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Articoli e note

 

NAZARENO SAITTA
(Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Messina)

Ricorsi contro il silenzio della p.a.:quale silenzio?

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1.- Subito dopo avere per la prima volta letto l’art. 2 della legge n. 205, avevamo estemporaneamente commentato (in I giudizi in camera di consiglio nella giustizia amministrativa, Giuffrè, Milano, 2000, Addendum) che questo nuovo articolo (art. 21 bis) inserito nel corpo della legge t..a.r. aveva lo scopo di disciplinare una materia che da decenni attendeva una disciplina normativa specifica ed appropriata, autonoma rispetto al rito ordinario adatto per la trattazione di normali controversie con la pubblica amministrazione prevalentemente originate da un provvedimento del quale si contesta la legittimità e si chiede la rimozione, ma non per le controversie che possiamo definire, tanto per intenderci, "negative", aventi soprattutto ad oggetto l’inerzia della pubblica autorità.

In questi casi, ossia in caso di illegittimo silenzio dell’amministrazione, lesivo di un interesse qualificato, al cittadino che si avvaleva del rimedio di un normale ricorso al giudice amministrativo non restava che mettersi in fila dietro tutti gli altri ricorrenti "ordinari" in attesa di una sentenza che, se favorevole, sarebbe stata comunque non autoesecutiva e quindi non in grado di soddisfare la pretesa del ricorrente. Questi avrebbe dovuto attendere il passaggio in giudicato della sentenza – magari anche a conclusione di un giudizio di secondo grado, ancorché l’esperienza abbia dimostrato l’esigua frequenza di appelli da parte dell’amministrazione soccombente – per poi dar vita ad un nuovo giudizio per l’ottemperanza della pronuncia.

Per un caso particolare di silenzio - quello tenuto dall’amministrazione di fronte ad una domanda di accesso ai documenti - la legge n. 241/1990 aveva provveduto prevedendo un giudizio camerale da svolgersi in tempi brevi e destinato a concludersi, in caso di accoglimento (art. 25 comma sesto), in un "ordine di esibizione dei documenti richiesti".

Il nuovo art. 21 bis cit., non solo generalizzava il ricorso, da decidersi in camera di consiglio, a (tutti?) i casi di "silenzio dell’amministrazione", ma dava un’ulteriore spinta accelerativa alla procedura consentendo al collegio giudicante di decidere "con sentenza succintamente motivata"; il che era sembrato quanto mai giustificato in considerazione del fatto che, a ben guardare, sarebbe toccato al giudice soltanto il compito di accertare i presupposti del silenzio qualificato, ossia da un lato il dovere di provvedere sull’istanza del ricorrente e dall’altro gli estremi temporali e/o formali dell’inerzia, sicché non occorreva dilungarsi in articolate e complesse articolazioni censorie e difensive bastando, il più delle volte almeno, il riempimento degli spazi vuoti di uno stereotipo di sentenza di accoglimento o di rigetto.

La semplicità del compito cognitorio e decisorio del giudice amministrativo non escludeva, tuttavia, i tempi ordinari, ossia ingiustificatamente lunghissimi, occorrenti per pervenire ad una sentenza, che rimaneva pur sempre una sentenza del tipo "ordinario".

Assai scarne apparivano, invero, le disposizioni dettate dall’art. 21 bis circa la proposizione, lo svolgimento e la definizione di questo nuovo giudizio camerale.

Nulla, intanto, risultava disposto in ordine al termine per ricorrere, a differenza di quanto stabilito in ordine al silenzio in materia di accesso alla documentazione amministrativa, laddove l’Adunanza Plenaria (dec. n. 17/1999) l’ha considerato decadenziale. Era stato forse saggio non prevedere alcun termine e quindi non prendere posizione su una questione – quella del termine per ricorrere avverso il silenzio-rifiuto – che è stata ed è tuttora oggetto di una disputa che probabilmente non consente una soluzione unitaria.

Il nuovo giudizio sul silenzio appariva destinato a muoversi speditamente solo dopo la proposizione del ricorso nell’incerto termine di cui sopra. La speditezza era ed è rappresentata dalla scelta del rito camerale, scevro da eccessive formalità: un termine dilatorio di appena 10 giorni (preso a … prestito dall’analogo giudizio camerale per le domande di sospensione), quindi fissazione della camera di consiglio d’ufficio (ossia senza domanda di fissazione d’udienza), semplice "audizione" dei difensori che ne facciano richiesta, decisione entro 30 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso (stessa formula dell’art. 25 della "241"), eventualmente decorrenti dalla data fissata per i possibili adempimenti istruttori, appello entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza (o, in mancanza di notificazione, entro appena 90 giorni dalla comunicazione della sentenza), "stesse regole" camerali anche per il giudizio di appello.

 

2.- Il contenuto della sentenza è descritto nel secondo comma dell’art. 21 bis: "in caso di totale o parziale" (difficilmente verificabile in un giudizio avverso il silenzio) "accoglimento del ricorso di primo grado, il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni". Come si vede, la formula lessicale non comprende anche il caso che "il ricorso di primo grado" venga respinto dal t.a.r. ed accolto invece, a seguito di appello, dal Consiglio di Stato. E’ evidente tuttavia che non vi sono differenze di disciplina, dovendo il giudice di appello avere gli stessi poteri del Tar ed avendo il ricorrente, che si veda rigettato il suo ricorso dal giudice di primo grado, il diritto-speranza di ottenere dal Consiglio di Stato quanto non ha ottenuto nel giudizio precedente.

In caso di inadempienza dell’amministrazione all’ordine del giudice (t.a.r. o Consiglio di Stato) entro il termine da questi assegnato, il giudice, su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa. Nessuna differenza, quindi, ormai tra decisione di primo grado soggetta o già assoggettata ad appello e decisione passata in giudicato quanto allo strumentario ottemperativo (dopo il nuovo ultimo comma dell’art. 33 legge t.a.r.).

Disposizione opportuna, al fine di dirimere ogni possibile dubbio come in passato, è quella contenuta nel terzo comma dell’art.21 bis, che fa salvo dall’intervento sostitutivo del commissario ad acta il provvedimento eventualmente adottato dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine assegnato dal giudice.

 

3.- Sin qui le prime impressioni a caldo.

In verità, sono ben presto sorti dubbi circa l’applicabilità della nuova procedura camerale anche al c.d. silenzio-rigetto in materia di ricorsi gerarchici; dubbio giustificato non foss’altro perché il primo caso storico di impugnativa del silenzio era stato proprio quello descritto dall’art. 5 del t.u. delle leggi comunale e provinciale del 1934, come rimedio all’inerzia tenuta dall’amministrazione investita di un gravame gerarchico, senza la definizione del quale (allora, peraltro, in tutti i possibili gradi) non era consentito l’accesso al giudice amministrativo, al tempo pressoché esclusivamente rappresentato dal Consiglio di Stato, giudice unico, competente a conoscere soltanto dei ricorsi proposti contro provvedimenti definitivi. E questo anche se allora era stata escogitata la fictio delle cc.dd. decisioni silenziose che prendevano il posto delle pronunce esplicite di rigetto dei ricorsi gerarchici.

Il dubbio, sollevato dal Ministero dell’Interno, è stato ovviato dalla Commissione Speciale del Consiglio di Stato con parere 17 gennaio 2001, n.1242/2000, ampiamente pubblicizzato e fatto oggetto di pertinenti chiose anche in dottrina (CRISCENTI).

In verità, non si trattava di ricorsi gerarchici ordinari - e questo il parere lo ha precisato -, ma di gravami gerarchici impropri, sicchè questo particolare avrebbe potuto (e forse dovuto) già di per sé solo discriminare la soluzione possibile nei due casi, ancorché, dopo le pronunce dell’Adunanza Plenaria del 1989, non si potesse che parlare, a proposito del silenzio tenuto sui ricorsi amministrativi di tal tipo, di mero presupposto processuale per il rimedio giurisdizionale o straordinario e non più di provvedimento legalmente tipizzato.

Comunque, ancorché il quesito risultasse formulato in termini di estensibilità al silenzio-rigetto di un rimedio processuale da ultimo creato dalla legge di riforma per l’impugnazione del diverso silenzio-inadempimento, il Consiglio ha ritenuto che detto rimedio sia stato ideato, primariamente, per far pronunciare il giudice amministrativo sul silenzio entro tempi assai contenuti, ma anche per "concentrare in un unico rapporto processuale le due fasi che spesso si rivelano necessarie per costringere l’amministrazione ad ottemperare; … un processo che vuole sopperire all’inerzia dell’amministrazione e che si rivela comunque strumento sussidiario, giacché il potere-dovere di quest’ultima di pronunciarsi positivamente, lungi dall’essere attenuato, è rimarcato dall’inciso del comma terzo, che incarica il commissario, all’atto dell’insediamento e prima di operare in via sostitutiva, di accertare se l’Amministrazione abbia già provveduto anteriormente all’insediamento medesimo, ancorché in data successiva a quella assegnata dal giudice. Lo scopo primario del legislatore resta quello di indurre l’Amministrazione ad esprimersi positivamente sull’istanza del privato".

Considerazioni perfettamente condivisibili salvo l’uso, che definirei improprio in quanto foriero di illazioni di valenza non irrilevante, dell’avverbio "positivamente" (peraltro, reiterato due volte nello stesso periodo). E questo per quanto si dirà di qui a poco.

 

4.- Dopo il 10 agosto 2000, entrata in vigore di una riforma che doveva servire a risolvere un annoso nodo in materia di impugnazione del silenzio dell’amministrazione, sono, invece, riemerse le stesse pretese che, già prima della "205", erano state avanzate in ordine alla possibile portata delle pronunce emesse sui ricorsi avverso il silenzio nel previgente regime.

E’ a tutti noto come, in un’ottica definita di "indirizzo sostanzialista dell’ordinamento" (GIACCHETTI), pure il vecchio giudizio ordinario in materia di silenzio sia stato, ad un certo punto, ritenuto utilizzabile per risolvere anche nel merito l’interesse pretensivo del ricorrente rimasto privo di una "risposta" dell’amministrazione interpellata.

Una soluzione giurisprudenziale, peraltro non uniforme né quindi consolidata in alcuna direzione, che pareva in sostanza giustificata dai tempi lunghi del giudizio amministrativo ordinario: attendere degli anni per sentirsi soltanto dichiarare un fatto pressoché scontato, che cioè l’amministrazione interpellata aveva il dovere di rispondere e che, quindi, il suo comportamento inerte era illegittimo; sperare poi nella disponibilità della amministrazione a dare consistenza all’esecutività della sentenza di primo grado ovvero dovere attendere il passaggio in giudicato della sentenza accertativa e dichiarativa di quanto sopra e provocare poi la nomina di un commissario, il cui provvedimento in luogo dell’amministrazione ancora persistentemente inerte poteva anche non essere satisfattivo per il ricorrente "vittorioso", con ovvie refluenze in termini di litigiosità, non potendosi escludere l’apertura di un nuovo contenzioso, questa volta oggettivato su un provvedimento formale di contenuto sfavorevole. Tutto questo appariva veramente una forma di (antieconomica, oltretutto) denegata giustizia ed un’inutile perdita di tempo, alle quali agevolmente ovviare affidando al giudice, formalmente investito dell’impugnativa di un comportamento inerte, il potere-dovere di modulare opportunamente la sua pronuncia in ragione dell’accertamento della fondatezza – anche nel merito, però – della pretesa rimasta priva di riscontro.

Questa propensione aperturista si è riaffacciata – non senza discordia – nella dottrina e nella giurisprudenza successiva alla "205", riproponendo quindi una querelle che si sarebbe dovuto considerare ormai superata nel doveroso rispetto della nuova configurazione legislativa dell’istituto.

Ci si chiede: è davvero ancora ammissibile, proprio alla luce della nuova normativa, la latitudine estrema che si era prima assegnata ai poteri cognitori e decisori del giudice del silenzio o, piuttosto, questa estensione non appare più giustificata alla luce dei brevissimi tempi entro i quali dovrebbe svolgersi e definirsi il nuovo giudizio sul silenzio?

 

5.- Invero, si è di recente contestato (GIACCHETTI) che i nuovi tempi siano davvero tanto contenuti, rilevandosi che la dichiarata finalità acceleratoria del nuovo rito non è stata assicurata adeguatamente dal legislatore, vuoi perché, intanto, non è precisato (residuando così i vecchi dubbi) quand’è che si forma il silenzio impugnabile, vuoi per l’incongruo termine fissato per la decisione camerale (che è di soli trenta giorni, ma viene fatto ingiustificatamente decorrere non già dal deposito del ricorso, ma dalla scadenza del termine (ordinario, peraltro) di deposito del ricorso stesso, vanificandosi così ogni eventuale zelo del ricorrente che si affretti a depositare il ricorso subito dopo la notifica; sicché si calcola un termine non inferiore a quattro mesi, destinato quasi a raddoppiarsi in caso di esigenze istruttorie, con un’ulteriore possibile appendice rappresentata dall’eventuale nomina del commissario (secondo l’A. cit., si arriva così ai nove-dieci mesi; in caso di appello ad "un paio d’anni").

D’accordo. Ma, intanto, è da considerare una conquista il fatto stesso che adesso si parli di mesi e non più di anni, salvo che per l’ipotesi sopra delineata (su questo profilo si tornerà di qui a poco).

Ripudia poi al senso comune, e non solo al senso di giustizia, che una riforma del genere, da tanto auspicata perché concernente uno dei momenti di maggior fallimento dei rapporti amministrazione-cittadino (GIACCHETTI parla espressamente di "scandalo" a proposito del silenzio illegittimo dell’amministrazione di fronte ad un'istanza del cittadino), debba subito meritare ogni possibile critica, che si debba sempre parlare di occasione perduta. Per il momento è bene, e non può essere diversamente, accontentarci di quello che il … convento legislativo ci ha passato, con il solo rammarico che le riforme in un settore così squisitamente tecnico, oltre che di rilievo sociale, vengano affidate all’incompetenza tecnica delle camere, anziché adoperare l’utile e comodo strumento della delegazione per affidare poi a tecnici e consulenti anche istituzionali la stesura delle relative norme nel rispetto delle prerogative che l’art. 76 assicura al delegante.

 

6.- In quest’ottica, è bene suggerire correttivi di tipo normativo da parte del legislatore e rispettare sul piano applicativo il dato positivo, contenendo, per un elementare dovere di certezza e di stabilità, le invenzioni e gli éscamotages pretori.

A chi scrive - che, peraltro, non è solito lasciarsi sfuggire gli stimoli critici che ad ogni piè sospinto offre l’atecnico ed improprio lessico normativo (soprattutto se di provenienza parlamentare) - sembra che, a torto od a ragione, si sia o non si sia il legislatore lasciato sfuggire l’occasione di far bene (al meglio, del resto, non c’è mai fine), la riforma del 2000 in materia di impugnativa del silenzio abbia inteso solamente porre rimedio ai tempi lunghi del tradizionale giudizio amministrativo ordinario.

Quanto all’interrogativo di cui al titolo delle presenti note, ebbene, sembra proprio che il novello art. 21 bis abbia inteso riguardare solamente quello che, come ci viene adesso ricordato, Sandulli aveva etichettato come "silenzio-inadempimento", ossia quello che era stato prima definito, per contrapporlo al primigenio silenzio-rigetto, come silenzio-rifiuto.

Tanto vale prenderne atto.

"E’ indubbio che il Legislatore abbia pensato essenzialmente al silenzio-rifiuto" (GIACCHETTI); "L’estrema rapidità e semplicità del procedimento inducono a ritenere che la norma in esame si applica soltanto alle ipotesi di silenzio rifiuto propriamente dette, vale a dire per verificare se, nel caso specifico, l’Amministrazione sia tenuta ad adottare una determinazione su una richiesta a lei rivolta. Le altre ipotesi dovranno essere decise con il rito ordinario, posto che la sentenza che conclude il processo non si limita a valutare il comportamento omissivo, ma deve pronunciarsi sull’assetto degli interessi posto dal provvedimento negativo o dalla legge" (COSSU); "… oggetto della previsione è evidentemente il caso del silenzio-inadempimento, ossia di quel comportamento inerziale che non si vede da alcuna norma equiparato ad un certo esito amministrativo attivo ed il cui valore legale è solo quello di mancato rispetto da parte dell’amministrazione di un dovere a provvedere" (CONSOLO); "… la norma… fa chiaramente riferimento a situazioni nelle quali al silenzio non possano ricondursi effetti sostanziali o processuali specifici. E’ sottratta, quindi, a questo rito, la impugnazione dei c.d. silenzi significativi quali il silenzio-assenso e il silenzio-diniego … nonché il silenzio-rigetto" (JARIA); " ... è agevolmente ricavabile dalla norma in esame come il silenzio in questione sia un silenzio non significativo, ossia una fattispecie di silenzio caratterizzata dalla circostanza che l’amministrazione tenuta a provvedere nei termini previsti non lo abbia fatto, senza che la legge a ciò ricolleghi un effetto di accoglimento dell’istanza del privato o un effetto di diniego della stessa"; niente, quindi, silenzio-rigetto od altro tipo di silenzio, ma solo silenzio-inadempimento come del resto lascia chiaramente intendere la stessa locuzione normativa usata dal legislatore riformista nel comma secondo dell’art. 21 bis, ove si parla di "amministrazione … inadempiente" (TARANTINO), anche se, invero, questa espressione sembra propriamente riferita all’inosservanza, da parte dell’amministrazione, dell’ordine di provvedere contenuto nella sentenza di accoglimento del giudice del silenzio; "Va precisato come il rito speciale in esame si applichi, nonostante la generica dizione legislativa, solamente all’ipotesi del silenzio-rifiuto, configurantesi come comportamento inadempitivo dell’obbligo di provvedere", e si sottolinea "la preordinazione del meccanismo processuale preposto dall’art. 2 della L. n.205/2000 alla tutela del silenzio adempimento" (FANTINI); "le voci della dottrina (DE PRETIS, L. FERRARA, CACCIAVILLANI) sembrano essere tutte orientate a ritenere che l’art. 21 bis preveda un’azione di accertamento che ha ad oggetto la mera verifica dell’inadempimento del generico obbligo a provvedere, e non anche l’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere" (POLICE, in cronaca di un convegno apposito dell’autunno 2000); si ritiene "che l’art. 21 bis non consenta un giudizio di <spettanza>, cioè un accertamento sulla spettanza al ricorrente di un determinato bene o di una determinata posizione di vantaggio" (FALCON).

 

7.- Unanime sintonia su questa lunghezza d’onda si ha con la giurisprudenza successiva alla legge di riforma, che, dopo un breve periodo di incertezza e di idee non del tutto chiare, risalente ai primi mesi di applicazione della nuova disposizione, praticamente sino alla fine del 2000 (p. es.:Tar Marche, 11 ottobre 2000 n.685, in Tar, 2000, I, 5223; Tar-Lazio, sez. I bis, 30 novembre 2000 n. 10704, ivi, 5112), si è espressa decisamente in favore della soluzione restrittiva.

Univoco indirizzo dalla fine del 2000 (Tar Campania-Napoli, sez. II, 16 dicembre 2000 n. 4720, in questa Rivista on line) e fino ad oggi, nel senso dell’ammissibilità della nuova azione nel solo caso di silenzio-inadempimento, con esclusione delle ipotesi di silenzio significativo (Tar Abruzzo, 26 gennaio 2001 n. 57, in questa Rivista on line, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarabruzpesc_2001-57.htm; implicitamente: TAR Lazio-sez. I, ord.12 gennaio 2001 n. 125, in Tar 2001, I, 506; Tar-Lazio-sez.II ter, 28 febbraio 2001 n.1597, in questa Rivista on line, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tarlazio2_2001-1597.htm).

 

8.- Conclusivamente, ci pare di potere rilevare, come dato emergente da una pur fugace lettura di testi dottrinali e giurisprudenziali, che l’orientamento prevalente è quello che restringe la portata della novità introdotta dall’art. 21 bis ( "deludente" per SCOCA) alle ipotesi di mero silenzio-inadempimento, che cioè il presupposto di questo nuovo tipo di giudizio sia rappresentato da un comportamento di pura e semplice inerzia dell’amministrazione chiamata a rispondere su una domanda del cittadino alla quale la legge assicura un esito provvedimentale in termini appunto di risposta a completamento dell’iter del breve o lungo procedimento che quell’istanza ha avviato.

Un’inerzia alla quale, ovviamente, l’ordinamento non attribuisca una valenza giuridica speciale, negativa o positiva che sia, favorevole o sfavorevole che possa risultare per il richiedente, perché in tal caso saranno altre le conseguenze di tale comportamento: se appunto l’ordinamento stesso gli assegnasse un significato particolare, effetti cioè in qualche modo equipollenti a quelli che sarebbero scaturiti dal provvedimento richiesto e si fosse così, con un ultimo segmento formale, perfezionata la fattispecie procedimentale aperta con la domanda, sarebbe lo strumento giudiziale ordinario a dover essere azionato dall’interessato, salvo che l’ordinamento non gli appresti altro specifico rimedio (non questo del quale ci stiamo occupando).

Non a caso questo nuovo tipo di giudizio risulta modellato, fin troppo anzi, sullo schema del ricorso ex art. 25 della "241", e non soltanto con riferimento alla scansione dei tempi e dei modi procedurali. Ed è significativo che anche quel giudizio poteva e può essere proposto avverso un silenzio di fronte ad una domanda di accesso.

A ben guardare,anche nel ricorso ex art. 21 bis, come in quello risalente a dieci anni prima, il legislatore sembra abbia tenuto presente l’esigenza, il diritto del privato ad una risposta ad una sua domanda legittimamente posta e correttamente indirizzata. Con il rimedio ex art. 25 si mirava ad ottenere l’accesso, anzi l’atto di consenso all’accesso ad un documento amministrativo già formato e di ufficialmente ignoto contenuto; adesso si può esperire il ricorso ex art. 21 bis per ottenere che il documento venga ad esistenza, che l’atto venga formato.

Si guardi un po’ al contenuto della sentenza che viene richiesta al giudice dell’accesso ed al nuovo giudice del silenzio, alla statuizione che entrambi sono chiamati a formulare: un ordine di facere, in fondo di provvedere, rivolto all’amministrazione invano interpellata: " … un facere generico e non qualificato rispetto alla pretesa sostanziale fatta valere in giudizio dal ricorrente" (in verità, non in giudizio ma con l’originaria istanza all’amministrazione) (POLICE). Un’actio ad exhibendum in quel caso, un’actio ad… providendum in questo.

L’amministrazione non ha provveduto, a tempo debito e spontaneamente, in osservanza ad un dovere nascente dall’ordinamento? Ebbene, provveda adesso in ottemperanza ad un ordine del giudice che ha preso il posto del precetto legislativo non osservato.

Provvedere, questo soltanto.

Se così è, non rimane spazio per altre forme di intervento del giudice amministrativo in esito ad una domanda di giustizia fondata su ben altri presupposti. Sarà un giudizio ordinario a dare la risposta ad una domanda di giustizia fondata su di un comportamento inerte dell’amministrazione.

Il provvedimento che non è stato emanato - e che avrebbe potuto avere una valenza qualsiasi di fronte alle aspettative dell’interessato, che nel provvedimento invocato fondava speranze di soddisfazione che avrebbero però potuto risultare deluse da un contenuto sfavorevole del provvedimento, ove disposto - sarà emanato a seguito (immediato o attraverso un eventuale tramite commissariale) della sentenza del giudice del silenzio con le stesse possibili prospettive che si aprivano all’originaria domanda del cittadino.

Questi non può sperare di ottenere altro da questo nuovo giudice, libera rimanendo l’amministrazione ingiunta di accogliere o respingere la domanda: purchè risponda, basta che risponda.

Né si può pretendere che il giudice del silenzio colori con una certa tinta l’ordine di provvedere, che indirizzi in un certo senso l’attività provvedimentale ingiunta.

In caso di accoglimento del ricorso, il giudice "ordina all’amministrazione di provvedere", dice l’art.21 bis.

Questo significherebbe spingere il compito del giudice su binari dai quali non potrebbe che deragliare per inosservanza delle norme sulla circolazione, le quali hanno posto paletti ben precisi precludendogli chiaramente di considerare il merito della domanda di provvedimento, la fondatezza della pretesa sottesa alla domanda stessa. Occorre, pazienza, avvalersi del vecchio, lento accelerato e rinunziare al nuovo veloce … intercity.

 

9.- A ben leggere l’art. 21 bis, sono più d’uno gli argomenti a favore di questa soluzione, piaccia o non piaccia.

Non soltanto, come già accennato, il modello preso a prestito. Sin troppo preso a prestito, copiato. Al punto di copiare, quando non ce n’era bisogno, la formula dell’ultimo comma dell’art. 25 della "241", trascrivendola nel nuovo art. 21 bis: "In caso di totale o parziale accoglimento del ricorso…". Formula di sicuro significato in quel tipo di giudizio, nella possibile presenza di una domanda di accesso avente ad oggetto una pluralità di documenti amministrativi, alcuni dei quali magari ritenuti dal giudice inaccessibili e quindi espunti dall’ordine di esibizione; formula ingiustificata, invece, nel giudizio sul silenzio ex art. 21 bis, a meno di sforzi interpretativi quanto mai ardui (SASSANI), e che potrebbe essere forse letta nel senso che anche la richiesta di provvedimento può qui risultare tesa ad ottenere più risposte, alcune delle quali potrebbero consistere in dichiarazioni di inammissibilità dovute al fatto che l’amministrazione interpellata non aveva il dovere di provvedere o ad altre ragioni. Da qui la possibile parzialità dell’accoglimento del ricorso contro il silenzio.

In favore della soluzione restrittiva depone soprattutto la più significativa e originale (perché non tralaticiamente copiata dall’art. 25 della "241") nuova espressione dell’art. 21 bis, che, a differenza del giudizio sull’accesso, prescrive che la decisione sui ricorsi avverso il silenzio abbia luogo nella forma della "sentenza succintamente motivata", mentre la decisione ex art. 25 comma quinto non era particolarmente definita al punto che avevamo a suo tempo (cfr. prima nota) prospettato la possibilità che la pronuncia rivestisse anche la forma dell’ordinanza o del decreto.

Ebbene, non si tratta di cosa di poco conto.

E’, infatti, scontata la sufficienza di una sentenza succintamente motivata (ex quarto comma del nuovo art.26 legge Tar), ossia un "sintetico riferimento al punto di fatto e di diritto" od il richiamo di un "precedente conforme", per accertare e dichiarare la sussistenza del diritto del richiedente al provvedimento e l’ingiustificatezza del comportamento omissivo della amministrazione ritualmente interpellata e per l’emanazione dell’"ordine di provvedere".

Non sarebbe, invece, sufficiente una sentenza del genere se al giudice del silenzio fosse demandato il compito di considerare anche il merito, ossia la fondatezza della pretesa sottesa alla domanda rivolta dal ricorrente all’amministrazione.

Che l’amministrazione tenga un comportamento del tutto omissivo può accadere anche su istanze connesse a questioni assai complesse, tanto complesse da suscitare in essa serie perplessità e difficoltà circa il richiesto provvedimento; in altri termini, il silenzio avverso il quale risulta proposto il ricorso al giudice amministrativo può riguardare richieste quanto mai importanti e controverse, che comportano indagini e valutazioni anche lunghe e dispendiose.

Non si può pretendere che in un giudizio improntato alla massima semplicità e speditezza qual è quello configurato nell’art. 21 bis possano dibattersi e decidersi anche questioni attinenti alla definizione di questioni giuridicamente ed anche di fatto assai complicate, coinvolgenti interessi anche di grosso rilievo e che queste questioni possano essere definite e risolte in quattro e quattr’otto con una "sentenza succintamente motivata", la quale, oltretutto, è prevista come modulo decisorio di tipo obbligato privo di alternativa, e con una pronuncia da eventualmente appellare in termini (breve o lungo) particolarmente ridotti.

 

10.- Bisogna riconoscere che suscita qualche dubbio la previsione, nell’art. 21 bis, di possibili statuizioni istruttorie da parte del collegio; nel qual caso si allungano i termini della sentenza, nel senso che i prescritti trenta giorni decorreranno dall’acquisizione degli elementi istruttori richiesti.

Un’esigenza istruttoria in un giudizio che appare riservato all’impugnativa di un mero silenzio-inadempimento non è invero agevolmente configurabile, dato appunto il limitato thema assegnato al giudice amministrativo, il quale deve limitarsi ad accertare se sussistono i presupposti del silenzio e conseguentemente pronunciarsi.

L’unica soluzione che ci sembra ipotizzabile è data dall’opportunità che, prima dell’adozione della sentenza, il giudice del silenzio accerti che questo silenzio permanga ancora.

Non a caso, curiosamente l’ultimo comma dell’art. 21 bis prescrive che, all’atto del suo insediamento, il commissario preliminarmente accerti l’eventuale sopravvenienza, ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice di un provvedimento dell’amministrazione ingiunta.

Il tutto, forse, nel rispetto a tutti i costi della potestà provvedimentale dell’amministrazione e dell’esattezza del provvedimento, che può meglio essere assicurata da chi meglio conosce tutti gli elementi necessari per legittimamente provvedere.

 

11.- Un punto problematico da non trascurare è rappresentato dalla natura giuridica del commissario ad acta, che, a tenore del secondo comma dell’articolo in esame, il giudice può nominare qualora l’amministrazione resti inadempiente dopo la scadenza del termine assegnatole dal giudice nella sua sentenza-ordine con la quale ingiunge di provvedere.

La soluzione dipende proprio da quella relativa al tipo di silenzio che può formare oggetto di questo nuovo accelerato giudizio.

Se, infatti, si ritiene che dovere dell’amministrazione ingiunta (fosse, prima del giudizio, e, dopo la sentenza di accoglimento del ricorso) sia solamente l’adozione del provvedimento inutilmente richiesto dall’interessato, compito del commissario sarà soltanto quello, appunto, di adottare un provvedimento, di non pre-precisata natura, neutro essendo in tal senso l’ordine di provvedere emesso dal giudice del silenzio. In altri termini, il commissario avrà il compito ma anche la facoltà di determinarsi in piena libertà, non avendo prescrizioni o istruzioni da osservare impartite dal giudice, come accade, per esempio, nel giudizio di ottemperanza. Il commissario adotterà il provvedimento che riterrà di dovere adottare, di segno positivo o negativo, favorevole o sfavorevole per l’interessato. Il che val quanto dire che, non essendoci un paradigma giudiziale che ne prefiguri e condizioni il contenuto, il provvedimento commissariale terrà luogo, puramente e semplicemente, del mancato provvedimento della "amministrazione inadempiente" (come recita l’art.21 bis), della quale, pertanto, sarà un vero e proprio sostituto e quindi un autentico organo straordinario.

Non, dunque, un ausiliario del giudice, a differenza di quanto ormai si ritiene per il … collega nominato dal giudice dell’ottemperanza.

Da qui anche i conseguenti corollari, sia per quanto riguarda l’inammissibilità di un ricorso del commissario ai lumi del giudice del silenzio in caso di dubbi circa il contenuto da dare al provvedimento emanando, stante il carattere che abbiamo definito neutro dell’ordine di tale giudice, sia in ordine ai gravami esperibili avverso il provvedimento commissariale di contenuto sfavorevole per il richiedente: i rimedi ordinari, non già il reclamo allo stesso giudice che l’ha nominato (come, ancora una volta, per l’esecuzione del giudicato).

 

12.- Quanto alla forma che la pronuncia del giudice del silenzio assume secondo le previsioni legislative, si è intanto contestato (GIACCHETTI) l’utilizzo del rito camerale che sarebbe giustificato essenzialmente per motivi di rapidità processuale o per motivi di riservatezza (che nella specie non sussiterebbero). Si è poi visto nella decisione "un’ordinanza travestita da sentenza" dato che con essa, come si visto sopra, il giudice non prende definitiva posizione sulla fondatezza della situazione sostanziale sottostante. E poiché il nuovo comma settimo dell’art. 21 Legge Tar (art. 3 della "205") prevede la possibilità di misure cautelari anche a fronte di un "comportamento inerte dell’Amministrazione", dette misure ben avrebbero potuto essere utilizzate nel giudizio sul silenzio nella forma delle cc.dd. ordinanze propulsive: in luogo del "regime complesso e lungo delle sentenze … il regime agile e rapido delle ordinanze".

A ben guardare, è come piangere sul latte versato, anche se da altri. Invece, tant’è.

In ogni caso, l’auspicato e non realizzato congegno delle ordinanze avrebbe pur sempre presupposto un tipo di giudizio amministrativo suscettibile di definizione con una pronuncia diversa dalla solita immancabile sentenza.

 

13.- Coerente con quella che sembra essere l’impostazione del nuovo giudizio sul silenzio, ispirata alla massima celerità possibile di un processo che non è fine a se stesso ma tende ad un risultato (l’ordine giudiziale di provvedere) di cui è in partenza ignota la valenza positiva o negativa che potrà avere e che dipenderà dal contenuto che sarà dato all’emanando provvedimento (eventualmente anche da parte dello stesso commissario), è la previsione normativa di un termine brevissimo per l’appello della sentenza camerale nella sua duplice prospettazione ipotetica: termine breve, termine lungo.

In luogo degli ordinari 60 giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza o di un anno dalla pubblicazione della stessa (con i rituali 46 giorni del periodo di sospensione feriale dei termini da aggiungere e con la possibilità di un’ulteriore aggiunta di giorni di ferie, se si incappa per due volte nel periodo di sospensione, sino ad un ipotetico massimo di 457 giorni), la "205" assegna adesso all’appello rispettivamente un termine ordinario dimezzato di 30 giorni ed un termine … lungo di appena 90 giorni dalla comunicazione della sentenza (anche questi eventualmente prorogabili per ferie estive).

Termini, in entrambi i casi, assai ridotti ove si dovesse davvero appellare una sentenza che coinvolgesse, assieme al silenzio-inadempimento, anche il merito della questione sottesa alla domanda di provvedimento e che, invece, appaiono congrui e coerenti per un giudizio "spiccio" di limitata portata decisoria.

Non si dimentichi poi che la sentenza da appellare sarebbe pur sempre una sentenza "succintamente motivata", sicchè, come abbiamo già scritto altrove per la pronuncia di primo grado, non occorre dilungarsi in complesse e diffuse articolazioni impugnatorie.

Per censurare una sentenza di merito ci vuole, invece, ben altro.

Si ricordi che il legislatore del 2000, proprio per le decisioni emesse in forma semplificata, ha stabilito (nuovo art. 26 legge t.a.r.) che le stesse "sono soggette alle medesime impugnazioni previste per le sentenze", senza la previsione di alcuna abbreviazione dei termini per l’appello, e che per le sentenze emesse ai sensi dell’art. 23 bis il termine "breve" per l’impugnazione è dimezzato rispetto a quello ordinario, mentre il termine "lungo" è stato ridotto a 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza: termini, quindi, ben più ampi giustificati dal fatto che in questi casi si tratta di appelli contro sentenze di merito.

 

14.- Degno di interesse è, infine, il rilievo (GIACCHETTI) che, secondo la configurazione che è stata data al nuovo giudizio sul silenzio, una volta conclusa la vicenda giurisdizionale ad esso relativa, l’interessato, ove non soddisfatto in tutto o in parte dell’assetto dei suoi interessi operato dal provvedimento del quale è stata ordinata l’adozione, dovrebbe "ricominciare da capo, e ripartendo da zero", senza la possibilità tecnica di avvalersi del nuovo sistema dei motivi aggiunti (nuovo primo comma dell’art. 21 legge Tar), per impugnare il nuovo provvedimento.

E’ di tutta evidenza che una siffatta possibilità è assolutamente da escludersi, per l’ovvia ragione che, ancorché si tratterebbe pur sempre di una scontata "connessione all’oggetto del ricorso", come richiesto dalla nuova disposizione, mancherebbe in ogni caso l’altra necessaria condizione, ossia la "pendenza del ricorso tra le stesse parti", essendosi il giudizio sul silenzio definitivamente concluso con la sentenza-ordinanza.

E’ così sfumata l’occasione di utilizzare un’opportunità felicemente accordata dalla legge di riforma: una "possibilità che, svincolando per la prima volta il giudizio dal dato formale del provvedimento per connetterlo al dato sostanziale dell’oggetto (e quindi dell’interesse concreto), costituisce una delle chiavi di lettura più interessanti per la costruzione del nuovo diritto processuale amministrativo", come ottimamente è stato detto (GIACCHETTI).

 

15.- Chiaramente le considerazioni che precedono non sono e non vogliono essere espressive di alcuna certezza (magari ne avessimo ...) e neppure esaustive dell’intera gamma problematica che l’argomento prospetta: nessun punto fermo, nessun punto esclamativo, quindi.

Una degna conclusione di quella che, tutto sommato, è una mera rassegna di dubbi e di qualche timido suggerimento, può essere piuttosto rappresentata da un punto interrogativo che aspirerebbe ad una risposta: in caso di accoglimento di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 21 bis avverso il silenzio della pubblica amministrazione, può il giudice amministrativo, accertato l’inadempimento silenzioso di quest’ultima e per il solo fatto del silenzio in quanto tale (ed indipendentemente dal contenuto che avrà l’emanando provvedimento), condannarla al risarcimento dei danni, ovviamente dietro apposita domanda del ricorrente e la prova di questi ultimi? Il comportamento inerte tenuto dall’amministrazione, certamente lesivo del riconosciuto diritto ad una risposta in forma provvedimentale, non può avere inciso negativamente su un bene della vita ovvero non può aver determinato una perdita di chances, entrambe da risarcire? Un silenzio che … vale oro?

 

Postilla

Appena ultimata la stesura delle presenti note, ecco che interviene l’ordinanza 10 luglio 2001 n. 3803 (già pubblicata in questa Rivista pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds6_2001-2001-07-10o.htm), con la quale la VI Sezione del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza Plenaria praticamente l’intera problematica prima riassunta, ancorché non ci sia stato il tempo perché si fossero verificati contrasti giurisprudenziali tra le varie sezioni, ma proprio per evitare che questi si verifichino e "attesa la rilevanza della questione".

Non è il caso di indulgere all’istintiva voglia di un commento analitico delle varie proposizioni contenute nell’ordinanza di rimessione.

Basti qui notare come torni così in gioco la quérelle intorno alla configurazione del giudizio sul silenzio: "limitare l’oggetto di tale giudizio, benché con rito speciale abbreviato, alla sola declaratoria, in astratto dell’obbligo della P.a. di provvedere significherebbe aderire ad una concezione del processo amministrativo tuttora ancorata alla natura impugnatoria-demolitoria dell’atto senza alcuna reale incidenza sull’assetto del rapporto intercorrente con l’amministrazione ed in contrasto con quel processo evolutivo che sempre più tende a spostare dall’atto al rapporto l’oggetto del giudizio"; "il dovere di provvedere deve quindi essere verificato in concreto in relazione non ad una pronuncia qualsiasi, ma ad una pronuncia di contenuto positivo relativa al richiesto provvedimento satisfattorio per il privato".

E’ sin troppo chiaro il pensiero della Sezione rimettente (anche se la rimessione è decisa già da circa tre mesi), la quale tuttavia non può fare a meno di ammettere che "il rischio che con una procedura speciale, che impone al giudice ed alle parti ristretti tempi processuali, debbano essere necessariamente trattate anche questioni particolarmente complesse o relative ad attività amministrativa caratterizzata da rilevanti profili di discrezionalità è scongiurato, limitando l’estensione dell’oggetto del giudizio nei ricorsi avverso il silenzio della P.a. all’accertamento della fondatezza, o meno, della pretesa a quelle fattispecie in cui l’attività amministrativa è vincolata o comunque priva di apprezzabili margini di discrezionalità e sia manifesta la fondatezza, o infondatezza, della pretesa".

Una prospettiva, questa, densa di incognite e di incertezze, che implicherebbe una difficile indagine intesa ad accertare, volta per volta, questi "margini" e che, come nella fattispecie all’esame della sezione remittente, potrebbe portare a conseguenze assai rilevanti e discriminanti anche sullo stesso piano processuale, come, ad esempio, per l’applicabilità o meno dello speciale rito dell’art. 21 bis.

Il giudizio sul silenzio è nato com’è nato. Se al legislatore parlamentare del 2000 era presente o ignota la problematica formatasi in precedenza; se la soluzione che si è data all’esigenza di garantire, attraverso un processo snello e celere, l’interesse pretensivo del privato richiedente, è risultata idonea o meno; se questa soluzione è "progressista" o "retrograda"; se si sarebbe potuto fare di più o meglio, ebbene, è tutt’altra cosa.

Accettiamo, intanto, il dato positivo per quello che offre e che espressamente dice. Non è conforme ad un’elementare esigenza di certezza lasciarsi andare a voli pindarici e ad interpretazioni giurisprudenziali additive. E’ del legislatore il compito di modificare o integrare il quadro normativo vigente, non dell’interprete, al quale è consentito di espletare il suo ruolo istituzionale quando il dato positivo è di dubbia lettura, non di integrarne eventuali lacune. Ad ognuno il suo.


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