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PIER LUIGI PORTALURI
(Professore associato di Diritto amministrativo e di
Diritto urbanistico
nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce)
La civiltà della conversazione nel governo del territorio (*)
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In esergo. – «Purtroppo non c'è nulla da fare, il processo di devolution ha sconnesso le doghe del vascello nazionale, e un colpo di timone troppo forte da parte del nocchiero centrale rischia di mandare in frantumi tutto, quanto e più delle intemperie. Non resta che prender bene la botta, facendo attenzione alla direzione ed alla forza con la quale arriverà […]. E per evitare che i canapi del sartiame del fragile e tarlato sistema di pianificazione meridionale si scaldino troppo, dare “acqua alle corde”, dotando nel contempo il Mezzogiorno di qualche robusto paterazzo d'area vasta» [1].
1.1.– Questo lavoro si articola in due parti: nella prima si delineano gli aspetti problematici di carattere generale che derivano dai nuovi criteri di riparto delle competenze delineati nel Titolo V della Costituzione dopo la revisione dell’ottobre 2001.
Nella seconda parte ci si occupa più specificamente delle conseguenze che la revisione costituzionale produce sul modello di disciplina del territorio.
Il contributo muove qui lungo una duplice direzione.
Da un lato, si svolgono alcune rapide osservazioni intorno al regime dei rapporti tra Stato e Regioni, con ovvio riferimento al nuovo art. 117 Cost., che ha ribaltato il tradizionale criterio di ripartizione delle potestà legislative; e quindi alla formula «governo del territorio», quale materia di competenza concorrente, nelle sue interazioni con l’urbanistica (e l’edilizia).
Dall’altro lato, si offrono talune riflessioni sull’assetto dei rapporti tra Regione ed Enti locali, quali soggetti del processo di gestione del territorio, tentando di individuarne i rispettivi raggi d’azione in riferimento al riformato art. 118 Cost..
In questa seconda sezione si vorrebbe almeno puntualizzare i principali nodi ancora da sciogliere nella materia dell’urbanistica.
Infatti, la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 ha probabilmente perduto un’ulteriore occasione per delineare con chiarezza un «sistema» giuridico di disciplina del territorio.
È questa infatti la seconda volta, in un periodo di tempo di quasi sessant’anni, che si discute di urbanistica al livello più alto del nostro ordinamento: ma entrambi gli appuntamenti parrebbero mancati dal nostro legislatore costituente.
Se con riferimento alla prima occasione – si tratta ovviamente della Costituzione del 1948 – le cause di un atteggiamento siffatto possono essere in qualche modo ricostruite [2], meno comprensibili sono quelle che sottendono alle recenti scelte effettuate dal legislatore costituzionale.
Il nuovo art. 117 della Costituzione attribuisce alla potestà legislativa concorrente delle Regioni una materia che sembrerebbe rappresentare una sorta di evoluzione concettuale della «vecchia» urbanistica: il governo del territorio.
Di qui un evidente problema definitorio [3]: individuare con accettabile precisione i confini di questa disciplina, anche perché nelle enumerazioni presenti nel nuovo art. 117 sono molteplici le materie di competenza esclusiva dello Stato e (residuale) delle Regioni che, sotto diversi aspetti, sembrano presentare elementi di connessione col «governo del territorio»: il riferimento immediato potrebbe essere al secondo comma, lett. s, relativo alla «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali»; ma anche alla «sicurezza» (lett. h); o ancora, alle «funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane» (lett. p).
Vi è inoltre la serie di competenze legislative non enumerate che, in quanto tali, sono rimesse in via esclusiva alle Regioni e che possono porsi in stretta relazione con la materia in discussione: per esempio, i lavori pubblici, il commercio, l’agricoltura, etc..
Ma non è certo questo l'unico profilo problematico.
Quello appena delineato riguarda infatti il fronte per così dire esterno dei rapporti fra il sistema delle autonomie (latamente inteso) da un lato, e lo Stato dall'altro; vi è però un fronte interno altrettanto instabile, e i cui confini, dopo la riforma costituzionale, si mostrano ancor più incerti: si tratta di chiarire il ruolo che, nel nuovo assetto, Comune, Provincia e Regione sono chiamati a svolgere quali attori principali del processo di gestione del territorio, così da individuare (e cioè delimitare, ma anche presidiare) gli ambiti di azione rispettivamente loro attribuiti.
1.2.– Fin qui le cornici generali del quadro problematico delineato dalla riforma del Titolo V con riferimento all’ambito del governo ed uso del territorio.
In realtà, si tratta di questioni che richiedono anzitutto una breve analisi del modello costituzionale introdotto nel nostro ordinamento dalla l. n. 3/2001.
Ora, nel nuovo corpo normativo paiono distinguersi abbastanza agevolmente due diverse anime: quella federalista o regionalista, strutturata intorno ai rapporti tra Stato e Regioni e che subordinerebbe alle scelte di questi l’assetto delle attribuzioni degli Enti locali; e quella municipalista, volta al più ampio decentramento istituzionale e che, sostanzialmente, finirebbe con lo svalutare il ruolo delle Regioni.
Questa duplice impostazione teorica è la conseguenza di quella inedita «doppia generalità» [4] che oggi deriva dai nuovi artt. 117 e 118 Cost., e che si sintetizza nella competenza legislativa generale delle Regioni e nell’attribuzione ai Comuni della generalità delle funzioni amministrative.
Di conseguenza, l’introduzione di queste due nuove generalità rende ancora più problematica l’irrisolta questione dei rapporti tra Enti locali e Regioni che ha segnato tutta l’esperienza del regionalismo italiano.
Secondo una prospettiva più ampia, è generale quella competenza non circoscritta e volta ad assolvere tutti i compiti necessari per il soddisfacimento degli interessi di una comunità.
Storicamente, gli ordinamenti a fini generali per eccellenza sono lo Stato e il Comune: una connotazione che – com’è noto – ha dato luogo, già prima dell’età moderna, ad un conflitto risoltosi a favore dello Stato.
Ciò, tuttavia, non ha comportato la fine della generalità funzionale dei Comuni, bensì ha mutato il loro modo di rapportarsi con lo Stato, secondo una «particolare regola di concorrenza governata dal canone dell’interesse» [5].
In altre parole, gli eventuali conflitti di competenza tra queste due figure soggettive si risolvevano sulla base del raffronto tra un interesse dello Stato e un interesse locale (del Comune), entrambi espressione di una competenza generale.
Questa concorrenza si è sempre risolta attraverso valutazioni di merito da parte dello Stato, il quale solitamente determinava con legge gli oggetti di interesse nazionale e di interesse locale.
Con la Costituzione repubblicana, in questo contesto istituzionale si sono inserite le Regioni, le quali hanno dovuto convivere sia con la rivalità tra Stato ed enti territoriali minori, sia con il criterio dell’interesse.
Tutto ciò ha generato un alone di ambiguità intorno al sistema dei rapporti tra i diversi livelli di governo, soprattutto per quanto riguarda Regioni ed autonomie locali.
Già nel testo del ‘48 questi rapporti erano poco definiti: infatti, se si esclude la possibilità di delegare agli Enti locali funzioni amministrative regionali (art. 118 Cost., vecchio testo) e l’attribuzione del controllo sugli atti comunali e provinciali ad un organo regionale (art. 130 Cost., oggi abrogato), non si individuano altri significativi riferimenti alle relazioni tra la Regione e gli enti territoriali minori.
Il Costituente aveva infatti delineato un sistema binario, connotato da un lato dai rapporti tra lo Stato e le Regioni, e dall’altro da quelli tra Stato ed Enti locali: un modello che attribuiva allo Stato il ruolo di unico regolatore delle competenze e dell’organizzazione degli ordinamenti territoriali interni (e cioè di Regioni ed Enti locali).
Questi ultimi, dal canto loro, relazionandosi esclusivamente con lo Stato e, quindi, senza articolati sistemi di comunicazione interna, si collocavano in un sistema non organicamente coordinato, all’interno del quale spesso si ponevano – come in precedenza era accaduto tra Stato e Comuni – in posizione di reciproca concorrenza.
Tuttavia, la contrapposizione tra Regione e autonomie locali non poteva più risolversi in base al raffronto tra le rispettive sfere di interesse.
Infatti, se da un lato per i Comuni continuava a valere il criterio degli interessi, dall’altro, le Regioni operavano in ragione della propria competenza nelle materie di loro spettanza legislativa.
Ma l’esperienza ha dimostrato che il modello per interessi si è sempre scontrato con quello per materia, poiché il continuo combinarsi dei primi ha agito secondo logiche di intersezione trasversale, vanificando così ogni rigoroso tentativo di riparto ob materiam.
Di conseguenza, questo conflitto interesse-materia si è tradotto in una forte incertezza sul piano dei rapporti tra Regione ed Enti locali, laddove la prima si è vista spesso «invadere» dai secondi proprio in sfere di propria competenza, in ragione della tutela di quegli interessi pubblici di cui gli enti territoriali minori erano diretta espressione: donde una sensibile erosione delle attribuzioni amministrative delle Regioni in favore di quelle degli Enti locali, imputabile ad una serie di fattori.
Anzitutto, mentre l’ambito di operatività della potestà legislativa delle Regioni era predeterminato dall’art. 117 Cost., la loro attività amministrativa era invece condizionata dalle scelte del legislatore statale.
Infatti, quest’ultimo poteva attribuire direttamente a Comuni, Province o altri Enti locali una pluralità di funzioni amministrative, se ritenute di interesse locale (art. 118 Cost., vecchio testo).
In secondo luogo, il D.P.R. n. 616/77, proprio in conformità all’art. 118 Cost., ha individuato le funzioni di interesse esclusivamente locale – da attribuire agli Enti minori – secondo un criterio estensivo: di conseguenza, una pluralità di funzioni amministrative sono state ascritte direttamente alle Amministrazioni provinciali e comunali.
Una scelta di questo tipo ha alterato il principio del parallelismo [6], in base al quale spettavano alle Regioni tutte le competenze amministrative nelle materie che costituivano oggetto della loro potestà legislativa: e così, per interi settori – ad esempio, i servizi sociali – il potere legislativo regionale si è contrapposto alla competenza amministrativa delle autonomie locali.
In terzo luogo, le leggi Bassanini hanno modificato completamente la ratio che presiedeva al riparto delle funzioni fra i tre livelli istituzionali (statale, regionale, locale).
In particolare, con la legge n. 59/’97 si è realizzato un trasferimento di competenze dal centro alla periferia volto ad attribuire a Regioni ed Enti locali tutte le funzioni amministrative relative alla cura degli interessi delle rispettive comunità, con la sola eccezione di quelle riservate allo Stato.
Sul piano dei rapporti tra Regioni ed Enti locali, tutto ciò ha generato uno scenario istituzionale notevolmente frastagliato, che neppure il processo di attuazione, da parte delle Regioni stesse, della l. n. 59/’97 e del D. lgs. n. 112/’98 è riuscito a ricomporre in modo organico.
Infatti, le soluzioni scelte dai legislatori regionali sono risultate assai eterogenee tra loro: mentre alcuni hanno preferito conferire le funzioni agli Enti locali sulla base di una legge generale (ad es., Basilicata, Emilia Romagna, Umbria, Lazio, etc.), altre hanno optato per l’approvazione di leggi riferite a singoli settori (ad es., Puglia, Toscana, etc.) [7].
Verso una più chiara collocazione delle Regioni nel sistema del governo locale si muove invece – e peraltro riprendendo l’art. 3, l. n. 142/’90 – l’art. 4, d. lgs. n. 267/’00 [8], il cui primo comma stabilisce che esse, «ferme restando le funzioni che attengono ad esigenze di carattere unitario nei rispettivi territori, organizzano l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province»: ciò, nel rispetto della competenza legislativa regionale ex art. 117 Cost., nonché del modello di riparto delle funzioni amministrative regolato dall’art. 118 Cost..
In questo modo, il legislatore ordinario ha individuato nelle Regioni il «centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali» [9]: in altre parole, nell’ambito della propria potestà legislativa, esse svolgono un ruolo fondamentale nell’allocazione delle competenze amministrative tra i differenti livelli di governo locale.
Dall’intera vicenda – fin qui evocata appena – dei rapporti tra Regioni ed Autonomie locali non si può ovviamente prescindere nell’ambito del dibattito circa il nuovo assetto costituzionale introdotto dalla l. cost. n. 3/2001.
Infatti, in virtù del principio di continuità degli ordinamenti, l’analisi del modello costituzionale vigente in un Paese richiede anche (e soprattutto) la consapevolezza della relativa vicenda storico-istituzionale.
Si intende dire, più specificamente, che prima di affermare l’introduzione del modello regionalista o di quello municipalista da parte del costituente, occorre ripercorrere – sia pur rapidamente – le passate traiettorie della nostra storia istituzionale al fine di poter comprendere meglio la direzione intrapresa dall’ordinamento.
E quest’ultima, come si è detto, negli ultimi trent’anni (e soprattutto dopo le Bassanini) si è orientata verso un più nitido inserimento delle Regioni nel modello di governo locale.
Più in particolare, la dottrina ha affermato che la l. cost. n. 3/2001 ha assicurato alle leggi Bassanini una sorta di «copertura» [10] o «stabilizzazione» [11] o «architrave» [12] costituzionale, nel senso di consolidare quegli assetti normativi introdotti dal legislatore ordinario.
Tra questi, vi è proprio quello volto ad affermare nel nostro ordinamento un assetto istituzionale di tipo regionalista o federalista: si può pertanto dire che le leggi Bassanini hanno costituito «una sorta di spartiacque tra un regionalismo del “prima” […] ed un regionalismo del “dopo”» [13].
In fondo, il regionalismo del 1948 fu un «atto coraggioso» [14]: nonostante il riconoscimento alle Regioni di momenti di autonomia costituzionalmente garantiti, allo Stato spettava pur sempre – nei loro confronti – una «funzione di tipo tutorio» [15].
In sostanza, le Regioni apparivano all’interno del sistema come elementi, anche se non proprio ornamentali, comunque «non determinanti nella struttura» [16]: ciò spiega come il modello regionale originario poté funzionare anche senza le stesse Regioni.
Il regionalismo delineato dalla l. cost. n. 3/2001, invece, sembra guardare all’articolazione regionale come elemento strutturale del nostro ordinamento.
In effetti, attribuire alle Regioni potestà legislativa generale e liberarle dalla rete dei controlli preventivi – come si evince dalla nuova formulazione dell'art. 127 Cost. – significa proprio puntare su di esse: e non come mera opportunità di aggiungere un tassello in più ad un precostituito progetto, ma come possibilità di elaborare ed arricchire il progetto stesso, partendo dalle intuizioni e dalle innovazioni delle singole realtà territoriali.
In questa prospettiva, quindi, le Regioni non costituiscono più un segmento di mera autonomia e di differenziazione dell’ordinamento – secondo l’impostazione del 1948 – ma versano in una condizione che potrebbe dirsi di libertà [17].
L’opzione rigidamente municipalista, quindi, appare in realtà poco probabile, poiché costituirebbe un tentativo di negazione dell’indirizzo che la storia istituzionale del nostro Paese ha intrapreso in modo forse irreversibile.
E peraltro, ponendo sul piatto della bilancia gli elementi – desumibili dalla stessa revisione costituzionale – che sostengono sia il modello municipalista, sia quello regionalista, l’ago parrebbe pendere dalla parte del secondo.
Infatti, a sostegno dell’assetto municipalista militerebbero soltanto la prevista generalità delle funzioni amministrative di cui al primo comma dell’art. 118 Cost. ed il riconoscimento agli enti territoriali minori di un proprio e diretto ruolo (tramite l’organo consultivo previsto dall’art. 123, ultimo comma della Costituzione) nell’ordinamento e nella programmazione dell’intero governo locale (almeno per le decisioni più significative).
Invece, in favore dell’idea regionalista si riscontrano una pluralità di elementi:
a) la equiordinazione del rango costituzionale tra legge statale e legge regionale (art. 117, comma 1);
b) il riconoscimento alla Regione della competenza legislativa generale (art. 117, comma 4);
c) l’attribuzione non solo allo Stato, ma anche alla Regione del compito di allocare le funzioni amministrative (art. 118, comma 2);
d) la riserva allo Stato della determinazione della legge elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p);
e) il riconoscimento alle Regioni di una «quasi soggettività internazionale» ([18]): esse possono partecipare «alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari» e provvedere «all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea» (art. 117, comma 5, Cost.); inoltre, possono «concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato» (art. 117, ultimo comma, Cost.).
Tuttavia, un duplice ordine di ragioni induce a ritenere che quello introdotto dal legislatore costituzionale sia un regionalismo ancora privo di una propria, solida fisionomia [19].
Anzitutto, un sistema per così dire di «regionalismo forte» [20] richiede che il rovesciamento del meccanismo di distribuzione delle competenze legislative riservi alle Regioni una potestà legislativa esclusiva «piena».
Senonché l’elencazione delle materie previste dall’art. 117 – talune delle quali costituenti anche titolo di intervento trasversale da parte dello Stato in ambiti di legislazione concorrente o, addirittura, esclusiva regionale [21] – rischia di lasciare poco spazio alla residuale competenza legislativa regionale prevista dal quarto comma dello stesso articolo.
Ciò parrebbe il risultato della tradizionale (ed erronea) impostazione concettuale secondo cui una rigida ripartizione normativa per materia può reggere all’impatto dell’applicazione concreta, la quale, invece, ha dimostrato «di possedere una formidabile, irresistibile capacità di omologazione, sotto la spinta di interessi unificati dotati di una altrettanto formidabile capacità espansiva, debordando da ogni regola o principio volti a diversamente orientare, tipizzandole, le esperienze di normazione» [22].
In altre parole, se il criterio che sta alla base degli equilibri tra competenza statale e quella regionale è, appunto, quello degli interessi, è indubbio che la costante mobilità delle loro combinazioni rende difficilmente attuabile ogni forma di rigido riparto per materiam (salvo taluni interessi la cui ascrizione alla competenza dello Stato è indiscutibile).
In secondo luogo, è ormai corale il rilievo per cui una forte condivisione del potere di governo (complessivamente inteso) tra Stato e Regioni necessiti di una presenza di queste ultime in sede parlamentare, dove si assumono quelle scelte che ricadono sull’assetto degli ordinamenti territoriali e sui rapporti tra lo Stato e le Regioni stesse: si pone qui la questione della Camera delle Regioni, la cui istituzione già in sede di Bicamerale non ha riscosso fortuna.
Tuttavia, in questa direzione negli ultimi anni si è registrato almeno un rafforzamento della Conferenza Stato-Regioni, come sede di continuo confronto e concertazione tra il governo centrale, i governi regionali e le rappresentanze dei governi locali.
Anche se dalla riforma del 2001 non si deriva un assetto costituzionale disegnato in tutte le sue sfumature, un primo bilancio sembra orientare comunque nel senso di ritener chiara la ratio ispiratrice dell’intero intervento del legislatore costituzionale.
Si è visto, infatti, che sia la più recente nostra storia istituzionale, sia il quadro sistematico della revisione costituzionale, si muovono lungo la direttrice che porta ad un modello di governo di tipo regionalista o, a questo punto, di «neoregionalismo», superandosi l’assetto disegnato dalla Costituzione del ‘48, rivelatosi fonte di confusione nei rapporti tra i livelli di governo (ed in particolare tra gli Enti locali e le Regioni).
Di talché, occorre oggi guardarsi da talune eccessive «celebrazioni» del modello municipalista, le quali appaiono strumentali allo scopo di contrastare un immaginario centralismo regionale: si è visto, infatti, che esse non trovano un riscontro pregnante nell’impianto della riforma costituzionale.
Un atteggiamento, invece, corrivo comporterebbe forse che, prima o poi, anche le circoscrizioni rivendicheranno ampia libertà d’azione e di decisione per contrastare il soffocante centralismo dei Comuni.
1.3.– La Costituzione repubblicana, come si è detto, prevedeva un assetto delle competenze amministrative al cui vertice si ponevano le Regioni, alle quali – in base al (già citato) principio del parallelismo – spettavano tutte le funzioni nelle materie che costituivano oggetto della loro potestà legislativa.
Tuttavia, questa loro posizione di rilievo nel sistema amministrativo italiano poteva valere soltanto nei confronti dello Stato, poiché a livello locale anche Province e Comuni avrebbero potuto esercitare funzioni amministrative, sulla base di attribuzione o delega statale o regionale (art. 118, commi 1 e 3, Cost., vecchio testo).
Il principio del parallelismo è stato ribaltato dalla l. n. 59/97: quest’ultima, infatti, ha fatto venire meno ogni ripartizione piramidale delle competenze amministrative; oggi (cfr. art. 1, commi 1 e 2) l’amministrazione si regge sull’attività sia delle Regioni che degli Enti locali, anche nelle materie per le quali lo Stato esercita la funzione legislativa, salvo un ristretto elenco di materie riservate all’amministrazione statale.
Com’è noto, il superamento [23] di quel principio è avvenuto in seguito alla legittimazione a livello costituzionale del principio di sussidiarietà [24], pure introdotto dalla Bassanini, quale criterio di ripartizione delle funzioni: esso non distribuisce direttamente le competenze, ma indica la regola cui ispirarsi per la loro allocazione.
Sul piano della novella costituzionale vengono in rilievo a questo proposito le norme racchiuse nell'art. 118 Cost., ed in particolare nei primi due commi.
Il dato emergente da una prima lettura è che la nuova disciplina, rovesciando il principio del parallelismo, parrebbe attribuire la generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, salve le esigenze di un loro esercizio unitario che ne comportino l’assegnazione a livelli istituzionali superiori.
In altre parole, l’ordinamento amministrativo italiano si delinea come un sistema ormai «policentrico» [25]: al suo interno l’Amministrazione, quale che sia il legislatore competente per materia, agirà spostandosi lungo una direttrice che non muove più dall’alto verso il basso, bensì dal basso verso l’alto [26].
Lo scopo di questa rinnovata impostazione è quello di privilegiare la prossimità territoriale con i cittadini, sulla scia del principio comunitario in base al quale «le decisioni siano prese […] il più vicino possibile ai cittadini» stessi (art. 1, comma 2 del Trattato sull’Unione Europea).
Ma ciò non autorizza ad affermare che la l. cost. n. 3/2001 abbia introdotto una sorta di «riserva di amministrazione dei Comuni» [27]: infatti, il «principio del Trattato dell’Unione […] si riferisce al sistema di relazione che deve governare il “processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”, ma è ben lungi dal richiedere una scelta nell’ordinamento interno a favore di una riserva di amministrazione comunale» [28].
D’altra parte, il nuovo art. 118 Cost. non racchiude – né potrebbe – una norma direttamente attributiva di funzioni.
Anzitutto, perché secondo un’opinione quasi unanime [29] la norma in esame non si autoapplica, ma per la sua operatività effettiva necessita di un intervento legislativo di attuazione [30].
In secondo luogo, se veramente l’art. 118 Cost. potesse in via immediata attribuire competenze amministrative agli enti in esso menzionati, non si comprenderebbe il senso di quanto previsto dall’art. 117, comma 2, lett. p, secondo cui, invece, è il legislatore statale ad individuare le «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
Sembra preferibile, invece, ritenere che l’art. 118 Cost. contenga i principi e le regole per ripartire le competenze amministrative all’interno dell’ordinamento: mentre il primo comma detta un criterio di orientamento generale circa l’allocazione di funzioni («ai Comuni, salvo che […] a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato»); il secondo comma, invece, ne contiene il profilo attuativo, mediante il riferimento agli strumenti operativi attraverso cui effettuare la ripartizione («legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze») [31].
In sintesi, secondo la nuova formula dell’art. 118 Cost. l’allocazione funzionale è orientata a «privilegiare» il livello comunale: tuttavia, quando, con riferimento all’esercizio di determinate funzioni amministrative, particolari esigenze di unitarietà lo richiedano, la ripartizione delle stesse deve avere come destinatari i livelli di governo sovracomunale.
Da ciò la conferma che all’interno dell’art. 118 Cost. non si radica alcuna riserva comunale di amministrazione [32], poiché il nuovo testo, come regola generale, attribuisce ai Comuni le funzioni amministrative, affrettandosi poi a disciplinarne anche il regime derogatorio.
Diversamente opinando, si delineerebbe una riserva (quella amministrativa comunale), alla quale si potrebbero in qualsiasi momento sottrarre ambiti di esercizio tramite l’attribuzione di funzioni ad un livello istituzionale superiore.
Se una esclusività sussiste – e non con riferimento alla potestà amministrativa, ma alle modalità di riparto delle competenze – questa deve essere ascritta al legislatore statale e regionale: essi, infatti, ciascuno per le materie intestate loro, sono i titolari del potere di allocazione delle funzioni, con i soli limiti posti dai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Ma si tratta di limiti che, ovviamente, non minano la riserva di competenza riconosciuta loro, bensì sono volti a orientarli nell’esercizio della funzione di «distributori» delle funzioni amministrative.
1.4.- A questo punto, non sembri superfluo svolgere alcune brevi considerazioni circa la tecnica di allocazione delle competenze ex art. 118 Cost.: in altre parole, come queste vengono individuate e, poi, ripartite tra gli Enti locali.
Si incontra qui una questione di vocabolario.
Il secondo comma dell’art. 118 Cost. stabilisce che gli Enti locali «sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze».
Questa disposizione non presenterebbe particolari problemi, se non fosse che secondo l’art. 117, comma 2, lett. p, lo Stato ha potestà legislativa esclusiva anche in materia di «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
In astratto, potrebbero pertanto distinguersi tre tipologie di funzioni anche comunali: proprie, conferite e fondamentali [33].
Di conseguenza, si potrebbe ritenere che tutta l’attività amministrativa degli Enti locali sia, a seconda dei casi, la risultante delle combinazioni fra queste funzioni.
Invero, per le ragioni che si tenterà di illustrare di seguito, non sembra si tratti di tre tipologie funzionali distinte; ma si ritiene qui che solo due siano le categorie di funzioni delineabili, attesa l’equivalenza tra quelle fondamentali e quelle proprie.
La ragione di quanto appena affermato può cogliersi se si esamina brevemente il procedimento di ripartizione delle competenze amministrative.
Anzitutto, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), il legislatore statale individua le funzioni fondamentali degli Enti locali: ossia, quelle funzioni che per natura, contenuto e, forse, tradizione debbono necessariamente essere disimpegnate dai Comuni, dalle Province e dalle Città metropolitane.
Una volta indicate queste funzioni, esse assumono anche la connotazione di «proprie»: ossia, proprie di Comuni, Province e Città metropolitane, in quanto peculiari di quel determinato livello istituzionale in base alle valutazioni fatte in precedenza dal legislatore statale [34].
Tutte le altre funzioni (quelle non fondamentali) saranno distribuite tra gli Enti locali dal legislatore statale e da quello regionale nell’ambito della rispettiva potestà legislativa.
Tuttavia, nell’espletamento di questo loro compito allocativo, sia il legislatore statale che quello regionale non sono tenuti a conferire necessariamente agli Enti locali tutte le funzioni residue.
Essi, infatti, possono anche decidere di riservarsi talune competenze amministrative, qualora esigenze di esercizio unitario lo richiedano; ovvero quando ciò sia giustificato da ragioni di buon andamento, di efficacia e di efficienza dell’azione amministrativa, nonché da esigenze di programmazione economica.
Di conseguenza, con l’espressione «funzioni conferite» il legislatore costituzionale sembra aver richiamato proprio la scelta con la quale Stato e Regione decidono di destinare a se stessi talune competenze amministrative e di attribuirne altre al sistema degli Enti locali.
In questa prospettiva, difficilmente lo Stato e le Regioni potranno rimanere privi di funzioni amministrative.
Anzitutto, perché – come si è già detto – non sussiste alcuna riserva di amministrazione per i Comuni, ma a questi ultimi è attribuita, solo in via preferenziale, la generalità (derogabile) delle competenze amministrative.
In secondo luogo, come correttamente osservato in dottrina, tanto lo Stato quanto le Regioni dovranno pur «conservare ab origine un minimum di “proprie” funzioni amministrative, la cui appartenenza sia da considerare a tutti gli effetti come originaria, e non derivi da una certa applicazione in loro favore del principio di sussidiarietà» [35].
Infatti, vi sono materie come, per esempio, quella della «difesa e forze armate» (art. 117, comma 2, lett. d, Cost.) o dei «porti e aeroporti civili» (art. 117, comma 3, Cost.) rispetto alle quali sembra concretamente difficile immaginare che le corrispondenti funzioni amministrative siano attribuite allo Stato e alle Regioni in ragione del solo esercizio unitario e del principio di sussidiarietà.
Sembrerebbe, invece, che proprio in casi come questi i relativi compiti debbano essere esercitati ad un livello istituzionale più elevato – per una sorta di «riserva originaria» – poiché lo spessore degli interessi (pubblici e privati) implicati potrebbe risultare ingestibile ad un livello più basso, come quello comunale.
In questo modo, si ripropone il secolare criterio dell’interesse: l’unico che, innanzi all’astrattezza e all’ambiguità delle norme, può funzionare nel concreto e può contribuire al riordino del sistema di ripartizione delle competenze amministrative.
2.1.– All’inizio di questo scritto sono stati intavolati i profili problematici derivanti dalla riforma del Titolo V che ricadono sul sistema di disciplina giuridica del territorio.
Come si è detto, occorre anzitutto affrontare la questione legata alla nuova formula introdotta nel terzo comma dell’art. 117 Cost., con la quale, secondo taluni [36], si indicherebbe l’evoluzione concettuale dell’urbanistica: il governo del territorio.
In una prospettiva più generale, è appena il caso di ribadire che l’art. 117 Cost. – come modificato dalla l. cost. n. 3/2001 – ha rovesciato il criterio di ripartizione del potere legislativo fra Stato e Regioni stabilito dal sistema previgente, in quanto la competenza legislativa generale è oggi attribuita alle seconde.
Infatti, mentre prima la Costituzione si limitava ad indicare le sole materie che la Regione poteva disciplinare con legge (seppure nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale), riservando, in via residuale, alla legislazione esclusiva statale ogni altra materia non specificata tra quelle regionali; il nuovo testo costituzionale, invece, assegna alle Regioni, sempre con criterio residuale, la potestà legislativa esclusiva in tutte quelle materie non rientranti nelle enumerazioni di cui al secondo comma (potestà esclusiva statale) e terzo comma (potestà concorrente) dell’art. 117 Cost..
Ora, gli ambiti di legislazione esclusiva statale e concorrente – delineati appunto con tecnica enumerativa – non fanno alcun riferimento espresso alla materia dell’urbanistica, la quale in passato figurava tra quelle di potestà concorrente.
Oggi, invece, il nuovo testo costituzionale individua, tra le materie soggette a legislazione concorrente, quella attinente al «governo del territorio»: ma con questa espressione si intende «qualcosa di equivalente, qualcosa di più ampio e comprensivo, oppure qualcosa di intrinsecamente diverso» [37] rispetto alla «vecchia» urbanistica?
Si delinea così una triplice opzione ermeneutica.
Per la prima, il governo del territorio coincide con l’urbanistica nel suo più ampio significato di «disciplina avente ad oggetto l’intero territorio» [38]: di conseguenza, sul piano della legislazione i problemi da affrontare rimarrebbero in gran parte gli stessi del passato.
Ma l’evoluzione di queste due concettuologie sembra procedere nel senso di una loro sempre più netta divaricazione [39].
Per altro verso, sebbene l’equivalenza urbanistica-governo del territorio non abbia complessivamente riscosso molto favore – salvo essere «ripescata» per altri fini [40] – essa, tuttavia, ha di fatto aperto la strada ad una visione dell’urbanistica che ne prospetta una dimensione sovracomunale che la materia non aveva mai posseduto in precedenza.
Ciò si deve proprio alla emersione di una «serie di precetti, tutti estranei ai temi della pianificazione urbanistica, ma tutti parimenti incidenti sulla disciplina del territorio» [41]: si tratta dei cosiddetti interessi differenziati [42], diversi da quelli abitualmente coinvolti dalle scelte urbanistiche (come, ad esempio, quelli concernenti il paesaggio, l’igiene, l’industria, il commercio, etc.), la cui tutela è spesso demandata ad autorità di settore [43].
In base alla seconda opzione, nella nozione più ampia di «governo del territorio» rientra, insieme ad altre, quella di urbanistica (una sorta di fusione per incorporazione): anche in questo caso, quest’ultima dovrebbe essere riportata nell’ambito delle materie a legislazione concorrente e tenuta, pertanto, al rispetto dei principi fondamentali dettati da leggi dello Stato.
La terza tesi, infine, differenzia la nozione di «governo del territorio» da quella di «urbanistica», configurando due materie indipendenti ed autonome.
Poiché non espressamente riservata allo Stato, né ricompresa tra quelle soggette a potestà legislativa concorrente, l’urbanistica si troverebbe così ad essere inclusa nel «calderone» delle innominate materie di competenza esclusiva (residuale) delle Regioni,.
Ora, dall’esame dei lavori preparatori della l. cost. n. 3/2001 parrebbe proprio potersi derivare la volontà di considerare l’urbanistica e l’edilizia come materie soggette a riserva di legislazione regionale.
Infatti, il dato che risalta è l’esclusione delle materie appena citate dal novero di quelle di competenza esclusiva statale o concorrente: di conseguenza, è verosimile che l’intenzione sia stata quella di ascrivere urbanistica ed edilizia alla potestà generale delle Regioni [44].
Peraltro, il testo unificato del disegno di legge costituzionale (approvato alla Camera dalla I Commissione Affari istituzionali in sede referente e presentato in Aula l’11 novembre 1999) non solo non menzionava le materie dell’urbanistica e dell’edilizia, ma non conteneva alcun riferimento al governo del territorio.
In altre parole, il testo unificante tutti i precedenti progetti di riforma costituzionale, nel momento in cui arriva alla Camera per la discussione, manifesta la chiara intenzione di attribuire esclusivamente alle Regioni il potere di legiferare in materia di urbanistica ed edilizia.
La formula «governo del territorio», invece, risulta introdotta per la prima volta alla Camera (in prima deliberazione) nella seduta in Aula del 20 settembre 2000.
In particolare, vengono messi ai voti due emendamenti: il primo (presentato dalla Commissione) prevede l’introduzione del «governo del territorio» tra le materie di potestà concorrente; con il secondo (presentato dall’on. Guarino) si propone l’aggiunta al precedente emendamento dell’inciso «esclusi i profili urbanistici ed edilizi».
Ancora una volta, pertanto, si ribadisce – e questa volta in maniera espressa con l’emendamento Guarino – l’esigenza e la volontà di separare il governo del territorio dall’urbanistica, così da riservarla alla potestà regionale esclusiva.
Il dibattito che ne deriva in Aula si focalizza sostanzialmente su due punti, ancorché tra loro strettamente collegati: anzitutto, il rapporto tra (ampiezza della) nozione di governo del territorio e materia «urbanistica ed edilizia»; inoltre, l’eventuale scelta di attribuire quest’ultima alla potestà legislativa concorrente.
Quanto al primo profilo, nei lavori preparatori si legge del «tiro alla fune» [45] che, nel Comitato dei nove, ha caratterizzato addirittura la presentazione stessa dell’emendamento introduttivo della formula «governo del territorio».
Né sono mancate preoccupate dichiarazioni riguardo all’impatto che la formula in discussione avrebbe determinato sul sistema di disciplina del territorio: «governo del territorio tout court significa tutto: materia urbanistica, smaltimento dei rifiuti, infrastrutture, attività edilizie […]. La definizione “governo del territorio” è estensiva. È un dato oggettivo e vi è la preoccupazione che un’interpretazione strumentale dello stesso possa ledere l’autonomia delle Regioni» [46].
Di qui l’intervento del relatore di maggioranza per i profili inerenti l’ordinamento regionale [47], il quale precisa che «l’espressione “governo del territorio” ha natura tecnico-giuridica […] nel(la) quale i profili edilizi ed urbanistici non vengono affrontati e restano, quindi, di competenza regionale, competenza che diventa primaria in virtù del trasferimento alla potestà generale della Regione».
Quindi, è lo stesso relatore di maggioranza a escludere che nel governo del territorio possa farsi rientrare l’urbanistica; ma il dato che più rileva è che egli stesso ne afferma a chiare lettere il trasferimento alla potestà legislativa generale – e quindi esclusiva – delle Regioni [48].
L’altro – e connesso – profilo discusso in Aula nella seduta in esame affronta il problema del mantenimento dell’urbanistica nell’ambito della potestà legislativa concorrente.
A tal proposito, nel dibattito si ribadisce che l’eventualità sopra prospettata non farebbe altro che arretrare di fatto le competenze già possedute dalle Regioni e dai Comuni, a seguito della ingerenza dei «principi fondamentali» dello Stato [49].
Nella stessa direzione anche altri interventi, secondo i quali si determinerebbe in questo modo un forte «restringimento dell’autonomia regionale in questo settore – e cioè, quello della disciplina del territorio – tradizionalmente di competenza delle Regioni» [50]; ovvero «una subordinazione assoluta delle Regioni rispetto alla legislazione statale» [51].
La seduta del 20 settembre 2000 si conclude con la sola approvazione dell’emendamento presentato dalla Commissione, poiché viene respinto quello dell’on. Guarino.
Ma dall’analisi dei lavori preparatori può in definitiva desumersi che l’emendamento Guarino – nel quale si prevedeva l’inserimento delle parole «esclusi i profili urbanistici ed edilizi» – è stato respinto non perché si voleva che urbanistica e edilizia fossero incorporate nella formula «governo del territorio»; ma perché – all’opposto – si riteneva superflua l’aggiunta delle parole sopra citate, attesa la volontà di trasferire urbanistica ed edilizia alla potestà legislativa generale ed esclusiva delle Regioni [52].
Sugli aspetti dibattuti alla Camera si discute successivamente anche in Senato.
In particolare, nella seduta del 16 novembre 2000 – sempre in prima deliberazione – vengono messi ai voti altri due emendamenti (entrambi, poi, non approvati): il primo [53] prevede la soppressione dell’espressione «governo del territorio»; il secondo [54] propone di inserire dopo questa espressione le parole «a scala sovraregionale».
Il dibattito che ne deriva è decisamente meno animato rispetto a quello svoltosi a Montecitorio, ma anche in questa sede la discussione ruota attorno alla inopportunità di attribuire il «governo del territorio» alla potestà concorrente Stato-Regioni, poiché ciò costituirebbe una macroscopica inversione rispetto alla tendenza di attribuire alle Regioni un ruolo sempre più centrale [55].
Il quadro costituzionale parrebbe insomma orientarsi nel senso che l’urbanistica non possa essere ricondotta nell’ambito della nozione di governo del territorio.
D’altronde, uno degli aspetti peculiari del nuovo art. 117 Cost. è proprio quello di aver elencato materie che non sempre individuano un settore ben definito: infatti, molte di esse indicano un interesse da soddisfare o, ancora, una finalità da raggiungere (ad es., ordine pubblico, sicurezza, tutela della salute, etc.).
Ed è quel che potrebbe ritenersi nei rapporti tra governo del territorio e urbanistica [56]: un’esigenza generale da perseguire, il primo; una vera e propria materia da disciplinare, la seconda.
In conclusione, sembra pertanto da non accogliere la tesi, seppure sostenuta da una parte della dottrina, secondo cui l’urbanistica continuerebbe ad essere materia di competenza concorrente [57] e, in quanto tale, richiederebbe l’intervento di una legge statale di principi.
Peraltro, questo modello non dovrebbe destare preoccupazioni eccessive, fondate sul timore di un «abbandono» delle Regioni a loro stesse.
Infatti, il nuovo ordinamento costituzionale sembra provvedere strumenti adeguati per mantenere – o, se si preferisce, infrenare… – le Regioni all’interno di una koinè di principi in tema di gestione del territorio, senza andare a incidere sulla esclusività della competenza regionale.
Ci si riferisce ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» di cui all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost., cioè quei parametri e quei criteri minimi (nel senso appunto di essenziali) che lo Stato può stabilire in ogni materia che ritenga incidente su quelle situazioni soggettive: e tra queste potrebbe rientrare proprio l’urbanistica, materia di indubbia rilevanza sociale soprattutto con riferimento a quei «diritti» riferibili all’intera collettività urbana, e che possono declinarsi con riferimento alla dignità abitativa, al decoro architettonico, alla rivitalizzazione delle zone degradate, alla sicurezza, al recupero o alla attribuzione di una identità dei luoghi [58], etc..
Ed è qui, in un contesto tradizionalmente sospeso fra civiltà e giuridicità, che può trovare utile impiego la tecnica dei livelli essenziali, con cui si «supera quella concezione arcaica per cui lo Stato federale o quasi federale dovrebbe occuparsi soltanto della spada, della bilancia, della feluca e della moneta; perché uno Stato federale moderno […] si occupa anche del benessere dei propri cittadini e tende ad impedire, per salvare l’unità effettiva del Paese, che i dislivelli nel godimento di questi diritti siano troppo profondi» [59].
A ben vedere, il tema dei «livelli essenziali» ha già da tempo trovato – ante litteram – concreta applicazione all’interno della nostra materia.
In effetti, la tecnica degli standards – vera colonna portante della politica urbanistica riformista degli anni ’60 – fu concepita proprio in funzione del principio di tutela dei livelli essenziali del vivere civile [60].
A questo proposito si può ricordare un lavoro del Centro studi della GES.CA.L., risalente al 1964, contenente una Prima relazione sugli “standards urbanistici”.
Il Centro studi sottolineava che – a differenza degli standards prettamente edilizi («che riguardano essenzialmente i bisogni connessi alla vita dell’uomo in quanto individuo, e che trovano il loro limite sociale nella forma più elementare e semplice della vita collettiva: nella famiglia») – quelli urbanistici «costituiscono invece la definizione delle strutture fisiche e organizzative in rapporto con il momento pubblico, collettivo, sociale, della vita dell’uomo» [61].
Quindi, parametri riguardanti non solo la fisicità del tessuto urbano (distanze, altezze, volumi, etc.), ma anche il profilo funzionale-organizzativo (parcheggi, impianti pubblici, sicurezza, etc.), se non addirittura assiologico, e dunque non necessariamente misurabili.
2.2.- Le considerazioni che precedono attengono al profilo dei rapporti tra Stato e Regione.
Ma vi è un altro fronte che si deve aver ben presente, relativo ai rapporti interni alle autonomie territoriali: si tratta, cioè, di delineare il ruolo che Enti locali e Regione sono chiamati a svolgere nel processo di gestione del territorio, in modo da individuarne – e circoscriverne [62] – il rispettivo raggio d’azione.
In particolare, occorre precisare garanzie e limiti della competenza comunale rispetto all’azione regionale, sia legislativa che amministrativa: autonomia che – ha rilevato la Corte costituzionale nella sentenza n. 378 del 27 luglio 2000 [63] – se da un lato «le leggi regionali non possono mai comprimere fino a negarla»; dall’altro, «non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude che il legislatore regionale possa, nell’esercizio della sua competenza, individuare le dimensioni della stessa autonomia, valutando la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti».
La questione concerne i vincoli che gravano sulla Regione nella elaborazione del complessivo modello di pianificazione territoriale alla luce della garanzia costituzionale riconosciuta alle autonomie locali dagli artt. 5 e 118 Cost..
Ora, che da queste norme emerga – anche prima delle riforma del Titolo V – un «incomprimibile ruolo dell’autonomia locale nell’ambito della pianificazione urbanistica» [64] è stato più volte affermato dalla giurisprudenza [65], anche costituzionale [66].
Tuttavia, queste pronunce si riferiscono al ruolo rivestito dai Comuni nell’ambito del sistema disegnato dalla legge n. 1150/’42: un sistema dominato dal «mito del piano» [67], ormai ridimensionato nel contenuto (e dunque nel ruolo) dalla moltiplicazione dei procedimenti cc.dd. a valenza urbanistica [68].
Inoltre, la stessa normativa statale del ’42 – ha precisato la dottrina – in quanto normativa di dettaglio, è «destinata a essere abrogata dalla normativa regionale» [69].
E quest’ultima negli ultimi anni appare indirizzata verso l’affermazione di un modello di pianificazione di tipo collaborativo, all’interno del quale concorrono tutti quei soggetti (pubblici e privati) coinvolti nel processo di gestione e uso del territorio.
In conseguenza di ciò, l’autonomia comunale tenderà ad essere «modellata» dal ruolo che Regione (e Provincia) sono chiamate a svolgere.
Più specificamente, la Regione sembra destinata ad acquisire una posizione di primo piano sia sul versante legislativo – come si è visto nel paragrafo precedente – che su quello amministrativo.
Di conseguenza, nell’ambito dell’attività allocativa di cui all’art. 118 Cost. è ben comprensibile che le Regioni si riservino un nucleo di competenze urbanistiche a garanzia dell’esercizio unitario della funzione urbanistica, ancorché nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza [70].
Una simile scelta da parte regionale troverebbe il proprio fondamento anche nel timore che negative esperienze del passato abbiano a ripetersi.
Il riferimento è all’operato dei Comuni, i quali, in ordine all’assetto e all’utilizzazione del proprio territorio, si sono trovati ad operare in assenza di strumenti d’area vasta che dettassero indirizzi programmatici di più ampio respiro, e che conformassero – arginandoli – gli ambiti di discrezionalità dei Comuni stessi, spesso non contrastati abbastanza nella seconda battuta, gestita da un troppo distante copianificatore regionale [71].
Di conseguenza, il «collasso» del processo di gestione del territorio è stato inevitabile, poiché i p.r.g. avrebbero dovuto disimpegnare anche il compito di disciplinare interessi addirittura sovracomunali [72].
Pertanto, è proprio la necessità di evitare tutto ciò che spiega la tendenza – abbastanza evidente nella legislazione regionale più recente – ad attribuire un risalto maggiore allo strumento urbanistico d’area vasta, sede naturale della funzione di provvista degli «schemi di programmazione territoriale super-comunale» [73].
Questo modello solleva però una serie di interrogativi, tutti riconducibili all’esigenza di identificare adeguati meccanismi di reciproco check and balance.
Si tratta di questioni che probabilmente sono insuscettibili di soluzioni per così dire generali ed astratte, ma che comunque oggi debbono affrontarsi sulla base del rinnovato Titolo V della Costituzione.
Procedendo per spunti, si può ad esempio ipotizzare – nei rapporti fra Regione e Provincia – l’avvenuto superamento, nel nuovo sistema di potestà regionale esclusiva, della riserva di piano territoriale, prima desumibile dalla legislazione di principio costituita dall’art. 15, l. n. 142/’90 (ora art. 20, d. lgs. n. 267/’00) [74]: il che non implica affatto – è bene qui chiarirlo subito – una valutazione negativa di questi strumenti, che proprio per la loro posizione di medietas possono invece svolgere un prezioso ruolo di inquadramento ravvicinato, e dunque più aderente ai processi reali, dei meccanismi di gestione del territorio.
Più problematica appare, invece, la questione dei limiti che, alla luce del nuovo quadro costituzionale, l’attività amministrativa regionale può incontrare nel «dialogo» con l’Ente comunale.
Ciò si deve soprattutto all’incerto assetto delle competenze amministrative tracciato dall’art. 118 Cost.: s’è già visto più sopra, infatti, che questa norma, pur priva dell’eccessiva pregnanza che una visione corrivamente municipalista vorrebbe conferirle, privilegia comunque il livello comunale nell’esercizio delle funzioni inerenti il sistema delle autonomie.
Di conseguenza, nel suo disegno di programmazione territoriale la Regione sarà certamente condizionata dal nuovo, e più incisivo, ruolo che il riformato sistema italiano assegna alle Amministrazioni comunali, quali Enti pubblici più «vicini» alla collettività insediata su di un territorio, e quindi più idonei a conoscerne, rappresentarne e tutelarne le esigenze.
In una prospettazione generalissima, pertanto, si può affermare che ove l’attività regionale si traducesse in prescrizioni eccessivamente dettagliate, tese in qualche modo a restringere il raggio d’azione comunale in campo urbanistico, essa si porrebbe al di fuori del sistema oggi delineato dall’art. 118 Cost..
In altri termini, la Regione dovrà limitarsi a dettare gli indirizzi, i criteri e le impostazioni a maglie larghe cui ispirarsi a livello locale nel processo di pianificazione: individuare cioè le c.d. «invarianti territoriali», le dorsali rispetto alle quali i Comuni non possiedono, nel redigere i propri strumenti urbanistici, significativi margini di valutazione discrezionale, in tal modo assicurandosi la stessa identità sociale e culturale del territorio regionale.
L’assenza di quest’attività di raccordo strategico da parte della Regione (e della Provincia, in sede di redazione del PTCP) rischierebbe di perpetuare l’attuale non-modello, purtroppo connotato da una carente e disorganica trattazione della trama territoriale.
È dunque auspicabile che le Regioni abbiano cura di evitare invasioni indebite in spazi di autonomia che ormai – anche se ancora in modo sfumato – la riforma costituzionale assegna a Comuni e Province.
A loro volta, gli Enti locali dovranno divenir sempre più consapevoli che è tramontato il tempo in cui qualcuno – un tempo a Roma, poi nei rispettivi capoluoghi – impugnava la matita rossa e blu, per correggere i loro compiti.
Ma questo comporta una precisa assunzione di responsabilità: dovranno custodire gelosamente la cifra della loro identità, resistendo però alla tentazione strumentale di denunciare immaginari neocentralismi regionali; può essere pericoloso: prima o poi, anche le Circoscrizioni potrebbero rivendicare più ampia libertà d’azione per affrancarsi dal giogo opprimente del Comune.
Una nuova civiltà della conversazione, dunque [75].
2.3.– Da un angolo visuale più ravvicinato, il nuovo assetto costituzionale delle relazioni fra Stato, Regioni ed Enti locali comporta la necessità di ripensare uno dei nodi principali della disciplina urbanistica, e cioè quello del rapporto fra Comune e Regione (ovvero Provincia, se la sua competenza sia prevista dalla legislazione regionale) nella produzione dello strumento urbanistico comunale.
Nel sistema anteriore alla novella costituzionale del 2001 un punto di coagulo della questione era stato identificato [76] nell'art. 10 della legge urbanistica: consentendo alla Regione solo «un possibile intervento di aggiustamento, che però ha carattere successivo ed è limitato alle “modifiche che non comportino sostanziali innovazioni”», questa norma tutelerebbe direttamente l'autonomia comunale nelle scelte relative all'assetto urbanistico del proprio territorio.
La correlazione diretta esistente fra questo (limitato) potere di overruling, da un lato; e la tematica del p.r.g. come provvedimento precipuamente comunale, dall'altro, è sin troppo nota.
Basterà allora qui rilevare che ancora recentemente la dottrina [77] ha ricordato le ragioni, non fisiologiche, che hanno condotto alla costruzione del p.r.g. come atto complesso ad imputazione congiunta [78].
L’affermarsi di questo orientamento teorico si deve ad una forzatura interpretativa (probabilmente necessitata) del modello di pianificazione previsto dalla legge del 1942, che assegnava al piano territoriale di coordinamento ex art. 5 il compito – fondamentale per il corretto funzionamento del sistema – di delineare l’assetto urbanistico d’area vasta, così da provvedere il quadro di riferimento necessario all’elaborazione del piano comunale.
Secondo quel disegno, infatti, il p.t.c. – in quanto vincolante la successiva attività comunale di piano – avrebbe dovuto svolgere il ruolo di parametro in base al quale valutare, in sede di controllo ministeriale, la legittimità del p.r.g., id est la (mera) conformità dello stesso allo strumento sovraordinato.
Né deve trarre in inganno il carattere meramente facoltativo, come formalmente previsto dal citato art. 5 l.u., della redazione del piano territoriale di coordinamento.
In effetti, stando alla lettera della norma, la facoltatività del p.t.c. mal si concilierebbe (anzi, colliderebbe proprio) con una sua lettura quale parametro – dunque indefettibile – in base al quale valutare la legittimità del piano adottato.
Ma il p.t.c. era uno strumento solo in apparenza facoltativo [79], poiché il modello di pianificazione delineato dal legislatore del ’42 era fondato proprio sui piani territoriali di coordinamento quali elementi essenziali del processo (di chiara ispirazione gradualista e kelseniana) di pianificazione a cascata [80].
Questi piani, tuttavia, non videro mai la luce [81].
Di conseguenza, il Ministero «si arrogò il potere di valutare nel merito il piano adottato e […] di negare l’approvazione per ragioni non predeterminate o di modificarne direttamente il contenuto» [82].
Messe in disparte talune resistenze iniziali [83], il Consiglio di Stato finì con l’avallare questa impostazione [84], e così il p.r.g., nato come semplice atto comunale soggetto a controllo (di mera conformità) ministeriale, subì una sorta di trasformazione alchemica, assumendo le sembianze di un ben più misterioso e sfuggente atto complesso ad imputazione congiunta ma diseguale.
D’altra parte, quale ricostruzione alternativa si rendeva disponibile?
Forse nessuna, e lo si deve riconoscere: «col piano territoriale di coordinamento gli interessi statali avrebbero avuto modo, anche essendo i piani regolatori generali imputati ai Comuni, di intervenire per coordinare gli interessi locali. Mancando questo strumento, si è dovuta elaborare […] la teoria della imputazione del piano regolatore generale come atto complesso ineguale» [85].
In definitiva, fu proprio il fallimento della pianificazione statale a determinare la previsione, nella legge ponte, del potere di modificare d’ufficio le scelte comunali, al fine di introdurre nel p.r.g. gli interessi non espressi dal livello di base: una soluzione di ripiego, quale alternativa storico-giuridica al p.t.c., cioè all’obbligo per i Comuni di conformarsi a quello strumento sovracomunale (art. 6, comma 2, l.u.).
2.4.- La teoria del p.r.g. come atto complesso mostra tuttavia evidenti i segni del suo tramonto [86].
Già prima della novella del 2001, infatti, l’ordinamento statale avrebbe registrato – secondo un’autorevole opinione [87] – l’abbandono di quel modello, la cui idoneità a racchiudere il compendio dei principi cui la legislazione regionale concorrente doveva conformarsi era dunque recisamente negata.
Il superamento del sistema ad atto complesso, pur presidiato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale [88], sarebbe in realtà evidente – si sostiene in questa convincente prospettazione – già nella normazione attuativa della legge n. 59/’97, e cioè negli artt. 52, 54 e 55, d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112 che sembrano «dover modificare radicalmente questa impostazione», consentendo di attribuire alla riforma del 1997-1998 «un senso profondo»: quello della «negazione della complessiva inerenza della pianificazione urbanistica al diretto interesse dell’ordinamento statale (se si vuole, nella negazione dell’esistenza di una “urbanistica statale”)», e quindi della «conseguente restituzione della materia […] alla potestà decisionale degli ordinamenti regionale e locale».
Da quest’angolo visuale, determinerebbe un preciso effetto di senso, molto utile per delineare con maggior nitore questa traiettoria del nostro ordinamento, il mutamento – ancorché lievissimo – che si registra nel passaggio dalla formula utilizzata in quei decreti legge che dal luglio del 1994 al settembre del 1996 [89] tentarono di introdurre lo strumento del silenzio-assenso per l'approvazione regionale del p.r.g. (stabilendo che «l’approvazione degli strumenti urbanistici della Regione e, ove prevista, della Provincia o di altro ente locale » avveniva entro un termine dato, decorso inutilmente il quale i piani si intendevano approvati), alla formula dell’art. 21, 1° comma, l. 30 aprile 1999 n. 136 (secondo cui «l’approvazione degli strumenti urbanistici generali e delle relative varianti da parte delle Regioni, delle Province o di altro ente locale, ove prevista, interviene entro il termine perentorio di dodici mesi»).
Il confronto dei due testi normativi rivela dunque uno spostamento dell’inciso «ove prevista»: nei decreti legge citati esso compare all’interno dell’elenco degli enti titolari della seconda battuta, mentre nell’art. 21 cit. è situato alla fine.
Nel primo caso, l’inciso si riferisce, semplicemente, alla possibilità che l’approvazione del p.r.g. sia affidata ad una figura soggettiva diversa dalla Regione (e cioè alla Provincia o ad altro ente locale), restando tuttavia una fase necessaria del procedimento di pianificazione comunale (ancorché soggetta al silenzio assenso); nel secondo, invece, l’inciso parrebbe incidere sulla necessità stessa della seconda battuta, negandone l’indefettibilità (e consentendone, se e quando prevista, l’assoggettamento al silenzio stesso).
La giurisprudenza, d’altra parte, parrebbe essersi ormai orientata verso il riconoscimento della legittimità della tecnica del silenzio assenso, e – più radicalmente – del carattere eventuale della doppia battuta, considerandoli quali assetti in via di rapida assimilazione da parte del nostro sistema di disciplina del territorio, sempre più distante dal modello ad atto complesso.
Nella prima direzione militano – almeno implicitamente – due identiche pronunce del Consiglio di Stato [90], il quale si è limitato a verificare positivamente la sovrapponibilità della fattispecie concreta allo schema procedimentale delineato da una legge regionale che prevedeva il silenzio-assenso [91], senza lasciarsi sfiorare da alcun dubbio di costituzionalità della norma scrutinata.
Nel senso del carattere addirittura eventuale della seconda battuta si è poi espressa un’altra, assai rilevante, decisione del Giudice amministrativo [92], e richiamando proprio il più volte citato inciso dell’art. 21, l. n. 136/’99.
Né la già ricordata sentenza n. 206/’01 della Corte costituzionale si è rivelata un argine davvero insormontabile, se i Giudici di merito [93] hanno comunque potuto arrecare un ulteriore vulnus al principio dell’atto complesso proprio muovendosi sul piano meramente interpretativo di quella decisione.
Più specificamente, intervenendo su una vicenda in cui la realizzazione di un insediamento produttivo configurava una situazione di variante rispetto alle previsioni dello strumento urbanistico comunale, il Giudice amministrativo territoriale ha affermato – richiamando proprio C. cost. n. 206/’01 – il carattere endoprocedimentale dell’apporto regionale alla conferenza di servizi relativa al c. d. «sportello unico».
In altre parole, secondo quel Giudice la Regione «non può considerarsi autrice» dell’atto conclusivo, «ma, al più, della sola proposta che viene approvata in conferenza e sulla quale si esprime definitivamente il solo Consiglio comunale. Pertanto, fatto salvo un espresso intervento dissenziente della Regione, la variante può perfezionarsi indipendentemente da un consapevole apporto di quest’ultima. La disposizione costituisce una evidente attenuazione del principio dello strumento urbanistico generale quale atto complesso in quanto il concorso della Regione non è più richiesto ai fini del perfezionamento dell’atto, ma al più quale parere obbligatorio e vincolante, da ritenersi positivamente acquisito anche nelle ipotesi di silenzio».
Non constano sentenze che si siano pronunciate su fattispecie formatesi successivamente alla novella costituzionale del 2001: se non prevedibile, è almeno auspicabile, tuttavia, che la giurisprudenza – traendo ancor più solidi argomenti dal mutato assetto normativo dei rapporti fra le figure soggettive coinvolte nei processi di pianificazione – continui a sospingere la teoria dell’atto complesso verso una rapida, ancorché silenziosa, uscita di scena [94].
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(*) Relazione al Convegno AIDU di Pescara del 29 – 30 novembre 2002 su Il governo del territorio. In più punti questo lavoro costituisce lo sviluppo di un saggio in corso di pubblicazione sulla Rivista giuridica dell’edilizia.
[1] Il passo è tratto da S. Ombuen, Paterazzi d'area vasta, in Urbanistica informazioni, n. 173/2000, p. 4, il quale avverte che «il campo di vento più forte spira a sud, il fianco del Paese dove si accumulano i maggiori danni pregressi, e dove l'attrezzatura della pianificazione mostra le sconnessioni maggiori» (ibidem).
[2] In proposito, L. Mazzarolli, I piani regolatori urbanistici nella teoria giuridica della pianificazione, Padova, Cedam, 1962, p. 334 s., nt. 39, sottolinea «la totale mancanza di conoscenza, nel Costituente, quanto al significato possibile da attribuirsi alla materia "urbanistica" e alla disciplina giuridica della medesima».
Mazzarolli riporta il resoconto sommario della seduta in cui la sottocommissione che si occupava dell’ordinamento regionale risulta aver affrontato per l’unica volta la questione circa l’attribuzione alle Regioni della materia urbanistica: «Presidente…: invita la sottocommissione ad esprimere il suo parere relativamente all’urbanistica. Fabbri: Ha l’impressione che l’urbanistica concerna quasi esclusivamente la competenza degli enti locali. Perassi: Chiarisce che i piani regolatori debbono essere approvati con legge e quindi è logico affermare la competenza legislativa della Regione. Presidente: Pone ai voti l’inclusione nell’art. 3 di questa materia. È approvata» (ibidem).
Due affermazioni, dunque, corrispondono a due errori abbastanza gravi, impietosamente sottolinea Spantigati: «Come è chiaro, esistendo la legge del 1942 non è vero che i piani regolatori erano approvati con legge. In secondo luogo non è vero che la competenza per l’urbanistica riguardi “quasi esclusivamente” gli interessi degli enti locali, perché già nella legge del 1942 era previsto il piano territoriale, che trascende il piano puramente locale, e nel 1947, quando si discutevano questi argomenti, gli urbanisti erano già convinti che i problemi urbanistici hanno dimensione non semplicemente locali, ma regionali o nazionali» (F. Spantigati, Manuale di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 1969, p. 28).
[3] La nuova dizione di governo del territorio, «per la sua indeterminatezza, è destinata a porre non lievi problemi di collocazione e quindi di attribuzioni derivanti proprio dalle modifiche introdotte dal nuovo testo dell’art. 117. Se, da un lato, il governo del territorio è materia di legislazione concorrente, dall’altro lato, vi sono materie di sicura interconnessione quali la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” (lett. s del nuovo art. 117 Cost.) che rientrano tuttavia nella legislazione esclusiva dello Stato»: così A. Crosetti, Edilizia, urbanistica, governo del territorio: appunti, in Aa.Vv., La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione (Atti del Convegno AIDU di Ancona del 16-17 novembre 2001), Milano, Giuffrè, 2002, p. 205 ss., spec. p. 229.
[4] M. Cammelli, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo titolo V della Costituzione, in Le Regioni, n. 6/2001, p. 1297.
[5] S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomie normative ed esigenze di concertazione, relazione al Convegno di Roma del 31 gennaio 2002 su Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, p. 2.
[6] Per un approfondimento del precedente modello, basato sul parallelismo delle funzioni, A. D’Atena, Costituzione e Regioni, Milano, Giuffrè, 1991, p. 243 ss..
[7] Nonostante le inevitabili differenze tra le varie leggi regionali, è possibile notare all’interno di esse l’esistenza di alcune tendenze omogenee: tra queste, la tendenza ad attenuare la competizione tra Regione ed Enti locali mediante la ripetuta previsione di strumenti di collaborazione interistituzionale (accordi di programma, conferenze di servizi, etc.), nonché la volontà che il decentramento delle funzioni vada di pari passo con una semplificazione della legislazione regionale di settore.
[8] La cui rubrica delinea in modo significativo un «sistema regionale delle autonomie locali».
[9] Così C. cost. 11-15 luglio 1991, n. 343, in Cons. Stato, 1991, II, p. 1264 ss., spec. 1267; il passo è testualmente ripreso da G. Rolla, Diritto regionale e degli enti locali, Milano, Giuffrè, 2002, p. 155.
[10] C. Barbati, L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 171.
[11] F. Pizzetti, Il processo riformatore nella XIII legislatura, relazione al Convegno di Roma del 9 gennaio 2001 (Dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale delle autonomie territoriali); cfr. anche T. Miele, La riforma costituzionale del titolo V della seconda parte della Costituzione: gli effetti sull’ordinamento, in www.lexitalia.it, p. 13 ss.; G. Rizzoni, La riforma del sistema delle autonomie nella XIII legislatura, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino, Giappichelli, 2001, p. 23 ss.. Si è sottolineato che «il disegno della Bassanini era inizialmente concepito come l’anticipo in via legislativa di quella che sarebbe dovuto essere la riforma costituzionale»: R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in Aa.Vv., Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, Milano, Giuffrè, 2001, p. 139.
[12] S. Gambino, Il sistema normativo nella Repubblica delle Autonomie, in Aa.Vv. La funzione normativa di Comuni, Province e Città nel nuovo sistema costituzionale (Atti del Convegno di Trapani del 3-4 maggio 2002), Palermo, Quattrosoli, 2002, p. 46.
[13] A. Ruggeri, Introduzione, in Aa.Vv., Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità, Milano, Giuffrè, 2001, p. 2.
[14] G. Falcon, Editoriale, in Le Regioni, n. 6/2001, p. 1150.
[15] A. D’Atena, Prefazione, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie, cit., p. 1. In particolare l’A. sottolinea che una «tale idea aveva trovato la sua espressione più emblematica nella decisione di subordinare l’efficacia degli atti adottati dalle regioni ad un controllo esercitato da organi dello Stato. Il quale, estendendosi (sia pure con diversi effetti) al merito, era rivolto a garantire, oltre che il rispetto della legalità, la salvaguardia degli interessi nazionali».
[16] G. Falcon, ibidem.
[17] G. Falcon, ibidem.
[18] S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale, cit., p. 3.
[19] Sul punto, cfr. A. Ruggeri, Introduzione, in Aa.Vv., Le fonti di diritto regionale, cit., p. 1 ss..
[20] Così V. Cerulli Irelli, in Aa.Vv. Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, Milano, Giuffrè, 2001, p. 216, secondo il quale negli ultimi anni «si è fortemente modificato il volto istituzionale delle regioni nel nostro sistema politico costituzionale, il loro ruolo di governo nei confronti delle collettività amministrate e anche il loro rapporto nei confronti dello Stato. Possiamo dire che si è modificato, rafforzandosi grandemente, il peso politico e di governo delle regioni nell’ambito delle diverse articolazioni degli organismi di governo della Repubblica italiana» (p. 215).
[21] In argomento, cfr. G. Rossi – A. Benedetti, La competenza legislativa statale esclusiva in materia di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, vol. V, suppl. fascicolo n. 1, 2002, p. 22 ss., i quali, prendendo in esame la materia dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» di cui alla lett. m) dell’art. 117, comma 2, Cost., affermano esattamente che la riserva statale nella predetta materia «attribuisce allo Stato una competenza trasversale in grado di vincolare le Regioni anche nell’esercizio della loro potestà esclusiva» (op. cit., p. 26). E poiché questo vincolo alla legislazione regionale può essere letto come una riduzione di garanzia («specie per le popolazioni delle Regioni con minor tasso di sviluppo», op. cit., p. 36), per ovviare a ciò gli AA. auspicano l’introduzione di «“raccordi funzionali” tra livelli di governo, dagli interventi di carattere finanziario (di cui all’art. 119 c. 5), ai possibili accordi tra Stato e Regioni interessate per l’adozione di politiche congiunte di intervento, o, eventualmente, per la messa in atto di forme di supporto o di sostituzione temporanea dell’amministrazione statale a quelle regionali», (ibidem); cfr. pure G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni n. 6/2001, p. 1252 ss..
[22] A. Ruggeri, Introduzione, in AA. VV., Le fonti di diritto regionale, cit., p. 7.
[23] Così S. Cassese, L’amministrazione nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Giorn. dir. amm., n. 12/2001, p. 1193; G. D’Auria, Funzioni amministrative e autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali, in AA.VV., Le modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, in Foro it., n. 7-8/2001, V, c. 212 ss.; A. Celotto, Le funzioni amministrative regionali, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie, cit., p. 143; A. Corpaci, L’incidenza della riforma del Titolo V della costituzione in materia di organizzazione amministrativa, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit. p. 40 ss..
Vi è, tuttavia, chi ha sostenuto che il principio del parallelismo non è scalzato da quello di sussidiarietà contenuto nell’art. 118 Cost., in quanto trattasi di principi collocati su piani diversi: così R. Bin, La funzione amministrativa, relazione al Seminario di Bologna del 14 gennaio 2002 su Il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione (ora anche in www.associazionedeicostituzionalisti.it), p. 1 ss..
[24] In argomento, cfr. ora F. Pizzolato, Il principio di sussidiarietà, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie, cit., p. 151 ss..
[25] Sul policentrismo del nuovo assetto amministrativo italiano, cfr. F. Pizzetti, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico “esploso”, in Le Regioni, n. 6/2001, p. 1153 ss.; M. Olivetti, Lo Stato policentrico delle autonomie, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie, cit., p. 37 ss..
[26] Tuttavia, parte della dottrina ritiene che questa nuova regola del riparto funzionale sia destinata a rimanere tra le righe del testo costituzionale. In particolare, G. Falcon, Il nuovo titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, n. 1/2001, p. 9, parla addirittura di allocazione «demagogica»: secondo l’A. moltissime funzioni amministrative essenziali per la vita collettiva (ad es., polizia, tutela della salute, previdenza sociale, istruzione, etc.) resteranno comunque inevitabilmente attribuite a livelli di amministrazione ben più centralizzati di quello comunale.
In effetti, l’art. 118 Cost. introduce un criterio di difficile attuazione pratica, atteso che oggi in Italia possono contarsi oltre 8.000 Comuni (taluni dei quali di piccolissime dimensioni), e che in passato la maggior parte di essi si è dimostrata inadeguata a gestire la propria attività amministrativa (sul punto cfr. B. Caravita, La Costituzione dopo la riforma del Titolo V. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, Torino, Giappichelli, 2002, p. 127 ss.).
[27] S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, cit., p. 4.
[28] S. Mangiameli, ibidem. Secondo l’A., «l’espressione del diritto europeo […] si riferirebbe, con la stessa intensità, a Comuni, Province e Regioni che costituiscono il c.d. “dritte Ebene” dell’Europa».
[29] La tesi dell’applicazione immediata delle norme e dei principi contenuti nella l. cost. n. 3/2001 è sostenuta da G. Guarino, L’Italia? Ora è fondata sui Comuni. Federalismo e imprevisti, in Il Corriere della Sera del 16 gennaio 2002, p. 1 (riportato anche nella rassegna dottrinale dedicata alla riforma del Titolo V in www.lexitalia.it).
[30] Il disegno di legge La Loggia (AS 1545), è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 14 giugno 2002 ed è attualmente all’esame della Commissione affari costituzionali del Senato.
[31] Questa interpretazione dei primi due commi dell’art. 118 Cost. è ampiamente condivisa in dottrina: in particolare, cfr. B. Caravita, La Costituzione dopo la riforma del Titolo V, cit., p. 128; G. Rolla, Diritto regionale e degli enti locali, cit., p. 149; R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, in Le Regioni, n. 6/2001, p. 1240.
[32] A sostegno della tesi esposta, cfr. S. Cognetti, Il ruolo delle Regioni e il Testo unico, relazione al Convegno nazionale AIDU di Ancona del 16-17 novembre 2001 su La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione, p. 16; A. Corpaci, Revisione del titolo V Parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo, in Le Regioni, n. 6/2001, p. 1307 s.; G. D’Auria, Funzioni amministrative e autonomia finanziaria, cit., p. 215 s.; M. Luciani, Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, relazione al Convegno di Roma del 19 dicembre 2001 su Il nuovo Titolo V della Costituzione. Lo Stato delle autonomie (ora in www.associazionedeicostituzionalisti.it), p. 5; S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, cit., p. 4; F. Pizzetti, Le nuove esigenze di governance, cit., p. 1178 ss..
[33] La mancanza nel testo costituzionale di una puntuale specificazione sulla triplice qualificazione delle funzioni ha generato un ampio dibattito dottrinale, nel quale possono distinguersi due orientamenti contrapposti.
Il primo (al quale aderisce chi scrive) ritiene che le funzioni fondamentali coincidano con quelle proprie, riconoscendo così solo due categorie di funzioni locali: quelle fondamentali-proprie e quelle conferite (cfr., A. Corpaci, Revisione del titolo V, cit., p. 1314 ss.; G. Falcon, Modello e transizione nel nuovo titolo V della parte II della Costituzione, in Le Regioni, n. 6/2001, p. 1260; R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001, cit. p. 1240.).
Il secondo orientamento, invece, differenziando tra le fattispecie appena citate, ammette tre distinte categorie di competenze degli Enti locali: fondamentali, proprie e conferite (cfr. S. Mangiameli, Riassetto dell’amministrazione locale, cit., p. 6 ss.; G. C. De Martin, Processi di rideterminazione delle funzioni amministrative, relazione al Convegno di Roma del 31 gennaio 2002 cit., p. 2 ss.).
Più precisamente, i sostenitori della seconda linea di pensiero ritengono che mentre le funzioni «proprie» andrebbero riconnesse strettamente agli interessi della comunità rappresentata e costituirebbero il risultato di una «tipizzazione storicamente definitasi»; le funzioni «fondamentali», invece, andrebbero ricondotte al profilo organizzativo-istituzionale degli Enti locali: in altre parole, costituirebbero, insieme con il sistema elettorale e gli organi di governo, i principali ambiti organizzativi per l’ordinamento dei poteri amministrativi degli Enti locali.
[34] Cfr. F. Clementi, Introduzione, in Aa.Vv. La funzione normativa di Comuni, cit., p. 30.
Per quanto riguarda i criteri che il legislatore statale è chiamato ad applicare per individuare le funzioni fondamentali, non v’è dubbio che in questa direzione si attendono delle risposte concrete dalla legge di attuazione della riforma.
Il disegno di legge La Loggia sembra muoversi correttamente: esso, infatti, stabilisce che per determinare le funzioni fondamentali lo Stato deve attenersi «ai principi della necessità per il soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione locale, della pertinenza alle caratteristiche proprie di tali enti e dell’esercizio storicamente consolidato, nonché dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza» (art. 2, comma 1).
Inoltre, lo schema legislativo delinea una serie di «criteri direttivi» per ciascun livello di governo locale (art. 2, comma 2): a) attribuzione ai Comuni di funzioni riguardanti la popolazione, territorio comunale e i servizi alla persona e alla comunità; b) attribuzione alle Province di funzioni riguardanti l’intero territorio provinciale o vaste zone intercomunali, nelle materie previste dagli articoli 19 e 20 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni; c) attribuzione alle Città metropolitane di funzioni riguardanti il proprio ambito territoriale nelle materie previste degli articoli 23 e 24 de1 decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni; d) attribuzione di ulteriori funzioni in applicazione dei principi di cui al comma 1.
A questi, si aggiunga anche l’esigenza di adeguare al nuovo contesto costituzionale quelle disposizioni del D. Lgs. n. 267/00 che tendono ad influenzare il legislatore statale nelle sue valutazioni.
Infine, deve rimarcarsi l’importanza che avrebbe, all’interno del compito statale di individuazione delle funzioni fondamentali, la partecipazione della Conferenza Stato-Regioni e di quella unificata: anche in questa direzione possono riscontrarsi segnali positivi dal d.d.l. La Loggia.
[35] S. Cognetti, Il ruolo delle Regioni, cit., p. 16. Inoltre, l’A. sottolinea che se Stato e Regioni non fossero originariamente forniti di un minimo di funzioni amministrative, non si capirebbe come essi potrebbero conferirne agli altri livelli istituzionali territoriali.
[36] Cfr. P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2002, p. 3 ss. e p. 18 ss.; F. Salvia – F. Teresi, Diritto urbanistico, Padova, Cedam, 2002, p. 29 ss.; P. Santinello, La pianificazione territoriale intermedia fra piani urbanistici e piani di settore, Milano, Giuffrè, 2002, p. 155 ss.; F. Martinelli – M. Santini, Sportello unico e conferenza di servizi «derogatoria» al vaglio del giudice costituzionale, in Urb. app., 2002, p. 181; B. L. Mazzei, Regioni in ordine sparso su appalti e territorio, in Ed. terr., n. 34, 2002, p. 2.
[37] S. Cognetti, Il ruolo delle Regioni, cit., p. 9.
[38] Così P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 4.
[39] In origine, l’art. 1 della legge urbanistica del 1942 indicava, quale oggetto della disciplina dell’attività urbanistica, «l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere del territorio».
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la Corte costituzionale più volte precisò restrittivamente che nell’urbanistica non potesse rientrare l’assetto dell’intero territorio (in particolare, cfr. C. cost. 24 luglio 1972, n. 141, in Foro it., 1972, I, c. 3348 ss.; 20 febbraio 1973, n. 9, in Foro it., 1973, I, c. 971 ss.; 14 luglio 1976, n. 175, in Foro it., 1976, I, c. 2760 ss.).
Questa concezione, tuttavia, venne in seguito abbandonata.
Più in particolare, con l’istituzione delle Regioni (ordinarie) ed il loro consolidamento amministrativo (avutosi con il D.P.R. n. 616/77) l’urbanistica ha visto allargare i propri confini: infatti, si passò dal concetto di «assetto ed incremento edilizio dei centri abitati» a quello di «governo del territorio».
Quest’ultima espressione si legge infatti nell’art. 80 del citato decreto n. 616, per significare che qualsiasi utilizzazione del suolo e qualsiasi interesse a valenza territoriale andasse governato attraverso l’urbanistica, intesa come la «disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente».
Una definizione estremamente ampia, tale cioè da comprendere non solo l’attività urbanistica in senso stretto, ma anche ogni altra attività incidente sulla trasformazione del suolo e sulla tutela dello stesso.
Tuttavia, negli anni successivi si è assistito ad un ripensamento di una nozione così ampia, osservandosi che il territorio è oggetto anche di altre discipline e di altri interessi non riconducibili all’urbanistica tradizionalmente intesa.
Soprattutto la giurisprudenza, dopo un primo atteggiamento favorevole ad una visione «globalizzante» dell’urbanistica, ha in diverse occasioni affermato che vi sono settori, quali la tutela dell’ambiente, la protezione della natura o la difesa del suolo, che devono essere mantenuti distinti dall’urbanistica: sul punto, cfr. Cons. St., A.p., 14 dicembre 2001, n. 9 (Pres. De Roberto, Est. Maruotti), in Cons. Stato, I, 2001, p. 2585 ss., nonché in Urb. App., 2002, n. 4, p. 433 ss., con nota di M. Occhiena, Alle Regioni quel che è dello Stato: il federalismo nella tutela del paesaggio.
Per un esame più dettagliato della vicenda, cfr. ora P. Santinello, La pianificazione territoriale intermedia, cit., p. 15 ss..
[40] Il riferimento è all’art. 34, D. lgs. 31 marzo 1998, n. 80, il quale, allo scopo di radicarvi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, stabilisce che «la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio».
Per un attento studio delle problematiche derivanti da questa norma, cfr. M. A. Sandulli, Profili della nuova giurisdizione esclusiva del G.a. in materia «urbanistica ed edilizia», in Riv. giur. edil., II, 2001, p. 87 ss., spec. p. 99 ss., la quale distingue tra una nozione di urbanistica rilevante ai fini del riparto delle competenze tra Stato e Regioni, ed una utilizzabile ai fini della delimitazione dell’ambito di giurisdizione amministrativa esclusiva: in questo seconda ipotesi «la nozione di urbanistica può ed anzi deve essere molto più ampia, senza creare delicatissimi conflitti di attribuzione tra i massimi enti esponenziali delle collettività stanziate sul territorio. […] In quest’ottica, il concetto di urbanistica si estende perciò agevolmente a comprendere anche l’espropriazione e l’occupazione d’urgenza, nelle quali pure si riscontra un’incidenza istituzionale della P. A. sul territorio» (op. cit., p. 102).
[41] E. Sticchi Damiani, Disciplina del territorio e tutele differenziate: verso un’urbanistica «integrale», in Aa.Vv., L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato (Atti del Convegno nazionale AIDU di Genova del 19-20 novembre 1999), Milano, Giuffrè, 2000, p. 145.
[42] Secondo la nota impostazione di V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, p. 386 ss..
In argomento, cfr. anche il quadro esaustivo tracciato da S. Amorosino, Cinquant’anni di leggi urbanistiche (1942-1992): spunti preliminari ad una riflessione, in Riv giur. edil., II, 1993, p. 727 ss..
[43] Sembra pertanto comprendersi il motivo per cui negli ultimi 10-15 anni la pianificazione urbanistica di area vasta sia stata rilanciata e se ne sia affidata l’attuazione dapprima alle stesse Regioni e, poi, anche alle Province nell’ambito di quel tentativo, avviato dalla legge n. 142/90, di conferire a queste ultime un ruolo più incisivo nel sistema dei poteri locali.
[44] In particolare, nel corso dei lavori parlamentari per ben 14 volte viene presentata una riformulazione dell’art. 117 Cost., e per altrettante volte le enumerazioni contenute nella norma citata non menzionano le materie dell’urbanistica e dell’edilizia, in tal modo ascrivendo per silentium queste ultime alla competenza legislativa esclusiva delle Regioni.
[45] Come affermato nella seduta del 20 settembre 2000 dall’on. Garra, componente di quel Comitato, il quale aggiunge che in quella sede «i relatori, rendendosi conto che l’espressione “governo del territorio” aveva una portata oceanica in termini di ampiezza, hanno più volte cercato di sfuggire alla insistente richiesta di inserire tale espressione nel testo, ma alla fine – ahimè! – le città assediate possono anche arrendersi senza combattere. È quanto avvenuto. Alla fine, dopo tante obiezioni giustamente sollevate dai relatori, la Commissione ha deciso a maggioranza di inserire nel testo l’espressione “governo del territorio”. È fuor di dubbio che […] se si considerassero i profili di edilizia ed urbanistica come facenti parte del governo del territorio, si farebbe un passo indietro colossale».
[46] Così l’on. Migliori, sempre nella seduta del 20 settembre.
[47] Si tratta dell’on. Soda.
[48] Pur più sfumata nella sua prospettazione formale, non dissimile però nella sostanza parrebbe la posizione espressa nella stessa seduta del 20 settembre 2000 dall’on. Cerulli Irelli, il quale ha poi confermato a chi scrive l’esistenza, in quella seduta, di una precisa voluntas nel senso della separazione del governo del territorio dall’urbanistica, affidata dunque alla potestà regionale esclusiva, ancorché il sistema disegnato dalla riforma costituzionale sia strutturalmente aperto alla regolazione di situazioni di intersezione fra livelli istituzionali di governo come – per restare nella materia – in tema di pianificazione territoriale e di parchi.
[49] Sempre l’on. Garra domanda se in tal modo «vogliamo forse dare con una mano competenze alle Regioni e con l’altra riprendercele?».
[50] È l’opinione dell’on. Migliori. Cfr. anche l’intervento dell’on. Fontan, secondo cui «attualmente le Regioni a statuto ordinario hanno competenze in materia di urbanistica; in futuro esse avranno ancora competenze urbanistiche, ma vi sarà la legislazione concorrente, cioè una legislazione dello Stato e, addirittura, una legislazione esclusiva in materia ambientale. Anche in questo caso, quindi, vi è una doppia blindatura, un aumento dei vincoli, un tornare indietro rispetto all’attuale legislazione; la blindatura imporrà talmente tanti vincoli, leggine e postille, decise dallo Stato sia in via esclusiva, sia in via concorrente, che in materia urbanistica (e tutto ciò che ne consegue) non si potrà fare alcunché».
[51] Così l’on. Guarino, il quale aggiunge che «l’unica cosa che la Regione può fare è rendere ancora più rigorosa e vincolistica la legge urbanistica statale».
[52] Nel settembre 2001 il Servizio Studi del Senato ha pubblicato un volume (Il “referendum sul federalismo”) contenente schede di lettura della riforma costituzionale. A proposito del «governo del territorio», il Servizio afferma che «dal dibattito parlamentare […] si evince l’intenzione di considerare “edilizia ed urbanistica” materie – si direbbe totalmente – regionali», (pag. 33); ed ancora, occupandosi della competenza residuale delle Regioni, si legge che «gli atti preparatori inducono a ritener(vi) inclus(a) l’urbanistica» (pag. 36).
Nella stessa direzione dei lavori parlamentari si muovono anche taluni ricorsi promossi in via principale innanzi alla Corte costituzionale dalle Regioni, le quali affermano la loro competenza esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia, in quanto nettamente distinte dal governo del territorio.
Questi atti di promovimento denunciano l’incostituzionalità di alcune norme della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (c.d. “legge obiettivo”) e della legge finanziaria 2002 (legge 28 dicembre 2001, n. 448), atteso il loro contrasto con le norme del nuovo Titolo V.
In particolare, la Regione Toscana (con ricorsi nn. 11/’02 e 12/’02, pubblicati in G.u. – 1^ s.s. n. 15 del 10.4.2002) ha sostenuto che con la riforma dell’art. 117 Cost. tutte le materie che erano contemplate al comma primo – quindi l’edilizia e l’urbanistica – sono state «derubricate», e in quanto tali interamente attribuite alle Regioni, in base alla competenza residuale prevista dal nuovo quarto comma della norma medesima.
Questa lettura del nuovo testo costituzionale – si legge nel ricorso n. 11/’02 – «è imposta dalla riforma del Titolo V: il nuovo dato testuale è, infatti, improntato ad una maggiore autonomia delle Regioni, le quali si trovano a svolgere un ruolo centrale nell’ordinamento giuridico. In particolare, la riforma è intervenuta apportando sostanziali modificazioni all’assetto delle potestà legislative dello Stato e delle Regioni, prevedendo un sensibile ampliamento – soprattutto per le Regioni a statuto ordinario – delle potestà legislative regionali, non solo attraverso l’estensione delle materie di competenza regionale, ma anche e soprattutto mediante la previsione – capovolgendo il principio di residualità della competenza – della potestà legislativa esclusiva regionale in tutte le materie non espressamente oggetto di specifica menzione».
Né varrebbe sostenere che i profili urbanistici ed edilizi sono connaturati al governo del territorio, poiché – precisa la Regione Toscana – esso «riguarda altri e più generali aspetti, quali la tutela idrogeologica, la difesa del suolo, la definizione delle misure a favore dello sviluppo sostenibile, la disciplina antisismica».
La stessa Corte costituzionale parrebbe orientata nel senso della non sovrapponibilità delle due nozioni in discussione: si tratta di un orientamento che può derivarsi – sebbene racchiuso in poche righe – da talune recenti ordinanze con le quali la Consulta ha restituito gli atti al giudice remittente.
In particolare, nell’ordinanza n. 157 del 24 aprile - 7 maggio 2002 (pubblicata in G.u. – 1^ s.s. n. 19 del 15.5.2002) la Corte rileva il profondo mutamento intervenuto con la l. cost. n. 3/2001, «il cui art. 3 – si legge nella pronuncia – ha sostituito l’intero testo dell’art. 117 della Costituzione, innovando anche la ripartizione delle competenze non solo nel settore urbanistico-governo del territorio, ma anche in quello della tutela dell’ambiente e della valorizzazione dei beni ambientali».
Quindi, se innovazione vi è stata quanto alla competenza legislativa in materia urbanistica, essa dovrebbe riferirsi all’ascrizione di quest’ultima alla potestà esclusiva regionale.
Non si comprenderebbero, diversamente, i motivi della restituzione al giudice remittente: se il Giudice delle leggi avesse ritenuto che il nuovo sistema si sovrapponeva al precedente (e che quindi nulla era mutato), non avrebbe avuto difficoltà a decidere la questione di legittimità.
[53] D’iniziativa dei senatori Tirelli, Stiffoni, Castelli.
[54] Del sen. Gubert.
[55] Tra gli interventi più significativi della seduta di Palazzo Madama del 16 novembre 2000 si registra quello del sen. Leoni, secondo il quale «la tutela del territorio deve essere molto puntuale e molto circoscritta. […] Gran parte di essa è stata demandata alle Regioni. Questa è una situazione ormai consolidata: la gestione del territorio parte con i p.r.g. realizzati dai Comuni e verificati dalla Regione; dunque, non riesco a capire come mai si vuole introdurre un’attenzione da parte dello Stato […] il quale non è sempre così attento come lo potrebbero essere le Regioni e addirittura i Comuni e le Province».
[56] In argomento, cfr. P. Stella Richter, Profili funzionali dell’urbanistica, Milano, Giuffrè, 1984, p. 26, secondo il quale spesso «un’attività presenta un momento di interferenza con il territorio e quindi un profilo urbanistico, ma ciò non è sempre per sé sufficiente a classificare come urbanistica nella sua interezza l’attività stessa».
[57] In questa direzione si segnala anche un recente ricorso per questione di legittimità costituzionale (27 settembre 2002 n. 61, in G.u. – 1^ s.s. n. 43 del 30.10.2002) proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nei confronti della l.r. Liguria 10 luglio 2002, n. 29 (recante «Misure di sostegno per gli interventi di recupero e di riqualificazione dei centri storici e norme per lo snellimento delle procedure di rilascio dei titoli edilizi»).
Questo ricorso si limita ad affermare apoditticamente che «la materia “governo del territorio” è rimasta di “legislazione concorrente”» e che questa nuova formula «è più ampia della previgente nozione di “urbanistica”», dunque ricompresa nella prima, insieme ad altre materie («la difesa del suolo, la salvaguardia idrogeologica, la normativa antisismica», etc.).
Mancando di più specifiche argomentazioni sul piano giuridico, il ricorso desta interesse (e sorpresa) almeno per un profilo «politico», in quanto esso è riconducibile a quella maggioranza governativa che, nella passata legislatura, dai banchi dell’opposizione si era schierata – come s’è visto – a favore della competenza esclusiva delle Regioni in materia urbanistica.
Sembra trovare conferma, purtroppo, il monito di chi (A. Ruggeri, Neoregionalismo, dinamiche della normazione, diritti fondamentali, relazione al Convegno di Messina del 18-19 ottobre 2002 su Regionalismo differenziato: il caso italiano e spagnolo, ora anche in www.federalismi.it, p. 4) avverte che il dibattito costituzionale sulla revisione del Titolo V, come accade per tutte le grandi riforme del nostro Paese, è continuamente condizionato dalle forzature derivanti «dalle più forti ed occasionali tendenze della politica».
[58] Una splendida riflessione sulla crisi dell’idea assiologica di città, e sulla differenza fra lo spazio, privo di identità, ed il luogo, che «è dove sostiamo; è pausa – analogo al silenzio in una partitura», in M. Cacciari, Nomadi in prigione, in Casabella, 2002, n. 705, p. 4 ss..
[59] L. Elia, Introduzione, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie, cit., p. 13.
Durante il dibattito parlamentare «la determinazione dei “livelli essenziali” sembrò, ad alcune forze politiche, un ulteriore spazio di limitazione dell’autonomia regionale» (così il Servizio Studi del Senato, in Il “referendum sul federalismo”, cit., p. 26), da ciò potendo derivare «una competenza trasversale in grado di vincolare le Regioni anche nell’esercizio della loro potestà esclusiva» (G. Rossi – A. Benedetti, La competenza legislativa statale esclusiva in materia di livelli essenziali, cit., p. 26).
Ma residua pur sempre al legislatore regionale la possibilità di incrementare il livello di riconoscimento e tutela dei «diritti» già considerati dal livello statale: rileva infatti M. Olivetti, Le funzioni legislative regionali, in Aa.Vv., La Repubblica delle autonomie, cit., p. 92. «l’individuazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale deve limitarsi alla definizione dei “livelli essenziali”, lasciando quindi spazi autonomi di scelta alle Regioni».
[60] Già più di vent’anni fa, la dottrina osservava che gli standards avrebbero trovato la «loro giustificazione nella maggiore complessità dell’urbanistica negli odierni sistemi sociali nel tentativo di assicurare livelli di vita qualitativamente accettabili»: così, F. Salvia – F. Teresi, Diritto urbanistico, Padova, Cedam, 1980, p. 38 (corsivo aggiunto); cfr. anche N. Assini – P. Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 1997, p. 43, dove è riportato il passo appena citato.
Più di recente, ancora F. Salvia, Standard e parametri tra regole di pianificazione e disciplina dell’edificabilità, in Aa.Vv., L’uso delle aree urbane, cit., p. 112, ha ribadito che uno degli argomenti giustificante l’impiego degli standards coincide «con l’esigenza di garantire ai cittadini livelli minimi sufficienti di qualità della vita».
[61] E, per loro natura, semper reformandi: dunque non «una misura stabilita una tantum, ugualmente valida oggi come fra dieci anni» (G. Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica, Torino, Giappichelli, 1967, p. 131), ma «una bandiera (uno stendardo, un simbolo) ed una bandiera che ad ogni traguardo va rinnovata perché mantenga il suo valore» (ibidem).
Il rilievo primario che la tecnica degli standards riveste ancora oggi – sino a poter essere considerato vero e proprio principio fondamentale dell’ordinamento – è stato recentissimamente sottolineato da V. Cerulli Irelli, relazione al Convegno di Roma del 26 settembre 2002 su Lo «spazio» della legge urbanistica statale dopo la riforma costituzionale, (inedita).
[62] Purtroppo i Comuni, intestatari di gran parte delle funzioni amministrative «finali» in materia di urbanistica ed edilizia, hanno troppo spesso agito in maniera assai poco soddisfacente, consentendo «inondazioni edilizie» ed «eruzioni volumetriche» (S. Boeri, Dall’aereo, un magma luminoso, nel numero monografico sul paesaggio italiano dell’inserto domenicale de Il Sole - 24 Ore, 18 agosto 2002, p. 29) che deturpano anche le coste del nostro Paese.
[63] In Cons. Stato, II, p. 1316 ss..
[64] A. Romano Tassone, Modelli di pianificazione urbanistica e pluralità delle fonti del diritto, in Aa.Vv., Presente e futuro della pianificazione urbanistica (Atti del Convegno nazionale AIDU di Napoli del 16-17 ottobre 1998), Milano, Giuffrè, 1999, p. 116.
[65] Cfr. Tar Marche 9 giugno 2000, n. 833, in Tar, 2000, p. 3915; Tar Veneto, I, 16 novembre 1999, n. 1996, in Tar, 2000, p. 169 ss..
[66] C. cost. n. 378/’00, cit..
[67] Così P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 142.
[68] Come da più parti osservato, il piano vive una stagione di «delegittimazione sociale» a causa del frequente ricorso al «progetto», e cioè ad accordi di programma, conferenze di servizi, etc.: in argomento, cfr. P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 150 ss..
Inoltre, «la pianificazione strategica della città è ormai svolta anche da strumenti diversi ed estranei al Prg.: dai cosiddetti “programmi complessi” (Pru, Prusst, Programmi integrati), dai Contratti di quartiere, ecc.»: così P. Santinello, La pianificazione territoriale intermedia, cit., p. 159.
[69] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 90.
[70] L’applicazione di questi principi, com’è noto, non comporta che tutte le decisioni possano e debbano essere prese allo stesso livello, bensì a quello più adeguato, in ragione della natura degli interessi da soddisfare e in rapporto alle diverse caratteristiche – anche associative, demografiche, territoriali e strutturali – degli enti interessati.
In questa prospettiva, la realizzazione di opere più complesse, le quali richiedono una varietà e una molteplicità di interventi, si porranno ad un livello preferibilmente più elevato.
In sostanza, sebbene con la riforma costituzionale si sia invertito l’andamento della direttrice della sussidiarietà – e cioè, dal basso verso l’alto – ciò non significa che si debba arrivare ad affermare una visione esasperata della sussidiarietà stessa, ancorata necessariamente al livello più basso, sulla base di un’erronea e restrittiva interpretazione del principio comunitario per cui le decisioni vanno assunte nel livello il più vicino possibile ai cittadini.
[71] Anche da qui trae alimento, purtroppo, la nostra «poliarchia imperfetta, che ha plasmato un territorio a sua immagine e somiglianza» e che «ha messo in scena una sorta di “trattativa infinita”, continuamente riaperta, dove le richieste, le risposte, gli equilibri raggiunti hanno però la pesantezza irreversibile delle pietre e del cemento» (S. Boeri, Ma si vede meglio dalla cima di una torre, in Il Sole - 24 Ore, cit.).
[72] In argomento si veda P. Stella Richter, Costituzione nuova e problemi urbanistici vecchi, in Riv. dir. amm., 2001, p. 395 ss.; Id., I principi del diritto urbanistico, cit., p. 142 ss., secondo il quale il fallimento dell’urbanistica pianificatoria non è dipeso da difetti dell’istituto del piano regolatore in sé, ma dalla sua utilizzazione per fini esorbitanti ed impropri, i quali, invece, sarebbero dovuti essere perseguiti dagli strumenti sovracomunali.
[73] A. Romano Tassone, Modelli di pianificazione urbanistica, cit., p. 119.
[74] A. Romano Tassone, ibidem.
[75] Prendo in prestito il titolo, così elegante, del lavoro di B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.
[76] P. Stella Richter, Il piano territoriale di coordinamento provinciale e le prospettive di riforma della legislazione urbanistica, relazione al Convegno di Ravenna del 29-30 settembre 2000 su Il piano territoriale di coordinamento provinciale e le pianificazioni di settore, p. 6, il quale lo considera un «principio di legislazione statale vincolante».
[77] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 60 ss.; F. Gualandi, Semplificazione normativa e procedurale e certezza del diritto, in Aa.Vv., Laboratorio di urbanistica. Studi per la legge regionale, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2000, p. 208 ss.; B. Tonoletti, Corte costituzionale, semplificazione in materia urbanistica e tutela dell'ambiente (commento a C. cost. 17 dicembre 1997, n. 404), in Urb. app., 1998, n. 5, p. 493 ss., spec. p. 497.
[78] La tesi del p.r.g. quale atto complesso – come ben noto – è stata elaborata da Giannini (M.S. Giannini, Sull’imputazione dei piani regolatori, in Giur. compl. Cass. civ, 1950, p. 882 ss.), il quale ritiene che nella formazione del piano comunale intervengano due atti deliberativi, del Comune e del Ministero dei lavori pubblici. Tuttavia, secondo l’A. la deliberazione ministeriale ha un ruolo preponderante rispetto a quella comunale, in quanto il Ministero può modificare la deliberazione comunale: da ciò la nozione di atto complesso a posizioni ineguali.
Altrettanto nota è la contrapposta teoria di Sandulli (A.M. Sandulli, Appunti per uno studio sui piani regolatori, in Riv. giur. edil., 1958, II, p. 137 ss.), per il quale il p.r.g. costituisce «atto composto»: l’imputazione formale ricade sul Ministero, ma il potere di decisione sostanziale spetta al Comune.
Più in particolare, l’A. ritiene che il Ministero possa anche apportare talune modifiche al piano inviatogli, ma non unilateralmente (attesa la sussistenza di un potere determinativo comunale), donde la necessità di una navetta di seconda lettura in sede locale.
Tuttavia l’orientamento di Sandulli è mutato nel tempo. Infatti, nel suo celebre Manuale (A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1989, p. 743) egli afferma che il p.r.g. viene «approvato dalla Regione […] con un atto il quale non presenta i caratteri della mera approvazione, in quanto la Regione è ammessa a partecipare consistentemente alle scelte urbanistiche, potendo apportare, a quelle effettuate dal Comune, modificazioni, anche di notevole rilievo. […] Il piano – conclude l’A. – è dunque atto di due soggetti e non un atto unisoggettivo»: sul punto, cfr. le osservazioni di G. Sciullo, Pianificazione amministrativa e partecipazione, Milano, Giuffrè, 1984, p. 204, nota 59, secondo cui in questo modo anche Sandulli finisce con l’aderire, almeno implicitamente, alla teoria dell’atto complesso.
Completamente spostate sul versante della statualità dell’atto-piano, invece, sono le impostazioni concettuali di F. Cuccia, In tema di ammissibilità di modifiche d’ufficio ai piani urbanistici in sede di approvazione, in Riv. amm., 1953, p. 225 ss., e di V. Testa, Manuale di legislazione urbanistica, Milano, Giuffrè, 1956, p. 73 ss., secondo i quali la delibera comunale ha solo un carattere preparatorio, propositivo e di progetto (e dunque addirittura priva di rilevanza esterna) rispetto alla decisione del Ministro dei lavori pubblici, cui il piano si imputa: posizioni comprensibili – sottolinea con la consueta arguzia F. Spantigati, Manuale, cit., p. 78 – se si considera che i due AA. appena citati erano funzionari dell’amministrazione statale.
Per ulteriori approfondimenti sul dibattito dottrinale che si è sviluppato attorno all’imputazione del p.r.g., cfr. – oltre alla Ricerca sull’urbanistica, Camera dei Deputati, Quaderni di Studi e Legislazione, 1965, I, p. 126 ss. – almeno G. Correale, L’imputazione dei piani regolatori e la «legge ponte», in Foro amm., 1968, p. 527; G. D’Angelo, Rassegna critica di giurisprudenza sui piani regolatori generali, in Riv. giur. edil., 1961, II, p. 3 ss.; L. Mazzarolli, I piani regolatori urbanistici nella teoria giuridica della pianificazione, cit., p. 441 ss.; L. Mazzone, Brevi note sull’imputazione del piano regolatore generale, in Riv. giur. edil., II, 1985, p. 35 ss.; A. Predieri, Profili costituzionali, natura ed effetti dei piani urbanistici nelle opinioni della dottrina e nelle decisioni giurisprudenziali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, p. 224 ss.; F. Spantigati, Manuale, cit., p. 77 ss.; G. Sciullo, Pianificazione amministrativa, cit., p. 189 ss..
[79] Secondo R. Poggi, Legge urbanistica e “legge ponte”, Firenze, Editoriale dott. Vito Majorca, 1968, p. 19 ss., la facoltatività del p.t.c. si giustificava alla luce della stretta connessione della pianificazione territoriale con la pianificazione economica, le cui esigenze avrebbero potuto comportare una formazione di quei piani secondo criteri di gradualità, così da programmare la «copertura» di tutto il territorio nazionale in rapporto alle risorse economiche disponibili.
Per la ricostruzione del pensiero giuridico degli anni ’60 sul rapporto tra pianificazione (anche) urbanistica e programmazione economica, d’obbligo il riferimento ad A. Predieri, Pianificazione e Costituzione, Milano, Edizioni di Comunità, 1963, p. 176 ss..
[80] Cascata maestosa negli intenti del legislatore fascista, ma oggi ridotta ad un «pantano lutulento», osserva con ironia amara A. Romano Tassone, Modelli di pianificazione urbanistica, cit., p. 107.
[81] Non è questa la sede per esaminare le ragioni dell’insuccesso della pianificazione statale d’area vasta, alla quale certo non ha giovato né la tragica temperie della sua nascita, né la durezza dei giorni successivi: ma su queste pagine drammatiche della nostra storia, nelle quali il racconto urbanistico si cala come specchio e come testimone di un altro perduto poter essere, rimane a mio avviso insuperata la narrazione, sofferta ed avvincente, di G. Campos Venuti, Cinquant’anni: tre generazioni urbanistiche, in Aa.Vv., Cinquant’anni di urbanistica in Italia. 1942-1992, Bari, Laterza, 1993, p. 1 ss..
[82] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 61 (corsivo aggiunto).
[83] In origine, l’orientamento del Consiglio di Stato riteneva infatti che le modifiche apportate in seconda battuta «debbano essere comunicate all’Amministrazione comunale perché con regolare deliberazione faccia conoscere al riguardo il suo avviso, provvedendosi inoltre alla pubblicazione ai termini dell’art. 9 della legge n. 1150 […] ed alla successiva richiesta dei pareri da parte dei competenti Ministeri ed organi consultivi, con obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi anche sulle osservazioni che enti e singoli abbiano presentato, ed, eventualmente, presentino in futuro sulle modifiche sopra citate» (Cons. Stato, II, 3 febbraio 1953, n. 51, sul p.r.g. di Milano: per ironia della sorte, si tratta proprio di quel piano che, secondo la dottrina urbanistica, ha costituito uno dei peggiori esempi di pianificazione generale, poiché, pur prevedendo una serie di (generici) servizi nelle zone di espansione, non ne indicava le aree di localizzazione: G. Campos Venuti, Cinquant’anni, cit., p. 15 ss.).
Questo orientamento, in cui il Comune viene garantito secondo il modulo del contraddittorio procedimentale (esemplato sul diritto positivo, all’epoca vigente, relativo alla necessità che l’organo di controllo si pronunci «dopo avere con apposita ordinanza comunicato all’Amministrazione interessata le osservazioni cui la deliberazione adottata dalla medesima dà luogo»), risulta addirittura rafforzato in una successiva pronuncia, resa dall’Adunanza generale (Cons. St., A.g., 5 luglio 1956, n. 237, relativa al p.r.g. di Cosenza): qui il Consiglio di Stato prende espressamente le distanze dalla teoria dell’atto complesso (il quale «presuppone un’omogeneità di contenuto volitivo ed una identità del fine dei diversi soggetti che vi contribuiscono»), e stabilisce invece che «le modifiche portate in sede centrale al piano regolatore comunale formino oggetto di esame e di deliberazione da parte dell’autorità comunale».
[84] Cons. Stato, IV, 1° febbraio 1961, n. 60, in Riv. giur. edil., 1961, I, p. 314 ss.. La decisione, «nonostante le ampie, serie e suggestive considerazioni» dell’A.p. n. 237/’56 cit., perviene alla conclusione che «l’atto del potere centrale non è […] condizione di efficacia del piano, ma ne è l’atto costitutivo», escludendo però, nel contempo, che la deliberazione comunale di adozione sia atto meramente preparatorio, atteso che «gli interessi inerenti al piano regolatore generale non sono solamente dello Stato, ma sono anche, e per lo più prevalentemente, del Comune»: di qui l’affermazione secondo cui «se il provvedimento risulta dal concorso e dalla fusione delle volontà di due distinti soggetti (lo Stato ed il Comune) per il raggiungimento di un unico fine di pubblico interesse, è ovvio che, in linea di principio, nessuna modifica può essere unilateralmente apportata da uno dei soggetti al contenuto dell’atto se non con il consenso dell’altro soggetto. Il rigore del principio può essere soltanto temperato dalla natura specifica dell’atto complesso ineguale, quello cioè in cui è preminente la posizione di uno dei soggetti che concorrono alla sua formazione? Qui si è veramente al limite tra le violazioni di legge e l’eccesso di potere. Se si tratta di interessi prevalentemente dello Stato che non incidano su interessi propri del Comune, lo Stato […] può apportare al progetto le modifiche che ritenga necessarie anche se, dopo aver interpellato il Comune – che interviene sempre come soggetto attivo nella formazione dell’atto – questi non sia consenziente; ma se si tratta di interessi prevalentemente o addirittura tipicamente ed esclusivamente comunali, lo Stato non può introdurre alcuna variante che non sia stata prevalentemente deliberata nelle debite forme dall’Amministrazione comunale».
[85] F. Spantigati, Manuale, cit., p. 120.
[86] Cfr. P. Stella Richter, Profili funzionali dell'urbanistica, cit., p. 14, nota 19, sulla «limitata portata» del p.r.g. come atto complesso, sulla «contingente occasione che ha dato origine a tale principio» e, soprattutto, sulla «tendenza recessiva» del principio stesso (negata però, e nell’identico periodo di tempo, da Sciullo, Pianificazione amministrativa, cit., p. 203, secondo cui la «“fortuna” di tale teorica, in specie di quella dell’atto complesso ineguale […] ancor oggi appare lontana dal declinare, nonostante le fin troppo facili critiche cui […] poteva e può esporsi»).
[87] A. Romano Tassone, Modelli di pianificazione, cit., p. 112 ss..
[88] È ben noto che prima della riforma del 2001 la Corte costituzionale ha affermato l'inutilizzabilità di meccanismi acceleratori fondati sul silenzio-assenso nei procedimenti caratterizzati da esercizio di potere latamente discrezionale, quali quelli di pianificazione territoriale (C. cost. n. 408/’95), fondando proprio sull’asserita natura di principio fondamentale da riconoscere al modello in questione, secondo cui la formazione degli strumenti urbanistici generali presuppone un procedimento cui devono partecipare necessariamente, e mediante espresse volizioni provvedimentali, sia il Comune che la Regione (C. cost. nn. 26/’96 e 206/’01).
La stessa posizione della Corte, peraltro, presentava talune aperture verso una possibile rimeditazione di quel modello.
Anzitutto, con la citata sentenza n. 408/’95 la Corte sembra aver mitigato la rigidezza dell’assunto, poiché ha affermato che se una variante al p.r.g. «è inserita nel contesto di uno strumento che complessivamente rimane esecutivo dello strumento generale, il silenzio-assenso per l'approvazione è ammesso; non è più ammesso quando lo strumento è in sé derogatorio dello strumento generale, perché finalizzato al perseguimento di obbiettivi che prescindono completamente dalla precedente pianificazione generale» (così B. Tonoletti, Corte costituzionale, semplificazione in materia urbanistica e tutela dell'ambiente, in Urb. app., 1998, n. 5, p. 500): in sintesi, secondo la Corte il silenzio-assenso può essere previsto purché non ne derivi uno stravolgimento dell’assetto delineato dal piano generale.
In secondo luogo, la Corte ha successivamente affermato che «al legislatore statale non può ritenersi consentito disporre […] che l’approvazione espressa degli strumenti urbanistici da parte della Regione […] deve intendersi non necessaria, e che strumenti non approvati dalla Regione debbono intendersi ciononostante operanti. In tal modo infatti il legislatore statale viene ad invadere la sfera della competenza legislativa regionale.» (C. cost., n. 507/’00, in Riv. giur. edil. n. 2/2001, I, p. 132 s.): quindi la Corte sembra aver ammesso che «forme di approvazione per silenzio-assenso […] possano essere introdotte da una libera determinazione della Regione» (P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., p. 92).
[89] Dal n. 468 del 26 luglio 1994 al n. 495 del 24 settembre 1996.
[90] Cons. Stato, IV, 31 gennaio 2002, nn. 547 e 548 (le decisioni risultano inedite).
Parrebbe muoversi in controtendenza Cons. Stato, A.p., 14.12.2001, n. 9, cit., la quale – nell’ambito di una puntualissima ricostruzione dei rapporti fra Regione e Ministero per i beni e le attività culturali nel procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 82, comma 9, d.p.r. n. 616/’77 (ora trasfuso nell’art. 151, T.u. n. 490/’99) – afferma che «nell’attuale sistema, l’approvazione regionale del piano urbanistico è indefettibile (Corte cost., 26 giugno 2001, n. 206), non può avere luogo per silenzio-assenso a seguito della mera inerzia e, inoltre, può apportare modifiche al piano adottato dal Comune (v. l’art. 10 della legge 17 agosto 1942, n. 1150), sicché esso può essere qualificato come atto complesso (sia pure a complessità diseguale o non paritaria)».
Ove si prescinda dal riferimento al modello ad atto complesso, che si mostra come un mero obiter dictum, il passo appena riportato non sembra deviare dalla traiettoria intrapresa anche dal Consiglio di Stato nelle sentenze nn. 547 e 548 citt.: inserito nel contesto della decisione, esso assume il senso (e lo scopo) di una analisi per differentiam fra l’ampio potere regionale di overruling nella formazione del p.r.g., per un verso, e l’assai più limitato potere ministeriale di prestare il proprio consenso all’autorizzazione ovvero di manifestare il proprio dissenso (disponendo l’annullamento del provvedimento di primo grado), per altro verso; «tertium non datur», precisa la Plenaria per sottolineare l’impossibilità che il Ministero modifichi (ad instar dell’art. 10 l.u.) il contenuto dell’autorizzazione.
In questa prospettiva, a ben vedere, il passo in esame si risolve in una enfatizzazione del ruolo della Regione nella formazione dello strumento urbanistico comunale.
[91] Si tratta degli artt. 1 a 4, l.r. 11.7.1994, n. 16, come modificata dalla l.r. n. 30/’94.
[92] TAR Lecce, 31 luglio 2000, n. 3243 (Pres. Magliulo, Est. d'Arpe) – richiamata da TAR Lecce 6 aprile 2002, n. 664 – secondo cui «non è possibile qualificare come principio fondamentale desumibile dalle leggi dello Stato – limite alla potestà legislativa della Regione, ex art. 117 della Carta costituzionale – la disposizione normativa dell’art. 1 comma quinto della legge 3 gennaio 1978, n. 1, contemplante, in subiecta materia, la necessità dell’emanazione di un provvedimento amministrativo d’approvazione (della variante urbanistica, con le modalità previste dagli articoli 6 e seguenti della legge 18 aprile 1962, n. 167) da parte dell’Ente Regione, posto che l’art. 21 della recente legge statale 30 aprile 1999 n. 136 prevede, espressamente, come eventuale l’approvazione degli strumenti urbanistici generali e delle relative varianti da parte della Regione. Pertanto, il Collegio, rammentato (per completezza espositiva) che nella specie non viene in questione il potere di pianificazione territoriale di stabilire delle varianti generali del P.R.G., bensì quello di apportare delle varianti “limitate” o “puntuali”, che non stravolgono le originarie previsioni dello strumento urbanistico generale, ma si limitano – in sede c.d. “attuativa” – a localizzare delle nuove opere pubbliche, e sottolineato che le Leggi 15 marzo 1997 n. 59 e 3 agosto 1999 n. 265 hanno introdotto nell’ordinamento positivo il principio fondamentale di “sussidiarietà”, per il quale la generalità delle funzioni amministrative deve essere attribuita, in ordine gerarchico inverso, innanzitutto ai Comuni, ritiene la questione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti manifestamente infondata. […] Ad ulteriore conferma di ciò, si consideri che con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 2001, è stata attuata una vasta e incisiva riforma della distribuzione dei poteri legislativi e amministrativi: con riferimento specifico al tema che ci occupa, l’art. 4 di tale legge costituzionale ha sostituito l’art. 118 della Costituzione […]. Come può notarsi, la riforma costituzionale in oggetto ha capovolto l’ordine degli enti, tra i quali i poteri sono distribuiti, collocando al primo posto il Comune, quindi le Province, le Città metropolitane, le Regioni, ed infine lo Stato. Le funzioni amministrative sono state attribuite, in linea generale, ai Comuni, mentre alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni, allo Stato le funzioni amministrative possono essere assegnate in sostituzione dei Comuni, solo se, e in quanto, la sostituzione sia giustificata dai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. In cospetto di un quadro ordinamentale siffatto, in cui il principio cd. di sussidiarietà ha assunto un ruolo centrale, risultando privilegiato al massimo grado il valore del Comune, quale ente più prossimo alle esigenze dei cittadini, la censura d’illegittimità costituzionale, proposta dai ricorrenti, tendente a riconoscere alla Regione, in definitiva, la possibilità di condizionare il potere, riconosciuto dall’art. 4 legge regionale n. 3/98 ai Comuni, d’apportare varianti specifiche agli strumenti urbanistici, al fine di realizzare opere pubbliche finanziate sia nell’ambito di programmi comunitari, sia dallo Stato o dagli enti locali, risulta manifestamente infondata».
L’art. 4, l.r. n. 3/’98 cit. stabilisce che la deliberazione del Consiglio comunale – con cui si approva il progetto di interventi finanziati con risorse pubbliche, o comunque dichiarati di pubblico interesse dal Comune nel cui territorio l’opera ricade, i quali riguardino aree che negli strumenti generali non sono destinate a pubblici servizi – «costituisce approvazione di variante degli strumenti stessi».
[93] Tar Lecce, 18 luglio 2002, n. 3479, (Pres. Ravalli, Est. Martino).
[94] Fornendo un convinto avallo a quella che appare una tendenza ormai consolidata nella legislazione regionale: cfr., da ultimo, l’art. 11, l.r. Puglia 27 luglio 2001, n. 20.