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FILIPPO ROMANO
Prime censure di incostituzionalità alla legge Bassanini: spetta esclusivamente al Consiglio dei Ministri l’adozione degli atti governativi di indirizzo e coordinamento nei confronti delle Regioni (*).
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(nota di commento alla sentenza della Corte Costituzionale 14 dicembre 1998, n. 408)
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1) Le prime censure di incostituzionalità sulla "riforma Bassanini"
Con la sentenza n. 408 del 14 dicembre 1998 la Corte costituzionale interviene per la prima e, fino ad oggi, unica volta su testi legislativi appartenenti alla c.d. "riforma Bassanini". Formano oggetto del giudizio di conformità alla Costituzione, infatti, diverse disposizioni della legge 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. "Bassanini uno") e del successivo decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (in materia di Conferenze Stato-Regioni e Stato-Città).
Si può preliminarmente anticipare che, nel complesso, le leggi di riforma appena citate abbiano dimostrato una buona tenuta di fronte al sindacato della Consulta, la quale, con la decisione in commento, ha accolto soltanto una - e certamente non la più importante - delle numerose richieste di dichiarazione di illegittimità costituzionale avanzate dalle regioni ricorrenti (Regione Puglia e Regione Siciliana); tanto che, se non fosse per un doveroso rispetto alla terminologia corretta, si sarebbe tentati di definire la pronunzia, che tecnicamente è una sentenza di accoglimento parziale, come decisione "di quasi rigetto" (ci sia consentita questa atecnica ed antiestetica espressione per porre in miglior rilievo il tono generale della sentenza).
Invero, la norma caducata non è di rilevanza eccezionalmente importante, se collocata nel quadro generale della riforma. L’interesse della sentenza risiede, piuttosto, nelle dichiarazioni di infondatezza delle censure di incostituzionalità mosse dalle ricorrenti. Queste, infatti, pur nella loro variegata diversità, tendono tutte ad attaccare uno dei punti più delicati delle riforme "Bassanini" e cioè il rapporto fra lo Stato, le Regioni e gli enti locali.
E’ appena il caso di ricordare che la legge 59/1997 e i successivi decreti delegati adottati dal Governo su delega della stessa, nonché molte disposizioni della legge 127/1997 (c.d. "Bassanini bis") e della legge 191/1998 (c.d. "Bassanini ter"), disegnano, in complesso, un nuovo quadro del riparto di funzioni amministrative fra i soggetti sopra richiamati. Si tratta di un quadro innovativo, rispetto al precedente, ed ispirato all’attuazione del c.d. federalismo amministrativo, secondo i dettami del principio di sussidiarietà, nella misura massima consentita dalla Costituzione vigente. Si è parlato, infatti, di un "federalismo a costituzione invariata", espressione imprecisa ma suggestiva che vorrebbe indicare la concessione della massima autonomia possibile ed il trasferimento di tutte le funzioni trasferibili agli enti locali ed alle Regioni senza procedere a modifiche costituzionali. Come noto, le riforme Bassanini sono state anche una risposta all’impossibilità di giungere ad una revisione della Costituzione, da più parti auspicata, a causa di difficoltà politiche che hanno impedito il coagularsi di una maggioranza sufficiente in Parlamento.
Come appena accennato, il principio cardine della riforma è quello cosiddetto di sussidiarietà. È questo un principio di derivazione comunitaria, posto alla base del Trattato dell’Unione (o Trattato di Maastricht), secondo il quale lo Stato deve trattenere a sé soltanto le funzioni amministrative che, per loro natura, non possono essere attribuite alle Regioni o agli enti locali, in quanto "incompatibili con le dimensioni" degli stessi. Per converso, la totalità delle funzioni amministrative localizzabili a livello regionale o sub-regionale deve essere attribuita alle Regioni o agli enti minori. La sfera di competenza dello Stato diviene residuale. Di conseguenza, lo Stato, ma anche le Regioni e gli enti intermedi, assumono una posizione sussidiaria rispetto al Comune il quale, essendo l’ente locale più vicino al cittadino, diventa il punto di riferimento delle competenze amministrative e dei servizi pubblici.
Il meccanismo posto in atto dal legislatore con la legge 59/1997 e con gli altri testi legislativi prima richiamati è quello del conferimento di funzioni e compiti statali alle Regioni e agli enti locali, nonché di funzioni e compiti regionali agli enti locali, alla stregua del principio di sussidiarietà appena descritto e di altri principi enunciati dall’articolo 4, comma 3, della legge 59. Tale conferimento, termine introdotto con la legge "Bassanini", si concreta, secondo i casi, in un trasferimento, in una delega o in un’attribuzione di poteri e funzioni.
Se si tiene presente quanto appena ricordato, ed in particolare la decisa tendenza legislativa a porre il Comune al centro del sistema amministrativo, non può meravigliare la reazione negativa di alcune Regioni, soprattutto con riferimento ai due temi fondamentali della cessione di attribuzioni regionali agli enti locali e dell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento sugli enti locali. Da anni, ormai, si è andato delineando nella politica italiana un dibattito acceso attorno ai temi del cosiddetto neo-centralismo regionale, che vede opposti i fautori delle autonomie locali e del "dimagrimento" dell’apparato statale, riuniti da un’interpretazione puntuale del principio di sussidiarietà, ai sostenitori del regionalismo, i quali sostengono, invece, la centralità dell’ente regionale nel sistema amministrativo soprattutto in vista di un futuro, auspicato assetto federalista della Repubblica, nel quale le Regioni assumerebbero ruolo e funzioni simili a quelli dei länd tedeschi.
Sono questi i leit motiv dei ricorsi che la Regione Siciliana e la Regione Puglia hanno presentato davanti alla Corte costituzionale, avvalendosi della facoltà loro concessa dall’articolo 134, secondo comma, della Costituzione. Si tratta di quattro ricorsi, due per regione, con i quali ciascuna ricorrente censura norme sia della legge 59/1997 sia del decreto legislativo 281/1997.
2) I ricorsi della Regione Siciliana e della Regione Puglia contro la legge 59/1997
Il primo ricorso è quello avanzato dalla Regione Siciliana nell’immediatezza della pubblicazione della legge 59/1997. Il punctum dolens dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali emerge con chiarezza già dalla premessa con cui la ricorrente espone le proprie censure: il modello di organizzazione amministrativa cui si sarebbe ispirato il legislatore delle leggi "Bassanini" vede la sostanziale equiparazione delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni; ciò è in contrasto con il disegno costituzionale il quale, invece, garantisce diversamente l’autonomia regionale rispetto a quella degli enti locali. La Regione Siciliana non impugna, però, la legge 59 sotto questo profilo poiché non ritiene applicabili a se stessa le norme sul riparto di funzioni amministrative in essa contenute, in virtù della specialità del proprio Statuto.
Un dato, per quanto extra-giuridico, merita di essere ricordato a questo punto. Proprio nelle regioni a statuto speciale, ed in particolare in Sicilia, sono state più accese le polemiche fra enti locali ed apparato regionale a proposito del riparto di competenze e, più in generale, dei reciproci rapporti. Ad esempio, gli amministratori locali hanno in più occasioni stigmatizzato la permanenza di penetranti controlli sugli atti affidati ai Co.Re.Co. a fronte della decisiva, drastica riduzione degli stessi che ha interessato gli enti locali delle regioni a statuto ordinario.
La Regione Siciliana, sul medesimo presupposto dell’illegittima equiparazione fra Regioni ed enti locali, impugna l’articolo 9 della legge 59/1997 nella parte in cui prevede l’occasionale unificazione delle Conferenze Stato-Regioni e Stato-città ed autonomie locali nella nuova Conferenza Unificata. Secondo la ricorrente, le relazioni fra lo Stato e gli enti locali devono passare attraverso le Regioni. Per le stesse ragioni viene contestata anche la delega al Governo per il riordino e la valorizzazione della Conferenza Stato-città, primo passo per lo svuotamento della funzione che la regione ricorrente definisce come di "necessaria intermediazione" fra Stato ed enti locali. In particolare, per le Regioni a statuto speciale, la previsione di cui all’articolo 9 si concreterebbe in una lesione della "padronanza del sistema amministrativo interno" costituzionalmente garantita dagli statuti regionali. Senza dichiararlo, la ricorrente accenna addirittura ad una possibile illegittimità costituzionale della stessa Conferenza Stato-città. In altri termini, secondo la visione giuridico-politica della Regione Siciliana, il rapporto con gli enti locali all’interno della Sicilia sarebbero esclusivo appannaggio dell’amministrazione regionale, così come la Regione stessa gode di esclusiva competenza legislativa riconosciuta dallo Statuto speciale.
La centralità del nodo dell’esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento si conferma in tutta evidenza nel secondo gruppo di censure. E’ opportuno premettere che l’articolo 8 della legge 59/1997 prevede che gli atti di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali sono adottati dal Governo previa intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni, oppure con la singola Regione interessata.
La ricorrente Regione impugna il comma 5, lettera c, dell’articolo 8, il quale abroga parzialmente l’articolo 2, comma 3, lettera d) della legge 23 agosto 1988, n. 400. Uno dei passaggi abrogati di quest’ultima norma includeva gli atti di indirizzo e coordinamento fra quelli sottoposti al Consiglio dei ministri; ciò, per quanto riguardava le Regioni a statuto speciale, "nel rispetto delle relative disposizioni statutarie". L’abrogazione di predetta norma comporterebbe la scomparsa dell’obbligo di conformare l’esercizio della funzione di indirizzo agli statuti speciali, col rischio – secondo la ricorrente - di una "particolare pervasività" della funzione. Inoltre, conseguirebbe alla caducazione del precetto la tendenziale riserva al Consiglio dei ministri della funzione di indirizzo e coordinamento, in contrasto con gli articoli 92 e 95 della Costituzione, dai quali – sempre per la Regione Siciliana – discenderebbe la necessaria concentrazione dei poteri di indirizzo politico ed amministrativo in capo all’organo collegiale di governo.
Dell’articolo 8 viene impugnata anche la previsione, contenuta nel comma 3, per la quale il Governo, in caso di urgenza, può adottare atti di indirizzo e coordinamento senza il previo esperimento delle procedure di intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Secondo la ricorrente l’impugnata disposizione è incostituzionale in quanto la stessa Costituzione fornisce al Governo altri, più idonei e più regolamentati strumenti per i casi urgenti, come il decreto legge e l’esercizio dei poteri di ordinanza.
Ancora sull’articolo 8 si appunta l’ultima censura della Regione Siciliana. Il comma 2, per la ricorrente, è in contrasto con la Costituzione nella parte in cui prevede che, ove l’intesa fra il Governo e la Conferenza (o la Regione interessata) non sia raggiunta entro il termine di quarantacinque giorni dalla prima consultazione, gli atti di indirizzo possano essere adottati dal Consiglio dei ministri previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Ciò che viene contestato non è la previsione di un meccanismo atto a superare situazioni di stallo, bensì – con censura non priva di puntiglio – la violazione del principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni insita nella mancata indicazione del requisito del comportamento leale da parte del Governo ai fini del legittimo ricorso al meccanismo stesso.
La difesa della Presidenza del Consiglio, costituitasi in giudizio, aderendo in certo qual modo all’osservazione preliminare della ricorrente Regione circa il proprio difetto d’interesse ad impugnare la legge 59/1997 per i profili più generali, obietta, in primo luogo, che il ricorso sarebbe inammissibile appunto perché la legge impugnata riguarda soltanto le Regioni a statuto ordinario.
Ciò premesso, la difesa resiste e ribatte, punto per punto, alle censure mosse dalla ricorrente: l’articolo 8 della legge 59/1997 non introduce nuovi poteri che possano in alcun modo ledere le prerogative regionali; esso, piuttosto, detta disposizioni procedimentali da applicarsi ad atti costituenti esercizio di funzioni e compiti attribuiti da specifiche norme di legge. Ne consegue che non sarebbe riscontrabile, o quantomeno non sarebbe attuale, la lamentata lesione della sfera di autonomia riconosciuta alle Regioni dalla Costituzione ravvisata, dalla ricorrente, nell’abrogazione della norma che prevedeva la necessaria concentrazione dei poteri di indirizzo politico ed amministrativo in capo all’organo collegiale di governo. Ma soprattutto, per la difesa, la Costituzione non richiede espressamente in alcuna parte una riserva al Consiglio dei Ministri della funzione di indirizzo e coordinamento.
Per analoghe ragioni si afferma, infine, l’infondatezza della denunciata illegittimità costituzionale delle norme che prevedono poteri sostitutivi ed altri meccanismi per le situazioni di urgenza o di mancata intesa in seno alla Conferenza Stato-Regioni. E ciò, osserva la difesa in risposta ad una esplicita censura della ricorrente, perché quei meccanismi non sono irragionevoli proprio in virtù del richiamo al principio della leale collaborazione il quale, dove non espresso, deve sempre presumersi (trattandosi di principio di rango costituzionale).
Il ricorso presentato dalla Regione Puglia in immediatamente dopo quello della Regione Siciliana appare più articolato, per il maggior numero di disposizioni di cui si assume l’incostituzionalità, a causa della diversa posizione della ricorrente, che è Regione a statuto ordinario.
Anche la seconda ricorrente, comunque, premette una censura di fondo, dal carattere più politico che tecnico, per cui l’intero impianto della legge 59/1997 sarebbe censurabile perché ispirato ad un complesso disegno di riduzione delle garanzie apprestate dalla Costituzione in favore dell’autonomia regionale. Anche nel secondo ricorso ritorna il tema dell’equiparazione, che si assume illegittima, fra Regioni ed enti locali nel conferimento di funzioni e compiti operato dallo Stato.
Gli articoli 1 e 2 della legge, in primo luogo, vengono impugnati appunto perché attribuiscono le competenze dismesse dallo Stato in modo indiscriminato e generico alle Regioni, alle Provincie , ai Comuni ed agli altri enti territoriali. Osserva la ricorrente che, nell’ambiguo concetto di conferimento (e sull’ambiguità di questo termine non le si può davvero dare torto) il legislatore della legge 59/1997 fa rientrare ed assimila categorie affatto distinte, quali il trasferimento e la delega di funzioni, che la Costituzione prevede con riguardo alle Regioni, e l’attribuzione di funzioni, prevista, invece, nei riguardi degli enti locali. Alla confusa, illegittima unificazione degli istituti del trasferimento e dell’attribuzione conseguirebbe una grave incertezza sulle materie cui si applica il primo o il secondo meccanismo, nonché sugli enti cui sarebbero spettati, a seguito dell’esercizio della delega da parte del Governo, i compiti dismessi dallo Stato.
In altre parole, ricorrerebbero, per la ricorrente, gli estremi della delega ad oggetto indeterminato. Quest’ultimo, infatti, sarebbe soltanto apparentemente precisato nel conferimento di funzioni amministrative, poiché la legge delega n. 59/1997 non indica le materie da dismettere bensì quelle da mantenere in capo all’amministrazione dello Stato, in applicazione del noto procedimento residuale imposto dal rispetto del principio di sussidiarietà (il quale, però, a differenza di quelli in materia di delega legislativa dettati dall’articolo 76 Cost., non è principio costituzionale). L’indeterminatezza in merito ai destinatari dei "conferimenti" di competenze amministrative statali farebbe emergere infine - ancora una volta - l’illegittima equiparazione fra Regioni ed enti locali, visto che il Governo, in assenza di principi direttivi, potrebbe liberamente distribuire fra questi ultimi e le prime i compiti dismessi.
Nell’articolo 4, comma 3, lettera a) della legge 59/1997, addirittura, il principio di sussidiarietà sarebbe usato in funzione antiregionalista. Come ricordato all’inizio di questa nota, il principio in parola implica la concentrazione di gran parte delle funzioni amministrative nel livello di governo più vicino al cittadino, cioè – nel sistema italiano – in capo al Comune. La norma censurata prevede appunto che le Regioni, similmente a quanto fa lo Stato, trasferiscano agli enti locali tutte le funzioni di loro competenza ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione che non richiedono l’esercizio unitario a livello regionale. Ciò, per la ricorrente, sarebbe di nocumento all’ampiezza della sfera di competenza delle Regioni, in quanto le stesse, da un lato, vedono lo Stato attribuire le proprie dismesse competenze indiscriminatamente a tutti i soggetti destinatari del conferimento, con preferenza, peraltro, a favore degli enti locali e, dall’altro, sono tenute a trasferire agli enti minori le funzioni amministrative regionali.
Di conseguenza sarebbe incostituzionale la previsione – contenuta nell’articolo 4, comma 5 - di un potere sostitutivo dello Stato, da esercitarsi (e già più volte esercitato) con decreti legislativi, nel caso di inadempimento delle Regioni all’obbligo di individuare puntualmente le funzioni trasferite o delegate agli enti locali e quelle mantenute, invece, in capo all’amministrazione regionale. Una delega al Governo di siffatta portata, si dice, sarebbe incerta nell’an, poiché non si sa se le Regioni saranno inadempienti o meno, e nel quomodo, poiché non sono espressi i principi e i criteri direttivi cui informare l’eventuale intervento governativo per la distribuzione delle competenze. Sarebbero, dunque, violati gli articoli 76, 5, 115, 117, 118 e 119 della Costituzione.
Alle censure di carattere generale fin qui esposte, la Regione Puglia aggiunge poi una serie di rilievi di illegittimità riferiti all’istituzione della Conferenza unificata. L’unificazione fra la Stato-Regioni e la Stato-città, secondo la ricorrente, costituirebbe un organo dalla composizione variabile, di volta in volta indicata discrezionalmente dal Governo, in cui si confronterebbero soggetti affatto diversi ed operanti su due piani distinti: da un lato le Regioni, le cui funzioni e competenze sono istituite e garantite dalla Costituzione; dall’altro gli enti locali, con funzioni e compiti determinati e disciplinati dalla legge ordinaria.
Più in particolare, l’articolo 9 della legge 59/1997, per la ricorrente, è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che la Conferenza Stato-Regioni partecipi anche ai processi decisionali di interesse interregionale e infraregionale. Soprattutto quest’ultima previsione inciderebbe in misura rilevante sull’autonomia amministrativa ed organizzativa delle Regioni nei rapporti con gli enti locali, nonché nei rapporti con le altre Regioni.
Sulla problematica dell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento da parte del Governo nazionale, il ricorso della Regione Puglia ripercorre la via argomentativa già tracciata da quello presentato dalla Regione Siciliana. Anche per la seconda ricorrente è illegittimo l’articolo 8, comma 5, lettera d) (abrogativo di parte dell’articolo 2, comma 3, lettera d) della legge 23 agosto 1988, n. 400), in virtù della necessaria spettanza al Consiglio dei Ministri della deliberazione degli atti d’indirizzo e coordinamento. Su questo punto viene ripetuto più o meno quanto già affermato nel primo ricorso. In aggiunta, la Regione Puglia osserva che la disciplina dettata dall’articolo 8 della legge 59/1997 nella materia in questione appare viziata nella misura in cui favorisca il tramonto dell’esercizio in via legislativa della funzione di indirizzo a favore di una procedura tutta in via amministrativa. Vi sarebbe, in buona sostanza, una palese violazione del principio di legalità sostanziale, in contrasto con gli articoli 5 e 128 della Costituzione.
Ulteriore censura è mossa dalla ricorrente avverso il disposto dell’articolo 3, lettera c), ai cui sensi, in sede di emanazione dei decreti delegati, devono essere individuate le forme di cooperazione strutturale e funzionale, con previsione di controlli sostitutivi statali, nonché la presenza di rappresentanti statali nelle strutture di raccordo. Tale norma sarebbe in contrasto con l’articolo 9, lettera b) della stessa legge 59/1997, che statuisce, invece, la concentrazione delle forme di raccordo in capo alla Conferenza Stato-Regioni; sarebbe, altresì, contrastante con gli articoli 5, 117, 118, 119 e 123 della Costituzione, poiché le forme di cooperazione che operino a livello regionale o infraregionale spetterebbero alla competenza regionale.
Di dubbia costituzionalità sarebbe ancora, secondo la Regione Puglia, la disposizione di cui all’articolo 3, lettera f), che prevede la possibilità per l’amministrazione statale di avvalersi di uffici regionali e locali d’intesa con gli enti interessati o con gli organismi rappresentativi degli stessi. Si tratta di una nuova forma di avvalimento, ulteriore rispetto a quella già prevista dalla Costituzione a favore delle Regioni sugli uffici degli enti locali: proprio per questo se ne postula la illegittimità, soprattutto in considerazione che la norma non prevede la condizione della necessaria copertura finanziaria degli oneri aggiuntivi a carico dell’amministrazione che si avvale degli uffici regionali. Vi sarebbe, pertanto, violazione degli articoli 118 e 119 della Costituzione.
In ultimo, la ricorrente censura i commi dal primo al settimo dell’articolo 20 della legge 59/1997. Le norme contestate, nonché giudicate oscure ed ambigue, intervengono nella materia della delegificazione e, se interpretate estensivamente, possono condurre ad affermare il potere dei regolamenti statali di delegificazione di incidere sulle materie di competenza regionale, in contrasto con la Costituzione e con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale.
La difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri chiede, come per il primo ricorso, che il secondo venga dichiarato inammissibile o comunque infondato. Nell’ordine, sono queste le controdeduzioni avanzate dall’Avvocatura Generale dello Stato.
Per quanto attiene all’articolo 1 della legge 59/1997, si ribadisce che la formula onnicomprensiva usata dal legislatore (il "conferimento a Regioni ed enti locali") di per sé non implica né potrebbe in alcun modo implicare una equiparazione sostanziale fra i soggetti destinatari del conferimento stesso. I decreti legislativi delegati dovranno tenere conto delle peculiarità specifiche di ogni gruppo di destinatari delle funzioni dismesse dallo Stato (e, con il senno del poi, si può dire che ciò è avvenuto in maniera sufficientemente organica e coerente con l’adozione del decreto legislativo 112/1998, che ha attuato gran parte del conferimento). Paradossali sono poi giudicate dalla difesa le censure relative al principio di sussidiarietà, il quale è, con tutta evidenza, ispirato alla salvaguardia, alla tutela ed alla valorizzazione delle autonomie, prime fra tutte quelle regionali. Ancora meno comprensibile appare, secondo l’avviso dell’Avvocatura (che chi scrive si sente di condividere appieno), la contestazione relativa al meccanismo "residuale" usato dal legislatore per individuare le materie che lo Stato dovrà dismettere: un’espressione quale "tutte le materie escluse le seguenti" non può essere considerata fonte di incertezze o di confusione, né tantomeno causa di effetti limitativi della sfera di competenza dei soggetti cui spetta il conferimento di "tutte le materie". Il legislatore delegato, dal canto suo, non potrebbe privilegiare gli enti locali a svantaggio delle Regioni, come dalle ricorrenti paventato, senza violare i principi di località e di sussidiarietà, il cui rispetto è imposto dalla stessa legge 59/1997.
Quanto ai poteri sostitutivi, la difesa sostiene in primo luogo l’inammissibilità delle censure, poiché volte a lamentare una generica incostituzionalità che non ridonda in lesione della sfera di attribuzioni delle Regioni. Inoltre, l’oggetto della delega non può certo dirsi indefinito, come preteso dalla Regione Puglia, bensì soltanto condizionato all’inadempimento regionale; infine, gli auspicati e, presunti assenti, principi e criteri direttivi dell’esercizio dei poteri sostitutivi ci sono, e si trovano elencati nei primi commi dello stesso articolo 4 di cui si assume l’illegittimità.
Quanto alla unificazione delle Conferenze, ed alla supposta incostituzionalità del relativo articolo 9, l’Avvocatura erariale rileva che la ratio ispiratrice dell’istituto, lungi da voler essere impositiva o autoritativa, è la stessa che presiede alle conferenze di servizi, e risiere nella valorizzazione dell’esame contestuale di affari e problemi di interesse comune da parte di tutti i soggetti tutori degli interessi da ponderare e contemperare. Soltanto i decreti delegati attuativi dell’unificazione – afferma la difesa – potrebbero essere concretamente lesivi della sfera di competenza regionale, attraverso la previsione di forme e modi di partecipazione degli enti locali. Come si vedrà fra breve, entrambe le Regioni ricorrenti, infatti, non hanno mancato di impugnare il decreto legislativo 281/1997, attuativo della delega in materia di Conferenze Stato-Regioni e Stato-Città.
Per ciò che concerne la funzione di indirizzo e coordinamento (articolo 8), l’Avvocatura ribadisce gli argomenti già esposti contro il ricorso della Regione Siciliana, aggiungendo che la scelta dei meccanismi di sicurezza per le situazioni di urgenza o di inerzia, in assenza di esplicite prescrizioni costituzionali, è evidentemente rimessa al legislatore ordinario.
Sull’articolo 3, lettera c), che rinvia al legislatore delegato per la disciplina delle forme di cooperazione strutturale e funzionale, con previsione di controlli sostitutivi statali per l’esercizio delle funzioni conferite e della presenza di rappresentanti statali nelle strutture di raccordo, la difesa sostiene che la genericità della disposizione non consente di configurare un attentato attuale alle prerogative regionali; dovrà, semmai, attendersi l’adozione dei decreti legislativi delegati.
Per quanto concerne l’avvalimento, l’Avvocatura ribatte alle censure sull’articolo 3, lettera f) evidenziando che trattasi di istituto tipicamente rientrante nel genus delle forme di collaborazione fra enti pubblici, pertanto sicuramente legittimo, e che la copertura finanziaria è materia soggetta alla disciplina dei decreti delegati. Non vi può essere, di conseguenza, attualità alcuna nei vizi contestati.
Infine, con riferimento ai primi sette commi dell’articolo 20, si afferma che le osservazioni di parte ricorrente sono puramente ipotetiche, nonché fondate su un’interpretazione errata. Appare palese, per la difesa, che la delegificazione non si possa applicare alle leggi regionali ma solo a quelle statali.
3) I ricorsi della Regione Siciliana e della Regione Puglia contro il decreto legislativo 281/1997
Ancora pendenti i ricorsi sopra descritti avanti al Giudice delle Leggi, il Governo esercita la delega concessagli con la legge 59/1997 adottando il decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, recante "definizione ed ampliamento delle attribuzioni della conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Provincie autonome di Trento e di Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni, con la conferenza Stato-Città ed autonomie locali".
La Regione Siciliana e la Regione Puglia, con due successivi ricorsi, ripropongono ed attualizzano le censure già avanzate in materia di Conferenze permanenti nei rispettivi gravami avverso la legge 59/1997.
La prima ricorrente si limita, in buona sostanza, a ribadire le censure del precedente ricorso, insistendo ulteriormente sulla pretesa illegittimità costituzionale degli articoli del decreto legislativo impugnati (che sono l’1, il 2, l’8, commi 1, 4 e 9), sia per contrasto con norme della Costituzione sia per conflitto con le disposizioni della Statuto speciale (articoli 14, 15, 17 e 20), "nella parte in cui, unificando la conferenza Stato-Regioni e quella Stato-città (…) non prevedano una qualche forma di preminenza nel processo decisionale delle Regioni".
Ciò che, più concretamente, sarebbe lesivo delle prerogative regionali, peraltro, è – ad avviso della ricorrente – la possibile interpretazione delle norme impugnate nel senso in cui esse "paiono consentire di ritenere le determinazioni assunte nella conferenza unificata, con il dissenso della Regione Siciliana, vincolanti anche nei confronti di quest’ultima, pure in relazione alla sfera dei rapporti tra la Regione e gli enti locali siciliani, ovvero con riguardo all’ordinamento ed all’attività di questi ultimi". Materia, questa dell’ordinamento degli enti locali, la quale, come noto, rientra nella competenza legislativa esclusiva della Regione Siciliana (e, dalla pubblicazione della legge costituzionale 2/1993, in quella di tutte le Regioni a statuto speciale).
La difesa della Presidenza del Consiglio chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato, ancora una volta, perché la legge delega 59/1997 ed il successivo decreto legislativo 281/1997 riguarderebbero esclusivamente le Regioni a statuto ordinario.
Seppure si dovesse ritenere che alcune disposizioni dei testi citati siano applicabili alla Regione Siciliana, le stesse lo sarebbero soltanto entro i limiti e nella parte in cui non confliggano con lo Statuto speciale, che è norma di rango super-primario.
Nel ricorso della Regione Puglia – più articolato e con maggiori elementi di novità rispetto al precedente - le censure si appuntano su altri articoli del decreto 281/1997 (il 2, il 3, l’8 e il 9), ma per motivi analoghi a quelli fatti rilevare dalla prima ricorrente.
La prima censura, che denuncia l’illegittimità degli articoli 8 e 9, ritorna sul tema dell’unificazione fra le due conferenze permanenti. Le modalità di convocazione e le funzioni della Conferenza unificata, si afferma, rappresenterebbero "la spia più evidente di un tentativo di decostituzionalizzare le garanzie dell’autonomia regionale", con il fine di equipararle a quella degli enti locali anche negli strumenti e nelle procedure.
Con un secondo rilievo, la ricorrente denuncia la violazione dell’articolo 76 della Costituzione per eccesso di delega, che è individuato nel tenore dell’articolo 8, commi 2 e 3, e dell’articolo 9, commi 5, 6 e 7 del decreto 281/1997. Queste norme – che disciplinano la composizione e le modalità di convocazione nonché le funzioni della Conferenza Stato-città - eccederebbero la portata della delega concessa all’Esecutivo con l’articolo 9 della legge 59/1997. Essa, infatti, riguardava la definizione e l’ampliamento delle funzioni della conferenza Stato-Regioni e la sua unificazione con la Conferenza Stato-città (come lo stesso titolo del decreto 281/1997 conferma).
Infine, con un terzo motivo di ricorso, la Regione Puglia impugna la norma di cui all’articolo 3 del decreto legislativo poiché essa, contraddicendo il ruolo che il legislatore avrebbe voluto assegnare alla Conferenza Stato-Regioni, consente al Governo, in caso di motivata urgenza, di provvedere anche prescindendo dall’intesa con la Conferenza. I provvedimenti adottati, per la disposizione censurata, le saranno poi sottoposti dal Governo in via successiva, con semplice obbligo dell’Esecutivo di esaminarne le osservazioni ai fini di eventuali ulteriori deliberazioni. L’ipotesi dell’urgenza motivata sarebbe generica e si presterebbe ad un uso strumentale. Quanto detto vale, a maggior ragione, anche per l’articolo 2 del decreto legislativo, il quale consente al Governo, in caso di urgenza, di effettuare in via successiva la consultazione degli atti per i quali sia prevista consultazione obbligatoria. La legge delega, oltretutto, prevede soltanto che il legislatore delegato individui i casi nei quali è obbligatoria l’intesa in seno alla Conferenza Stato-Regioni, disciplinando i casi di dissenso.
Proprio per questa ragione, ribatte la difesa, la norma contestata non è illegittima. Come la legge 59/1997 delega al Governo la definizione dell’area della obbligatorietà dell’intesa, così demanda anche, necessariamente, l’individuazione di possibili ipotesi di esclusione della stessa; una di queste può ben essere l’urgenza. La disposizione, peraltro, appare pienamente in linea con la ratio legis. Non può, infatti, sfuggire la somiglianza con il meccanismo previsto dall’articolo 8 della legge di delega il quale, come prima ricordato, prevede la possibilità di esclusione dell’intesa per l’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento da parte del Governo nei caso di urgenza.
Quanto alle altre due censure, l’Avvocatura erariale afferma che la prima sarebbe viziata dalla astrattezza dell’equazione che ne è alla base e cioè dal supposto nesso eziologico fra unificazione delle conferenze ed equiordinazione degli ordinamenti regionali e locali. L’unificazione non conduce alla equiordinazione proprio perché giova, invece, a mettere a confronto ed a contemperare interessi e competenze di diverso livello (statale, regionale, locale).
La seconda, infine, sarebbe inammissibile. Il vizio di eccesso di delega, infatti, non comporterebbe alcuna lesione dell’autonomia regionale. In subordine, la difesa chiede che venga dichiarata infondata sulla base della considerazione che le norme del decreto 281/1997 non fanno che riproporre quelle contenute nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 2 luglio 1996, con il quale fu istituita la Conferenza Stato-città, "legificandole".
4) La riaffermazione della validità dell’impianto normativo della legge 59/1997
La Corte costituzionale, investita del giudizio, classifica preliminarmente le censure fin qui esaminate in quattro gruppi.
Il primo riunisce le contestazioni di carattere più generale avanzate dalla Regione Puglia sugli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 59/1997.
Il secondo è quello dei rilievi mossi da entrambe le ricorrenti sull’articolo 8, in materia di esercizio del potere governativo di indirizzo e coordinamento.
Il terzo gruppo concerne le questioni sollevate dalle ricorrenti in ciascuno dei quattro ricorsi sulla disciplina e le funzioni della Conferenza Stato-Regioni e sulla sua unificazione con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali.
Il quarto ed ultimo, infine, riguarda le censure della Regione Puglia sui primi sette commi dell’articolo 20 della legge 59/1997, in materia di regolamenti governativi di delegificazione.
Come accennato all’inizio di questa nota, soltanto le censure del secondo gruppo, cioè quelle relative alla funzione di indirizzo e coordinamento del Governo, sono state accolte dal Giudice delle leggi, con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale. È questo il contenuto più rilevante, in quanto modificativo dell’ordinamento giuridico, della sentenza in commento. È questo, di conseguenza, l’argomento su cui focalizzare principalmente l’attenzione, rinviando, per la disamina puntuale delle questioni degli altri tre gruppi, alla lettura della motivazione riportata in epigrafe la quale, sostanzialmente, accoglie ed integra le argomentazioni della difesa (ci sia concesso, incidentalmente, di notare come sia difficile commentare una sentenza la cui motivazione è esemplare per ordine espositivo e chiarezza scientifica).
Vi sono, tuttavia, nella motivazione stessa, alcuni spunti di notevole interesse nonché alcune affermazioni e linee di ragionamento logico-giuridico che sono ulteriori rispetto a quelli già esposti dall’Avvocatura di Stato. Appare quindi opportuno qualche cenno in proposito.
Una prima menzione merita l’inquadramento generale che la Consulta antepone al rigetto delle censure mosse dalla Regione Puglia avverso gli articoli dall’1 al 4 della legge Bassanini, in materia di decentramento, conferimento e principio di sussidiarietà. Si tratta, invero, del tema di maggiore importanza fra i tanti toccati dalla vicenda processuale.
La ricostruzione prende le mosse dal dettato costituzionale. Come ricorda il redattore, la Carta fondamentale assegna al legislatore statale alcuni poteri finalizzati alla realizzazione del disegno di autonomia ispirato ai principi dell’articolo 5: il potere-dovere di regolare per ogni ramo della pubblica amministrazione "il passaggio delle funzioni statali attribuite alle Regioni" (articolo 118, primo comma e VIII disp. trans. e fin., comma 2); il potere di "delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative" (articolo 118, secondo comma); il potere di attribuire direttamente alle Provincie, ai Comuni ed agli altri enti locali le funzioni amministrative "di interesse esclusivamente locale", anche nelle materie di spettanza regionale (articolo 118, primo comma); il generale potere di determinare le funzioni degli enti locali con legge ordinaria, fissando i limiti della loro autonomia (articolo 128).
Il punto è chiarire quali spazi di discrezionalità la Costituzione lasci al legislatore ordinario. E’ questo, infatti, il fulcro attorno al quale ruotano le contestazioni che postulano un esercizio della funzione legislativa - in materia di funzioni e compiti delle Regioni e degli enti locali - lesivo dei vincoli costituzionali.
Secondo l’interpretazione della Corte, sono ampi margini: il legislatore statale può scegliere liberamente le materie sulle quali delegare alle Regioni altre funzioni, ulteriori rispetto a quelle che devono loro essere necessariamente attribuite ai sensi degli articoli 117 e seguenti; può stabilire quali funzioni di interesse esclusivamente locale attribuire direttamente agli enti locali oppure, in alternativa, può decidere di demandare alle Regioni il compito di individuare la dimensione degli interessi (se locali o regionali) "in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio" (come si legge nell’articolo 3 della legge 142/1990), nell’esercizio della propria potestà legislativa ed ai sensi dell’articolo 118, comma 2, Cost. (il quale espressamente attribuisce al legislatore ordinario la facoltà di delegare alla Regione l'esercizio di altre funzioni amministrative oltre quelle di cui al precedente articolo 117); può, infine, definire le esigenze di raccordo ed istituire gli strumenti di coordinamento fra livelli diversi di governo della res pubblica.
In altre parole, conclude la Consulta, il legislatore ordinario è libero di scegliere un modello di riparto delle funzioni amministrative ispirato al potenziamento degli enti locali, mediante attribuzione diretta agli stessi di sfere di competenza, oppure uno che dia un maggior risalto al ruolo delle Regioni, demandando a queste ultime il compito di individuare l’assetto delle funzioni degli enti locali nelle materie attribuite dallo Stato alla competenza regionale. La scelta è politica, non essendovi vincoli giuridici costituzionali: il primo comma dell’articolo 118 dice espressamente che le funzioni "di interesse esclusivamente locale, possono essere attribuite dalle leggi della Repubblica alle Provincie, ai Comuni od ad altri enti locali".
Il legislatore è altresì libero di adottare, come criterio ispiratore del riparto di funzioni, un principio quale quello di sussidiarietà. Come è libero di usare termini onnicomprensivi, per quanto impropri, quali "conferimento" ove con essi voglia semplicemente indicare per riassunto diversi strumenti ammessi tutti dalla Costituzione per il decentramento delle funzioni, fra i quali non v’è confusione alcuna, visto che la stessa legge 59/1997 li evoca quando indica espressamente cosa si debba intendere per conferimento (articolo 1, comma 1: trasferimento, delega, attribuzione).
Per quanto concerne, invece, le materie originariamente spettanti alla competenza amministrativa regionale ai sensi degli articoli 117 e 118 della Costituzione, la legge 59/1997 non adopera - come vorrebbe la ricorrente - il principio di sussidiarietà in modo da contrastare la libera determinazione delle Regioni sull’esercizio delle relative funzioni. Il legislatore ordinario, al contrario, ha opportunamente rimesso alle legislazioni regionali l’attuazione del principio in questione e degli altri principi indicati dall’articolo 4 della legge impugnata.
Vero è che la legge 59/1997 (articolo 4, comma 5) attribuisce al Governo il potere sostitutivo di rimediare all’eventuale inerzia legislativa delle Regioni nell’attribuzione dei compiti di interesse esclusivamente locale agli enti minori. Si potrebbe così configurare una violazione della libera determinazione cui s’è appena fatto cenno. Invero, ad avviso della ricorrente, tale previsione è illegittima per contrasto con l’articolo 76 della Costituzione, poiché, oltre a delineare un ingerenza del Governo nazionale in materie di competenza regionale, trattasi di delega dall’oggetto eventuale (dunque incertus an) ed indeterminato pertanto incertus quomodo).
Su questo punto appare opportuno aprire una parentesi di approfondimento per consentire una migliore intelligenza della decisione della Corte che, come premesso, rigetta anche questa censura di incostituzionalità. La sentenza, si è già detto en passant, fa un riferimento all’articolo 3, secondo comma, della legge 142/1990.
Questa disposizione si pone, infatti, in un’ideale linea di continuità che unisce l’articolo 118 della Costituzione, il citato articolo della legge 142/1990 e, da ultimo, proprio l’impugnato articolo 4, comma 5, della legge 59/1997. Sulla prima norma bisogna fare un passo indietro, per ricordare che, nel disegno del Costituente, le Regioni, per non gravarsi di strutture burocratiche che avrebbero replicato e moltiplicato il "gigantismo" della burocrazia statale, avrebbero dovuto amministrare prevalentemente e "normalmente", come recita l’articolo 118, terzo comma, attraverso gli strumenti della delega e dell’avvalimento. L’esperienza dei fatti ha permesso di constatare che né l’uno né l’altro meccanismo hanno incontrato molto successo. Per motivi che possono ben essere intuiti, le regioni hanno preferito dotarsi di uffici propri e creare una pletora di enti strumentali da esse dipendenti, moltiplicando così le posizioni di potere e le occasioni di intervento nella vita economica e sociale delle rispettive comunità
L’articolo 3 della legge 142/1990 può essere visto come un primo tentativo di rivitalizzare l’istituto dell’amministrazione indiretta. Esso, infatti, affida alle Regioni il compito di organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso comuni e province. La norma, che non a caso ebbe una genesi travagliata (non era compresa nell’originario disegno di legge governativo), non ha avuto più fortuna del precetto costituzionale, ed è rimasta anch’essa in buona parte inattuata
L’articolo 4, comma 5, della legge 59/1997 è - in un certo senso - il secondo tentativo di ricondurre la prevalenza dell’esercizio delle funzioni regionali mediante amministrazione indiretta, preferendo allo strumento dell’avvalimento quello della delega e del trasferimento. La disposizione impugnata, infatti, come più volte ricordato, prevede che ciascuna regione adotti una legge di puntuale individuazione delle funzioni trasferite o delegate agli enti locali, "anche ai sensi dell’art. 3 della legge 142 del 1990", entro il termine tassativo di sei mesi dall’emanazione dei decreti legislativi delegati. Da notare, incidenter tantum, che la norma prevede anche che, sulla falsariga di quanto accade con la stessa legge 59/1997 per lo Stato, le predette leggi regionali individuino ed elenchino (si presume tassativamente) le funzioni che rimarranno di competenza delle amministrazioni regionali. Decorso inutilmente il termine dei sei mesi, il Governo è delegato a provvedere con propri decreti legislativi, sentite le Regioni inadempienti. Dev’essere, peraltro, sottolineato che siffatti decreti governativi, sempre ai sensi dell’articolo 4, comma 5, restano in vigore fino al momento in cui saranno emanate le apposite leggi regionali. Si tratta, dunque, di un meccanismo di sostituzione a seguito di inerzia, limitata al tempo in cui l’inerzia perduri, senza compressione definitiva delle autonomie regionali.
Si può affermare, in conclusione, che la norma in esame integra e rafforza il disatteso articolo 3 della legge 142/1990 il quale, a sua volta, non faceva che attualizzare il detta costituzionale dell’articolo 118. Si può parlare di integrazione e rafforzamento perché la nuova disposizione affianca alla delega di funzioni amministrative anche il trasferimento delle stesse, ispirando l’una e l’altro al neo introdotto principio di sussidiarietà ed ovviando alle prevedibili inerzie regionali con il collaudato meccanismo dell’intervento sostitutivo. Come osserva l’estensore della sentenza in commento, "la legge n. 59 del 1997 va oltre, ma nella stessa direzione".
Non vi è alcuna lesione della sfera di autonomia regionale perché il riparto operato dal Governo nazionale con decreti delegati è temporaneo, ha il solo fine di evitare che si verifichino situazioni di svantaggio di alcuni enti locali rispetto ad altri e, soprattutto, dura finche perdura l’inerzia delle Regioni.
Non vi è alcuna indeterminatezza nell’an o nel quomodo della delega legislativa al Governo poiché il primo si identifica nel fatto giuridico dell’inerzia delle Regioni ("un delega in tal modo condizionata al verificarsi di eventi estranei alla volontà sia del Parlamento delegante, sia del Governo delegato, non è di per sé in contrasto con il modello di cui all’articolo 76 della Costituzione"), mentre il secondo è determinato dal rispetto dei pluririchiamati principi ispiratori del conferimento (il principio di sussidiarietà e gli altri elencati dallo stesso articolo 4).
5) La legittimità delle norme in materia di Conferenze Stato-Regioni e Stato-città
Altri profili di un certo interesse si rinvengono fra le motivazioni con le quali la Corte rigetta in toto le censure di illegittimità costituzionale mosse da entrambe le ricorrenti alle disposizioni, sia della legge 59/1997, sia del decreto legislativo 218/1997, relative alla composizione, al funzionamento ed alle competenze delle Conferenze Stato-Regioni e Stato-città ed autonomie locali, nonché alla loro unificazione per l’esame delle questioni di interesse comune.
La censura più radicale, e dal carattere più generale, è quella che contesta l’unificazione delle Conferenze a causa della conseguente, presunta equiparazione delle Regioni e degli enti locali a fronte di statuti costituzionali nettamente differenziati; la sede naturale della cooperazione fra Regioni ed enti locali, secondo le ricorrenti, si troverebbe, al contrario, a livello regionale. La Regione Siciliana, addirittura, come s’è già avuto modo di riferire, lamenta che la legge 59/1997 non preveda "una qualche forma di preminenza delle Regioni nel processo decisionale".
Con questa censura, ancora una volta si ritorna su uno degli aspetti fondamentali della riforma Bassanini: quello del coordinamento fra lo Stato e gli altri soggetti territoriali costituenti la Repubblica Italiana.
La Corte, dal canto suo, richiama gli argomenti già esposti a proposito della legittima potestà dello Stato di determinare con proprie leggi la disciplina dei rapporti con le Regioni e gli enti locali. Prevedere o meno strumenti quali le Conferenze di cui trattasi è una scelta costituzionalmente non vincolata, così come lo è stabilire l’unificazione occasionale fra due istituti non necessari né vietati nella Costituzione. Sembra anzi opportuna, alla Consulta, la previsione della unificazione delle due Conferenze, una volta che si sono istituite, in occasione dell’esame di problematiche di interesse comune, in quanto favorisce "l’integrazione dei diversi punti di vista e delle diverse esigenze emergenti in tema di assetto delle autonomie, lasciando meno spazio a rigide divisioni o contrapposizioni suscettibili di sfociare in ostacoli o resistenze al processo di decentramento". Prova ne sia il fatto che la legge 59/1997 ed il successivo decreto legislativo 281/1997 non prevedono in alcun modo il venir meno dell’identità delle due Conferenze né delle rappresentanze in esse presenti, tanto che - come già ricordato in questa nota - il meccanismo di voto in seno alla Conferenza unificata è per gruppi (Governo, Regioni, enti locali) e non per capita.
Altro supposto profilo di illegittimità costituzionale, nonché punto critico della disciplina, per le ricorrenti, è quello della competenza attribuita dalla legge 59/1997 alla Conferenza Stato-Regioni anche nei processi decisionali "di interesse interregionale ed infraregionale" (articolo 9, comma 1, lettera a), i quali sarebbero invece riservati all’autonoma iniziativa delle Regioni.
Tuttavia, evidenzia la Corte, a ben vedere anche quando la Conferenza interviene in materie di interesse inter- o infraregionale, si tratta pur sempre di stabilire indirizzi di politica generale di competenza dello Stato. Premessa per l’intervento della Conferenza Stato-Regioni è, infatti, la presenza di un’implicazione negli "indirizzi di politica generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale" (articolo 12, comma 1, legge 400/1988). Esclusivamente alla luce di ciò deve intendersi l’espressione usata dalla legge 59/1997 e ribadita dal decreto legislativo 281/1997 "processi decisionali di interesse regionale, interregionale ed infraregionale": l’intervento della Conferenza è previsto dalla legge soltanto quando le implicazioni di politica generale riguardino oggetti che, per la loro localizzazione, concernano una o più Regioni ovvero una parte del territorio di una Regione.
Sotto questo profilo, ci permettiamo di aggiungere che la stessa previsione della funzione consultiva obbligatoria della Conferenza in materie che sono e restano nella sfera di competenza statale è una decisiva apertura alle istanze regionaliste ed alla cooperazione fra lo Stato e le Regioni. Essa, infatti, non a caso è stata criticata dal fronte opposto di chi, non senza qualche ragione, ritiene di per se stessa incoerente la concertazione del contenuto di atti di indirizzo e di coordinamento con enti che vi sono assoggettati con l’esercizio del relativo potere da parte del Governo.
6) La legittimità del potere governativo di delegificare i procedimenti amministrativi
La sola Regione Puglia appunta alcune sue censure anche sulle disposizioni in materia di semplificazione e delegificazione dei procedimenti amministrativi, altro grande tema delle riforme "Bassanini", accanto al decentramento di funzioni e compiti.
In particolare, secondo la ricorrente sono costituzionalmente illegittimi i commi dal primo al settimo dell’articolo 20 della legge 59/1997 poiché da quelle norme, a suo dire oscure, si potrebbe dedurre un potere dei regolamenti statali di delegificazione di incidere sulle materie di competenza regionale, in contrasto con l’articolo 117 della Costituzione nonché, più specificamente, con il principio secondo il quale i regolamenti governativi non sono legittimati a disciplinare materie di competenza regionale. Lo strumento della delegificazione, si obietta infine, non può operare sulle fonti per le quali non viene in rilievo tanto un rapporto di gerarchia quanto uno di competenza (regionale da una parte, statale dall’altra).
È opportuno ricordare che gli impugnati commi 1 e 2 dell’articolo 20 prevedono che, ogni anno, il Governo presenti al Parlamento un disegno di legge per la delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi, "anche coinvolgenti amministrazioni centrali, locali o autonome". In siffatto disegno di legge (il primo, quello per il 1998, è stato effettivamente presentato alla fine dello scorso anno e varato con legge 8 marzo 1999, n. 50) devono, fra l’altro, essere individuati i procedimenti relativi a funzioni amministrative di competenza regionale e locale, indicando i principi che si vuole restino regolati da legge della Repubblica.
I commi 3 e 4 disciplinano l’emanazione, l’entrata in vigore e gli effetti dei regolamenti di delegificazione. Il comma 5 detta i criteri ed i principi cui devono conformarsi i regolamenti (in primo luogo la semplificazione dei procedimenti, la riduzione dei termini e del numero degli stessi, l’accelerazione delle procedure contabili, ecc.). Il comma 6 dispone l’effettuazione di periodiche verifiche, da parte dei servizi di controllo interno, sugli effetti dei regolamenti.
Il comma 7, infine, stabilisce che "le Regioni a statuto ordinario regolano le materie disciplinate nei commi da 1 a 6 nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico" (utilizzando, così, la nota formula che implica applicabilità delle grandi riforme anche agli ordinamenti regionali). Nelle more dell’attività legislativa regionale, le norme ed i principi di cui ai primi sei commi dell’articolo 20, sempre per il comma 7, "operano direttamente nei riguardi delle Regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia".
È quest’ultima, secondo la Corte, la disposizione che evita ed allontana ogni possibile profilo di incostituzionalità dei sette commi impugnati dalla ricorrente. L’immediata applicabilità dei regolamenti di delegificazione e semplificazione è soltanto temporanea e sostitutiva, ed ha lo scopo precipuo, nonché condivisibile ed anzi auspicabile, di evitare ingiustificate disparità di trattamento a danno dei cittadini residenti in regioni ove non si sia ancora legiferato nelle materie da semplificare, ancora sottoposti a procedure amministrative defatiganti rispetto a quelle cui sono soggetti i residenti nelle altre regioni.
Possiamo aggiungere a quanto detto in motivazione che non si verifica, quindi, la paventata invasione della sfera di competenza legislativa regionale. Il potere autonomo delle Regioni di legiferare in materia, sempre nei limiti ed entro i principi generali fissati da quella che è, a ben vedere, una "legge cornice" di cui all’articolo 117 della Costituzione, non è pertanto intaccato, poiché esse, in qualsiasi momento, possono emanare le leggi di delegificazione e semplificazione, con ciò determinando il venir meno dell’efficacia delle norme statali già vigenti in via temporanea e sostitutiva.
Rammentiamo, per completezza d’esposizione, che l’ultimo inciso del comma 7 stabilisce che anche le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano provvedono ad adeguare i propri ordinamenti alle norme fondamentali della legge 59/1997 in materia di semplificazione e delegificazione.
7) Illegittimità dell’articolo 8, comma 5, lettera c) della legge 59/1997: necessaria collegialità della funzione governativa di indirizzo e coordinamento nei confronti delle Regioni
Come più volte segnalato, l’unico contenuto innovativo dell’ordinamento giuridico, nella sentenza in epigrafe, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 5, lettera c), della legge 59/1997.
La censura che ha dato luogo alla dichiarazione rientra (secondo la classificazione dall’estensore) nel secondo gruppo di contestazioni delle ricorrenti Regioni: quello relativo all’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. Si tratta, evidentemente, di un argomento complesso, nel quale ritornano i grandi temi del decentramento, del conferimento e del principio di sussidiarietà, già toccati dalle censure più generali avanzate dalla Regione Puglia sui primi articoli della legge 59/1997.
L’articolo 8 stabilisce – lo ricordiamo – che gli atti governativi di indirizzo e di coordinamento sono adottati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Nel caso in cui l’intesa non sia raggiunta, sono invece adottati con delibera del Consiglio dei Ministri, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. In caso di urgenza, infine, il Consiglio dei Ministri può procedere senza previa intesa (in tal caso i provvedimenti adottati sono poi sottoposti all’esame successivo della Conferenza, la quale può esprimere parere negativo sugli atti, obbligando così il Governo a riesaminarli).
Le ricorrenti individuano estremi di illegittimità costituzionali in ognuna delle disposizioni appena richiamate. In primo luogo, lamentano che la previsione dell’esercizio della funzione di indirizzo soltanto in via amministrativa violerebbe il principio di legalità sostanziale (affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte costituzionale) il quale impone che norme specifiche di legge, conformative del potere governativo, siano poste a fondamento di ciascun atto di indirizzo.
Questa prima censura è subito rigettata. Le disposizioni in tema di indirizzo e coordinamento contenute nella legge 59/1997 – osserva la Consulta, accogliendo pienamente le argomentazioni della difesa – hanno portata meramente procedimentale. Di conseguenza, esse non valgono, da sole, a legittimare il Governo ad emanare atti di esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. Perché ciò sia possibile è sempre necessaria un’esplicita previsione legislativa che fondi e limiti sostanzialmente l’esercizio della funzione, indicando l’oggetto degli atti adottabili e dettando criteri sufficienti ad indirizzarne a loro volta il contenuto. La norma impugnata non può assolutamente essere interpretata come attributiva al Governo di un generale potere di adozione di atti di indirizzo e coordinamento.
Nella fattispecie, pertanto, non si ravvisa violazione del principio di legalità sostanziale.
Una seconda censura si appunta sulla previsione della facoltà di esercizio della funzione governativa di indirizzo senza intesa preventiva in caso di urgenza. Secondo le ricorrenti, la disposizione si presterebbe ad abusi da parte dell’Esecutivo. Per la Regione Siciliana, inoltre, sarebbe illegittima anche la norma che prevede la possibilità per il Governo di procedere all’adozione degli atti di indirizzo previo parere della competente commissione parlamentare in caso di mancato raggiungimento dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni; ciò perché non è prevista come obbligatoria la circostanza che il Governo abbia tenuto un comportamento leale, cioè effettivamente diretto al raggiungimento dell’intesa.
Anche questa seconda contestazione è rigettata dalla Corte. Essa, infatti, ribadisce che la previsione della previa intesa, per quanto positivamente e condivisibilmente improntata ad una connotazione meno autoritaria dei rapporti fra lo Stato e le Regioni, non è certo imposta dalla Costituzione. Ne consegue che, come il legislatore ordinario ne prevede la normale necessità, può altresì disporne la non necessarietà in casi eccezionali. Se poi l’Esecutivo intenderà usare, come paventato dalla Regione Siciliana, la facoltà di eccezione concessagli a fini elusivi della prescrizione dell’intesa, ciò atterrà alla sfera delle eventualità di fatto. In tal caso, ammonisce la Corte, si sarà di fronte ad una patologia costituzionale, sempre suscettibile di controllo e rimedio, tenuto conto "che il principio di leale cooperazione deve in ogni caso informare, ancorché non sia esplicitamente richiamato dalla legge, i rapporti reciproci fra Stato e Regioni". Il Governo è avvertito.
L’ultima censura è quella che ha dato luogo all’unica pronunzia di illegittimità costituzionale. Le ricorrenti Regioni contestano la disposizione di cui all’articolo 8, comma 5, lettera c). Questa norma, disponendo l’abrogazione dell’articolo 2, comma 3, lettera d), della legge 400/1988, il quale includeva gli atti di indirizzo e coordinamento fra quelli sottoposti alla necessaria deliberazione del Consiglio dei Ministri, cagiona l’effetto di sottrarre l’adozione dei provvedimenti in questione alla competenza dell’organo consiliare di Governo, per lasciarla, evidentemente, ai singoli Ministeri o amministrazioni. L’articolo 8, infatti, prescrive la necessità della deliberazione del Consiglio soltanto nel caso in cui, come appena ricordato, non sia stato possibile raggiungere l’intesa in seno alla Conferenza Stato-Regioni oppure si versi in una situazione d’urgenza.
La Consulta accoglie le osservazioni delle ricorrenti, dichiara la fondatezza della questione e, di conseguenza, l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
La motivazione, spiega l’estensore, è da rinvenirsi nel principio giurisprudenziale, ripetutamente affermato, per cui l’esercizio in via non legislativa della funzione di indirizzo e coordinamento nei confronti delle Regioni è soggetto a requisiti procedimentali inderogabili. Fra questi v’è quello che vuole la funzione in oggetto di esclusiva competenza dell’organo collegiale di Governo.
La funzione di indirizzo, infatti, non può identificarsi con l’attività dell’amministrazione statale caso per caso competente per materia; essa è, piuttosto, espressione del potere "di assicurare la salvaguardia di interessi unitari non frazionabili", demandato dalla legge all’interno Governo nazionale.
La necessaria collegialità degli atti di indirizzo e coordinamento ha il senso di una assunzione di responsabilità dell’organo chiamato espressamente dalla Costituzione ad esprimere, sotto la direzione del Presidente del Consiglio, la "politica generale del Governo" (articolo 95).
Lo scopo che il legislatore avrebbe voluto raggiungere con la norma in questione era quello di aggirare la deliberazione collegiale, per ragioni di semplificazione procedimentale, nei casi in cui fosse già stata raggiunta un’intesa con le Regioni interessate (direttamente o attraverso discussione in seno alla Conferenza Stato-Regioni). Neppure questo, tuttavia, è possibile secondo la Corte, per una duplice ragione. In primo luogo, perché la competenza di cui trattasi è "radicata nelle norme costituzionali concernenti la struttura e l’attività del Governo"; in secondo luogo, perché nemmeno l’intesa con le Regioni, tanto più se conseguita soltanto a maggioranza (e non all’unanimità) in seno alla Conferenza, "potrebbe consentire l’introduzione di nuovi vincoli all’autonomia delle singole Regioni al di fuori dei presupposti sostanziali e procedurali costituzionalmente necessari".
Le interpretazioni possibili della posizione assunta dal Giudice delle leggi sono due: da un lato si può vedere la decisione in commento come una riaffermazione delle garanzie poste dalla Costituzione a tutela dell’autonomia regionale; dall’altro si può spostare l’accento sulla sottolineatura della necessaria collegialità della funzione sotto esame come richiamo sull’importanza della funzione medesima (dunque in un’ottica di corretta ripartizione delle competenze fra gli organi di Governo e dell’amministrazione statale).
I primi commenti hanno focalizzato tutta l’attenzione sulla prima interpretazione, descrivendo la sentenza come un intervento a tutela della sfera di autonomia delle Regioni. Tuttavia, non si può ignorare, sotto l’opposto profilo, la bocciatura di tutte le altre questioni di illegittimità costituzionale, numerose e concernenti aspetti fondamentali dell’impianto normativo della "riforma Bassanini", sollevate dalla ricorrenti.
Come premesso in apertura di questa nota, la lettura complessiva della sentenza in epigrafe non può che essere di sostanziale conferma per l’operato del legislatore. Conferma che appare tanto più importante se si considera che la riforma c.d. del "federalismo amministrativo" ha allungato il telo protettivo della Costituzione ai limiti estremi consentiti, attuando, come è stato ripetutamente proclamato dai suoi artefici, il massimo decentramento possibile a "Costituzione invariata". Tutto l’impianto è stato eretto sul solo secondo comma dell’articolo 118 ("Lo Stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative").
Ad avviso di chi scrive è questo il senso complessivo della sentenza. Per quanto concerne, poi, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 5, lettera c) della legge 59/1997, sono probabilmente vere entrambe le interpretazioni: quella che pone l’accento sulla fondamentale affermazione dell’autonomia regionale ed anche quell’altra che non tralascia il richiamo alla corretta distribuzione di competenze fra gli organi dell’Esecutivo in merito ad un importante atto di alta amministrazione com’è il provvedimento governativo di indirizzo e coordinamento.
In conclusione, la decisione non va segnalata e ricordata soltanto per la sua ridotta efficacia modificativa dell’ordinamento, ma piuttosto per tutti i punti fermi che fissa nell’interpretazione delle norme trattate. Questi, in sintesi estrema, sono i seguenti:
1. il legislatore ordinario statale ha il potere discrezionale di regolare il passaggio di funzioni amministrative dello Stato alle Regioni ai sensi dell’articolo 118, primo comma, di delegare alle Regioni l’esercizio di altre funzioni amministrative ai sensi dell’articolo 118, secondo comma, nonché di attribuire direttamente agli enti locali le funzioni di interesse esclusivamente locale nelle materie di competenza regionale (ai sensi degli articoli 118 e 128);
2. nella sfera di autonoma determinazione discrezionale del legislatore ordinario rientrano anche il compito di identificare la dimensione territoriale degli interessi locali (come riaffermato nell’articolo 3, comma 2, della legge 142/1990) e quello di individuare le esigenze e gli strumenti di raccordo e coordinamento fra i diversi livelli di governo della cosa pubblica;
3. i limiti costituzionali dei predetti poteri governativi sono differenziati a seconda che le materie di cui trattasi siano quelle assegnate alla competenza regionale ai sensi dell’articolo 117 Cost., nel cui ambito è rimesso alle Regioni il compito di individuare le funzioni da decentrare ulteriormente agli enti locali, ovvero siano quelle ad essa attribuite ai sensi del secondo comma dell’articolo 118 (le "altre funzioni amministrative"), per le quali il riparto fra Regioni ed enti locali è di spettanza statale (attraverso lo strumento, nella fattispecie, dei decreti legislativi delegati);
4. il legislatore della legge 59/1997 ha rispettato i limiti suddetti ed il sistema delineato dalla legge "Bassanini" non comporta la paventata "decostituzionalizzazione" delle competenze regionali, incidendo esclusivamente sulle "altre funzioni amministrative" di cui all’articolo 118, comma secondo, le quali, evidentemente, così come sono attribuite dal legislatore ordinario possono dallo stesso essere conformate o tolte;
5. nell’ambito della propria discrezionalità, il legislatore statale è libero, pertanto, di ispirare la propria azione ai principi che ritenga più opportuni purché non siano contrastanti con la Costituzione (cosa che non può certo dirsi per il principio di sussidiarietà, che realizza la massima valorizzazione possibile delle istanze locali).
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(*) La presente nota a sentenza è già stata pubblicata nel numero 8 (agosto) 1999 della Rivista "Urbanistica ed Appalti".