discende come conseguenza della decisione adottata>>) per pronunciare l’incostituzionalità dell’art. 113, comma 7, secondo e terzo periodo, e dell’intero art. 113-bis del Tuel nel testo innovato dalla l. n. 448/2001.

Per una migliore comprensione va ricordato che –prima della pronuncia della Corte- l’art. 113, comma 7, del Tuel, dettato in tema di servizi ‘di rilevanza economica’, recitava nel testo sostituito dall’art. 35, comma 1, della l. n. 448/2001: <<La gara di cui al comma 5 [per la gestione della rete, del servizio o di entrambi] è indetta nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali [primo periodo]. La gara è aggiudicata sulla base del miglior livello di qualità e sicurezza e delle condizioni economiche e di prestazione del servizio, dei piani d’investimento per lo sviluppo e il potenziamento delle reti e degli impianti, per il loro rinnovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale [secondo periodo]. Tali elementi fanno parte integrante del contratto di servizio [terzo periodo]. A questi disposti l’art. 14, comma 1, lett. e), del d.l. n. 269/2003 aveva aggiunto un quarto periodo <<Le previsioni di cui al presente comma devono considerarsi integrative delle discipline di settore>>. La sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, lett. e), del d.l. 269/2003, e quindi del quarto periodo dell’art. 113, comma 7, del Tuel nonché, ‘in via consequenziale’, quella del secondo e terzo periodo del comma in questione.

Più ‘devastante’, se così si può dire, l’intervento operato in tema di servizi ‘privi di rilevanza economica’. La Corte non si limita alla pronuncia di illegittimità dell’art. 14, comma 2, del d.l. 269/2003 –che aveva apportato modifiche alla rubrica, al comma 1 (alinea e lett. c)) e al comma 4 dell’art. 113-bis, ma, in via consequenziale, ‘cassa’ l‘art. 113-bis, nel testo introdotto dall’art. 35, comma 15, della l. 448/2001.

Quale il nesso ‘di consequenzialità’ alla base della decisione della Corte? Delle varie ipotesi a cui è riconducibile l’utilizzo da parte del giudice costituzionale della norma contenuta nell’art. 27 della l. 87/1953[10] alcune senz’altro non ricorrono nella pronuncia in esame: non la inoperatività o inefficacia, a seguito della incostituzionalità delle disposizioni denunciate, di quelle colpite da illegittimità consequenziale, né il carattere confermativo, applicativo o meramente ripetitivo delle seconde rispetto alle prime, né il possibile configurarsi di un’’ingiustificata disparità di trattamento’ e neppure il venir meno, con l’illegittimità delle disposizioni denunciate, del formale titolo giustificativo delle altre. Non può neanche pensarsi che la Corte abbia fatto impiego della tesi della ‘reviviscenza’ delle disposizioni abrogate da quelle dichiarate costituzionalmente illegittime, che avrebbe poi ‘colpito’ di incostituzionalità, perché a loro volta illegittime [11]. Questa spiegazione potrebbe pensarsi a proposito dei servizi ‘privi di rilevanza economica’: l’illegittimità determina la reviviscenza delle disposizioni dell’art. 113-bis abrogate dall’art. 14, comma 2, del d.l. n. 269/2003, che però vengono considerate anch’esse costituzionalmente illegittime. Occorre invero tener conto che l’illegittimità in via consequenziale travolge i commi 2 e 3 dell’art. 113-bis non toccati dalla precedente abrogazione. E lo stesso si può dire a proposito dell’art. 113, comma 7: il secondo e terzo periodo, dichiarati costituzionalmente illegittimi in via consequenziale, non erano stati modificati dall’art. 14, comma 1, lett e), d.l. n. 269/2003 ‘sanzionato’ di illegittimità in via primaria.

E’ viceversa da supporre che la Corte abbia fatto uso dell’illegittimità in via consequenziale riguardo a disposizioni ritenute disciplinanti <<in modo simile fattispecie simili>>[12] a quelle oggetto delle disposizioni considerate illegittime in via primaria. In effetti, relativamente ai servizi ‘di rilevanza economica’, la Corte sanziona d’incostituzionalità la disposizione denunciata dell’art. 14, comma 1, lett. e), perché stabilisce <<dettagliatamente e con tecnica autoapplicativa>> i criteri in base ai quali la gara va aggiudicata (in violazione quindi del carattere di proporzionalità-adeguatezza che deve connotare l’intervento legislativo statale a <<tutela della concorrenza>>). Lo stesso vizio è presente nelle prescrizioni, colpite in via consequenziale, dell’art. 113, comma 7, secondo e terzo periodo (l’<<estremo dettaglio nell’indicazione di questi criteri … va al di là della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti la gara>>) [13] [14].

Quanto ai servizi ‘privi di rilevanza economica’ non è esplicitata la ragione dell’illegittimità consequenziale, ma essa si evince agevolmente: il censurato art. 14, comma 2, è dichiarato incostituzionale perché <<non può essere riferito ad esigenze di tutela della libertà di concorrenza>>; lo stesso deve essere apparso per le parti dell’art. 113-bis non modificate da detta disposizione, sicché ad esse andava estesa la pronuncia di illegittimità. E’ solo il caso di rilevare che i caratteri ravvisati nelle disposizioni dichiarate illegittime ex art. 27 della l. n. 87/1953 assumevano giuridica consistenza in termini di vizio di costituzionalità per il fatto che, al pari di quelle colpite in via primaria, ricadevano sotto la disciplina del nuovo Titolo V, essendo intervenute dopo l’entrata in vigore della l. 18 ottobre 2001, n. 3. Il dato temporale spiega altresì come mai la Corte non abbia invece esteso l’illegittimità consequenziale all’art. 116 del Tuel: anche in questo caso la disciplina statale non era coerente con l’attuale art. 117 Cost., ma la sua emanazione precedeva la riforma del Titolo V.

4. La considerazione del numero e del tipo delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime in via primaria e dell’uso fatto dalla Corte dell’illegittimità consequenziale consente di cogliere sia la portata della pronuncia sia l’effettivo spessore del possibile (nel senso di legittimo) intervento dello Stato nel settore dei servizi pubblici locali.

Relativamente a quelli ‘di rilevanza economica’, si è notato che la legge statale può trovare fondamento solo nella <<tutela della concorrenza>>. Questo però non significa che lo spessore dell’intervento sia ristretto. Della disciplina denunciata (l’art. 14, comma 1, d.l. 269/2003) è stata fatta cadere dalla Corte solo la previsione della lett. e), non certo fondamentale nell’economia complessiva della normativa in questione. Inoltre, nonostante l’utilizzo dell’art. 27 della l. n. 27/1953 secondo una lettura che consentiva un’applicazione non certamente ristretta dell’illegittimità consequenziale, sono stati eliminati dall’art. 113 del Tuel, nel testo innovato dalla l. n. 448/2001, solo due periodi, anch’essi di rilievo non decisivo all’interno della complessiva disciplina. Quanto basta per poter concludere che, da un lato, la legislazione statale intervenuta in materia dopo la riforma del Titolo V –sovente giudicata dagli operatori e dagli interpreti estesa e pervasiva- esce complessivamente indenne dal vaglio della Corte e, dall’altro, che la <<tutela della concorrenza>> rappresenta un titolo più che sufficiente a legittimare una disciplina statale ad ampio spettro ancorché soggetta al criterio di proporzionalità e adeguatezza. Risultati questi, prima della sentenza, per nulla scontati, e per i quali, di nuovo, la pronuncia si segnala.

Discorso diverso è da farsi per i servizi ‘privi di rilevanza economica’. In questo caso la ‘bocciatura’, ancorché prevedibile, risulta eclatante perché con l’incostituzionalità degli artt. 14, comma 2, del d.l. n. 269/2003 e 113-bis del Tuel è caduta l’intera disciplina (generale) dello Stato nel settore.

E tuttavia occorre non trascurare due elementi: anzitutto il ruolo che potrà giocare la materia-trasversale <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali>>. Nella vicenda esaminata dalla Corte non ne ha giocato nessuno, ma non è detto che questo valga anche in futuro, ove il legislatore statale collegasse –secondo un criterio di proporzionalità e adeguatezza- la garanzia di certi livelli di servizi a specifiche forme organizzative. In secondo luogo va tenuto presente che nell’art. 117 sono rinvenibili materie che legittimano, almeno in ipotesi, interventi legislativi settoriali dello Stato. E’ questo il caso della <<promozione e organizzazione di attività culturali>> e della <<valorizzazione di beni culturali>>. Quanto basta per poter almeno dubitare che neppure l’organizzazione dei servizi locali ‘privi di rilevanza economica’ sia un’area off-limits per il legislatore statale.

5. La dichiarazione d’illegittimità dell’art. 14, comma 2, d.l. n. 269/2003 e dell’art. 113-bis del Tuel pone il problema di quale sia l’attuale statuto dei servizi pubblici locali ‘privi di rilevanza economica’. A fronte di una prima sensazione di ‘vuoto normativo’ una considerazione più meditata spinge ad affermare che il precedente assetto risulta soltanto innovato (senza stravolgimenti).

Il primo e più significativo cambiamento è costituto dal venir meno del principio di tipicità delle forme di organizzazione di tali servizi, che pur connotava, sia pure in misura attenuata, l’art. 113-bis del Tuel (tanto nella versione originaria, quanto in quella modificata dal d.l. 269/2003) [15]. Il dato è di inquadramento teorico-generale, ma ha delle ricadute di regime giuridico. Invero continuano ad essere utilizzabili, a scelta dell’ente locale, le forme della gestione in economia e dell’istituzione, e lo stesso si può dire -fatto salvo quanto si osserverà in seguito- per l’azienda speciale e per la società di capitali con partecipazione totalitaria o minoritaria di enti locali. Tuttavia ora ritornano ipotizzabili anche la società con partecipazione maggioritaria e la concessione a terzi, mentre l’impiego dell’associazione e della fondazione non risulta limitato ai servizi culturali e del tempo libero.

Una secondo mutamento è rappresentato dalla scomparsa della necessarietà del contratto di servizio come strumento per la disciplina dei rapporti fra ente locale e soggetto erogatore. E’ ovvio però che ne permane la possibilità (e l’opportunità) per l’ente.

Un terzo dato di novità risiede nel fatto che le modalità di affidamento (in forma diretta o previo ricorso a procedura ad evidenza pubblica) non trovano -salvo che nel caso di società con partecipazione minoritaria di enti locali ex art. 116 del Tuel- un preciso quadro di riferimento normativo. Peraltro l’affidamento del servizio a istituzioni o aziende speciali potrà continuare ad avvenire in forma diretta non configurandosi un <<mercato concorrenziale>>, mentre quello in concessione, se non abbisogna più della procedura ad evidenza pubblica (secondo quanto stabiliva l’art. 35, comma 15, l. 448/2001), sembra pur sempre soggetto a quel principio di concorsualità che il giudice amministrativo da tempo considera <<ormai immanente nell’ordinamento tutte le volte in cui debba effettuarsi la scelta di un operatore privato chiamato a svolgere attività per conto e nell’interesse della P.A.>> [16]. Principio questo al quale non pare potersi sottrarre neppure la scelta del partner privato nel caso di partecipazione in genere dell’ente locale a strutture organizzative a regime privatistico.

Un ultimo elemento di novità –che si prospetta peraltro in termini problematici- potrebbe essere rappresentato dal riallineamento delle forme di gestione allo specifico tratto presentato dai servizi pubblici ‘privi di rilevanza economica’. Se si tiene ferma l’idea diffusa per la quale la rilevanza economica o meno di un servizio dipende dall’opzione organizzativa operata dall’ente locale (nel caso del servizio ‘senza rilevanza economica’, quella di praticare un prezzo politico per la prestazione resa al cittadino, assicurando la copertura dei costi attraverso la fiscalità generale) [17] –idea che del resto trova echi nella pronuncia della Corte [18]-, si può seriamente dubitare che risulti compatibile con un servizio delineato in termini di mera erogazione la scelta di una forma organizzativa la cui ‘causa’ dovrebbe essere almeno oggettivamente lucrativa o comunque connotata dal criterio dell’economicità. E’ questo il caso delle società di capitali [19] (o meglio delle società tout-court), ma anche dell’azienda speciale, ex art. 114, comma 1, del Tuel dotata di <<autonomia imprenditoriale>> e considerata in genere come ente pubblico economico [20]. Forme organizzative queste, che, venuta meno la previsione ‘forzosamente abilitante’ dell’art. 113-bis del Tuel (come modificato dal d.l. n. 269/2003), dovrebbero essere riportate ad operare secondo la loro logica intrinseca, quella stessa che aveva correttamente ispirato l’art. 113 del Tuel nella versione originaria del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

Per concludere, il venir meno dell’art. 14, comma 2, del d.l. n. 269/2003 e dell’art. 113-bis del Tuel non ha determinato né un vuoto normativo né uno stravolgimento della disciplina dei servizi pubblici ‘privi di rilevanza economica’, ma una continuità/discontinuità all’interno della quale si segnala il tramonto del principio della tipicità delle forme organizzative, sostituito semmai da quello della congruità fra ‘causa’ dello schema organizzativo e logica del servizio non economico.

Questo nell’immediato. In prospettiva, come afferma la Corte, <<ci sarà … spazio per una specifica e adeguata disciplina di fonte regionale e anche locale>> [21], sempre che, sia consentito aggiungere, questa fonte lo voglia e ne sia in grado.

6. Da ultimo potrebbero essere esaminati i riflessi della pronuncia sulla disciplina dei servizi culturali locali contenuta nell’art. 115 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. L’esame di tale aspetto è stimolato da un passo di un’altra recente sentenza della Corte, relativa ai servizi culturali dello Stato [22], nella quale, in tema di art. 35, comma 15, della l. n. 448/2001 –appunto quello introduttivo dell’art. 113-bis del Tuel-, si rilevava che <<il carattere di ‘principio’ che riveste questa normativa sull’affidamento dei servizi culturali locali … si spiega appunto con le incidenze che la disciplina dell’art. 35 … può avere sulle competenze legislative regionali e sull’autonomia degli enti locali in materia>>. Affermazione questa che non lasciava evidentemente presagire la dichiarazione d’illegittimità costituzionale degli artt. 14, comma 2, del d.l. n. 269/2003 e 113-bis del Tuel da parte della pronuncia n. 272, intervenuta a poca distanza di tempo (e per quello che può valere con lo stesso giudice relatore-estensore). Un contrasto o, se si vuole, un revirement giurisprudenziale? Chi scrive ritiene di no, nella convinzione che la distonia sia solo apparente. Il darne conto però richiederebbe taluni approfondimenti sui servizi culturali locali, non in linea con un commento ‘a prima lettura’ quale quello appena condotto. Preferisce perciò farne rinvio ad altra occasione.


 

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[1] Punto 3 in diritto.

[2] Punto 4 in diritto.

[3] Punto 3 in diritto.

[4] Per la ‘tutela della concorrenza’ cfr. il punto 3 in diritto. Per i ‘livelli essenziali delle prestazioni’ cfr. la sentenza    2002, n. 282.

[5] Rispettivamente punti 3 e 4 in diritto.

[6] Ad es. F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo Testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in le Regioni, 2002, n. 2/3, 434 nt. 33, ricorda –con rilievi critici- l’ipotesi di mantenere un potere legislativo dello Stato nella materia considerata come rientrante in quella delle funzioni fondamentali di Comuni e Province, ipotesi contenuta nel progetto di riforma dei servizi pubblici locali presentato dall’associazione ASTRID.

[7] Sul punto cfr. A. CORPACI, Gli organi di governo e l’autonomia organizzativa degli enti locali. Il rilievo della fonte statutaria, in le Regioni, 2002, n. 5, 1032.

[8] A partire dalla pronuncia 20-27 gennaio 2004, n. 43.

[9] Punto 3 in diritto.

[10] Cfr., per tutti, V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, 2, Cedam, Padova, 5° ed., 1984, 380 s.

[11] Per questa tesi cfr., per tutti, L. PALADIN, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, 3° ed., 1998, 771 s.

[12] V. CRISAFULLI, Lezioni, cit., 381.

[13] Punto 3 in diritto.

[14] Punto 4 in diritto.

[15] Sul punto sia consentito rinviare al mio I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, in Aedon, n. 1/2002 (http://www.aedon.mulino.it), n. 2.

[16] Cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 3 settembre 2001, n. 4586, in Cons. Stato, 2001, I, 1975.

[17] Cfr. G. PIPERATA, I servizi culturali nel nuovo ordinamento dei servizi degli enti locali, in Aedon n. 3/2003 (http://www.aedon.mulino.it), nn. 3 e 5.

[18] La sentenza, dopo aver ricordato la posizione della Commissione europea secondo cui <<la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo>>, richiama l’indirizzo della giurisprudenza comunitaria per il quale spetta <<al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, dell’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche dell’eventuale finanziamento pubblico>>, cfr. punto 4 in diritto.

[19] Cfr. A. PERICU, Fattispecie e regime della gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, in Aedon n. 1/2002 (http://www.aedon.mulino.it), n. 5.

[20] Cfr. ad es., P. Piva, Art. 114, in L’ordinamento degli enti locali, a cura di M. Bertolissi, il Mulino, Bologna, 2002, 498.

[21] Punto 4 in diritto.

[22] Corte costituzionale 20 gennaio 2004, n. 26, punto 3 in diritto.


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