LexItalia.it  

 Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog

 

Articoli e note

 

ANTONIO ROMANO TASSONE
(Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Reggio Calabria)

Giudice amministrativo e risarcimento del danno

SOMMARIO: 1) Risarcimento del danno e giurisdizione di legittimità tra logica d’annullamento e "logica di spettanza". 2) Le difficoltà attuative del disegno della legge n. 205/2000: le interpretazioni riduttive della giurisdizione di legittimità sulle questioni risarcitorie. 3) Segue: le tendenze interpretative tradizionaliste. 4) Il problema della pregiudiziale amministrativa: impossibilità di risolverlo sulla base del solo art. 7 l. n. 205/2000. 5) Segue: opportunità di impostare tale problema a prescindere dalla tradizionale prospettiva processuale. 6) Segue: aspetti di diritto sostanziale; in particolare, pregiudiziale amministrativa e caratteri dell'interesse legittimo. 7) Segue: pregiudiziale amministrativa e problemi di effettività di tutela. 8) Il preteso condizionamento logico tra risoluzione della questione d’annullamento e risoluzione della questione risarcitoria. Effetti distorsivi sostanziali di tale impostazione, in particolare per quanto attiene al regime del risarcimento del danno da lesione di interessi c.d. "oppositivi". 8) Reciproca autonomia logica e giuridica dell’azione d’annullamento e dell’azione propriamente risarcitoria. 9) Considerazioni conclusive.

 

1) Per comprendere fino in fondo la densa e complessa sostanza problematica dei rapporti tra giurisdizione amministrativa di legittimità e tutela risarcitoria, occorre partire dalla considerazione che la pretesa (e l’azione) di annullamento e la pretesa (e l’azione) risarcitoria, per ragioni storiche largamente comuni ai sistemi europei di giustizia amministrativa, obbediscono nel nostro ordinamento a logiche diverse, ed hanno diverse finalità.

Come è stato esaurientemente ed esemplarmente dimostrato una volta per tutte da Guicciardi, l’azione di annullamento (e la tutela c.d. "d'interesse legittimo", che viene appunto accordata dal giudice amministrativo della legittimità) traggono origine da un'esigenza di protezione dell’interesse pubblico, mentre vi è estranea (nel senso che resta neutrale rispetto ad essa) quella che Falcon definisce la "logica della spettanza", ossia l’intento di attribuire unicuique suum.

La tutela di annullamento, nella sua originaria e in qualche misura ineliminabile impostazione, è dunque di stampo oggettivo, ed ad essa rimane tendenzialmente indifferente la soddisfazione della pretesa materiale del soggetto agente, cui sono attribuiti essenzialmente poteri di reazione nei confronti dell'atto amministrativo che lo lede.

È noto che l'evoluzione del sistema di giustizia amministrativa italiano, specie dopo l'entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, ha condotto ad una più accentuata subiettivazione dell'interesse legittimo, e conseguentemente ad una ibridazione dei caratteri originari della tutela di annullamento, che si è sempre più intensamente piegata alla soddisfazione dell'interesse sostanziale dedotto in giudizio dal ricorrente.

Malgrado gli sforzi pluridecennali della dottrina e le sempre più ampie aperture della giurisprudenza, la piena soggettivazione dell'interesse legittimo e della tutela di annullamento, nell’ordinamento italiano, è rimasta fondamentalmente un'aspirazione, ma non è divenuta il cardine del sistema.

La realizzazione dell'interesse di base del ricorrente non ha dunque preso la strada maestra dell’accertamento diretto, da parte del giudice amministrativo, della fondatezza della pretesa del cittadino nei confronti della p.a. (sia pure con il limite del rispetto della discrezionalità amministrativa), ed ha invece trovato sfogo nello sviluppo di logiche interne alla pronuncia di annullamento.

La soddisfazione del cittadino dipende dunque non tanto dall’intrinseca meritevolezza della pretesa sostanziale, quanto dalla sua più o meno ampia convergenza con le esigenze di restaurazione dello status quo connesse all’annullamento del provvedimento illegittimo.

Nella sua forma più incisiva, come è noto, tale meccanismo ha portato ad istituire uno stretto legame tra effetti conformativi della sentenza di annullamento e giudizio di ottemperanza, nel quale ultimo soltanto (e non nel giudizio di merito) si realizza, eventualmente, l'affermazione dell'interesse materiale del ricorrente (che peraltro, viene sovente assicurata dalla concessione della misura cautelare).

Se quindi la valutazione di spettanza penetra talora nel giudizio di legittimità, ciò è finora accaduto con logiche e modalità che tendono a subordinarla alla pronuncia demolitoria.

Va inoltre ricordato che la soddisfazione dell'interesse sostanziale del cittadino costituisce pur sempre un risultato ulteriore, e non necessario, rispetto a quello che è invece l’immancabile prodotto dell’azione di annullamento: la caducazione dell’atto amministrativo illegittimo, rivolta a realizzare in via prioritaria un interesse pubblico (sia pur variamente inteso), e solo in via sussidiaria idonea a soddisfare il ricorrente (si rammenti ancora che tale soddisfazione non è affatto esclusa dalla logica d’annullamento: essa è semplicemente irrilevante, e può verificarsi o meno senza che ciò incida sui.meccanismi e sulla sostanza oggettiva di tale tutela).

L’azione risarcitoria, invece (quanto meno nel codice civile del 1942, che ha abbandonato l’impostazione prevalentemente oggettiva dell’illecito aquiliano accolta nel 1865), è direttamente ispirata, nel nostro ordinamento, proprio alla "logica della spettanza", e tende quindi ad assicurare all’agente ciò che ad esso di diritto compete.

Beninteso, schemi e risvolti oggettivi sono tutt’altro che ignoti alla disciplina dell’illecito civile (basti pensare alla funzione schiettamente sanzionatoria che tuttora vi attribuisce l’ordinamento comunitario), ma, in linea di massima, tale disciplina prende in immediata considerazione le aspettative del soggetto, e le soddisfa per quanto esse intrinsecamente meritano (e questo tanto se vi si assegna funzione propriamente reintegrativa del danneggiato dall’altrui condotta antigiuridica, tanto se la si concepisce come sistema di redistribuzione dei rischi connessi all’esercizio di attività socialmente utili).

Sul piano del diritto sostanziale, lo iato tra queste diverse prospettive può essere colmato attraverso una ricostruzione delle situazioni giuridiche soggettive del cittadino nei confronti del potere della p.a., che si basi sulla intrinseca meritevolezza di realizzazione degli interessi del privato.

Condizione necessaria perché ciò avvenga, è, a sua volta, la ridefinizione dell'interesse pubblico connesso a (ed in qualche misura inscindibile da) la logica di annullamento, la cui positiva individuazione non dovrebbe più fondarsi sul tradizionale parametro della legalità, ma sul nuovo ed ancora piuttosto nebuloso canone costituito dall'adeguatezza del "risultato" comunque raggiunto, includendo in esso, quale sua componente organica e nient’affatto estranea alla positiva valutazione ordinamentale del risultato conseguito, la stessa soddisfazione dell'interesse del cittadino, se e nella misura in cui essa appaia possibile.

Esistono chiari segnali che il nostro ordinamento si stia rapidamente avviando su questa strada, ma, finchè la trasformazione non sarà compiuta (e, malgrado quanto ho io stesso sostenuto circa la possibilità che a questa revisione si pervenga de jure condito, debbo riconoscere che il sistema è tuttora in gran parte diversamente orientato), le due logiche restano intrinsecamente diverse, e solo occasionalmente possono comunicare e cooperare in piena sinergia.

Se si tiene conto di questo, e se ne traggono le conseguenze sul piano dell'assetto della giurisdizione amministrativa di legittimità e del processo che davanti ad essa oggi si svolge, è agevole accorgersi che l'introduzione della tutela risarcitoria nell'ambito del giudizio amministrativo di legittimità comporta in prospettiva immediata, oltre che una significativa complicazione del metro di giudizio, una vistosa frattura dell'interna coerenza ed omogeneità di un modello processuale finora costruito ed organizzato intorno al nucleo assiologico unitario proprio della logica d'annullamento.

Si viene infatti a duplicare, in tal modo, l'asse portante del giudizio amministrativo, e, di conseguenza, si prospetta la radicale modificazione della stessa conformazione del processo: una cosa è infatti un giudizio inteso in via primaria alla rilevazione ed alla sanzione dell’illegittimità del provvedimento, tutt’altra un processo rivolto direttamente all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale dell'agente.

Il primo è il giudizio di legittimità che abbiamo fondamentalmente tuttora sotto gli occhi: un processo documentale, concentrato in unica udienza, privo di una vera e propria fase istruttoria.

Il secondo è il modello su cui è costruito il giudizio civile: un processo articolato in una pluralità di passaggi e di fasi processuali ben distinte, prima tra tutte, appunto, quella istruttoria.

Il transito dall'uno all'altro modello, e ancor di più la loro convivenza nell’ambito di un medesimo processo, sono dunque tutt'altro che agevoli o scontati, e richiedono riforme ben più profonde di quelle finora messe in atto: richiedono, soprattutto, che si lavori con chiarezza d'intenti sulle "quattro parolette del legislatore" dell’anno 2000, per darvi quel corpo e quella coerenza di sistema che esse, quale che ne sia la valutazione (positiva o negativa), sicuramente non posseggono.

Le riforme del processo, assai più che le altre, non sono infatti realizzabili in via esclusivamente normativa, ma esigono l’adeguamento e l’elaborazione degli operatori, senza i quali la costruzione del sistema risulta concretamente impossibile.

 

2) Dalla percezione immediata della non lieve difficoltà di articolare coerentemente un processo potenzialmente dalla doppia anima, sorgono naturali le resistenze ad accogliere e sviluppare gli elementi di novità introdotti, sia pur con non poche contraddizioni, dalle recenti riforme; da qui, dunque, la tendenza a ridurre lo spessore di tali innovazioni, ed a darne una lettura che le collochi, per quanto possibile, nel solco della tradizione.

Un primo moto di reazione è, ovviamente, ispirato alla radicale contestazione della riforma, e porta all'affermazione che, nell'attuale assetto costituzionale, la giurisdizione ordinaria non può esser sostituita da quella amministrativa nella generale cognizione di controversie che sono "di diritto soggettivo", così sotto l'aspetto sostanziale, come sotto il profilo delle tecniche di tutela giurisdizionale.

La tesi è tutt'altro che peregrina, e può vantare notevoli argomenti a favore, tanto letterali (li si vedrà più oltre), quanto radicati nell'intima logica del sistema di doppia giurisdizione.

A prescindere dall'ardua questione concernente la qualificazione delle situazioni giuridiche soggettive azionabili in sede risarcitoria davanti al giudice amministrativo (se cioè si tratti di diritti soggettivi o viceversa di interessi legittimi), vi è da osservare che l'ordinamento italiano non ha mai realmente conosciuto il sistema della doppia giurisdizione, e che il giudice amministrativo rappresentava fino a ieri (ossia, fino alla sentenza n. 500/1999) il solo vero giudice delle controversie tra il cittadino e l'amministrazione autorità.

La legge n. 205/2000, anzi, sembra proprio voler restaurare questo secolare dominio, potenzialmente compromesso dalla concreta possibilità di sottoporre direttamente al giudice ordinario le questioni risarcitorie relative alla lesione di veri o presunti "interessi legittimi", riconosciuta dalle Sezioni Unite.

Al di là dell’esegesi delle singole disposizioni che riguardano la materia in esame, è dal complessivo disegno della l. n. 205/2000 che si deduce comunque l’evidente intento di concentrare davanti ad un solo giudice ogni controversia tra privato e p.a. che abbia a presupposto l’illegittimità di un provvedimento amministrativo.

 

3) Se si prescinde da posizioni ispirate al rifiuto, più o meno integrale, della riforma, le tendenze tradizionaliste (che peraltro si esprimono per lo più attraverso la semplice non-applicazione o la sotto-utilizzazione dei nuovi istituti) trovano sfogo positivo essenzialmente nella ricostruzione del rapporto tra le due azioni, che viene in vario modo operata nella prospettiva della totale o parziale subordinazione della tutela risarcitoria accordata dal giudice amministrativo rispetto alle logiche, e dunque alle tecniche processuali, proprie della tutela d’annullamento.

La prima, e certo la più radicale di tali tendenze è rappresentata dalla rivendicazione della permanente validità della c.d. "pregiudiziale amministrativa", ossia dall’affermazione che la tutela risarcitoria possa trovare ingresso, nel giudizio amministrativo (ma anche, evidentemente, nel giudizio ordinario), solo previo accoglimento del ricorso per l’annullamento del provvedimento cui si ricollega il "danno ingiusto" lamentato dal cittadino.

In questa prospettiva, il giudice amministrativo è e resta, fondamentalmen-te, il giudice dell’annullamento dell’atto, e la sua proiezione digressiva verso la logica della spettanza, avviene ancora una volta nell’ottica della mera attuazione dei risvolti ripristinatori dell’effetto caducatorio (ossia in una logica oggettiva, come si vedrà di dubbia sostanza risarcitoria).

Se infatti (e proprio perché) l’annullamento dell’atto amministrativo costituisce la necessaria premessa della tutela aquiliana, quest’ultima finisce per perdere la propria autonomia assiologica, e tende ad apparire come una semplice appendice della sentenza caducatoria, un risvolto ulteriore ed eventuale dell’effetto di ri-pristinazione connesso alla pronuncia d’annullamento.

Il giudice amministrativo così, pur in sede di tutela risarcitoria, finisce con l’operare sempre e comunque nella logica oggettiva dell’annullamento, e non in quella della spettanza: il risarcimento, infatti, viene piegato a semplice strumento dell’attuazione della sentenza caducatoria, con effetti distorsivi che appaiono particolarmente evidenti sul piano della tutela risarcitoria dei c.d. interessi oppositivi.

La seconda tecnica adoperata per attenuare la divaricazione tra logica d’annullamento e logica risarcitoria (o meglio: per ridurre quest’ultima a mera proiezione della prima), è rappresentata dalla elaborazione di schemi decisionali rigidi (destinati a trovare coerente collocazione soprattutto nell'ambito del rapporto di pregiudizialità, ma astrattamente concepibili, ed in effetti concepiti, anche al di fuori di esso), che fanno dipendere strettamente la soluzione della questione risarcitoria da quella data alla questione dell’annullamento (o dell’illegittimità) del provvedimento amministrativo.

La questione risarcitoria risulta quindi definita in termini automatici e del tutto simmetrici rispetto ad una decisione di annullamento cui si assegna funzione logicamente (anche se non giuridicamente) pregiudiziale.

La formula con cui si addiviene all'annullamento (ovvero all'accertamento incidentale dell'illegittimità) dell'atto determina così, sia pure attraverso passaggi argomentativi variamente articolati, la contemporanea risoluzione quanto meno del quesito concernente l’an della domanda risarcitoria, ancora una volta affrontata dunque secondo la logica propria dell’annullamento, e non secondo l’intrinseca meritevolezza delle pretese sostanziali del privato, come vorrebbe invece la logica della spettanza.

Una tecnica di questo tipo sembra che si stia affermando nella giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, traendo argomento dalla nota dicotomia tra interessi legittimi oppositivi ed interessi legittimi pretensivi.

Nella stessa sentenza n. 500/1999, per altri versi dalla carica certamente in-novativa, si pone infatti una regola di giudizio che, mentre per quanto riguarda la risarcibilità dei c.d. interessi legittimi pretensivi, porta ad una valutazione in qualche modo ispirata alla logica della spettanza (sia pur restrittivamente intesa), nel caso degli interessi oppositivi, ne sancisce invece la risarcibilità prescindendo del tutto da una tale prospettiva, e ricadendo in pieno nella logica oggettivante propria della tutela d'annullamento.

 

4) Quale spazio hanno tali tendenze nell'attuale diritto positivo italiano?

Appare evidente, da quanto si è appena detto, che il problema principale riguarda l’autonomia ovvero la dipendenza dell’azione risarcitoria rispetto all’azione d’annullamento.

Com’è noto, la sentenza n. 500/1999 delle Sezioni Unite si è pronunciata a favore dell’autonomia delle due azioni, sulla base di una ricostruzione generale del meccanismo dell’illecito civile, ossia qualificando l’art. 2043 c.c. come norma primaria, e non strumentale.

L’art. 7 della l. n. 205/2000 parrebbe invece avallare la tesi della strutturale dipendenza dell’una azione dall’altra, per il fatto stesso di qualificare le questioni risarcitorie come "conseguenziali" rispetto all’annullamento del provvedimento illegittimo.

Entrambi tali argomenti appaiono tuttavia non decisivi.

In primo luogo, ben poco si può trarre dall’art. 7 della l. n. 205/2000, che ammette, anche solo ad una prima esegesi, una pluralità di soluzioni.

Va’ subito riconosciuto che la lettura del testo sembra chiaramente indicare che al giudice amministrativo competono le questioni risarcitorie che siano qualificabili come "diritti patrimoniali conseguenziali".

L'espressione ha una lunga (anche se non molto gloriosa) tradizione nell'ambito della giurisdizione esclusiva, dove indicava le questioni di diritto soggettivo, nascenti dall’annullamento di un provvedimento amministrativo, la cui cognizione veniva eccezionalmente mantenuta al giudice ordinario.

Anche la tecnica normativa utilizzata dal legislatore del 2000 (tecnica che consiste nell'inserimento della nuova norma all'interno di un testo assai precedente), fa pensare che il richiamo a tale categoria non sia stato fatto a caso, ma rappresenti il frutto di una scelta precisa.

Con tutto ciò, la norma si presta ad almeno tre letture.

a) A dispetto della lettera della legge, che parla di risarcimento del danno e degli altri diritti conseguenziali, si può sostenere o che l'aggettivo "conseguenziali" non si riferisca propriamente alle questioni risarcitorie, ovvero anche che esso ne indichi la semplice dipendenza da un provvedimento amministrativo, e non dal suo annullamento.

Sarebbero così attribuite al giudice amministrativo tutte le controversie risarcitorie relative alla lesione di interessi legittimi, sia o non sia intervenuto l'annullamento del provvedimento amministrativo lesivo, purchè questo non risulti emanato in carenza di potere.

Resta aperto il problema della giurisdizione competente a conoscere delle questioni risarcitorie che non trovano origine in una disposizione provvedimentale sfavorevole al ricorrente, bensì nella lesione di situazioni giuridiche di aspettativa collegate semplicemente al comportamento della p.a. provvedente (per esempio, e per tenersi ad una delle ipotesi meno discusse, quelle in cui il danno nasca dal ritardo con cui viene adottato un certo provvedimento, peraltro di contenuto favorevole all'interessato).

Sul piano dei rapporti tra azione di annullamento e azione risarcitoria, risulta invece confermata l'autonomia delle due azioni, sostenuta, com'è noto, dalla sentenza n. 500/1999.

Tali azioni sarebbero dunque proponibili, cumulativamente o alternativamente, davanti al giudice amministrativo, rispettivamente nel termine di decadenza ed in quello prescrizionale.

b) Se si rifiuta questa prospettiva, si apre la strada ad una lettura indubbiamente più rispettosa del testo della disposizione in esame, per la quale le questioni risarcitorie attribuite alla cognizione del giudice amministrativo sarebbero "conseguenziali" all'annullamento del provvedimento da parte dello stesso giudice amministrativo.

Anche il 5° comma del nuovo art. 35 del D. Lgs. n. 80/98, in cui si parla di "risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi", porterebbe a tale conclusione.

Su questa comune base, sono tuttavia possibili due letture radicalmente diverse della norma in esame.

La prima interpretazione, probabilmente la più corretta considerata la sedes materiae, legge la disposizione come pura norma di diritto processuale.

Essa dunque andrebbe interpretata nel senso che spettano alla cognizione del giudice amministrativo, nell'ambito della sua giurisdizione, le sole questioni risarcitorie che siano effettivamente "conseguenziali" all'annullamento del provvedimento amministrativo impugnato davanti a tale giudice, mentre resterebbero nella cognizione del giudice ordinario le questioni risarcitorie che non abbiano un tale legame di conseguenzialità con la pronuncia d’annullamento.

Sulla base di questa interpretazione, e tenendo conto della generale ricostruzione dell'illecito civile proposta dalla Sezioni Unite, il giudice amministrativo potrebbe avere, in concreto, una cognizione risarcitoria di ambito estremamente ridotto, perché la stragrande maggioranza delle pretese risarcitorie collegate ad un provvedimento illegittimo prescinde dall'annullamento di quest'ultimo.

"Conseguenziale" a tale annullamento -mi si consenta qui di esporre solo la sintesi di un ragionamento che verrà svolto più oltre- potrebbe sicuramente dirsi soltanto la questione "risarcitoria" che attenga in realtà alla reintegrazione, tendenzialmente in forma specifica, del soggetto leso dal provvedimento.

La norma non avrebbe dunque alcuna influenza sul problema della autonomia o della dipendenza di azione di annullamento e azione risarcitoria, perché essa opererebbe a valle, attribuendo al giudice amministrativo la cognizione delle sole questioni genericamente risarcitorie che risultino sostanzialmente condizionate all'annullamento stesso.

Tutte le altre pretese risarcitorie, invece, verrebbero conservate alla cognizione del giudice ordinario.

c) La terza soluzione è quella che vede nella norma in esame l'affermazione della strutturale dipendenza dell'azione risarcitoria dall'azione di annullamento.

In base a tale lettura, l'art. 7 non avrebbe carattere puramente processuale, ma acquisterebbe significato propriamente sostanziale, qualificando le questioni risarcitorie (tutte le questioni risarcitorie) collegate ad un provvedimento illegittimo, come questioni "conseguenziali" rispetto all'annullamento di quest'ultimo.

Sul piano della giurisdizione, le conseguenze pratiche sarebbero assai vicine a quelle viste nel primo caso: (quasi) tutte le questioni risarcitorie che fossero collegate alla illegittimità del provvedimento sfavorevole per il ricorrente troverebbero ingresso davanti al giudice amministrativo, mentre resterebbero (in questo caso con maggior probabilità) affidate al giudice ordinario le questioni risarcitorie relative a danni arrecati da un comportamento dell'amministrazione autorità.

Tendenzialmente assai diverse, invece, le conseguenze sul piano della autonomia delle due azioni: ogni qual volta si faccia questione del risarcimento del danno discendente da un provvedimento sfavorevole ed illegittimo, la qualificazione normativa dell'azione risarcitoria in termini di conseguenzialità rispetto all'annullamento del provvedimento stesso, farebbe sì che la prima non possa esser esperita se non insieme o conseguentemente alla proposizione dell'azione di annullamento, il cui esito negativo ne precluderebbe in assoluto l'accoglimento.

 

5) Ho tratteggiato brevemente, e sia pur con inevitabile approssimazione, le tre principali ricostruzioni operabili, e concretamente proposte, sulla base dell'art. 7 della l. n. 205/2000, per evidenziare come esso sia suscettibile delle più diverse letture a seconda della disciplina sostanziale che si presuppone alla sua base, e come sia alquanto forzato tentare di trarre tale disciplina proprio e soltanto dalla norma in esame, che ha dichiaratamente valore processuale, e regola direttamente una questione di riparto di giurisdizione.

È vero che la deduzione di regole sostanziali da norme di diritto processuale è lunga consuetudine del diritto amministrativo italiano, ma tale consuetudine, una volta assolutamente obbligata, non ha forse ormai ragione d’essere.

La l. n. 205/2000, forse inconsapevolmente, ci ha infatti proiettati in un brave new world, in cui le consuete categorie di orientamento (le stesse la cui complessa e sottile meccanica combinatoria dava l’impressione a Giannini di trovarsi di fronte ad una sorta di "prova di esame per mandarino cinese", e su cui la dottrina di diritto amministrativo si è affaticata per decenni) hanno perso smalto, e comunque non posseggono più il vigore assolutamente condizionante di un tempo.

E’ chiaro che, dopo la sentenza n. 500/1999, ed ancor di più dopo il riconoscimento normativo della risarcibilità della lesione dei c.d. "interessi legittimi", la corrente ricostruzione del rapporto tra azione risarcitoria ed azione d’annullamento in chiave di subordinazione non può esser considerata cogente.

La necessaria priorità dell’azione di annullamento (anzi, dell’accoglimento della relativa domanda) è infatti, nell’impostazione tradizionale, una sorta di corollario della teoria della degradazione combinata con l’affermazione della strutturale non-risarcibilità degli interessi legittimi.

Perché l’azione risarcitoria fosse esperibile si richiedeva pertanto, in tale contesto, una pronuncia di annullamento del provvedimento amministrativo che avesse inciso, degradandoli, su preesistenti diritti soggettivi del cittadino. Solo la reviviscenza di tali diritti, con effetto peraltro retroattivo, consentiva al loro titolare di rivolgersi al giudice del risarcimento.

Qualunque cosa si pensi oggi intorno alla sopravvivenza del fenomeno della c.d. "degradazione" (cui anche la sentenza n.500/1999 sembra prestare ossequio), il fatto stesso che si preveda legislativamente il risarcimento di (veri o presunti) interessi legittimi, toglie forza all’impostazione tradizionale, e non consente più di ritenere necessario l’annullamento del provvedimento amministrativo per poter azionare in via risarcitoria situazioni giuridiche soggettive che a questo punto, siano diritti o siano interessi, risultano comunque, in tesi, autonomamente tutelabili davanti ad un giudice, sia esso quello ordinario o quello amministrativo.

Si deve per altro verso osservare che la stessa previsione della diretta azionabilità davanti al giudice amministrativo delle pretese risarcitorie del cittadino, che potrebbe dedursi, come s’è visto, dall’art. 7 della l. n. 205/2000, toglie valore pratico (anche se non spessore teorico) alla ricostruzione generale dell’illecito civile cui le Sezioni Unite si rifanno per sostenere la risarcibilità degli interessi legittimi, e da cui discende, a sua volta, l’affermazione della reciproca autonomia di azione d’annullamento ed azione risarcitoria.

È noto che tutto l’impianto della sentenza n. 500/1999 si fonda su una ricostruzione della responsabilità da fatto illecito che vede sorgere un diritto soggettivo al risarcimento, in capo al soggetto danneggiato, ogni qual volta si verifichi la lesione di un interesse legittimo (come di qualsiasi altro interesse giuridicamente protetto).

Si tratta, come si è già detto, della concezione che riconosce valore di norma primaria, e non secondaria, all’art. 2043 c.c., opinione assai discussa e – almeno fino alla sentenza n. 500/1999 - non seguita dalla prevalente giurisprudenza.

Prima della legge n. 205/2000 - il cui art. 7 può esser letto come norma che attribuisce in generale al giudice amministrativo la cognizione delle questioni risarcitorie comunque connesse con le controversie devolute alla sua giurisdizione -, l’impostazione delle Sezioni Unite era però l’unica che, nel quadro normativo allora vigente, consentisse di individuare un giudice che potesse conoscere del risarcimento della lesione di interessi legittimi.

Seguendo la teoria strumentale dell’illecito aquiliano (come faceva tutta o quasi la giurisprudenza precedente), e sostenendo quindi che fosse proprio e direttamente l’interesse legittimo leso la situazione giuridica azionata in sede risarcitoria, si verificava infatti la ben nota impasse per cui: da un lato, della domanda di risarcimento non poteva conoscere il giudice ordinario, per carenza di giurisdizione nei confronti di una controversia vertente su un interesse legittimo; dall’altro, la domanda risarcitoria non poteva esser introdotta davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità, cui si può ammissibilmente rivolgere solo un petitum di annullamento.

La soluzione delle Sezioni Unite era dunque l’unica che consentiva di superare l’ostacolo, e di estendere la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo oltre le materie di giurisdizione esclusiva.

Il fatto stesso che oggi il giudice cui spetta conoscere delle domande risarcitorie nei confronti della p.a. possa esser generalmente indicato in quello amministrativo, rende però non più necessario seguire l’impostazione teorica delle Sezioni Unite: anche aderendo alla concezione strumentale dell’illecito, vi è infatti, oggi, la possibilità di individuare un giudice cui è normativamente attribuita la potestà di conoscere del risarcimento dovuto per la lesione di un (vero o presunto) interesse legittimo.

L’affermazione dell’autonomia dell’azione risarcitoria dall’azione di annullamento può dunque esser certamente fondata sull’adesione alla concezione dell’illecito civile fatta propria dalle Sezioni Unite, ma essa sconta allora tutti i dubbi e le perplessità che tale ricostruzione può in generale suscitare (prima fra tutte, l’obiezione che in tal modo si finisce per dare consistenza di diritto soggettivo a situazioni giuridiche di minore sostanza e meritevolezza).

 

6) Una volta che ci si sia liberati dal pregiudicante condizionamento della quaestio jurisdictionis, si può impostare il problema nei suoi termini propri, che sono quelli dei rapporti tra le pretese sostanziali che nelle due azioni si esprimono (siano esse riportabili ad una sola ovvero a due distinte situazioni giuridiche soggettive).

A prescindere da ogni altra considerazione, la stessa diversità di ispirazione e di finalità tra l’azione d’annullamento e quella risarcitoria appare di per sé indicativa della possibile coesistenza, su un piano d’autonomia processuale, di pretese che si muovono su piani assiologici differenti.

Un forte argomento a favore della reciproca autonomia delle due azioni, può inoltre desumersi dalla nota tesi dottrinale secondo cui l’illecito civile della p.a. che agisca in veste di autorità (e dunque: l’ingiusta lesione dell’interesse legittimo) và ravvisato a prescindere dalla fondatezza dell’aspettativa del cittadino alla soddisfazione dei propri interessi materiali di base da parte del provvedimento.

Da tale tesi discende infatti la fondamentale irrilevanza della stessa misura provvedimentale nella ricostruzione della responsabilità aquiliana della p.a., che si riporta al comportamento complessivo dell’amministrazione, in quanto contrario al diritto, e non solo al provvedimento in quanto tale.

Per dimostrare questo, ci si richiama persuasivamente, tra l’altro, all’ipotesi esemplare in cui un provvedimento favorevole al cittadino sia reso dalla p.a. con ingiustificato ritardo.

Anche a prescindere dai persistenti dubbi che personalmente nutro sulla qualificazione delle situazioni giuridiche che vengono in gioco, l’argomento generale di questa tesi mi appare convincente..

E tuttavia, le argomentazioni addotte dimostrano l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella d’annullamento, ma nel solo senso che la prima può risultare esperibile anche ove non lo sia la seconda.

Proprio perché nell’ipotesi considerata la misura provvedimentale concretamente assunta non reca di per sé alcun pregiudizio al privato, essa costituisce un evidente caso di carenza di interesse all’impugnazione dell’atto amministrativo, che non potrebbe in nessun caso esser proposta.

Poiché dunque in tale ipotesi non si può in alcun modo prospettare la concorrenza di azione d’annullamento ed azione risarcitoria, essa non può valere a dimostrare che, nei casi in cui entrambe le azioni risultino invece esperibili, queste stiano su un piano di reciproca autonomia.

Per meglio dire: è certo che la responsabilità dell’amministrazione può sussistere indipendentemente dalla fondatezza dell’aspettativa del privato ad una decisione provvedimentale favorevole, ed anzi dalla stessa concreta adozione di una tale misura.

Da questa considerazione, però, si deduce soltanto che l’azione risarcitoria può non essere sempre ed in ogni caso condizionata da quella d’annullamento, ma non si dimostra ancora la reciproca autonomia delle due azioni nel caso in cui sia proprio quanto disposto dal provvedimento a costituire lesione delle aspettative ("legittime" o meno) del cittadino.

In quest’ultima ipotesi, anzi, è possibile sostenere che la pregiudiziale amministrativa trovi fondamento proprio nella natura stessa dell’interesse legittimo, che, in quanto interesse strumentale, protetto disgiuntamente dalla necessaria realizzazione dell’interesse di base, trova fisiologicamente tutela in congegni che sono ripristinatori più che risarcitori, ossia in un meccanismo di ricostituzione della situazione di mera possibilità di realizzazione dell’interesse finale ad opera del corretto esercizio del potere della p.a., ricostituzione che non può prescindere dal preventivo annullamento del provvedimento lesivo.

Questa tesi ha il pregio della assoluta coerenza, ma risulta praticabile solo a due condizioni.

La prima, è quella di acconsentire a svuotare sostanzialmente di significato la pregiudiziale amministrativa, che in tal modo finisce per esercitarsi nei confronti di un'azione risarcitoria in concreto estremamente improbabile e pressochè esclusivamente "di scuola": l'ambito in cui dovrebbe esplicarsi la pretesa "tutela risarcitoria", infatti, viene quasi per intero occupato dall'effetto ripristinatorio dell'annullamento, sicchè di risarcimento non v’è da fare questione (in pratica, se non anche in teoria, si verrebbe in tal modo ad ammettere la sostanziale non risarcibilità dell'interesse legittimo in quanto tale).

La seconda, è quella di ridisegnare il quadro delle situazioni giuridiche del soggetto nei confronti della p.a., e di qualificare quindi come diritti soggettivi gran parte di quelli che attualmente vengono ritenuti interessi legittimi: ossia tutte le fattispecie in cui la pretesa di soddisfazione dell’interesse materiale di base del cittadino si affermi e si riscontri in concreto come necessità giuridica, e non come mera possibilità.

Sul piano sostanziale, nulla si oppone a questa tesi: vi ostano invece problemi di adeguatezza di tutela (quegli stessi che hanno storicamente determinato la fortuna dell’interesse legittimo), perché, almeno al di fuori delle materie di giurisdizione esclusiva, ciò comporterebbe l’affidamento delle pretese di soddisfazione "reale" delle aspettative sostanziali del cittadino ad un giudice (quello ordinario) cui è positivamente inibito accordare, nei confronti del provvedimento amministrativo, altra tutela che non sia quella "obbligatoria".

Ora, se la legge n. 205/2000 ha un qualche pregio sul piano operativo, questo stà proprio nel render in gran parte irrilevante, al fine di concedere adeguata protezione giudiziale alle aspettative del cittadino, il problema della loro qualificazione come diritti ovvero come interessi: le pur legittime esigenze di chiarezza definitoria, in una materia peraltro assai controversa quale quella delle situazioni giuridiche soggettive, non possono dunque esser invocate senza tener conto delle loro conseguenze sul piano della resa complessiva del sistema di tutela.

A prescindere da questo disperante problema, vi è un solo effetto che, sulla base della diritto vigente, può con relativa sicurezza connettersi al mancato esperimento (o al rigetto) dell’azione demolitoria: il consolidarsi dell’assetto di interessi stabilito dal provvedimento, una volta che questo sia divenuto intangibile per il ricorrente.

Se di "azione risarcitoria" si vuol genericamente parlare, questa non ne risulta quindi condizionata nell’esperibilità, bensì nel petitum: essendo ormai indiscutibile l’assetto di interessi tracciato dal provvedimento, il ricorrente non potrà chiedere la reintegrazione "in forma specifica" del danno subito, ma potrà domandare soltanto la sua riparazione "per equivalente".

 

7) Questa stessa conclusione, comunemente accolta, è stata utilizzata come argomento per sostenere la pregiudiziale amministrativa, ma in un senso particolare: vi è infatti (Falcon) chi sostiene la necessità giuridica che l’assetto di interessi definito dal provvedimento venga contestato dal ricorrente attraverso l’azione d’annullamento, proprio al fine di evitare che il danno arrecato assuma dimensione esorbitante, e soprattutto, in prospettiva, allo scopo di lasciare all’amministrazione (anziché al privato) la scelta tra soddisfazione in forma specifica e soddisfazione per equivalente delle pretese del cittadino.

Ma queste preoccupazioni, a mio avviso, non giustificano la subordinazione dell’azione risarcitoria rispetto all’azione di annullamento, e ciò per due ordini di motivi.

In primo luogo, ritengo di poco rilievo pratico le pur legittime preoccupazioni circa la possibilità che un ricorrente astuto e sleale ometta artatamente l’impugnazione del provvedimento per determinare a proprio carico danni emergenti di cui poi si riserva di chiedere il risarcimento.

Ricordo infatti che, in linea generale, il ristoro in forma specifica rappresenta non solo e non tanto un prius, quanto soprattutto un melius per il soggetto danneggiato, che dunque ben difficilmente, potendone usufruire, vi rinuncerà.

Azioni risarcitorie sganciate dall’azione di annullamento (peraltro esperibile in unico contesto davanti al medesimo giudice) sono prevedibili soltanto in caso di decorrenza dei termini decadenziali di impugnazione, perché nessun ricorrente vorrà rinunciare a priori alla soddisfazione in forma specifica dei propri interessi materiali che solo l’annullamento consente.

Ammesso peraltro che ipotesi quale quella temuta siano concretamente prospettabili, vi sarebbero almeno due rimedi utili ad evitarne le deprecabili con-seguenze: da un lato, e certamente, l’amministrazione potrebbe esercitare i propri poteri di autotutela nei confronti del provvedimento non impugnato, ove la prospettiva di risarcire il ricorrente determini un concreto interesse pubblico a ridefinire l’assetto di interessi a suo tempo delineato dal provvedimento stesso; in secondo luogo (e sia pure più dubitativamente, poiché in generale la giurisprudenza civile non considera doverosa la proposizione di azioni giudiziarie al fine di ridurre l’incidenza dannosa dell'illecito), non è escluso che possa farsi ricorso al generale principio per cui l’ammontare del danno è ridotto della percentuale di esso dovuta al comportamento negligente dello stesso danneggiato, al fine di escludere che possa richiedere integrale soddisfazione pecuniaria dei propri interessi materiali lesi colui che abbia lasciato consolidare il provvedimento amministrativo da cui tale lesione deriva.

Ma soprattutto, mi pare che l’affermazione della necessaria priorità dell’azione di annullamento rispetto a quella risarcitoria determini conseguenze sistematiche negative assai più gravi di quella che si vorrebbe scongiurare, sia per il cittadino che per la stessa amministrazione.

a) Si osservi in primo luogo, per quanto riguarda il cittadino, che si verrebbe a determinare un rafforzamento del termine decadenziale breve cui tuttora è sottoposto il ricorso al giudice amministrativo: la decorrenza di tale termine, spesso ritenuto insufficiente perché il cittadino possa articolare compiutamente le proprie difese, determinerebbe per il ricorrente la consumazione insieme sia dell’interesse all’annullamento, sia del "diritto" al risarcimento del danno.

Si aggraverebbero, insomma le condizioni cui è sottoposto l'esercizio del diritto di difesa.

b) Ma anche l'amministrazione potrebbe subire meno dirette conseguenze negative dall'affermazione della "pregiudiziale amministrativa".

La subordinazione dell’azione risarcitoria all’esito positivo dell’azione di annullamento rischia infatti di determinare l’impossibilità di spostare sul piano risarcitorio la garanzia di quegli interessi del cittadino di carattere puramente formale, che oggi ricevono tutela attraverso l’annullamento.

È noto come il problema sia sempre più acutamente avvertito dalla dottrina, e come siano in atto iniziative legislative tendenti ad evitare l’annullamento del provvedimento affetto da vizi puramente formali.

La realizzazione di questo disegno presuppone peraltro la possibilità di risarcire il privato in luogo di annullare il provvedimento, ma ciò sembra ovviamente impedito dalla eventuale necessità che l’accoglimento del ricorso per annullamento preceda in generale la proposizione dell’azione risarcitoria.

A questo punto, a sostenere la pregiudiziale amministrativa resterebbe soltanto il timore del contrasto tra giudicati, che peraltro avrebbe ben poca concreta possibilità di verificarsi ove si ritenesse che le due azioni debbano comunque esperirsi, sia pur in tempi diversi, davanti ad uno stesso giudice.

Troppo poco, mi sembra, per giustificarne la generale affermazione.

 

8) E veniamo adesso alla seconda questione: se cioè il diritto positivo, pur negando l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tra azione di annullamento e azione risarcitoria, istituisca tuttavia meccanismi di automatica risoluzione della questione risarcitoria legati alle forme di illegittimità dell’atto amministrativo, anziché alla consistenza delle pretese sostanziali di soddisfazione dell’interesse materiale del privato leso.

Come si è detto, meccanismi di questo tipo emergono dalla giurisprudenza, sia civile che amministrativa.

La sentenza n. 500/1999, infatti, per un verso ribadisce l’automatico diritto al risarcimento del titolare di interessi legittimi oppositivi lesi da un atto comunque viziato, per l’altro costruisce la c.d. "rete di contenimento", nei confronti della responsabilità per lesione di interessi legittimi pretensivi, sul versante della ingiustizia del danno, negando che questa sussista ove la pretesa al provvedimento favorevole non sia sostenuta da buone probabilità di accoglimento, secondo una valuta-zione prognostica che il giudice deve compiere in base all’id quod plerumque accidit.

La giurisprudenza amministrativa, a sua volta, sembra decisamente orientata a dare una lettura restrittiva di tale regola, riconoscendo il diritto al risarcimento al titolare di interessi pretensivi solo nel caso in cui ravvisi la giuridica necessità che l’amministrazione emanasse il provvedimento favorevole richiesto dall’interessato.

Ancorchè siano proprio le proposizioni riguardanti la tutela risarcitoria dei c.d. "interessi pretensivi" ad aver sollecitato le più forti critiche della dottrina, queste non sembrano passibili, almeno nella prospettiva qui adottata, di un giudizio eccessivamente severo: se infatti l’apparato argomentativo è assai debole (ed anzi, francamente contraddittorio), non così può dirsi della soluzione offerta, che viene anzi sostanzialmente confermata dalla stessa dottrina contraria.

In un modo o nell’altro, la tutela risarcitoria dell’"interesse al provvedimento" sembra infatti dover necessariamente passare attraverso una "valutazione prognostica" più o meno rigorosa della fondatezza della pretesa del ricorrente.

Anche chi contesta, con piena ragione, le considerazioni svolte al riguardo dalla sentenza n. 500/1999, non perviene, in concreto, a diverse soluzioni pratiche: chi afferma infatti -come Scoca- che una tale valutazione è del tutto superflua al fine di integrare la ingiustizia del danno da lesione di interessi legittimi, riconosce poi che essa finisce per pesare enormemente sulla stessa configurabilità del danno medesimo, nel caso in cui la lesione non attinga l’interesse materiale di base del ricorrente (emblematico quanto Scoca osserva circa la "rete di contenimento", che, a suo avviso, non sta nell’aggettivo "ingiusto", ma nel sostantivo "danno").

Allo stato, appare dunque difficile configurare una lesione dell’interesse al provvedimento scissa dalla lesione dell’interesse materiale di base (e del resto, secondo Vaiano, e sia pure in una linea di pensiero ovviamente diversa da quella di Scoca, l’interesse legittimo c.d. "pretensivo" è giuridicamente configurabile come una vera e propria pretesa al provvedimento favorevole).

E là dove ciò appare invece possibile (penso per esempio al danno da ritardo, che può certamente ravvisarsi anche in assenza di una pretesa giuridicamente fondata ad ottenere il provvedimento), può dubitarsi che la situazione giuridica azionata riguardi effettivamente l’aspettativa di provvedimento in quanto tale, e non piuttosto la pretesa all’integrità patrimoniale del ricorrente, intesa come il generale diritto ad ottenere l’eliminazione delle conseguenze nocive, patrimonialmente apprezzabili, dell’altrui condotta antigiuridica.

In ogni caso, e per quanto qui interessa, la regola di giudizio adottata per risolvere il problema della risarcibilità della lesione dell’interesse pretensivo risulta in qualche modo fondata su una valutazione che, a prescindere da altre considerazioni, è comunque incentrata, sia pur mediatamente, sulla fondatezza della pretesa materiale del privato (tutt’al più si avverte al riguardo la necessità di una maggiore precisione concettuale, che porti a convertire la formula "vizi formali-vizi sostanziali", comunemente adoperata a fini di affermazione della responsabilità della p.a. provvedente, in quella relativa alla meritevolezza o alla non-meritevolezza delle pretese del privato, secondo le lucide considerazioni svolte da Caranta nel volume del 1993).

Se quello di esser concretamente risarcito solo in presenza di un vero e proprio "diritto al provvedimento" sembra l'ineluttabile destino del titolare di interessi pretensivi, non altrettanto avviene invece per il portatore di interessi c.d. "oppositivi", la cui posizione di privilegio rispetto al primo viene addirittura ribadita dalle Sezioni Unite.

La Corte, infatti, non solo respinge nettamente la prospettiva di risolvere questo differente trattamento sul piano della diversità delle situazioni giuridiche di base, affermando che gli interessi legittimi oppositivi non radicati in un preesistente diritto soggettivo ricevono la medesima tutela di quelli che hanno invece un tale radicamento (del tutto coerentemente, qui, con la impostazione generalmente accolta, che ritiene irrilevante la qualità delle situazioni giuridicamente protette ai fini della disciplina del risarcimento), ma ribadisce più volte la necessità che la lesione dell’interesse legittimo sia accompagnata da quella dell’"interesse al bene della vita" cui il primo si collega, "interesse al bene della vita" che peraltro deve possedere, a questo scopo, giuridica meritevolezza di realizzazione.

Orbene, l’affermazione della necessità di una tale (distinta e ulteriore) lesione perché si possa dar luogo al risarcimento dell’interesse legittimo, prospetta in termini di almeno apparente contraddizione logica (e non di mera discrasìa assiologica) il diverso trattamento riservato, al riguardo, agli interessi pretensivi e a quelli oppositivi.

Mentre infatti il regime risarcitorio dei primi risulta congruo con tali principii, quello dei secondi non lo è: che chi abbia subìto -exempli gratia- un illegittimo rifiuto di concessione edilizia possa lamentare un danno risarcibile solo ove la concessione stessa non dovesse esser per altro verso negata, si accorda assai bene con i principii enunciati dalle Sezioni Unite; molto meno bene si comprende però che, al contrario, il destinatario di un illegittimo provvedimento d’annullamento d’ufficio di una concessione demaniale abbia titolo al risarcimento in ogni caso, anche ove sia sostanzialmente ben fondata la decisione di sacrificare l'interesse del privato a mantenere la detenzione del fondo.

Il problema di questa disparità era stato denunciato più volte e con forza, assai prima della sentenza n. 500/1999, dalla dottrina, che aveva da tempo rilevato tanto l’assurda iper-protezione degli interessi oppositivi, tanto l’iniquità della ridotta tutela di quelli pretensivi.

Alla denuncia, tuttavia, non avevano fatto seguito proposte risolutive pie-namente soddisfacenti; i tentativi si erano indirizzati per lo più verso l’ampliamento delle concrete possibilità di tutela del titolare di interessi pretensivi, senza riuscire a scalfire il nocciolo stesso di una così eclatante disparità di trattamento: l’iper-protezione degli interessi oppositivi, la cui dinamica risarcitoria risulta impermea-bile alla considerazione della intrinseca consistenza, sub specie di fondatezza, della pretesa del loro titolare a non esser toccato dal provvedimento stesso.

La sentenza n. 500/1999 batte, in fondo, questa medesima strada: da una parte riconosce, sempre ed in ogni caso, la risarcibilità degli interessi oppositivi, mentre impone dall’altra al titolare degli interessi pretensivi di dimostrare che, secondo quanto era lecito attendersi, la sua richiesta avrebbe dovuto trovare accoglimento da parte della p.a.

Così facendo, però, le Sezioni Unite dimostrano di non aver pienamente compreso le potenzialità di sviluppo dell’affermazione dell’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella d’annullamento.

La incondizionata risarcibilità degli interessi legittimi oppositivi, quale che sia il tipo di illegittimità da cui risulta affetto il provvedimento amministrativo che li colpisce (o meglio: a prescindere dalla consistenza giuridica della pretesa del titolare alla salvezza del proprio interesse materiale di base), non è infatti un corollario della logica giuridica, discendente dalla stessa struttura negativa della pretesa implicita in tale situazione soggettiva, ma rappresenta il frutto della peculiare dinamica in cui viene ad inserirsi una tutela risarcitoria strutturalmente dipendente dal preventivo annullamento dell’atto lesivo.

In particolare, nel nostro ordinamento essa costituisce, storicamente, la conseguenza (logicamente forse non necessaria, ma praticamente ineluttabile) del congegno di tutela risarcitoria positivamente venutosi ad instaurare nei confronti dell’amministrazione-autorità, e vigente, per sola scelta giurisprudenziale, almeno fino alla sentenza del 1999; si tratta, più precisamente, di un effetto riflesso della ritenuta necessità che l’azione risarcitoria nei confronti della p.a. provvedente faccia seguito all’annullamento del provvedimento amministrativo.

Il tradizionale meccanismo di tutela nei confronti degli atti amministrativi è infatti -come s’è visto- conformato in modo tale, che ogni valutazione circa la responsabilità dell’amministrazione viene compiuta solo dopo l’annullamento del provvedimento lesivo, ossia in un momento in cui l’ingiustizia del danno subito dal privato ed il nesso di causalità tra di esso e il comportamento della p.a. non formano più oggetto di discussione.

Quando infatti la vicenda viene esaminata in sede risarcitoria, l’avvenuta caducazione dell’atto illegittimo ha ormai privato di ogni titolo giuridico il pregiudizio arrecato al cittadino, che dunque appare indiscutibilmente ingiusto e collegato causalmente al comportamento contra jus (perché sine titulo) dell’amministrazione.

Il problema dell’eventuale rilievo da attribuire all’intrinseca correttezza della misura adottata dall’amministrazione non ha modo di porsi, perché l’ormai consumato annullamento di tale atto tende a prospettare la tutela aquiliana come mera proiezione dell’effetto di ripristinazione connesso alla pronuncia d’annullamento.

Si è detto altrove che, per un paradosso solo apparente, la protezione degli interessi del privato nei confronti della p.a. nell’ordinamento italiano è storicamente tanto più intensa ed efficace quanto più essa è "di diritto oggettivo" e non "di diritto soggettivo", ossia quanto meno è legata alla considerazione del valore intrinseco delle aspettative del cittadino, e quanto più si connette invece alla tutela de (quello che si ritiene essere) il pubblico interesse.

Ebbene, la vicenda appena descritta ne è l’ennesimo esempio: confuso con l’effetto ripristinatorio dell’annullamento, disposto appunto essenzialmente nell’interesse pubblico, il diritto al "risarcimento" del titolare dell’interesse oppositivo finisce col prescindere completamente dalla pur possibile valutazione della fondatezza della pretesa negativa che vi si esprime, perché esso appare come una semplice tecnica di ricostituzione dello status quo.

Se non avviene altrettanto nel caso dell’interesse "pretensivo", non è dunque per un’intrinseca differenza di natura giuridica - e tanto meno di meritevolezza - delle aspettative del titolare, ma è solo perché l’effetto ripristinatorio dell’annullamento risulta qui insufficiente, di per sé, a radicare una lesione della pretesa materiale (questa volta positiva) del cittadino.

Se però si interrompe questo circuito, e si giudica della responsabilità aquiliana della p.a. prescindendo dall’annullamento del provvedimento amministrativo, si gettano le basi per valutazioni più articolate, sia per quanto attiene all’ingiustizia del danno, sia per quanto attiene al nesso di causalità tra di esso ed il comportamento dell’amministrazione.

Anziché venire invariabilmente in gioco una volta che l’annullamento del provvedimento l’abbia privata di titolo giuridico, e l’abbia dunque qualificata contra jus nella sua globalità, l’azione amministrativa verrebbe infatti ad esser considerata, ai fini risarcitori, in una prospettiva più complessa, in cui la sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana non è più scontata a priori, ma si pone in termini problematici.

Lasciando da parte, perché troppo carica di implicazioni teoriche discendenti da dispute ultrasecolari, la prospettiva, pur logicamente praticabile, di negare il necessario collegamento tra illiceità del comportamento ed ingiustizia del danno (e di affermare quindi la possibilità che un comportamento illecito non produca di per sé solo un danno ingiusto), emergono comunque, in tale ottica, profili sotto cui la considerazione della "spettanza" del comportamento negativo dell’amministrazione, preteso dal titolare di interessi legittimi c.d. "oppositivi", parrebbe poter concretamente intervenire a contenere l’affermazione della responsabilità aquiliana della p.a.

Solo a titolo esemplificativo, potrebbe divenir rilevante, a tal fine, la ricostruzione del nesso di causalità.

Ricordo infatti che, da un punto di vista generale, il comportamento antigiuridico dell’agente non è di per sé sufficiente a determinare un danno ingiusto in capo al soggetto su cui ricade l’azione, ma che tra i due termini deve intercorrere, per questo, un rapporto di derivazione causale.

L’affermazione del nesso di causalità, a sua volta, implica una valutazione di adeguatezza causale del comportamento incriminato, che rappresenta condicio sine qua non del verificarsi del pregiudizio. Perché possa affermarsi la responsabilità dell’agente, in sintesi, bisogna dimostrare che il danno lamentato non si sarebbe prodotto ove lo stesso non avesse tenuto il comportamento antigiuridico, ovvero si fosse comportato secundum jus.

Valutato con questo metro, il comportamento dell’amministrazione connesso ad un provvedimento amministrativo illegittimo potrebbe esser ritenuto fonte di responsabilità aquiliana solo ove l’atto sia affetto da vizi senza i quali la misura provvedimentale sarebbe risultata diversa; in caso contrario -ove cioè sia dimostrabile che il provvedimento avrebbe dovuto esser di identico contenuto anche se fosse stato immune dai vizi riscontrati- potrebbe sostenersi plausibilmente che manchi il nesso di causalità tra il comportamento antigiuridico dell’agente ed il danno lamentato (posto pure che questo sia da considerare iniuria datum).

 

9) La breve disamina delle principali questioni sollevate dall’introduzione dell’azione risarcitoria nell’ambito della giurisdizione amministrativa di legittimità, dimostra come non sussistano insormontabili ragioni perché tale inserimento debba avvenire in forme tali, che facciano della questione risarcitoria una sorta di appendice della tutela di annullamento, e come vi siano spazi sufficienti per realizzare la piena autonomia tra le due azioni, entrambe idonee a farsi portatrici di esigenze diverse, con potenziale vantaggio sia del cittadino che dell’amministrazione.

Sotto il profilo sostanziale, anzi, la subordinazione (giuridica e/o logico-argomentativa) della tutela risarcitoria alla logica dell’annullamento, conduce ad effetti perversi là dove perpetua l’iperprotezione degli interessi oppositivi.

L’unico aspetto sotto cui la tutela risarcitoria appare effettivamente condizionata dal preventivo esperimento, ed anzi dall’esito positivo dell’azione di annullamento, è invece quello del c.d. "ristoro in forma specifica", intendendosi per tale quello che mira alla cancellazione dell'assetto di interessi definito dal provve-dimento, ed alla sua sostituzione con quello richiesto dal ricorrente.

Il risarcimento in forma specifica, secondo talune recenti prospettazioni, assume nel diritto amministrativo caratteri che non corrispondono in realtà alla vera e propria tutela aquiliana, ma tengono assai di più della tutela ripristinatoria (esso viene infatti accordato a prescindere sia dall’esistenza di un danno patrimonialmente apprezzabile, che, soprattutto, dall’indagine sull’elemento soggettivo dell’illecito), tanto che, ben lungi dall’inquadrarlo tra le forme della tutela risarcitoria, lo si è addirittura contrapposto ad essa (Trimarchi Banfi).

Si condividano o meno tali opinioni sul piano del diritto sostanziale, si può plausibilmente sostenere che il risarcimento in forma specifica del danno derivante da un provvedimento amministrativo non sia accordabile a prescindere dalla tutela d’annullamento, per il semplice fatto che solo quest’ultima può demolire l’assetto d’interessi ivi prefigurato.

Non così il risarcimento per equivalente, che può ovviamente concorrere con la tutela d’annullamento al fine di colmare le eventuali lacune del meccanismo ripristinatorio, ma può anche presentarsi come alternativo rispetto ad essa.

In un saggio di imminente pubblicazione, Aldo Travi lamenta la latente incomprensione, da parte della dottrina e della giurisprudenza, non solo amministrative, della sostanziale diversità, di presupposti e di approdi, delle varie forme che assume la tutela lato sensu risarcitoria.

Cospicui esempi di tale incomprensione sono emersi anche da questo lavoro, in cui s’è visto come anche le Sezioni Unite siano offuscate, nella stessa percezione del problema del risarcimento degli interessi oppositivi, dalla tendenziale riconduzione della questione risarcitoria entro lo schema della ripristinazione dello status quo.

Si può fondatamente ipotizzare che da questa stessa confusione si sia potuto trarre spunto per estendere in generale alla tutela risarcitoria nei confronti dell’amministrazione-autorità un rapporto di strutturale dipendenza dall’annul-lamento del provvedimento lesivo che si attaglia, tutt’al più, soltanto al risarcimento in forma specifica (se pure questo non corrisponda integralmente al diverso modello della tutela ripristinatoria).

Tale confusione, a sua volta, è frutto delle valenze contrastanti (se non addirittura contraddittorie) che è venuta nel tempo assumendo la figura dell’interesse legittimo, in cui si comprendono sia pretese di diretta soddisfazione dell’interesse materiale di base del cittadino (come tali: suscettibili di ricevere una lesione autonomamente apprezzabile in sede di tutela aquiliana), sia aspettative incentrate sulla semplice "presa in considerazione" di un tale interesse da parte dell’amministrazione provvedente - pretese cui è invece connessa una tutela essenzialmente ripristinatoria, e dunque ricostitutiva dello status quo, che si esplica in via primaria attraverso l’annullamento dell’atto lesivo, e che solo sussidiariamente e condizionatamente a questo trova sbocco nell’eventuale risarcimento del danno, per quanto l’annullamento non sia riuscito a realizzare.

Sul piano sostanziale, si tratta di pretese assai diverse, unificate sotto la medesima etichetta solo per le note vicende del sistema italiano di giustizia amministrativa.

Non appena si attenui la condizionante pressione della necessità di porre rimedio alle insufficienze di tale sistema, tuttavia, la loro diversa carica assiologica riaffiora inevitabilmente, e impedisce di attribuire coerentemente ad entrambe un medesimo regime di tutela.

 

10) In conclusione, logica d’annullamento e logica di spettanza non solo restano separate, ma le azioni cui esse fanno capo conservano, sul piano sostanziale, una reciproca autonomia che male si tenterebbe di negare o di stravolgere in nome delle esigenze del processo.

La configurazione unitaria del giudizio amministrativo di legittimità può quindi esser mantenuta solo adottando letture fortemente riduttive dell’art. 7 l.n.205/2000, e limitando al massimo le controversie lato sensu "risarcitorie" che esso attribuisce alla cognizione del giudice amministrativo: sposando cioè la tesi che si tratti qui delle sole pretese ripristinatorie (per lo più in forma specifica, ma anche per equivalente), che appaiono fisiologicamente conseguenti all’annullamento del provvedimento lesivo, in quanto tendono a perfezionare, se del caso svolgendone fino in fondo le implicazioni positive, il meccanismo di ricostituzione dello status quo che da tale annullamento discende.

Se si segue invece l’indirizzo che tende ad ampliare le competenze del giudice amministrativo di legittimità, estendendolo alle questioni propriamente risarcitorie, allora ci si deve rassegnare ad un giudizio dalla doppia fisionomia.

Di tale duplicità non si deve, a mio avviso, avere eccessivo timore.

Da un lato, sarebbe infatti assai peggio sacrificare a queste aspirazioni unitarie, per quanto sistematicamente importanti, la coerenza della tutela accordata dal giudice amministrativo rispetto alla consistenza assiologica sostanziale delle pretese di cui è questione.

Dall’altro, nulla impone che la dialettica tra logica d’annullamento e logica di spettanza debba risolversi nel predominio della prima: la contemporanea pendenza davanti al medesimo giudice di azioni ispirate ad entrambe potrebbe infatti condurre - ed è infine l’auspicio di chi scrive - a nuove e più articolate soluzioni, in cui la stessa tutela d’annullamento potrebbe recepire i valori non formali della logica di spettanza, per ricomporre così, ma in un diverso quadro di valori fondanti, quell'unità di ispirazione del processo amministrativo che appare oggi compromessa.

L'abbandono del rigido ed onnivalente schema di tutela incentrato sull'annullamento dell'atto amministrativo, e solo successivamente ad esso sull'eventuale risarcimento del danno così causato, viene infine incontro ad esigenze ormai imprescindibili della giustizia amministrativa, prima tra tutte quella di recuperare flessibilità ed adeguatezza assiologica, e di modulare quindi su piani diversi, ed avvalendosi di diversi strumenti, la risposta dell’ordinamento alle diverse istanze di tutela del cittadino nei confronti dell’azione autoritativa della p.a.

Il problema fondamentale che la subiettivazione della c.d. "tutela di interesse legittimo" pone oggi, è infatti quello di tenere adeguatamente conto della complessità sostanziale delle varie pretese che vi convergono, per risolverle coerentemente attraverso schemi di tutela differenziati, che possano combinare variamente, e non più secondo un modulo obbligato, annullamento e responsabilità. Così come esistono infatti pretese adeguatamente tutelabili attraverso il solo annullamento, e non in via risarcitoria, esistono del pari situazioni di interesse protetto rispetto alle quali è l’annullamento ad apparire incongruo, e la tutela risarcitoria si rivela del tutto satisfattiva. Annullamento e risarcimento possono infine esser offerti entrambi, ora sulla base della libera scelta dell’interessato (che può determinare in piena autonomia quale tutela maggiormente gli convenga), ora secondo il modello tradizionale discendente dal rapporto (non più immancabile) di pregiudizialità amministrativa. In prospettiva de jure condendo, infine, potrebbero trovare spazio anche nel nostro ordinamento le soluzioni già adottate altrove (per esempio: nell'ordinamento francese), per cui la scelta tra risarcimento ed annullamento dell’atto è talora rimessa a valutazioni d’opportunità della stessa amministrazione provvedente.

L'importante, ai fini della ricostruzione di un sistema armonico pur nella sua multipolarità, è che la moltiplicazione degli schemi di tutela non ne comprometta il raccordo, che la loro apparente complicazione obbedisca infine a logiche sinergiche che li rendano tutti tributari rispetto ad un disegno assiologico necessariamente complesso, ma intimamente coerente.

A questo fine, la concentrazione delle diverse forme di tutela davanti ad un medesimo giudice non è forse un'imprescindibile necessità, ma offre certo le migliori garanzie di abbreviare i tempi della crisi, e di condurre senza eccessivi traumi alla formazione di un sistema di giustizia amministrativa finalmente efficiente e razionale.


Stampa il documento Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico