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FILIPPO ROMANO
La responsabilità del funzionario
pubblico
nel nuovo diritto amministrativo
Sommario:
1. La responsabilità del pubblico funzionario
1.1. Responsabilità per danno e responsabilità per risultato
1.2. Parallelismo fra l’evoluzione della responsabilità e l’organizzazione della P.A.
2. Il responsabile del procedimento ex articolo 4 l. 241/1990.
2.1. Nozione
2.2. Individuazione del responsabile del
procedimento e profili organizzativi
2.3. Responsabile dell’unità organizzativa e
responsabile del procedimento
2.4. Compiti del responsabile del procedimento
2.5. Tipi di responsabilità
3. Su alcune forme speciali di responsabilità dei pubblici funzionari
3.1. Disciplina generale e discipline speciali
3.2. Il responsabile del trattamento dei dati
ex articoli 8 e 15 l. 675/1996
3.3. Il responsabile del servizio per la tenuta del protocollo informatico ex articolo 12 del d.P.R. 428/1998
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1.1. Responsabilità per danno e responsabilità per risultato
Per due millenni, dal diritto romano a quello moderno, la categoria giuridica della responsabilità ha mantenuto il suo carattere originario di obbligo nascente dalla causazione di un danno. Nel corso del tempo sono mutate le condizioni e gli ambiti: dalla responsabilità per fatto altrui a quella per fatto proprio, dalla responsabilità per generica lesione a quella per danno ingiusto da atto illecito, dalla responsabilità civile a quella penale e amministrativa.
Non è mutata, invece, fino a
tempi recenti, la concezione della responsabilità come sanzione, secondo
l’antica accezione linguistica del termine rispondere quale sinonimo di
“ricambiare” (dal verbo latino spondere, promettere, cui si antepone la
preposizione oppositiva re-). È, questa, la responsabilità aquiliana, consacrata
per la prima volta dalla lex Aquilia nel III secolo a.C., e sancita nel nostro
ordinamento giuridico dall’articolo 2043 del Codice civile, vero grundgesetz
valevole in ogni ambito e in tutte le branche del diritto (con alcuni distinguo
per il penale) e anche con riferimento alla pubblica amministrazione.
Esiste anche, peraltro, una
diversa accezione giuridica della categoria in esame, che si è andata delineando
nell’ultimo secolo, in parallelo con il rafforzamento del diritto amministrativo
e, più recentemente, con la riscoperta dell’anima organizzativista dello stesso.
Si tratta della concezione della responsabilità quale “dovere di cura” cui,
anche sotto il profilo linguistico, fa da sponda l’accezione latina di
produzione, resa, assicurazione. Tale forma di responsabilità può essere anche
definita come “responsabilità gestionale”, o “di risultato”. Quest’ultima
caratterizzazione del termine ha rilievo pressoché esclusivo nel diritto
amministrativo, e assume importanza soprattutto alla luce delle recenti
innovazioni legislative in tema di responsabilità dei pubblici funzionari, delle
quali si tratterà più avanti.
Entrambe le facce della
bifronte categoria costituiscono responsabilità per comportamenti e sono
accomunate dalla funzione di garanzia intesa, nel primo significato, quale
garanzia della riparazione dell’eventuale danno e, nel secondo, quale garanzia
del buon fine dell’azione amministrativa, cioè, in altre parole, del risultato.
Tuttavia dietro ciascuna di
esse vi sono due modi quasi opposti di intendere i doveri del pubblico
funzionario. Il primo è quello tradizionale, per il quale il principale obbligo
dell’amministrazione verso i privati risiede pur sempre nel neminem laedere
e quindi, a ben vedere, in una attenta e corretta applicazione delle regole
giuridiche, con particolare riferimento a quelle procedimentali, il cui rispetto
basta a escludere l’ingiustizia del danno eventualmente cagionato (anche perché
- almeno prima della nota sentenza della Corte di cassazione n. 500/1999 -
l’atto legittimo degrada i diritti soggettivi a interessi legittimi, non
suscettibili di tutela aquiliana)[1].
Il secondo è quello moderno, per il quale l’amministrazione, e i suoi
funzionari, hanno in primo luogo l’obbligo di perseguire il pubblico interesse e
conseguire gli obiettivi assegnati attraverso una complessa attività di cura;
questa deve anche, naturalmente, essere legittima e non ledere alcuno, ma tali
requisiti non assurgono più al rango di finalità bensì tornano al loro ruolo
genuino di vincoli posti dal legislatore alla discrezionalità della pubblica
amministrazione[2].
Nel passaggio dalla prima
concezione alla seconda si identifica buona parte dell’evoluzione recente del
diritto amministrativo. Diverse innovazioni legislative e giurisprudenziali,
infatti, vi hanno avuto riflessi diretti o indiretti: la trasparenza dell’azione
amministrativa, il diritto d’accesso, la separazione fra attività di indirizzo
politico e attività di gestione, l’istituzione del responsabile del
procedimento, l’affermazione della risarcibilità degli interessi legittimi.
Sono tutte novità
legislative o interpretative riconducibili al decennio di riforme degli anni
novanta. L’antesignana, però, risale ai primi anni settanta e coincide con
l’introduzione della c.d. “responsabilità dirigenziale”, con il d.P.R. 30 giugno
1972, n. 748. A lungo sostanzialmente disapplicata nella pratica, e di
conseguenza sottovalutata nelle elaborazioni teoriche dottrinali, tale ultima
forma di responsabilità ha rappresentato il primo ingresso della responsabilità
gestionale e per obiettivi nel nostro ordinamento.
La responsabilità
dirigenziale, infatti, soprattutto alla luce della ridefinizione operata dal
d.lgs. 29/1993 e dal d.lgs. 80/1998, si identifica non con un obbligo di
riparare il danno cagionato con un comportamento non giuridico o antigiuridico
bensì con il dovere di raggiungere gli obiettivi assegnati al dirigente dal
vertice politico attraverso gli strumenti di programmazione suoi propri.
Come appena accennato,
siffatta concezione di responsabilità, incentrata sul risultato piuttosto che
sul danno, si è affermata al termine di un lungo processo evolutivo della
struttura decisionale nella pubblica amministrazione. La trasformazione della
concezione tradizionale di responsabilità in quella moderna ha coinciso,
infatti, con il passaggio dall’amministrazione ministeriale verticistica a
quella improntata alla separazione dei poteri e all’autonomia dei dirigenti.
Si tenga presente che, fino
alla riforma della dirigenza del 1972 (d.P.R. 748), i pubblici funzionari non
avevano un proprio spazio di discrezionalità come tale riconosciuto e tutelato
dalla legge. Ogni loro potere discendeva dal vertice politico dei ministeri e
degli enti pubblici diversi dallo Stato, attraverso il meccanismo della delega.
La responsabilità limitata alla causazione di danni ingiusti, cioè quella da
atto illecito, costituiva il logico pendant alla mancanza di poteri
propri; infatti i funzionari, anche dei gradi più alti, non potevano essere
ritenuti responsabili del raggiungimento di risultati che non toccava a loro
conseguire essendo limitata la loro funzione all’esecuzione delle direttive dei
vertici politici e al necessario coordinamento degli uffici.
Tanto forte era il legame
concettuale fra una simile costruzione della pubblica amministrazione e la
tradizionale concezione della responsabilità del singolo atto e dello specifico
danno che De Stefani, il padre della riforma amministrativa fascista degli anni
venti, affermava l’impossibilità di una responsabilità per risultati in un
sistema gerarchico a causa del frazionamento delle competenze; era, pertanto,
possibile solo una responsabilità per atti formali, del tipo più antico[3].
Questa concezione della responsabilità dei funzionari pubblici era ispirata all’ideologia cavouriana sulla quale era stata disegnata la prima amministrazione italiana (anzi, già quella del Regno di Sardegna, datando la legge Cavour di riforma dell’amministrazione centrale 1853, con il n. 1843).
La legge 1483/1853 diede,
all’epoca, un assetto moderno allo stato sabaudo, conformandolo al modello
montesquieano della divisione dei poteri e della responsabilità dell’esecutivo
di fronte al legislativo. L’oggetto fondamentale della riforma fu appunto il
potere esecutivo, ovvero la pubblica amministrazione; l’obiettivo di Cavour era
una ristrutturazione delle strutture amministrative che le rendesse coerenti al
modello. A questo fine tutte le competenze amministrative furono concentrate nei
ministeri, e vennero abolite le “aziende”, che fino ad allora svolgevano la
gestione economica dei servizi amministrativi.
Il risultato fu una struttura piramidale, con il vertice occupato dal ministro, legittimato dalla fiducia del Parlamento - e quindi degli elettori - in quanto membro del Governo. Soltanto il ministro poteva emanare atti (tutti i provvedimenti dell’amministrazione, infatti, portavano la sua firma), in quanto esclusivamente sulla sua persona incombeva la responsabilità politica.
La concezione
ideologica di fondo era che, se la funzione esecutiva é svolta in virtù di
un’investitura elettorale, attraverso la mediazione del Parlamento, allora
tutta la struttura amministrativa deve fare capo ad organi responsabili davanti
alle Camere ed al corpo elettorale. Corollario del principio della separazione
dei poteri, con il correlato meccanismo della fiducia parlamentare, é dunque la
struttura piramidale della pubblica amministrazione, che dev’essere, per così
dire, “riassunta” tutta nella persona del ministro responsabile. In un modello
così congegnato non v’è posto per entità amministrative al di fuori della
struttura ministeriale[4].
I presupposti di questo ordinamento (un suffragio censitario assai ridotto ed un’amministrazione semplice e numericamente limitata), tuttavia, vennero a mancare con la fine dello Stato liberale[5]. Già con la Sinistra al potere, ma soprattutto a partire dal 1912, con il suffragio universale, lo Stato si trasformò ed assunse caratteri più popolari; ne conseguì l’assunzione di compiti ed attività in numero sempre crescente (i c.d. fini secondari, o di progresso). Aumentarono quindi i servizi pubblici e l’intervento statale nell’economia. Si cominciò a disaggregare la pubblica amministrazione in una pluralità di soggetti[6]. È stato un cammino quasi secolare, ancora oggi non invertito nonostante le recenti tendenze nella direzione della “privatizzazione”.
La Costituzione repubblicana, all’articolo 97, collegò espressamente l’ordinamento degli uffici alle sfere di competenza dei pubblici funzionari, nonché alle loro attribuzioni e responsabilità (comma II), stabilendo un nesso fra quest’ultima e l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni. Come noto, peraltro, il dettato costituzionale in materia è stato successivamente interpretato in maniera decisamente restrittiva.
La riforma del 1972, con
l’introduzione della responsabilità dirigenziale, ha sostituito - nel rapporto
fra vertice politico e vertice burocratico - il principio di direzione al
vecchio principio di gerarchia, superando la tradizionale identificazione fra
ministro (o altro vertice politico) e amministrazione.
Il principio di direzione
supera lo strumento dell’ordine e lo trasforma nella direttiva,
dal contenuto ampio e non puntuale, tale da lasciare spazi di discrezionalità al
destinatario. Inoltre, il citato d.P.R. 748/1972 introduce sfere di competenza
proprie dei dirigenti, distinguendo fra atti definitivi che possono
essere adottati dai vertici burocratici e atti di esclusiva competenza del
vertice politico.
Tuttavia, la facoltatività
dell’esercizio dei poteri dirigenziali - rispetto alla parallela intangibilità e
alla potenziale elasticità di quelli dei vertici politici - ha impedito
l’effettivo affermarsi dell’autonomia decisionale dei dirigenti e, di
conseguenza, della loro reale responsabilizzazione con riferimento al risultato
più che alla legittimità dei singoli atti. A ciò si aggiunga che, già dagli
albori dello Stato unitario (con la legge di contabilità generale 22 aprile
1869, n. 5026, che istituì il sistema della Ragioneria generale e delle
ragionerie centrali presso i ministeri) il circuito contabile
dell’amministrazione pubblica italiana è stato separato da quello
gestionale-amministrativo; ne è derivata una sostanziale impossibilità di
attribuire la responsabilità per la cura della cosa pubblica e per il
raggiungimento dei concreti obiettivi assegnati sia ai funzionari amministrativi
che a quelli contabili: i primi perché istruivano e concludevano i procedimenti
ma non emettevano ordini di spesa; i secondi poiché non influivano in modo
esplicito e diretto sul processo decisionale. In terzo luogo, si deve
evidenziare che anche la più temuta delle responsabilità dei pubblici
funzionari, cioè quella patrimoniale nei confronti dell’erario (sub specie
di responsabilità amministrativa e responsabilità contabile), è stata sempre
legata alla causazione di uno specifico atto colposo o doloso, e non alla
insufficiente risultato dell’attività gestionale.
Alla piena ed effettiva
affermazione della responsabilità per risultato si è giunti soltanto dopo il
trascorso decennio di riforme, i cui momenti fondamentali possono essere
succintamente indicati nei seguenti:
1. legge 142/1990 sull’ordinamento degli enti locali
(generalizzata ed esplicita introduzione della dirigenza negli enti locali e
prima apparizione del principio di separazione fra attività di indirizzo
politico e attività di gestione amministrativa);
2. legge 241/1990 sul procedimento amministrativo (introduzione
della figura del responsabile del procedimento, sulla quale v. infra);
3. d.lgs. 29/1993 di riforma del pubblico impiego
(privatizzazione dell’impiego alle dipendenze di pubbliche amministrazioni e
definitiva consacrazione del principio di separazione fra attività di indirizzo
politico e attività di gestione amministrativa);
4. d.lgs. 77/1995 di riforma del bilancio degli enti locali
(trasformazione del bilancio in uno strumento di programmazione generale, con
riduzione delle unità fondamentali di spesa e di entrata e decisivo aumento
della discrezionalità dei centri di spesa);
5. contratti collettivi nazionali di lavoro della dirigenza
pubblica del quadriennio 1994-1997 (ancoraggio di una componente stipendiale al
raggiungimento dei risultati);
6. legge 94/1997, di riforma del bilancio statale e
sull’unificazione dei ministeri del tesoro e del bilancio e programmazione
economica (trasformazione del bilancio statale in uno strumento di
programmazione generale, con riduzione delle unità fondamentali di spesa e di
entrata e decisivo aumento della discrezionalità dei centri di spesa);
7. legge 127/1997, c.d. “Bassanini bis” (decisivo
rafforzamento della separazione fra politica e amministrazione negli enti
locali, anche di piccole dimensioni, con l’attribuzione ai responsabili di
servizio non aventi qualifica dirigenziale delle funzioni decisionali e delle
relative responsabilità);
8. d.lgs. 80/1998 e d.lgs. 387/1998, sul pubblico impiego
(seconda riforma della dirigenza con radicali modifiche al d.lgs. 29/1993, con
la privatizzazione dei dirigenti generali, con l’attribuzione delle risorse
finanziarie per obiettivi ai singoli dirigenti e con la definitiva consacrazione
della responsabilità per risultati, anche attraverso la durata a tempo
determinato e per fini individuati nel contratto individuale degli incarichi);
9. legge 265/1999, c.d. “Napolitano-Vigneri” (modifiche
all’ordinamento degli enti locali con riordinamento della legge 142/1990 alla
luce delle novità introdotte dalla “Bassanini bis”);
10. d.lgs. 286/1999 di riordino dei meccanismi di valutazione e
controllo nella pubblica amministrazione (predisposizione di strumenti e
meccanismi idonei a verificare e a misurare il raggiungimento degli obiettivi
assegnati da parte dei dirigenti).
11. d.lgs. 300/1999 e d.lgs. 303/1999 di riordino
dell’amministrazione dello Stato (adeguamento delle strutture amministrative ai
nuovi principi di separazione fra politica e amministrazione e alla
responsabilità dirigenziale).
Le riforme appena elencate
hanno segnato l’ingresso in quella che voce autorevole chiama “terza fase”
evolutiva della responsabilità dei dirigenti pubblici[7].
La principale differenza rispetto al sistema istituito dal d.P.R. 748/1972
risiede nell’esclusività della competenza attribuita ai dirigenti. Le sfere di
competenza dei vertici politici e dei vertici burocratici sono rigidamente
delimitate, tanto da fare propendere certa giurisprudenza a ritenere viziato da
incompetenza assoluta, e quindi emesso in carenza di potere, l’atto adottato in
violazione di detta delimitazione[8].La
tecnica di distribuzione della competenza, nel potere esecutivo, passa così da
una tecnica basata sull’identità a una basata sulla distinzione, a seconda della
natura dell’attività da svolgere[9].
A ciò si accompagna l’assegnazione ai dirigenti di risorse finanziarie
finalizzate al perseguimento degli obiettivi indicati nei contratti individuali
d’incarico, sanando l’antico divorzio fra amministrazione e finanza.
Conseguenza del nuovo regime
di competenza e di attribuzione dei poteri di spesa, introdotto dal legislatore
sia in considerazione del fallimento del sistema del d.P.R. 748/1972, sia al
fine di ovviare a quella che si era andata rivelando negli ultimi decenni come
una mancanza di capacità della classe politica ad amministrare (nel senso
specifico del termine), è stata la definitiva affermazione del nuovo modello di
responsabilità del quale s’è parlato fin qui: la responsabilità intesa come
cura, come attività, come obbligo di rispondere dei risultati conseguiti
piuttosto che quale passivo comportamento de damno vitando rispettoso in
primo luogo del neminem laedere; una responsabilità nuova che accompagna
l’evoluzione da un’amministrazione “per atti” a una “per attività” e, in
prospettiva, da un diritto amministrativo orientato alla fase patologica
e alla riparazione giurisdizionale della lesione dei diritti e degli interessi a
uno orientato alla fase fisiologica e al soddisfacimento degli stessi
diritti e interessi, privati e pubblici.
Alla luce di quanto esposto
devono essere intese le forme particolari di responsabilità del pubblico
funzionario sulle quali si dirà nel prosieguo, tutte identificabili come
responsabilità di cura o di risultato.
La prima forma di
responsabilità annoverabile fra quelle della nuova tipologia è anche la più
generale, poiché si riscontra necessariamente in ogni ambito amministrativo.
Essa, infatti, ricorre in relazione a ogni procedimento amministrativo,
indipendente dall’amministrazione procedente e dall’oggetto dello stesso.
L’articolo 4 della legge 241/1990 è, infatti, una norma generale di una legge di principi. Esso, come noto, prevede che tutte “le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare, per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza, l’unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale”.
La legislazione di settore,
precedente ma soprattutto successiva alla legge 241/1990, ha introdotto
specifiche figure di responsabile del procedimento, differenziate per l’ambito
specialistico della materia. Ne sono esempi il responsabile unico per le fasi di
realizzazione dei lavori pubblici (articolo 7 della legge 109/1994, c.d. legge
“Merloni”), il responsabile del trattamento dati (articolo 8 della legge
675/1996, c.d. legge sulla privacy), il responsabile della sicurezza
(articolo 15 della legge 675/1996) e il responsabile del servizio per la tenuta
del protocollo informatico (articolo 12 del d.P.R. 428/1998). Sono figure
comunque accomunate dall’appartenenza all’unico genus creato dalla legge
241/1990, del quale condividono gli aspetti di fondo. È opportuno, pertanto,
esaminare preventivamente la figura generale del responsabile del procedimento.
Questa ha - come il tipo di
responsabilità di cui è portatore - una duplice valenza: verso l’interno
dell’amministrazione, intesa come cura dell’interesse pubblico soddisfatto
attraverso l’organizzazione degli uffici e il raggiungimento dell’obiettivo
assegnato; verso l’esterno quale responsabilità per i risultati conseguiti non
già nei confronti dell’amministrazione e ai fini della retribuzione aggiuntiva,
bensì nei confronti dei privati interessati o dei cittadini e ai fini della
soddisfazione dei loro interessi e diritti.
Come già ricordato,
l’articolo 4 fa obbligo alle amministrazioni di indicare, per ciascun
procedimento, l’unità organizzativa responsabile. Tale individuazione, secondo
l’interpretazione del Consiglio di Stato, ad onta della dottrina prevalente[10],
deve avvenire attraverso regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, commi 3
e 4 della legge 400/1988, poiché trattasi di disposizione di carattere normativo[11].
Nell’ambito delle unità
organizzative, alla precisa identificazione del responsabile deve provvedere il
dirigente delle stesse unità. Questo, infatti, ai sensi dell’articolo 5 della
legge 241/1990 assegna a sé o ad altro dipendente la responsabilità
dell’istruttoria e di ogni altro adempimento inerente al singolo procedimento.
In mancanza di individuazione la responsabilità di tutti i procedimenti
assegnati all’unità organizzativa dal regolamento di cui sopra è del dirigente
(articolo 5, comma 2).
La distribuzione delle
competenze e delle connesse responsabilità procedimentali avviene, pertanto,
secondo il seguente schema:
1) l’amministrazione si dota di apposito regolamento di
organizzazione con il quale individua i procedimenti e ne attribuisce la
competenza e le responsabilità alle diverse unità organizzative in cui si
suddivide, salvo che la legge non disponga già in materia (come le norme di
depenalizzazione fanno nei riguardi delle prefetture); la mancata adozione del
regolamento, trattandosi di atto doveroso, inficia tutti i procedimenti
amministrativi di competenza dell’amministrazione per illegittimità (contrasto
con l’articolo 4 della legge 241/1990);
2) i capi delle unità organizzative adottano uno o più atti
amministrativi con i quali assegnano a sé o a propri subordinati la
responsabilità dei singoli procedimenti; la mancata adozione degli atti comporta
- come già esposto - la responsabilità diretta del capo dell’unità organizzativa
(articolo 5)[12].
Una volta individuato, il
responsabile del procedimento deve essere noto agli interessati e ai
controinteressati (un obbligo di comunicazione è sancito dall’articolo 5, comma
3 della legge 241/1990).
Giova soffermarsi brevemente
sulla qualificazione professionale del responsabile del procedimento e del
responsabile dell’unità organizzativa. La legge 241/1990 parla di dipendente per
il primo caso e di dirigente per il secondo. In realtà, a seconda delle diverse
amministrazioni sia l’uno che l’altro possono essere soggetti di qualifica
dirigenziale o di altra qualifica. Nelle strutture ministeriali, di norma, i
capi delle unità organizzative sono dirigenti o funzionari di qualifica
immediatamente inferiore (ex IX livello, attualmente personale inquadrato
nell’area C3). Negli enti locali sono dirigenti o dipendenti di altra qualifica,
solitamente non inferiore all’ex VI livello - area C3 (ma il CCNL in
vigore, quadriennio 1998-2001, impone che nei comuni con almeno un dipendente di
VII qualifica - area D1 i responsabili dei servizi appartengano a tale area).
Nelle carriere speciali, come la diplomatica o la prefettizia, sono dipendenti
aventi qualifiche diverse ma equiparate a quelle dirigenziali del personale c.d.
“privatizzato”.
Naturalmente i responsabili
dei singoli procedimenti sono di qualifica inferiore rispetto ai capi delle
unità organizzative (oppure di pari qualifica ma con incarico subordinato).
Questi, ai sensi del novellato articolo 16, comma 1, lett. e, del d.lgs. 29/1990
(dal d.lgs. 80/1998), svolgono funzioni di coordinamento e controllo dei
responsabili dei procedimenti appartenenti alla propria unità organizzativa
nonché funzioni sostitutive in caso di inerzia. Ciò perché - è il caso di
sottolinearlo - la responsabilità del responsabile del procedimento non esclude
quella del dirigente dell’unità organizzativa, relativa all’andamento generale
dell’attività gestionale di competenza della stessa. I poteri del dirigente
dell’unità organizzativa, comunque, non devono spingersi fino a privare di
contenuto l’autonomia organizzativa e decisionale di cui deve godere il
responsabile del procedimento, per poter efficacemente svolgere il ruolo
conferitogli: i limiti sono quelli indicati dal citato articolo 16
(coordinamento, controllo, da intendersi quale verifica periodica degli stati di
avanzamento delle pratiche, e sostituzione per inerzia).
Il termine “unità
organizzativa” usato dal legislatore della 241/1990 è volutamente generico,
dovendosi applicare a tutte le pubbliche amministrazioni (sopra si è fatto
l’esempio dello Stato e degli enti locali territoriali, ma organizzazioni di
tipo diverso presentano, solo per citarne alcune, le scuole, le università, gli
enti pubblici non territoriali, le aziende). Qualche difficoltà identificativa
può sorgere per le amministrazioni più ramificate. Spetta alla discrezionalità
delle stesse prevedere quali procedimenti siano da riservarsi alla diretta
competenza delle più grandi ripartizioni (dipartimenti, direzioni generali o
centrali) e quali a quella delle unità più piccole. Criterio generale è che la
qualità di “unità organizzativa” ai fini della legge 241/1990 debba essere
attribuita ai più piccoli uffici aventi rilevanza esterna e comunque più vicini
al cittadino. Ciò sia per ragioni pratico-organizzative (agli uffici più elevati
nella piramide organizzativa e ai loro dirigenti devono essere lasciate solo
funzioni di indirizzo, coordinamento e controllo), sia per una doverosa
attuazione anche all’interno delle organizzazioni pubbliche del principio di
sussidiarietà[13].
A ben vedere anche l’uso che
si fa del termine “dirigente” in relazione alle tematiche della responsabilità e
della competenza è generico e non corrisponde all’inquadramento contrattuale e
retributivo della qualifica. Dirigente - ai fini degli effetti giuridici degli
atti posti in essere - è colui che dirige e che risponde dell’attività
complessiva di una unità organizzativa, a prescindere dalla qualifica formale
rivestita. Vero è che il d.lgs. 29/1997, il d.lgs. 286/1998 (sui sistemi di
valutazione e controllo nelle pubbliche amministrazioni) danno un ruolo ben
definito al dirigente, inteso proprio come dipendente iscritto nell’apposito
ruolo unico (per i ministeri); ma è vero anche che numerose discipline speciali,
nonché la generale possibilità di reggenza degli uffici di livello dirigenziale
da parte dei funzionari di qualifica immediatamente inferiore, impediscono di
identificare univocamente il grado con la funzione.
Il responsabile del
procedimento non riveste, dal canto suo, una posizione necessariamente
sovraordinata rispetto ai colleghi coinvolti nel procedimento stesso. Tuttavia,
poiché non può aversi responsabilità senza poteri, è evidente che le sue
indicazioni relative al procedimento di cui è responsabile costituiscono
direttive per gli altri impiegati. Si ritiene che il responsabile non possa
delegare la responsabilità e i poteri conferitigli ad altri soggetti, stante il
carattere fiduciario dell’investitura e in osservanza del generale principio per
cui delegatus delegari non potest.
Un sistema interessante di
distribuzione delle responsabilità è quello attuato dall’INPS, una delle
amministrazioni pubbliche più avanzate sotto il profilo organizzativo e più
attente all’efficienza e alla misurazione delle prestazioni. Nelle sedi
dell’INPS (=uffici periferici) è stata istituita una figura apposita, il
responsabile di processo, cui il contratto nazionale d’amministrazione in vigore
ha dato riconoscimento anche sotto il profilo retributivo. Si tratta di un
funzionario, inquadrato come “quadro”, di qualifica sub-dirigenziale che
sovrintende all’intero procedimento di competenza della sede (che è, per l’INPS,
l’unità organizzativa cui fa riferimento la legge 241/1990, diretta da un
funzionario con qualifica dirigenziale). Si può dire che per l’INPS la nuova
distribuzione delle competenze e delle responsabilità introdotta dal d.lgs.
29/1993 e dal successivo d.lgs. 80/1998 ha correttamente comportato una
riorganizzazione complessiva della struttura (la cui mancanza era stata, invece,
una delle ragioni del fallimento della riforma del 1972).
Fin qui si è dato per
scontato che l’intero procedimento sia di competenza della stessa unità
organizzativa, e che l’adozione del provvedimento finale sia di competenza del
suo dirigente. In alcuni casi, tuttavia, il procedimento è suddiviso fra più
unità organizzative (procedimenti complessi). In tal caso la legge impone un
distinguo: se le unità amministrative appartengono a diverse amministrazioni la
responsabilità del procedimento non potrà che essere suddivisa fra le diverse
unità amministrative interessate; se, invece, queste appartengono alla medesima
amministrazione, sembra corretta l’interpretazione che, anche per un
fondamentale favor per il privato interessato, considera doverosa
l’identificazione di un unico responsabile[14].
Si pone, in tal caso, il
problema dell’inquadramento del rapporto fra il responsabile e i capi delle
unità organizzative interessate. Per evitare il porsi della questione, il
Dipartimento della funzione pubblica si è espresso, nell’immediatezza della
pubblicazione della legge 241/1990, in senso contrario alla possibilità di
individuare un responsabile unico[15].
Tuttavia, una più moderna concezione delle strutture amministrative consente,
anzi impone, di mutuare dalla organizzazioni private l’assetto delle
organizzazioni di progetto o quello c.d. “a matrice”. In buona sostanza, con
tali modalità organizzative, un responsabile del procedimento (o del processo,
secondo la terminologia adottata dall’INPS) può fare riferimento, per l’uso
delle diverse strutture intervenienti, a diverse unità organizzative.
Naturalmente si affievolisce, in tal caso, la sua dipendenza dai capi delle
stesse, che diviene soltanto funzionale e limitata alle singole fasi
procedimentali. Continuano, però, a dipendere dai capi delle unità tutte le
risorse delle stesse, di personale, strumentali e finanziarie. Inoltre, permane
il già citato potere sostitutivo in caso di inerzia, da ricondursi,
evidentemente, in capo al dirigente della prima ripartizione amministrativa che
comprenda nel suo seno tutte le unità organizzative coinvolte (in altre parole,
il minimo comun dirigente…).
Nulla quaestio¸
invece, riguardo alla competenza ad adottare il provvedimento finale. La stessa
legge 241/1990, infatti, considera eventuale l’ipotesi che questa coincida con
la responsabilità del procedimento (articolo 5, comma 1). Altrettanto eventuale,
pur se statisticamente maggioritaria, è la possibilità che l’adozione competa al
dirigente dell’unità organizzativa. In ogni caso non vi è alcun ostacolo
concettuale alla scissione dell’istruttoria dalla sottoscrizione dell’atto
finale, tanto più in una pubblica amministrazione in cui, per un secolo
abbondante, questa è stata la regola (visto che tutti gli atti erano di
competenza dei vertici politici).
L’articolo 6 della legge
241/1990 individua i compiti del responsabile del procedimento.Questi possono
schematicamente essere così elencati:
1) valutazione preliminare delle condizioni di ammissibilità,
dei requisiti di legittimazione e dei presupposti rilevanti per l’emanazione del
provvedimento finale; siffatto esame preliminare importa nel diritto
amministrativo il principio processualistico di economia per il quale l’esame
dell’ammissibilità della questione deve precedere e, se del caso, escludere la
valutazione della fondatezza della domanda;
2) compimento di tutti gli atti istruttori necessari
all’emanazione del provvedimento finale (accertamenti tecnici, ispezioni,
richieste di documenti, di rettifiche o di dichiarazioni, studi giuridici,
ecc.); la necessarietà degli atti istruttori deve essere intesa in modo
restrittivo: il compimento di atti non strettamente necessari o la richiesta di
documenti non necessari, a meno che non ricorrano straordinarie e motivate
esigenze (articolo 1, comma 1, della legge 241/1990), possono comportare
l’annullamento giurisdizionale del provvedimento per eccesso di potere[16];
3) indizione delle conferenze di servizi previste
dall’articolo 14 della legge 241/1990 o, in mancanza dell’apposita competenza,
proposta dell’indizione agli organi competenti; si ricorda che l’indizione della
conferenza di servizi segue l’accertamento della necessità di un esame
contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo, ovvero di acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi
comunque denominati da parte di altri organi o enti pubblici;
4) cura delle comunicazioni, delle pubblicazioni e delle
notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti in vigore;
5) adozione del provvedimento finale, ove ne sussista la
competenza; in mancanza, trasmissione degli atti all’organo adottante.
Dall’esame dei compiti
appena elencati appare chiaro che la responsabilità del soggetto in esame è
responsabilità di cura e di risultato, nel senso più volte chiarito nel corso
dell’esposizione. Tuttavia incombono sul predetto anche le più tradizionali
responsabilità per fatto illecito e per danno ingiusto, sotto il profilo civile,
penale e amministrativo. È il caso di esaminarle separatamente.
1) Responsabilità penale
Il responsabile del
procedimento può essere chiamato a rispondere penalmente a cagione dell’incuria
nell’adempimento dei propri compiti quando questa integri omissione d’atti
d’ufficio ai sensi dell’articolo 328, comma 2, del Codice penale (modificato
dalla legge 86/1990, non a caso coeva della legge 241/1990). Si ricorda che
costituisce omissione il mancato compimento degli atti del proprio ufficio entro
trenta giorni della richiesta dell’interessato salva risposta recante
esposizione delle ragioni del ritardo. Il termine coincide, non a caso, con
quello generale individuato dalla legge 241/1990 (articolo 2, comma 3). Secondo
l’opinione prevalente in dottrina, l’ampliamento del termine generale, che è
consentito alle amministrazioni dallo stesso articolo 2 della legge 241/1990,
comporta anche l’estensione del termine di cui all’articolo 328 c.p. Ciò perché
l’interpretazione estensiva è ammessa in quanto in favor rei; in ogni
caso la maggiore lunghezza del termine indicato dai regolamenti in materia
costituisce se non altro scriminante, sub specie di esercizio di un
diritto e adempimento di un dovere.
Il comportamento omissivo
del responsabile del procedimento non può normalmente integrare gli estremi
dell’abuso d’ufficio (articolo 323 c.p.), soprattutto a seguito della recente
riforma del reato, che ha introdotto il dolo specifico dell’intenzione
dell’agente di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale
ovvero un danno ingiusto (legge 234/1997).
2) Responsabilità civile
Il funzionario che ha la
cura del procedimento risponde civilmente dei danni cagionati a terzi con
violazione degli obblighi fissati dall’articolo 6 della legge 241/1990 (v.
supra). È questa una delle ragioni per cui il legislatore impone la
comunicazione agli interessati dell’identità del responsabile del procedimento
(articolo 5, comma 3).
3) Responsabilità
amministrativa
Il funzionario preposto alla gestione del procedimento risponde anche sotto il profilo amministrativo, sotto i diversi aspetti che tale responsabilità assume:
- contabile o erariale
(a seconda che si abbia o meno maneggio di valori), per i danni cagionati
all’amministrazione;
- disciplinare, per
le violazioni dei doveri del responsabile del procedimento in quanto pubblico
dipendente, in applicazione dei contratti collettivi e delle eventuali norme di
legge.
4) Responsabilità gestionale
Già la responsabilità disciplinare, nella misura in cui prescinde da un danno, si avvicina a quella gestionale la quale, come più volte precisato, riguarda le modalità di gestione delle attività affidate e i risultati da queste conseguite.
Poiché non si dà
responsabilità senza sanzione, oltre che senza poteri, sorge un problema a
proposito della possibilità di configurarne il tipo gestionale a carico dei
funzionari che non rivestono la qualifica di dirigente.
Infatti, per i dirigenti la
responsabilità gestionale si identifica con quella dirigenziale e ha le seguenti
sanzioni, elencate in ordine di gravità:
- mancata corresponsione della retribuzione di risultato (anche
unitamente ad una della sanzioni successive);
- mancata conferma dell’incarico alla scadenza;
- rimozione dall’incarico e, per i dirigenti statali, messa a disposizione del ruolo unico.
Per i responsabili non
dirigenti predette sanzioni non sono applicabili. Posto che la sanzione della
rimozione spetterebbero alla disciplina legale, va peraltro denunciata una
carenza dei contratti collettivi in merito alla previsione di una parte della
retribuzione dei funzionari di grado più alto legata ai risultati, qualora
incaricati della responsabilità di procedimenti.
Tuttavia, una sanzione già
allo stato individuabile esiste: è la mancata conferma nell’incarico al quale,
in molti contratti, sono legate apposite voci retributive. Per esempio, nel CCNL
degli enti locali sono previste apposite indennità, di un certo valore, per le
c.d. posizioni organizzative, cioè per gli incarichi che pongono il dipendente
in posizione di coordinamento di un gruppo di lavoro o di una sezione operante
all’interno di un servizio avente rilevanza esterna. Nello stesso contratto sono
previste indennità superiori per i responsabili dei servizi i quali, come si è
già detto, possono anche non essere dirigenti, soprattutto nei piccoli comuni.
Il contratto di settore dell’INPS prevede un indennità per i responsabili di
processo, come già accennato. Altri contratti di lavoro prevedono forme simili
di retribuzione aggiuntiva. La mancata conferma dei soggetti incaricati
comporta, quindi, la perdita di dette indennità, la cui misura è sovente non
trascurabile (da 10 a 15 milioni annui per le posizioni organizzative e le
responsabilità di processo; da 10 a 25 milioni per le responsabilità dei
servizi).
A ciò si aggiunga che le
singole amministrazioni, e addirittura, in sede di contrattazione decentrata, i
singoli uffici possono prevedere altre forme di incentivazione la cui perdita
per responsabilità nella cattiva gestione e nel mancato raggiungimento degli
obiettivi costituisce una sanzione sufficiente.
Da ultimo, si tenga presente
che i contratti collettivi dell’ultima tornata (1997-2001) hanno reintrodotto,
dopo una perniciosa latitanza che durava dal 1981-83, forme di progressione in
carriera per il personale di tutti i livelli. Anche questa può costituire un
incentivo, nonché, a contrario, una sanzione, per il corretto
espletamento dei doversi inerenti la responsabilità gestionale.
Si deve peraltro
sottolineare come la limitazione del sistema delle nomine e dei controlli di
gestione alla dirigenza - almeno nelle grandi amministrazioni - costituisca una
incompletezza del nuovo sistema organizzativo della pubblica amministrazione. In
particolare, lascia perplessi il totale silenzio del d.lgs. 286/1999, che ha
recentemente riordinato l’intero complesso dei meccanismi di valutazione e
controllo, non preveda alcuna forma di controllo e valutazione sull’operato dei
dipendenti non dirigenti.
Fin qui si sono esposte le
grandi linee della responsabilità dei pubblici funzionari, lasciando volutamente
in ombra i profili tradizionalmente più studiati della responsabilità per danni
verso terzi e del rapporto fra quella dell’amministrazione e quella dei
dipendenti, disciplinato dal notissimo articolo 28 della Costituzione.
Sull’argomento esiste stampa sterminata e qualsiasi manuale fornisce complete
esposizioni.
Si è preferito, invece,
soffermarsi sulla seconda faccia della responsabilità del funzionario pubblico,
già definita “bifronte”: quella gestionale, della cura fisiologica
dell’interesse pubblico, del risultato.
Anche se ogni forma di
responsabilità presenta sempre le due facce, dunque anche quella tradizionale
della riparazione del danno in sede civile, penale e amministrativa, le
tipologie speciali delle quali si dirà adesso - ma anche altre qui non trattate,
come quella del responsabile unico dei procedimenti di progettazione,
realizzazione e gestione dei lavori pubblici o quella del responsabile per la
sicurezza ex legge 626/1994 - sono inquadrabili principalmente nella
responsabilità “di cura” e facilmente comprensibili se esaminate alla luce degli
elementi esposti nel paragrafo sul responsabile del procedimento.
La legge 31 dicembre 1996,
n. 675, meglio nota come legge sulla privacy o, meglio, sulla protezione
dei dati personali, istituisce una nuova figura di responsabile (anche) nelle
pubbliche amministrazioni. Si tratta del responsabile del trattamento dei dati.
Prima di definire e descrivere tale figura è necessario, però, richiamare alcune
nozioni di base sul trattamento dei dati.
La legge 675/1996, conforme
ad altre discipline europee e a quella comunitaria (anzi, in molti punti
anticipatrice delle stesse) e intervenuta dopo anni di polemiche sul disinvolto
uso dei dati personali da parte di soggetti attivi nel mondo del commercio e
della pubblicità, ha lo scopo di assicurare che il trattamento[17]
dei dati personali[18]
si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della
dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e
all'identità personale.
A questo fine è stata
istituita un’apposita autorità amministrativa indipendente (il Garante per la
tutela delle persone e degli altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali) alla quale, chiunque intenda procedere ad un trattamento di dati
personali soggetto al campo di applicazione della presente legge è tenuto a
darne notificazione.
Il Garante verifica che i
dati raccolti siano:
a) trattati in modo lecito e secondo correttezza;
b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e
legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini non
incompatibili con tali scopi;
c) esatti e, se necessario, aggiornati;
d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità
per le quali sono raccolti o successivamente trattati;
e) conservati in una forma che consenta l'identificazione
dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli
scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.
L’interessato deve essere
sempre informato sugli scopi della raccolta dei dati e deve dare il proprio
consenso al loro utilizzo (salvo in alcuni casi in cui non è richiesto, elencati
dall’articolo 12).
L’interessato, infine, ha
sempre il diritto di chiedere la visione o la cancellazione dei dati personali
che lo riguardano e il garante, per questo e per gli altri fini fin qui
indicati, dispone di poteri di accertamento che comprendono facoltà di indagine
e ispezione, nonché di poteri di condanna alla cessazione dei comportamenti che
violino le disposizioni ora descritte.
Regimi speciali, più
restrittivi, sono indicati per i c.d. dati sensibili, cioè quelli idonei
a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o
di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati,
associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o
sindacale, nonchè i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la
vita sessuale; questi possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso
scritto dell'interessato e previa autorizzazione del Garante (articolo 22).
Regimi derogatori, più permissivi, sono invece dettati per il trattamento dei
dati da parte delle pubbliche amministrazioni che operino nei settori della
pubblica sicurezza, della difesa e della giustizia (articolo 4).
La legge 675/1996 individua,
per ogni trattamento di dati personali, un titolare. Questo è definito
dall’articolo 1, comma 2, lettera d), come la persona fisica, la persona
giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od
organismo cui competono le decisioni in ordine alle finalità ed alle modalità
del trattamento di dati personali, ivi compreso il profilo della sicurezza. Al
titolare sono imposti dalla legge alcuni obblighi specifici, tutti riconducibili
- in buona sostanza - al rispetto dei limiti legali al trattamento dei dati.
Per quanto concerne la
presente trattazione ciò che interessa è la possibilità che titolare sia una
pubblica amministrazione. In questo, come negli altri casi, l’amministrazione
titolare può nominare uno o più responsabili del trattamento dei dati personali.
Quest’ultimo soggetto svolge
- in ambito amministrativo - funzioni latamente riconducibili a quelle del
responsabile del procedimento. Infatti egli, a norma dell’articolo 8 della
legge, cura il procedimento amministrativo di tenuta e gestione dei dati
personali. Ne discende che su di lui incombono gli stessi poteri e
responsabilità incombenti sul soggetto di cui all’articolo 4 della legge
241/1990.
Vi sono, peraltro, dei
doveri ulteriori (previsti con generico riferimento al titolare). L’articolo 15
prescrive, infatti, che i dati personali oggetto di trattamento devono essere
custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al
progresso tecnico, alla natura dei dati e alle specifiche caratteristiche del
trattamento, in modo dal ridurre al minimo, mediante l'adozione di idonee e
preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche
accidentale, dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non
consentito o non conforme alle finalità della raccolta. Le misure tecniche di
sicurezza sono state individuate con un apposito regolamento, delegato dallo
stesso articolo 15 ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 400/1988, e
adottato con d.P.R. 28 luglio 1999, n. 318. I contenuti del regolamento sono
decisamente tecnici e non meritano una disamina giuridica in questa sede, anche
per ragioni di spazio. Si rinvia, pertanto, alla lettura del testo riportato in
appendice. Basti qui ricordare che assumono particolare importanza la
riservatezza dei dati e la limitazione all’accesso degli stessi mediante uso di
apposite password qualora siano conservati in forma elettronica.
La legge 675/1996 non
distingue i doveri del responsabile da quelli del titolare. Il rapporto fra i
due soggetti, pertanto, è regolato dai principi generali già esposti circa il
rapporto fra dirigente dell’unità operativa e responsabile del procedimento
nonché dall’atto amministrativo con cui il titolare del trattamento designa uno
o più responsabili. In questo senso va letta la disposizione che, nel consentire
al titolare l’individuazione di più responsabili, ne legittima la suddivisione
di compiti, lasciando spazio al potere di organizzazione delle amministrazioni
(articolo 8, comma 3). Ancora più esplicito è il comma 4 dell’articolo 8, che
impone che i compiti affidati al responsabile debbano essere analiticamente
specificati per iscritto.
La regolamentazione
specifica dei rapporti, dunque, costituisce la lex specialis di ogni
singolo trattamento di cui sia nominato un responsabile. Dalla stessa, ad
esempio, deriva la possibilità del responsabile piuttosto che del titolare di
impartire istruzioni ai soggetti concretamente incaricati dei trattamenti di
dati (articolo 8, comma 5).
Anche nell’ambito in esame
la mancata individuazione di un responsabile lascia il complesso degli obblighi
e delle responsabilità in materia al titolare. La decisione in merito assume,
pertanto, una rilevante importanza.
La legge non dice nulla,
tuttavia, sull’individuazione del titolare o del responsabile. Anzi, usa
volutamente un’espressione quanto mai ampia e atecnica, identificando -
nell’articolo 1 - l’uno e l’altro con l’intera pubblica amministrazione. È
evidente che se titolare può considerarsi, caso per caso, l’ente o organo
pubblico competente al trattamento dei dati, responsabile può essere soltanto
uno o più singoli funzionari, nominativamente individuati (sembra inutile, più
ancora che inammissibile, l’individuazione di un’altra amministrazione o di un
ufficio nel suo complesso da parte dell’amministrazione titolare). Vale comunque
la considerazione per cui la responsabilità è, in virtù di un principio
generale, personale.
La stessa legge 675/1996,
con ciò contraddicendo la genericità dell’articolo 1, obbliga le amministrazioni
titolari a scegliere i responsabili, se intendono nominarli, fra i soggetti che,
per esperienza, capacità e affidabilità, forniscano idonea garanzia del pieno
rispetto delle norme in materia di trattamento, con riguardo anche al profilo
della sicurezza dei dati. Con ciò pare allontanato ogni residuo dubbio sulla
possibilità che il responsabile, in ambito amministrativo, non sia una persona
fisica. D’altro canto, se pure - per esempio - l’amministrazione dell’Interno
intendesse identificare genericamente la prefettura come responsabile del
trattamento di dati di cui il Ministero è titolare, i relativi doveri e le
connesse responsabilità, in mancanza di ulteriori specificazioni ricadrebbero
sul capo dell’ufficio, cioè sul prefetto il quale, in applicazione dell’articolo
5 della legge 241/1990, potrebbe poi autonomamente individuare un funzionario
responsabile del trattamento dei dati. In ogni caso vi sarebbe un atto di
individuazione, poiché, anche nel primo, l’atto di delega alla prefettura
varrebbe, ai fini della responsabilità - che è esclusivamente personale - quale
delega al prefetto.
Un’altra tipologia di
responsabilità speciale, ma senza dubbio riconducibile al paradigma della
responsabilità di cura o gestionale e governata dai principi generali valevoli
per i responsabili dei procedimenti ex legge 241/1990 è quella inerente
alla tenuta del protocollo informatico o, rectius, al sistema di
protocollo informatico.
Questo è - secondo la definizione correttamente fornita dall’articolo 1, lett. c, dela d.P.R. 428/1998 (regolamento sul protocollo informatico) - l'insieme delle risorse di calcolo, degli apparati, delle reti di comunicazione e delle procedure informatiche utilizzati dalle amministrazioni per la gestione dei documenti.
L’articolo 2 del citato
regolamento fa obbligo a tutte le amministrazioni di individuare, nell'ambito
del proprio ordinamento, gli uffici da considerare ai fini della gestione
unica o coordinata dei documenti per grandi aree organizzative omogenee,
assicurando criteri uniformi di classificazione e archiviazione, nonché di
comunicazione interna tra le aree stesse. L’ampio spazio di discrezionalità
lasciato dal regolamento alle amministrazioni consentirà una opportuna
elasticità nell’adeguamento al nuovo sistema da parte di amministrazioni molto
diverse fra loro. In alcuni ministeri, ad esempio, le aree potrebbero
corrispondere con i dipartimenti mentre in altri potranno avere dimensioni molto
più ridotte, anche per necessità di segretezza e di separazione di alcuni dati
rispetto agli archivi generali. Nelle amministrazioni più piccole e senza
particolari esigenze (scuole e piccoli comuni), l’area omogenea potrà coincidere
con l’intera amministrazione.
Nell’ambito di ciascuna area
omogenea - ai sensi dell’articolo 12 - deve essere istituito il sistema di
protocollo informatico gestito da un apposita unità organizzativa (denominata
servizio)[19].
Spettano al servizio così
istituito la tenuta del protocollo informatico, della gestione dei flussi
documentali e degli archivi dell’area di appartenenza. Il servizio è posto alle
dirette dirette dipendenze della stessa area organizzativa omogenea (rectius:
del dirigente dell’area organizzativa omogenea).
La responsabilità e la
direzione del servizio devono essere affidate, per il secondo comma
dell’articolo 12, a un dirigente o un funzionario (cioè di un dipendente di area
C, per i ministeri e D per gli enti locali), “comunque in possesso di idonei
requisiti professionali o di professionalità tecnico archivistica acquisita a
seguito di processi di formazione definiti secondo le procedure prescritte dalla
disciplina vigente”.
Al responsabile spetta la
gestione del servizio al fine di assicurane lo svolgimenti dei compiti assegnati
dal regolamento. L’articolo 12, comma 3, in particolare, stabilisce che il
servizio:
a) attribuisce il livello di
autorizzazione per l'accesso alle funzioni della procedura, distinguendo tra
abilitazioni alla consultazione e abilitazioni all'inserimento e alla modifica
delle informazioni;
b) garantisce che le
operazioni di registrazione e di segnatura di protocollo (cioè dell'apposizione
o l'associazione, all'originale del documento, in forma permanente e non
modificabile, delle informazioni riguardanti il documento stesso) si svolgano
nel rispetto delle disposizioni del regolamento;
c) garantisce la corretta
produzione e la conservazione del registro giornaliero di protocollo;
d) cura che le funzionalità
del sistema in caso di guasti o anomalie siano ripristinate entro ventiquattro
ore dal blocco delle attività e, comunque, nel più breve tempo possibile;
e) conserva le copie in
luoghi sicuri e differenti;
f) garantisce il buon
funzionamento degli strumenti e dell'organizzazione delle attività di
registrazione di protocollo, di gestione dei documenti e dei flussi documentali,
incluse le funzionalità di accesso e le attività di gestione degli archivi;
g) autorizza le operazioni
di annullamento;
h) vigila sull'osservanza
delle disposizioni del regolamento da parte del personale autorizzato e degli
incaricati
La responsabilità è
evidentemente, come già accennato, di tipo gestionale. Valgono, pertanto, le
considerazioni già esposte a proposito del responsabile del procedimento, anche
con riguardo agli incentivi e alle sanzioni, con particolare riferimento alla
possibilità che il responsabile non sia un dirigente ma un funzionario.
Lo stesso rinvio ai principi
generali vale anche per la tematica dei rapporti fra il dirigente dell’area
organizzativa omogenea e il responsabile del servizio di protocollo. Rispetto
alla materia dei dati personali, anzi, nell’ambito in questione il parallelo è
semplificato dalla precisa identificazione delle unità organizzative e dei
soggetti fatta dal d.P.R. 428/1998.
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[1] Sulla concezione tradizionale della responsabilità della pubblica amministrazione e del pubblico funzionario come applicazione del principio del neminem laedere si diffonde buona parte della manualistica istituzionale e della pubblicistica tradizionale. Limitandosi ad alcuni testi di riferimento, si veda - per un inquadramento generale dell’argomento - Virga, P., Diritto amministrativo - I volume: i principi, Milano, 1989, pp. 399 e ss.; per una ricostruzione del percorso giurisprudenziale sulla responsabilità per danno illecito, si veda Galli, R., Corso di diritto amministrativo, Padova, 1991, pp. 491 e ss.; un esplicita affermazione della derivazione civilistica dell’istituto si trova in Baldanza, A.,“Responsabilità della pubblica amministrazione” in Dizionario enciclopedico del diritto, diretto da Galgano, F., Padova, 1996, pp. 1282 e ss.
[2] Sulla concezione - o meglio sulle concezioni - moderne della responsabilità si veda la completa ricostruzione di Torchia, L., La responsabilità dirigenziale, Padova, 2000, pp. 18-37.
[3] De Stefani, A., Prefazione, in Spaventa, R., Burocrazia, ordinamenti amministrativi e fascismo, Milano, 1928, p. 5 ss. Cfr. anche De STEFANI, A., Una riforma al rogo, Roma, 1963.
[4] ROMANO, F., “Le amministrazioni indipendenti”, in Nuovi percorsi monografici di diritto amministrativo, a cura di F. Caringella, Napoli, 1999.
[5] Ma la concezione cavouriana di una burocrazia cieca esecutrice delle decisioni ministeriali appariva poco adeguata alla pratica amministrativa già all’epoca della sua formulazione. Bettino Ricasoli, nel 1866, tentò invano di ottenere la conversione di un decreto legge con il quale aveva introdotto la possibilità di creare direzioni generali di fatto svincolati dall’autorità dei ministri (cfr. SEPE, S., Burocrazia e apparati amministrativi: evoluzione storica e prospettive di riforma, Milano, 1996, p. 41).
[6] Secondo Giannini, M. S., Il potere pubblico. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986, pp. 75-80, che per primo iniziò a usare il termine “pubbliche amministrazioni” in luogo di “pubblica amministrazione”, mentre nell’amministrazione tradizionale “gli uffici amministrativi hanno compiti meramente serventi rispetto agli organi istituzionali dell’ente”, nello Stato moderno si identifica “un congiunto di amministrazioni diverse”. Lo Stato contemporaneo è, pertanto, “un ente ad amministrazioni disaggregate e, conseguentemente, ad organi disaggregati”.
[7] Torchia, L., cit., p. 24.
[8] L’esclusività della competenza dirigenziale è confermata dall’abrogazione - con il d.lgs. 80/1998 e con la legge 127/1997 - del potere di avocazione del vertice politico (eccezion fatta per il potere di annullamento ministeriale per soli motivi di legittimità). Nell’amministrazione statale, il ministro non può né avocare né revocare e, in caso di inerzia del dirigente competente, può intervenire soltanto in via indiretta, nominando un commissario ad acta (articolo 14 del riformato d.lgs. 29/1993).
[9] Cfr. Torchia, L., cit., p. 29. La netta separazione delle sfere di competenza ha anche spinto la giurisprudenza del Consiglio di Stato a ritenere abolito il rimedio giustiziale del ricorso gerarchico al ministro avverso gli atti adottati dai dirigenti (parere del 30 settembre 1998, n. 1273).
[10] Cfr. Sandulli, M. A., in AA.VV., Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti, Milano, 1991, p. 98 e ss.
[11] Parere del 21 novembre 1991, n. 141. Osserva in proposito Caringella, F., Il procedimento amministrativo, Napoli, 1998, p. 62, che l’affermata natura regolamentare ha la vantaggiosa conseguenza di imporre il passaggio al vaglio consultivo del Consiglio di Stato per il prescritto parere sugli schemi di regolamento, così favorendo “un prezioso compito di omogeneizzazione e raccordo delle soluzioni prospettate”.
[12] Nel caso in cui l’unità organizzativa sia un organo collegiale, secondo la giurisprudenza, non trova applicazione la possibilità di identificazione di un responsabile del procedimento diverso dal presidente dell’organo. Così, con riferimento al Consiglio superiore della magistratura, T.A.R. Lazio, sez. I, 5 aprile 1993, n. 568, in Foro it., 1993, III, 476, con n. di Fuzio.
[13] Per il principio di sussidiarietà - sancito dal Trattato di Maastricht, articolo 3B, 2 comma (articolo 6 nel Trattato UE, nuova numerazione) e dall’articolo 4, comma 3, della legge 59/1997 - lo Stato, nei confronti delle regioni e degli enti locali, come l’Unione Europea nei confronti degli stati membri, deve trattenere a sé soltanto quelle funzioni che, per loro natura, non possono essere attribuite agli enti minori, in quanto “incompatibili con le dimensioni” degli stessi.
Ne discende che la generalità delle competenze e delle funzioni amministrative deve essere attribuita, in ordine gerarchico inverso, innanzitutto ai comuni, quindi alle provincie ed alle comunità montane, quindi alle regioni ed infine allo Stato. Il quale, da ultimo, a sua volta cede all’Unione Europea, in sede di legislazione comunitaria, le sole funzioni che non possono che essere svolte in ambito continentale. In buona sostanza, il meccanismo funziona nel modo seguente: al comune spettano tutte le funzioni amministrative con l’esclusione di quelle che esso non può svolgere a causa delle proprie ristrette dimensioni (sia come entità che come istituzione), ovvero perché esulano dall’interesse locale. Queste funzioni devono essere attribuite alla provincia o, ratione materie, se presente, alla comunità montana, con l’esclusione di quelle che non possono essere adeguatamente svolte in ambito provinciale. Queste devono essere riservate alle regioni e, soltanto se esulino anche dall’ambito territoriale e di interesse regionale, oppure dalle effettive possibilità gestionali delle amministrazioni regionali, allo Stato.
Scopo di siffatto modello di distribuzione delle competenze è quello di favorire l’assolvimento di funzioni e compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, delle associazioni e delle comunità locali, tramite l’attribuzione delle responsabilità pubbliche alle autorità amministrative più vicine ai cittadini interessati (e dunque da questi maggiormente controllabili con gli istituti della democrazia rappresentativa).
Si usa distinguere, in dottrina, una sussidiarietà verticale, che è quella intercorrente fra i diversi livelli di governo della cosa pubblica, da una sussidiarietà orizzontale, che intercorre, invece, fra le pubbliche amministrazioni in genere e i soggetti privati. Entrambe, peraltro, sono componibili nell’unico disegno piramidale di competenze che parte dagli individui per giungere, attraverso le formazioni giuridiche private e pubbliche intermedie, fino allo Stato.
Per maggiori approfondimenti si veda Caringella, F., Crisafulli, A., De marzo, G., Romano, F., Il nuovo volto della pubblica amministrazione - tra federalismo e semplificazione, Napoli, 1999, p. 11 ss.
[14] Cfr. Caringella, F., cit., p. 63.
[15] Circolare 5 dicembre 1990, n. 58307/7.463.
[16] Cfr. Corso-Teresi, procedimento amministrativo e diritto d’accesso ai documenti amministrativi, Rimini, 1991, p. 85.
[17] Per trattamento dei dati si intende qualunque operazione o complesso di operazioni, svolti con o senza l'ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati.
[18] Per dato personale si intende, qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale.
[19] In sede di prima applicazione, ai sensi del comma 3 dell’articolo 2, le amministrazioni centrali dello Stato provvedono alla gestione informatica dei documenti presso gli uffici di registrazione di protocollo già esistenti presso le direzioni generali e le grandi ripartizioni che a queste corrispondono, i dipartimenti, gli uffici centrali di bilancio, le segreterie di gabinetto.