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Articoli e note

 

Mario Pischedda
(Procuratore Regionale Corte dei Conti)

La responsabilità amministrativa e contabile:
elementi costitutivi e cenni di procedura

horizontal rule

§1 PREMESSA

La Corte dei conti della Repubblica Italiana trae la propria origine dagli analoghi istituti esistenti nei diversi Stati della Penisola prima dell’unificazione. Tra gli altri vanno ricordati la Corte dei conti del Regno di Sardegna, voluta da Cavour, e la Gran Corte dei Conti del Regno delle due Sicilie.

La Corte dei conti dello Stato italiano fu istituita nel 1862; essa è disciplinata fondamentalmente dal T.U. 12 luglio 1934 n. 1214 e dal R.D. 13 agosto 1933 n.1038, contenente il regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte. Questa disciplina ha avuto soltanto lievi modifiche sino al 1994, quando con l’emanazione delle leggi 14 gennaio 1994 n. 19 e 20 sono state modificate in materia radicale le competenze e le funzioni dell'istituto. Il disegno riformatore è stato completato con la legge 20 dicembre 1996 n. 639 che ha introdotto disposizioni particolarmente rilevanti.

La Costituzione Repubblicana si occupa della Corte dei conti in due disposizioni. L’articolo 100, comma secondo, stabilisce che la Corte esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato; partecipa, nei casi e nei modi stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, e riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito.

L’articolo 103, secondo comma, della Costituzione stabilisce che la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, e nelle altre specificate dalla legge, tra le quali riveste maggiore importanza, anche per la mole del contenzioso, la giurisdizione pensionistica.

Le due funzioni svolte dall’Istituto non hanno alcun punto di contatto tra loro. In particolare la Corte costituzionale, con sentenza n. 29 del 12/27 gennaio 1995, ha affrontato il delicato problema della regolamentazione dei confini tra controllo successivo sulla gestione e giurisdizione di responsabilità, non solo sotto il profilo organizzativo interno, ma anche sotto l’aspetto dell'utilizzazione di notizie e dati, acquisiti attraverso l’esercizio dei poteri istruttori inerenti al controllo. Il Giudice delle leggi ha affermato che i rapporti tra attività giurisdizionale e controllo sulla gestione devono arrestarsi alla semplice conoscenza, da parte del titolare dell’azione di responsabilità, di eventuali ipotesi di danno erariale.

La duplicità delle funzioni esercitate dalla Corte dei conti si riflette anche nell’assetto organizzativo dell’istituto.

Le funzioni di controllo sono esercitate dalla Sezione di Controllo, dalla Sezione Enti, dalla Sezione Enti Locali (che come dice il nome è quella che si occupa dei comuni) e da uffici decentrati a livello regionale, denominati Delegazioni Regionali. Di recente il Consiglio di Presidenza ha istituito i Collegi Regionali di Controllo, affidando loro funzioni di controllo sulla regione, sugli enti regionali e sui fondi comunitari. È in fase di discussione un disegno di legge che prevede l'istituzione di sezioni regionali di controllo, che dovrebbero sostituire le Delegazioni e i Collegi Regionali.

Le funzioni giurisdizionali sono esercitate da 20 sezioni regionali, e da quattro d’appello, di cui tre centrali ed una per la sola regione Siciliana. Presso ogni sezione giurisdizionale sono istituiti uffici del pubblico ministero chiamati Procure Regionali e Procura Generale, se operanti presso le sezioni regionali o presso quelle centrali.

Esistono poi le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale, composte da magistrati appartenenti a tutte le Sezioni, che si occupano delle questioni di massima e di eventuali conflitti di competenza.

La presente relazione verterà sul contenuto sostanziale della funzione giurisdizionale esercitata dalla Corte in materia di contabilità, con alcuni cenni, prevalentemente pratici, alla procedura. Nell’esposizione si terrà conto della nozione tradizionale di contabilità pubblica, che comprende il giudizio di conto, con le connesse ipotesi di responsabilità contabile, e quello di responsabilità amministrativa.

§2 LA RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA

2.1 Funzione e differenza da altri tipi di responsabilità

In dottrina ed in giurisprudenza s’incontrano numerose denominazioni (responsabilità amministrativa, patrimoniale, erariale, contabile in senso improprio) che esprimono lo stesso concetto, e cioè la responsabilità patrimoniale in cui incorre l’impiegato, il funzionario, o chi è legato alla pubblica amministrazione da un semplice rapporto di servizio, qualora, per inosservanza dolosa o gravemente colposa dei suoi obblighi, cagioni alla pubblica amministrazione un danno economico.

Elementi costitutivi di questa responsabilità sono:

1)      l’esistenza di un danno;

2)      un rapporto d'impiego, o di servizio, con una pubblica amministrazione;

3)      la condotta antigiuridica;

4)      il nesso di causalità tra danno e condotta;

5)      il dolo o la colpa dell’autore del danno (elemento soggettivo o psicologico);

Prima d'esaminare i singoli elementi costitutivi della responsabilità è necessario indicarne il fondamento normativo, che, ancora prima che nelle singole leggi, va ricercato nell’articolo 28 della Costituzione.

Tale norma prevede che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti; in tal caso la responsabilità s'estende allo Stato. La disposizione costituzionale ha consacrato il principio della responsabilità patrimoniale degli agenti pubblici, essendo impensabile che l'amministrazione, chiamata dal danneggiato, non possa poi rivalersi sull’autore del danno.

La previsione di una responsabilità patrimoniale di funzionari, agenti, impiegati ed amministratori pubblici, fatta valere attraverso un’azione, esercitata da uno speciale ufficio del Pubblico Ministero, risponde a criteri di giustizia sostanziale. Scopo del giudizio di responsabilità amministrativa è, infatti, quello di ottenere il risarcimento dei pregiudizi economici, subiti dalla pubblica amministrazione, a causa delle condotte illecite dei propri funzionari.

La finalità perseguita costituisce un pilastro della democrazia, ed è proprio per consentire una più completa realizzazione di tale scopo, che il legislatore ha decentrato, su base regionale, le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti ed ha rafforzato i poteri d'indagine del Pubblico Ministero contabile.

Da quanto detto, risulta evidente che la responsabilità azionabile innanzi alla Corte dei conti si distingue, concettualmente e giuridicamente, dalla comune responsabilità civile, da quella penale e da quella disciplinare. Con gli altri tipi di responsabilità essa si pone su un piano di assoluta parità ed autonomia, circostanza che si riflette anche nei rapporti tra i vari procedimenti, anch’essi ispirati alla piena autonomia e separazione, pur avendo talvolta in comune lo stesso fatto storico.

Si pensi, per esempio, al militare di leva che si pone alla guida di un autoveicolo senza avere la necessaria abilitazione e, dopo aver investito un passante, danneggia l’automezzo. Il fatto integra una responsabilità penale (lesioni personali al passante investito), disciplinare (per essersi posto alla guida senza autorizzazione), civile (per l’eventuale risarcimento chiesto dalla vittima) ed amministrativa (per i danni causati al veicolo dell’amministrazione).

Di recente si è dubitato della necessità di prevedere questo particolare tipo di responsabilità, e da parte di alcuni studiosi si è affermato che essa potrebbe essere sostituita dall'ordinaria responsabilità civile.

Tale orientamento ha raggiunto il culmine con la proposta di revisione della Costituzione approvata dalla Commissione Bicamerale, che prevedeva l'eliminazione della funzione giurisdizionale della Corte dei conti.

Ritengo, e non per inutile corporativismo, che l'abolizione della responsabilità amministrativa, azionata da un Pubblico Ministero indipendente, sia una sventura per l'intero apparato amministrativo. Affidare la titolarità dell'azione per il risarcimento dei danni alla sola amministrazione, che dovrebbe agire secondo le norme del diritto civile, creerebbe da un lato delle enormi zone d'impunità e dall'altro sarebbe troppo rigoroso nei confronti di coloro che, in base all'arbitrio dell'amministrazione, sarebbero chiamati a risarcire danni, anche notevoli, secondo i principi, sicuramente più rigorosi, previsti dall'ordinaria responsabilità civile.

2.2 Il danno

2.2.1 La nozione di danno erariale

Il danno erariale costituisce il presupposto indispensabile per la sussistenza della responsabilità amministrativa.

La dottrina e la giurisprudenza meno recenti intendevano per danno qualsiasi diminuzione patrimoniale, subita dall’amministrazione, in conseguenza del comportamento illecito del responsabile. Tale deminutio comprendeva non soltanto la perdita, ma anche il mancato acquisto. Il danno, inteso sempre in senso naturalistico, era rapportato al valore della cosa distrutta o perduta o all’importo della somma erogata. Esempi di questa concezione del danno, che possiamo definire ragionieristica, sono la sottrazione di somme di denaro o di altre cose mobili o il mancato accertamento di entrate tributarie.

Tale orientamento trova, il suo limite nei cd. fatti patrimoniali commutativi, cioè in quei fatti nei quali il patrimonio pubblico non subisce alcuna variazione in meno, ma che il buon senso avverte come produttivi di danno. Si pensi, a titolo d'esempio, all’ipotesi d'acquisto di beni, poi inutilizzati. Secondo la concezione ragionieristica non sarebbe ravvisabile alcun pregiudizio, perché il patrimonio pubblico non subisce nessuna diminuzione, avendo solo trasformato un elemento patrimoniale (la disponibilità finanziaria) in un altro (il bene acquistato).

La tesi, nonostante le abnormi conseguenze alle quali conduce, trova, ancora oggi, un certo seguito, e sembra avere ricevuto un nuovo impulso dalla recente introduzione del comma 1 bis dell’articolo 1 della legge 20/94, il quale prevede che nel giudizio di responsabilità deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dalle amministrazioni o dalla comunità amministrata, in relazione al comportamento degli amministratori e dipendenti pubblici.

Invece di tentare di definire teoricamente il concetto di danno erariale, è più opportuno esaminare i casi sottoposti al vaglio della giurisprudenza contabile e, successivamente, elaborare una definizione che li comprenda tutti sotto un unico denominatore.

Sul versante delle entrate il danno è stato ravvisato nella mancata o ritardata riscossione dei singoli cespiti, come ad esempio, l’omessa riscossione di tasse e contributi, l’omessa applicazione di aumenti tariffari, la concessione di beni, rientranti nel patrimonio disponibile, a prezzi irrisori (fenomeno diventato noto con il termine di affittopoli), l’illegittima archiviazione di verbali di contravvenzione o la mancata riscossione di sanzioni pecuniarie.

Sul versante delle spese i casi di danno erariale sono più frequenti.

In materia di personale è stato ravvisato il pregiudizio nell’illegittima erogazione di compensi non dovuti (si pensi, ad esempio, alle numerose truffe per ottenere il pagamento di missioni mai effettuate o ai trasferimenti simulati o ancora al fittizio pagamento di somme a personale non più in forza, o non più imbarcato). L’esistenza del danno è stata ravvisata nel pagamento di progetti inutili, cioè relativi ad opere mai eseguite, nella liquidazione d'interessi alle ditte appaltatrici, in conseguenza del ritardo nei pagamenti, nel caso di opere realizzate e successivamente abbandonate all’incuria dei vandali, o di beni acquistati e rimasti inutilizzati.

Va ricordato, infine, il così detto danno indiretto, cioè quelle somme che l’amministrazione ha dovuto risarcire a terzi in conseguenza dell’azione dei propri dipendenti. Si possono citare, come esempio, il risarcimento pagato ai civili per i danni subiti nel corso di manovre militari, o per aver classificato come residuo inerte un ordigno efficiente poi esploso. Si possono ancora ricordare i danni subiti dagli stessi militari in conseguenza di lavori svolti in caserma senza il rispetto delle norme di sicurezza.

Dall’esame dei casi sopra esposti, emerge che per la giurisprudenza della Corte costituisce danno la spesa sostenuta dall’ente pubblico senza che vi sia correlata alcuna utilità.

Per una migliore comprensione del concetto di utilità occorre precisare che la pubblica amministrazione, dal punto di vista economico, costituisce un’azienda di erogazione senza finalità di lucro, cd “no profit”. Essa, in altre parole, non persegue la remunerazione del capitale investito, mediante la realizzazione di utili da distribuire ai finanziatori per aumentare la loro ricchezza privata, bensì il raggiungimento di finalità pubbliche che soddisfano l’interesse della collettività amministrata.

Ciò comporta che le risorse finanziarie assumono una funzione, non dominante, ma strumentale, per il raggiungimento dei fini dell'amministrazione, e che l’attività pubblica non può trovare la sua individuazione esaustiva nella semplice gestione di mezzi.

Al contrario va data rilevanza prioritaria al raggiungimento dei risultati, nel senso che ogni spesa pubblica deve essere, direttamente o strumentalmente, idonea alla produzione di un servizio pubblico, e ciò perché l’amministrazione costituisce un complesso organizzato, istituito per trasformare le risorse finanziarie in risultati, cioè servizi.

Si può, pertanto, affermare che sussiste danno erariale quando non si realizzano o si realizzano solo parzialmente, le finalità di pubblico interesse al quale sono destinate le risorse economiche pubbliche; o, ancora più chiaramente, che il danno alla finanza pubblica consiste nello squilibrio che viene a determinarsi tra l’onere finanziario, sostenuto per l’erogazione della spesa, ed il mancato beneficio per la collettività.

E’ evidente, infatti, che se la comunità stanzia delle risorse economiche per il perseguimento di certi obiettivi, e questi non vengono raggiunti, il danno subito è costituito non solo dalla perdita della somma investita, ma anche dal fatto che non si è raggiunto quel dato obiettivo, o quanto meno, dall’interesse negativo che si aveva ad investire quelle stesse somme in altra operazione.

Questa prospettazione del danno, consistente nel mancato raggiungimento del risultato che doveva conseguire all’azione della pubblica amministrazione, consente di ritenere dannosi tutti quei fatti che la coscienza sociale avverte come fonte di sperpero, quali il ritardo o la mancata realizzazione di un’opera pubblica, o il mancato acquisto di attrezzature. Essa, inoltre, appare in linea con la più recente normativa, che ha accentuato la previsione del raggiungimento dei risultati ed in particolare, sia con l'articolo 1 comma 1 bis della legge 20/94, giacché tenere conto dei vantaggi comunque conseguiti significa verificare in concreto se l'esborso di denaro pubblico ha avuto una qualsiasi utilità, sia con la cd responsabilità dirigenziale, prevista dal decreto legislativo 3 febbraio 1993 n.29.

Al riguardo, occorre subito precisare che il mancato raggiungimento dei risultati non determina automaticamente la responsabilità dei soggetti, ai quali la legge attribuisce questo compito.

Si deve, pertanto, respingere come infondata qualsiasi impostazione che voglia porre sullo stesso piano la responsabilità amministrativa e quella dirigenziale, quasi a voler affermare un'automatica responsabilità del dirigente per il mancato raggiungimento dei risultati. Tale circostanza può costituire, in certi casi ed a determinate condizioni, un elemento integrativo della fattispecie di danno, da porre a fondamento di un'eventuale responsabilità amministrativa secondo le regole proprie di questa, le quali pongono a carico del pubblico ministero l’onere di provare non solo il danno ma anche la colpa grave.

Un'interessante applicazione del concetto di danno sopra esposto, si ha nell’ipotesi di utilizzazione delle risorse finanziarie per fini diversi da quelli fissati (ad esempio l’acquisto di una diversa attrezzatura). E’ quello che alcuni autori definiscono “danno derivante dal sovvertimento delle scelte di priorità nell’azione pubblica”.

Il legislatore ha attribuito la facoltà di compiere le scelte agli organi politici  (o programmanti) che devono individuare gli interessi pubblici da soddisfare con carattere di priorità, anche sacrificandone altri egualmente rilevanti. Da ciò consegue che l’organo deputato alla gestione non può cambiare le decisioni prese, perché si auto attribuirebbe un potere di scelta che non ha, sicché le spese sostenute in difformità dalle scelte degli organi deliberanti, vanno ritenute inutili, proprio perché fatte contro le decisioni, legittimamente e lecitamente adottate dall’organo programmante.

Per rendere più comprensibile il concetto è forse opportuno un esempio. Nessun comandante militare si sognerebbe di raggiungere una destinazione diversa da quella che gli è stata ordinata, perché sa che chi ha impartito l'ordine ha valutato globalmente la situazione. Allo stesso modo nella gestione del denaro pubblico se è stato disposto un finanziamento per acquistare determinati beni strumentali, con quei soldi non si possono ristrutturare dei locali o acquistare un'autovettura di servizio, anche se si ritiene tale spesa più urgente, perché la valutazione delle priorità è stata fatta dall'organo che ha programmato le risorse.

Sempre collegata al concetto d’inutilità della spesa, sotto il profilo del mancato raggiungimento delle finalità di pubblico interesse è la nozione del cosiddetto danno da disservizio che si rinviene in alcune recenti pronunzie di alcune sezioni regionali. Esso consiste nel mancato raggiungimento delle utilità, che si prevedeva di ricavare dal funzionamento dei servizi e delle funzioni pubbliche, nella misura e qualità ordinariamente ricavabile dalle risorse investite.

Questo tipo di danno è stato ritenuto esistente quando il dipendente pubblico, agendo per perseguire il proprio personale tornaconto, non rende la prestazione dovuta, e non dà concreta attuazione ai fini istituzionali dell’amministrazione presso la quale opera. Così facendo egli causa all'amministrazione un disservizio, a ben vedere molto più grave di quello che poteva creare limitandosi a non prestare la sua attività lavorativa, costringendo la struttura presso la quale opera, a collaborare, sia pure inconsapevolmente, per il raggiungimento del fine illecito.

Anche le affermazioni giurisprudenziali fatte sull'esistenza del danno nell'ipotesi di pagamento di tangenti, evidenziano il concetto di mancata utilità della spesa. È stato affermato, infatti, che il pagamento di tangenti oltre a costituire un fattore distorsivo, sotto il profilo della legalità e della legittimità dell'azione amministrativa, determina un sistema economico nel quale inevitabilmente l’imprenditore privato è portato a considerare la somma, oggetto di dazione, come un elemento di costo, del quale deve necessariamente tenere conto nel determinare il prezzo, o nel dare esecuzione al contratto. Conseguentemente l’acquiescenza alle richieste dei pubblici amministratori costituisce il risultato di un calcolo utilitaristico, essendo inconcepibile, salvo particolari e temporanee eccezioni, che l’attività d'impresa può essere svolta senza profitto o addirittura in perdita. E' da presumere, pertanto, che secondo l’id quod plerumque accidit gli imprenditori aumentino il prezzo (ovvero eseguano i lavori in modo deteriore), almeno per l’importo sufficiente a recuperare le somme erogate a titolo di tangenti.

Non si può terminare l’esposizione del concetto di danno, senza accennare ad un argomento di vivissima attualità, quello che concerne l’azionabilità dinanzi al giudice contabile del risarcimento per il danno morale.

La Corte di Cassazione, con un indirizzo consolidatosi in occasione del cd. “affare Locked”, ha affermato che anche le persone giuridiche, essendo titolari di diritti non patrimoniali (come quelli relativi all’onore, alla reputazione, all’identità personale), possono subire un pregiudizio non patrimoniale dall'aggressione di questi beni e ancora più recentemente ha affermato la sussistenza della giurisdizione della Corte per il risarcimento di questo danno. Si sta, pertanto, consolidando un orientamento giurisprudenziale che riconosce l'esistenza di un danno risarcibile nella lesione del diritto all'immagine dell'amministrazione, giacché il prestigio di un ente pubblico, sebbene non idoneo a costituire oggetto di scambio secondo le leggi di mercato, costituisce un interesse direttamente protetto dall'ordinamento ed, in quanto tale, rivestito di valore economico, alla stregua degli altri beni immateriali tutelati.

Sono indici di un danno morale patito dall’Erario in termini di trasparenza, fiducia, lealtà, corretto comportamento, l'eco giornalistica anche locale, la rilevante posizione rivestita dai convenuti, il discredito gettato sull’amministrazione da parte di uno dei suoi vertici, il disdoro arrecato all'interno ed all'esterno dell'ufficio. 

2.2.2 Il potere riduttivo

Spesso il responsabile non viene condannato a risarcire l’intero danno, ma solo una parte di esso. La Corte dei conti, infatti, in base all’articolo 83, primo comma, della legge di contabilità, “può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”.

Questa norma consacra il cd potere riduttivo dell’addebito, istituto peculiare della giurisdizione contabile, che differenzia notevolmente la responsabilità amministrativa da quella civile, nella quale si agisce per ottenere l'integrale ristoro del danno subìto. Esso costituisce una specie di potere equitativo riconosciuto al giudice che consente di riportare a normalità situazioni nelle quali il danno causato risulta eccessivo, in rapporto alle condizioni economiche del responsabile ed alla gravità dell’infrazione contestata.

Dall’esame della giurisprudenza si ricava un’ampia applicazione ed una notevole incidenza del potere riduttivo, che spesso rende quasi simbolica la partecipazione del colpevole alla riparazione del danno.

L’esercizio di tale potere viene motivato con riguardo a circostanze oggettive e soggettive. Tra le prime, sono frequentemente richiamate, la rilevante mole del lavoro svolto, l’insufficienza numerica e l’impreparazione del personale, l’eccessiva gravosità dei compiti assegnati, l’urgenza del lavoro; in genere sono tutte quelle disfunzioni addebitabili all’organizzazione amministrativa. Le circostanze soggettive, più frequentemente ritenute idonee ad attenuare la responsabilità del dipendente, sono gli ottimi precedenti di carriera, l’aver seguito una prassi esistente, particolari condizioni personali (malattia, stanchezza, giovane età, minima anzianità di servizio) ed infine il comportamento tenuto dopo il fatto dannoso, per cercare di ridurre la portata del pregiudizio. Di recente è stato ritenuto elemento idoneo per ridurre l'addebito la responsabilità avvertita dal militare nell’adempimento di un ordine ricevuto.

2.3 Il rapporto di servizio

Il secondo elemento, necessario per il sorgere della responsabilità amministrativa, è il rapporto di servizio, che si può definire come quel particolare nesso funzionale che porta un soggetto a partecipare dell'attività amministrativa, ed a conformare la propria condotta alle prescrizioni che regolano tale attività.

La giurisprudenza, che vede sostanzialmente concordi la Corte dei conti e le Sezioni Unite della Cassazione, individua il rapporto di servizio nell’inserimento di un soggetto all’interno dell’organizzazione amministrativa, per lo svolgimento di un’attività secondo le regole proprie della pubblica amministrazione. Tale inserimento comporta l’assunzione di vincoli ed obblighi, diretti ad assicurare il buon andamento dell’attività affidata e la rispondenza di essa alle esigenze generali cui è preordinata.

Questo rapporto è stato riscontrato nei confronti di numerosi soggetti, operanti all’interno della pubblica amministrazione, senza essere pubblici dipendenti, quali ad esempio i componenti di commissioni, i collaudatori di opere pubbliche, i direttori dei lavori. Non ha alcuna rilevanza il fatto che l’inserimento nell'apparato amministrativo sia volontario od obbligatorio (si pensi ai militari di leva), né che riguardi una persona fisica o una persona giuridica o un semplice ente di fatto.

Per evidenziare meglio le caratteristiche del rapporto di servizio, come configurato dalla giurisprudenza, può giovare il raffronto tra l'esercito ed i corpi militarizzati, come la Guardia di Finanza; come i finanzieri non appartengono all'esercito, anche se sono sottoposti alla stessa disciplina giuridica, analogamente chi si trova in semplice rapporto di servizio con l'amministrazione non è un dipendente pubblico, ma è sottoposto nell'esercizio della sua attività alle regole dettate dall'amministrazione

La constatazione che spesso l'amministrazione danneggiata è diversa da quella presso la quale si è instaurato il rapporto di servizio aveva indotto la giurisprudenza della Corte, sulla base di una concezione unitaria della finanza pubblica, a tentare di superare l'espresso vincolo legislativo secondo il quale il danno doveva essere cagionato all'amministrazione d’appartenenza. La Cassazione ha sempre disatteso tale orientamento, affermando che in questi casi ci si trova di fronte ad una responsabilità sottratta alla cognizione del giudice contabile.

Sulla questione è intervenuto il legislatore che, con l’articolo 1, comma 4, della legge 14 gennaio 1994 n. 20, ha stabilito che la Corte dei conti giudica sulla responsabilità degli amministratori e dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad enti diversi da quelli d’appartenenza. Successivamente l’articolo 3 della legge 20 dicembre 1996 n. 639 ha limitato l’estensione della giurisdizione, ai fatti successivi al 1994. A partire da tale data pertanto, si risponde dinanzi la Corte dei conti anche per il danno causato ad un'altra amministrazione, così ad esempio un militare può essere chiamato a rispondere per i danni causati ad un’amministrazione comunale o provinciale.

2.4 La condotta antigiuridica

Altro elemento costitutivo della responsabilità amministrativa è la condotta che si può definire come il comportamento tenuto dal soggetto nei confronti del mondo esterno. Tale comportamento può essere commissivo od omissivo. La condotta può consistere in attività materiali o nel compimento di atti amministrativi.

La condotta deve essere antigiuridica, cioè posta in essere in violazione di obblighi, generici o specifici, derivanti dal rapporto di servizio.

Quando la condotta consiste nel compimento di atti amministrativi, occorre distinguere l'antigiuridicità della condotta dai vizi di legittimità dell’attività amministrativa. L’attività della pubblica amministrazione, infatti, si esercita attraverso atti formali, il cui parametro di raffronto, nei rapporti esterni, è costituito dal dato normativo, mentre l’azione degli agenti pubblici, svolgendosi all’interno del rapporto di servizio, riguarda gli obblighi scaturenti da tale rapporto.

Ciò comporta che non vi è coincidenza tra legittimità dell’azione amministrativa e antigiuridicità della condotta, nel senso che può aversi illegittimità senza che vi sia responsabilità e viceversa può aversi responsabilità pur in presenza di attività legittima. Di regola l’illegittimità costituisce un elemento sintomatico della presenza, in concorso con gli altri elementi, di una condotta antigiuridica, ma nulla di più.

Per la responsabilità amministrativa è rilevante solo il comportamento attuato nell'espletamento delle proprie funzioni, o con queste legato da un rapporto di occasionalità necessaria. Resta fuori, pertanto la condotta, anche se causativa di danno, realizzata al di fuori del rapporto di servizio, che sarà addebitata secondo le regole dell'ordinaria responsabilità civile. Così, ad esempio, il danneggiamento di beni dell'amministrazione da parte di un dipendente sarà rilevante unicamente se compiuto durante il servizio, o se con questo è strettamente collegato, non quando il responsabile è fuori servizio (in ferie o in turno di riposo).

2.5 Il rapporto di causalità

Perché sussista la responsabilità, è necessario che la condotta antigiuridica e il danno siano legati tra loro da un nesso di causalità. In ordine a tale principio la giurisprudenza contabile, al pari di quella civile, mutua i principi dal codice penale ed in particolare dall’articolo 40. In pratica, il rapporto di causalità va inteso nel senso che costituisce causa di un determinato evento quella condotta dalla quale, secondo un ordine logico di consequenzialità, quel determinato effetto può derivare ed è derivato.

Il nesso eziologico presuppone due elementi: uno positivo ed uno negativo. L’elemento positivo consiste nella circostanza che il soggetto ha realizzato un antecedente senza il quale l’evento lesivo non si sarebbe verificato, alla stregua dell’id quod plerumque accidit. L’elemento negativo consiste nella mancanza di fattori sopravvenuti, che erano da soli sufficienti a cagionare l’evento (si pensi al soggetto che, portato in ospedale per un colpo d’arma da fuoco, muore per una grave imperizia del medico curante).

2.6 L’elemento psicologico nella responsabilità amministrativa.

2.6.1. Dolo e colpa grave

Per affermare l'esistenza della responsabilità amministrativa non è sufficiente che vi sia un danno, causato da una condotta antigiuridica, realizzata violando obblighi di servizio, ma è necessario che l'azione, sia riferibile psicologicamente all'agente; in altre parole è necessario il cosiddetto elemento psicologico.

L’elemento psicologico necessario per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa è rappresentato dal dolo o dalla colpa grave, con esclusione degli stati psicologici colposi di minore intensità come la colpa lieve o lievissima.

Il dolo consiste nella volontà di compiere quella determinata azione (momento volitivo) e nella consapevolezza di ledere un interesse altrui (momento conoscitivo). Un’azione è voluta quando sono voluti i risultati ai quali essa è diretta (dolo intenzionale) o quando essi, previsti dal soggetto anche soltanto come possibili, sono stati accettati (dolo eventuale).

Trasportando questa nozione generale nel campo della responsabilità amministrativa, possiamo definire il dolo come la volontà di compiere quella determinata azione, nella consapevolezza di ledere un interesse economico (o economicamente valutabile) dell’amministrazione. In altre parole si ha dolo quando l’agente ha avuto direttamente di mira l’evento dannoso, che è stato voluto e previsto quale conseguenza della propria azione od omissione cosciente e volontaria (dolo diretto), oppure quando l’agente ha semplicemente accettato il rischio del verificarsi dell’evento dannoso, come possibile conseguenza accessoria della propria condotta, consentendo al suo realizzarsi (dolo eventuale).

Più problematica è la definizione della colpa grave. La giurisprudenza spesso si esprime in termini di inescusabile imperizia, straordinaria imprudenza, superficialità imperdonabile o disinteresse assoluto per i compiti d’istituto. Sono certamente belle parole alle quali è però necessario attribuire un significato; ma è piuttosto difficile esprimere in astratto un concetto, il cui contenuto va specificato in relazione al tipo di attività e di professionalità dell’agente, tenendo conto anche delle particolarità della situazione concreta.

Procediamo, dunque, per esemplificazioni, perché è solo con riferimento alla fattispecie concreta che il concetto di colpa grave esce dall’indefinito per assumere connotati precisi.

A tutti noi capita di dimenticare un oggetto, oppure di dimenticarsi di compiere una determinata azione, si tratta spesso di fatti banali che non hanno gravi conseguenze perché si riferiscono a casi di vita quotidiana, privi di particolare pericolosità. Supponiamo, invece, che l’oggetto dimenticato sia una pinza lasciata dal chirurgo nell'addome di un paziente o che l’azione omessa sia un pagamento obbligatorio da parte del ragioniere.

Ci rendiamo subito conto di un primo aspetto: la gravità della colpa va valutata in rapporto al grado d’attenzione e impegno richiesti per il tipo d’attività che si svolge.

Perché ci sia colpa grave è necessaria la prevedibilità dell’evento. Si deve osservare, infatti, che la valutazione della colpa va fatta con riferimento alle cognizioni delle quali l’agente poteva disporre al momento del fatto e non alle conseguenze che pur con la diligenza del buon amministratore o del buon funzionario, sono imprevedibili

La gravità della colpa assume un diverso significato a seconda che l'evento lesivo è stato causato da comportamenti materiali, o è la conseguenza di un'attività amministrativa.

Quando si tratta di danni causati da un’attività materiale, ad esempio danni derivanti dalla conduzione di autoveicoli, ci si trova di fronte a comportamenti che presentano caratteri di pericolosità naturale. La colpa grave pertanto sorge nell’ipotesi che la negligenza e l’imperizia si pongano ad un livello nel quale, l’evento è collegato in misura prevalente alla condotta dell’agente, piuttosto che al rischio insito nell’attività.

Ad esempio, impegnare un incrocio nonostante le contrarie indicazioni del semaforo, costituisce condotta di guida gravemente colposa ed imprudente, perché le norme violate non lasciano alcun margine di discrezionalità nel comportamento di guida da tenere, stante l’altissimo rischio d’incidenti che la loro trasgressione comporta. Per contro non costituisce comportamento gravemente colposo il tamponamento di autoveicolo nel traffico cittadino, atteso che nel caos del traffico cittadino spesso non è possibile osservare la distanza di sicurezza.

Nel campo dell’attività amministrativa la colpa grave si ricollega al concetto di errore professionale inescusabile, che si ha quando la scelta amministrativa è il frutto di un’operazione arbitraria.

L’arbitrarietà si riscontra in alcune ipotesi tipiche, e precisamente quando vi è stata un’erronea percezione della realtà, di diritto o di fatto, che, secondo dati obiettivi, non poteva essere così intesa per mancanza di elementi di dubbio. Ciò si verifica ad esempio nel caso della violazione di disposizioni normative specifiche, riguardanti il settore professionale nel quale l’agente opera, la cui interpretazione è assolutamente pacifica.

Un’altra ipotesi di arbitrarietà si ha quando l’erronea percezione della realtà è stata il frutto di una scelta che ha dato la prevalenza all’erroneo convincimento dell’agente, il quale non ha tenuto conto d’istruzioni, pareri, indirizzi, prassi e pronunce esistenti. Ciò si verifica ad esempio nel fatto di disattendere un parere obbligatorio ancorché non vincolante. E’ il caso tipico di chi assume una decisione o una deliberazione nonostante il fondato parere contrario del servizio interessato. In questo caso è evidente, anche secondo il comune buon senso, che chi è stato avvertito dell’illegittimità di una determinata azione e decide egualmente di compierla, dovrà essere chiamato a rispondere degli eventuali effetti dannosi scaturiti dalla medesima.

L’arbitrarietà delle scelte si può poi specificare anche nella forma della carenza di potere, come nel caso d’interventi disposti in materia che non rientra nella propria competenza.

Naturalmente non possono essere qualificate gravemente colpose le situazioni in cui l’errore è stato determinato dalla complessità della materia, dalla novità delle questioni, da indicazioni fuorvianti o contrastanti dei superiori o se vi sono seri contrasti giurisprudenziali in materia.

Un discorso a parte si deve fare per ciò che riguarda il comportamento omissivo. Qui la gravità della colpa discende della consapevolezza dell’omissione, in quanto l’agente pubblico, che professionalmente può prevedere l’evento che deriva dal proprio comportamento omissivo, ne accetta il verificarsi. L’omissione, essendo volontaria, è inquadrabile nella tipologia della colpa cosciente o con previsione, fattispecie molto prossima al dolo. (Secondo la concezione penalistica, nella colpa con previsione l’agente non ha l’intenzione di commettere quel determinato reato, ma si rappresenta l’evento come conseguenza possibile della sua condotta)

D’altra parte è evidente, anche alla luce del comune buon senso che chi agisce può sbagliare anche se in buona fede, mentre chi non agisce sbaglia sempre.

2.6.2 Solidarietà e parziarietà

Le recenti leggi di riforma hanno stabilito il carattere personale della responsabilità amministrativa con la conseguente intrasmissibilità agli eredi, tranne nel caso di dolo o d'illecito arricchimento. Il carattere personale della responsabilità non implica soltanto una stretta dipendenza tra risarcimento e condotta colpevole, ma comporta anche una personalizzazione della condanna che deve essere adeguata all’incidenza causale del comportamento nel verificarsi del danno.

L’articolo 82 della legge di contabilità prevede che, quando il danno è correlato alla condotta di più agenti, ciascuno risponde per la parte che vi ha preso. La giurisprudenza contabile, pur in presenza di questa norma, aveva ritenuto vigente tra corresponsabili il vincolo della solidarietà passiva, che era limitato sino ad un certo importo stabilito dal giudice (adoperando la formula sino alla concorrenza di...).

Il legislatore del 96, ritenendo tale principio giurisprudenziale non condivisibile, ha limitato la solidarietà, ai soli concorrenti che hanno conseguito un illecito arricchimento o che hanno agito con dolo, sancendo la regola della parziarietà dell’obbligazione risarcitoria.

La disposizione ha fatto sorgere diversi problemi interpretativi nel caso di concorso tra azioni dolose e colpose, con particolare riferimento all’omessa vigilanza che concorre con il peculato.

Di recente le Sezioni riunite, dopo aver costatato che nell'ipotesi di concorso colposo con atti di dolosa appropriazione è giuridicamente impossibile l'applicazione di un qualsiasi criterio di ripartizione, in quanto ciò determinerebbe o una stridente violazione di elementari esigenze di giustizia, addossando una parte del danno, prodotto da chi si è appropriato di denaro pubblico, ai corresponsabili a titolo colposo, ovvero un ingiustificato arricchimento dell'erario, hanno affermato che l’obbligazione di chi si è appropriato di denaro o valori pubblici, è principale, ed ha carattere restitutorio, in conseguenza dell'indebito arricchimento, mentre quella del corresponsabile che ha agito con colpa grave ha carattere sussidiario e risarcitorio.

Alla relazione, esistente tra obbligazione principale e sussidiaria, è strettamente legato l'obbligo dell'erario di seguire un ordine d’escussione determinato, sicché la sentenza di condanna deve essere eseguita prima nei confronti del debitore principale, mentre nei confronti del debitore sussidiario può essere eseguita, nei limiti della somma al cui pagamento quest'ultimo è stato condannato, solo subordinatamente al tentativo infruttuoso dell'amministrazione danneggiata, di realizzare il proprio credito.

2.6.3 Cause di esclusione della colpa

La responsabilità amministrativa può essere esclusa dalla presenza di cause di giustificazione. Il legislatore ha espressamente disciplinato solo l’esimente dell’ordine superiore, mentre le altre cause possono trovare applicazione in base ai principi generali dell’ordinamento giuridico.

Particolare importanza riveste l’esimente relativa all’esecuzione di un odine. L’ipotesi è regolata per gli impiegati civili dall’articolo 16 del testo unico, che prevede il diritto di rimostranza e la reiterazione dell’ordine in forma scritta. Nell’ambito militare trovano applicazione gli articoli 5 della legge 382/78 e 25 del regolamento di disciplina, che in maniera analoga prevedono l’obbligo per il subordinato, al quale è impartito un ordine che non ritenga conforme alle norme in vigore, di farlo presente a chi lo ha impartito, dichiarandone le ragioni, con spirito di leale e fattiva partecipazione. Anche in questo caso il subordinato è tenuto ad eseguire l'ordine.

Pur non essendo previsto espressamente che l’ordine debba essere rinnovato in forma scritta, è da ritenere che rientri nei doveri del superiore e nel diritto del subordinato chiedere che l’ordine sia impartito in tale forma, o alla presenza di testimoni

La giurisprudenza della Corte ha fatto anche una larga applicazione dello stato di necessità. È stato affermato che gli atti di spesa irregolari per mancanza di copertura finanziaria, non comportano responsabilità, ove diretti a far fronte a spese obbligatorie urgenti.

Particolare rilievo assume l’esimente dell’errore professionale scusabile che si avrebbe quando si è in presenza di una normativa particolarmente confusa, di controversa interpretazione, anche giurisprudenziale, o costantemente disapplicata nella pratica. Va precisato che l’incertezza interpretativa di una norma di legge, specie se di recente emanazione, può determinare l’errore scusabile solo fino a quando non sia intervenuta un’attività di chiarimento da parte dell’autorità superiore o di quella vigilante.

§3 CENNI DI PROCEDURA

3.1 Il pubblico ministero contabile

L’articolo 43 del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, stabilisce che il giudizio di responsabilità è istituito ad istanza del procuratore generale.

Molto è stato scritto e detto intorno alla figura del pubblico ministero contabile, al quale è stata attribuita di volta in volta la veste di rappresentante in giudizio della pubblica amministrazione, ovvero di sostituto processuale di essa ovvero di rappresentante della legge; alle volte è stato considerato parte solo in senso formale altre volte parte sostanziale.

La questiona della qualificazione giuridica del pubblico ministero è molto interessante, ma esula dall’argomento della presente relazione. In questa sede è sufficiente ricordare che l’azione del pubblico ministero contabile, in quanto diretta a far valere gli interessi della collettività è omologa all’azione esercitata dal pubblico ministero penale: come quest’ultimo fa valere l’interesse della collettività alla punizione del colpevole, così il pubblico ministero contabile fa valere l’interesse della collettività al ristoro dei danni subiti dalla finanza pubblica. In entrambi i casi, si tratta di un’azione pubblica e necessaria

3.2 I poteri istruttori

Ricevuta la notizia di un danno alla finanza pubblica, il Procuratore regionale, se non la ritiene manifestamente infondata, disporrà, come si dice nel linguaggio burocratico, l’apertura di una vertenza, che sarà assegnata ad un magistrato addetto all’ufficio.

Il titolare della vertenza eseguirà le indagini necessarie a stabilire se esistono elementi sufficienti per l’esercizio dell’azione di responsabilità: nel primo caso disporrà la citazione a giudizio dei presunti responsabili, nel secondo caso disporrà l’archiviazione della pratica.

L’istruttoria nel giudizio di responsabilità amministrativa, fino alla legge n. 19 del 1994, era disciplinata soltanto dall’articolo 74 del R.D. n. 1214 del 1934, che si limitava a stabilire il potere del PM di chiedere in comunicazione atti e documenti in possesso di autorità amministrative e giudiziarie, e di disporre accertamenti diretti..

La riforma del 1994 ha notevolmente ampliato e precisato i poteri istruttori del pubblico ministero contabile. Le fonti dei poteri sono costituite, oltre che dal citato articolo 74 del testo unico, dall’articolo 16 del decreto legge 13 maggio 1991 n 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991 n 203 e dagli articoli 2 e 5 della legge 19/1994, modificati dalla legge 639/96.

Coordinando la normativa sopra richiamata i poteri istruttori possono cosi identificarsi:

1)      Può chiedere in comunicazione o disporre l’esibizione od ordinare il sequestro di atti e documenti amministrativi in possesso di autorità amministrative e giudiziarie.

2)      Può disporre ispezioni ed accertamenti diretti presso pubbliche amministrazioni, terzi contraenti o beneficiari di provvidenze finanziarie a carico di bilanci pubblici.

3)      Può disporre audizioni personali

4)      Può disporre perizie e consulenze tecniche.

 I singoli adempimenti istruttori possono essere eseguiti direttamente dal pubblico ministero o delegati alla Guardia di Finanza, ad altre forze dell’ordine, o a funzionari della pubblica amministrazione. Il funzionario delegato si trova in rapporto diretto con il pubblico ministero al quale risponde della sua attività. E’ ovvio che risulta indispensabile un coordinamento tra il PM delegante e il responsabile dell’ufficio o il superiore gerarchico del funzionario delegato, al fine di evitare la paralisi dell’amministrazione.

Ultimata l’attività istruttoria, il pubblico ministero può convincersi della mancanza di uno degli elementi necessari per l’affermazione della responsabilità e conseguentemente disporre l’archiviazione oppure al contrario ritenere che il pregiudizio patrimoniale subito dalla finanza pubblica debba essere risarcito da alcuni soggetti: in quest’ultimo caso il pubblico ministero deve emettere l’atto di citazione, preceduto dal cosiddetto invito a dedurre.

Analizziamo singolarmente le due possibilità.

3.3 L’archiviazione

L’archiviazione, al contrario di quanto avviene nel processo penale, non è soggetta al controllo del giudice e non costituisce un provvedimento giurisdizionale, idoneo a passare in giudicato.

Secondo la giurisprudenza, il carattere non giurisdizionale del provvedimento di archiviazione non preclude il successivo esercizio dell’azione per un’identica fattispecie. La riapertura della vertenza può essere disposta in occasione del sopraggiungere di fatti nuovi, intendendo l’espressione nel senso più ampio di fatti non conosciuti dal pubblico ministero al momento dell’archiviazione della vertenza. Sarebbe inammissibile, invece, la riapertura della vertenza per una semplice diversa valutazione dei fatti, già conosciuti.

Il provvedimento d’archiviazione, pur nel silenzio della legge, è sempre comunicato all’amministrazione interessata e, qualora sia stato emesso l’invito a dedurre, al presunto responsabile.

3.4 L’invito a dedurre e l’audizione personale

Ultimata l’istruttoria Il PM può convincersi dell’esistenza della responsabilità amministrativa di alcuni soggetti. In questo caso, prima di emettere l'atto di citazione in giudizio, deve invitare il presunto responsabile del danno a depositare, entro un termine non inferiore a trenta giorni dalla notifica della comunicazione dell'invito, le proprie deduzioni ed eventuali documenti. Nello stesso termine il presunto responsabile può chiedere di essere sentito personalmente.

È opportuno chiarire subito che l’invito non è assimilabile all’informazione di garanzia prevista nel processo penale. La sua funzione, infatti, non è quella di avvisare che si sta iniziando un’indagine, ma è quella di contestare (una sorta di contestazione degli addebiti che ricorda il procedimento disciplinare) specifici fatti qualificati come dannosi, e le relative responsabilità, dando al presunto responsabile la possibilità di dedurre in ordine agli stessi.

L’invito, quindi, è utile ai fini del completamento dell’istruttoria perché conferisce al PM la possibilità di acquisire, sulla base delle deduzioni e dei documenti depositati dal presunto responsabile, una più vasta gamma di elementi di valutazione e di chiarire il quadro istruttorio facendo luogo, se del caso, a nuove acquisizioni probatorie. Consente, d’altro canto, al presunto responsabile di prospettare le proprie ragioni sulle contestazioni mossegli, di giustificare il suo comportamento e di produrre documenti e prove a discarico che possono non essere ancora noti al PM.

Insomma, l’invito è l’atto a seguito del quale possono scaturire elementi idonei a mettere il PM nella condizione di meglio valutare se citare o archiviare e che, nello stesso tempo, offre al presunto responsabile l’occasione per evitare in extremis il giudizio di responsabilità. Non è raro, infatti, che il presunto responsabile, valutata la situazione in rapporto al quadro accusatorio che scaturisce dall’invito, decida di risarcire il danno di propria iniziativa (specie se si tratta d’importi di non rilevante entità), con notevole risparmio di tempo e di energie processuali e senza aggravio di spese legali a suo carico.

L’invito deve contenere l’analitica esposizione dei fatti dannosi e degli altri elementi che costituiscono la fattispecie di responsabilità, formulati in modo tale da consentire al presunto responsabile di poter dedurre in ordine ad essi. L’atto è comunicato mediante notifica per mezzo di ufficiale giudiziario, e contiene l’invito a formulare deduzioni sugli addebiti contestati entro un certo numero di giorni, che non può essere inferiore a trenta, o a chiedere di essere sentito personalmente dall’inquirente. Il termine per dedurre può essere prorogato dal PM, in presenza di valide motivazioni, dietro richiesta del presunto responsabile.

La richiesta di audizione personale, non è alternativa alla facoltà di presentare deduzioni, ma si configura come aggiuntiva, o, addirittura autonoma, nel senso che è possibile limitarsi a chiedere di essere sentiti (ovviamente però bisogna chiederlo entro il termine assegnato per le deduzioni). L’audizione, sempre che venga chiesta formalmente ed espressamente, non può essere negata dal PM, anzi costituisce un atto dovuto, ed è assimilabile alla verbalizzazione di dichiarazioni spontanee.

In questa fase, che rientra ancora nel procedimento istruttorio, non è necessaria la presenza dell’avvocato, tuttavia in quasi tutte le Procure, si è instaurata la prassi di consentire agli avvocati dei presunti responsabili di assistere alle audizioni, dal momento che nessuna norma lo vieta e forse, da un punto di vista psicologico, può avere un effetto rassicurante.

Entro centoventi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle deduzioni da parte del presunto responsabile del danno, il procuratore regionale, se non ritiene di dover archiviare, emette l'atto di citazione in giudizio. Eventuali proroghe di quest'ultimo termine sono autorizzate dalla sezione giurisdizionale competente, nella camera di consiglio a tal fine convocata; la mancata autorizzazione obbliga il procuratore ad emettere l'atto di citazione ovvero a disporre l'archiviazione entro i successivi quarantacinque giorni.

§4 IL GIUDIZIO DI CONTO E LA RESPONSABILITÀ CONTABILE

4.1 Gli agenti contabili

Il giudizio di conto è storicamente l’attività più importante della Corte dei conti, anche se è forse la meno appariscente. La necessità che il pubblico denaro, che proviene dalla generalità dei contribuenti, sia sottoposto alla verifica giudiziale della correttezza della sua gestione, costituisce un principio fondamentale del nostro ordinamento e tutti gli agenti contabili, con eccezione di quelli che operano negli organi dotati di sovranità (Camera, Senato e Corte Costituzionale) sono soggetti alla giurisdizione contabile. In questo senso si parla di necessarietà del giudizio di conto.

Sono obbligati a rendere il conto giudiziale gli agenti contabili, cioè coloro che hanno il maneggio di denaro o di altri valori dello Stato. Con l’espressione maneggio, non s’intende soltanto la materiale detenzione del denaro pubblico, ma la disponibilità, cioè la possibilità di venirne in possesso, di propria volontà, in qualsiasi momento o meglio ancora la facoltà di disporne, senza l’intervento di un altro ufficio.

Gli agenti contabili, secondo l’oggetto o la causa del loro maneggio, si distinguono in:

1)      agenti della riscossione, incaricati di riscuotere le entrate e di versarne l’ammontare nelle casse dello Stato;

2)      agenti pagatori, incaricati di eseguire i pagamenti;

3)      consegnatari, che hanno in consegna e provvedono alla custodia di oggetti o materie di pertinenza dello Stato.

Tutti i contabili, poi, possono essere di diritto o di fatto, a seconda che sono titolari di legale investitura ovvero si sono ingeriti arbitrariamente nello svolgimento delle funzioni sopra descritte.

Nell’ambito dell’esercito sono stati considerati agenti contabili, tra gli altri, i gestori degli spacci, gli addetti al contante, i consegnatari del deposito combustibili e lubrificanti.

Non sono invece contabili coloro che hanno in consegna beni con il solo debito di vigilanza, quali ad esempio i mobili d’ufficio o gli stampati.

Ogni contabile deve presentare periodicamente il conto della sua gestione. Il conto comprende il carico (cioè il resto della gestione precedente più gli incrementi avvenuti nel corso della gestione), lo scarico (cioè le somme o i valori da portare in meno), ed il resto (la differenza algebrica tra carico e scarico).

4.2 Il giudizio di conto

L’agente contabile deve rendere, il conto della propria gestione all’amministrazione cui appartiene, la quale provvederà alla parifica del conto e lo trasmetterà alla competente Sezione Giurisdizionale regionale della Corte dei conti.

La parificazione del conto giudiziale è regolata dall’articolo 618 del Reg. di Contabilità Generale dello Stato, che prevede che tutti i conti giudiziali devono essere riveduti, parificati e certificati conformi alle proprie scritture da parte delle rispettive Amministrazioni.

La presentazione del conto è importante per gli effetti che ne derivano; ed, infatti, a differenza del giudizio di responsabilità che s’instaura per impulso della Procura regionale, l’articolo 45 del TU sancisce un automatismo procedurale prevedendo che la presentazione del conto costituisce il contabile in giudizio.

Una volta pervenuto il conto, il Presidente della Sezione lo assegna ad un magistrato relatore che provvede all’esame dello stesso, a questo scopo il magistrato relatore può chiedere all’Amministrazione e al contabile, notizie e documenti mediante fogli di rilievo in via ufficiosa. Successivamente il relatore stende una relazione sul conto, concludendo per il discarico o per la condanna al pagamento della somma che risulti a debito del contabile.

Va ricordato che ai sensi dell’articolo 2 della legge 20/94, decorsi cinque anni dal deposito del conto, senza che sia stata depositata la relazione del magistrato istruttore o siano state elevate contestazioni a carico del contabile, il giudizio di conto si estingue.

Se la relazione conclude per il discarico, il Presidente ne ordina la trasmissione al Procuratore regionale, ove invece essa concluda per la condanna o per l’adozione di altri provvedimenti, interlocutori o definitivi, il Presidente fissa l’udienza pubblica, dandone comunicazione al Procuratore regionale.

Nel primo caso, cioè se la relazione conclude per il discarico, il Procuratore regionale, se concorda, appone il suo visto ed in questo caso l’approvazione del conto è data dal presidente della Sezione con decreto di discarico. Quando la proposta del relatore e le conclusioni del Procuratore non concordano per il discarico, il conto è iscritto al ruolo d’udienza. La sentenza che conclude il giudizio può essere di discarico del contabile, di rettifica dei resti o di condanna.

Resta comunque fermo che il PM, ove nel corso del giudizio di conto rilevi irregolarità sintomatiche di un possibile danno alla finanza pubblica (ad esempio la mancata riscossione di entrate, o il pagamento d’interessi) ascrivibili a soggetti diversi dal contabile, può autonomamente attivarsi per l’instaurazione di un apposito giudizio di responsabilità, dal momento che le irregolarità emergenti dal conto giudiziale ben possono costituire la notitia damni per l’apertura di una vertenza di responsabilità amministrativa.

4.3 La responsabilità contabile

La possibilità di una pronunzia di condanna nei confronti del contabile determina la necessità di trattare brevemente della responsabilità contabile. I suoi elementi costitutivi sono gli stessi della responsabilità amministrativa, solo che si atteggiano in modo diverso. In particolare la colpa non deve essere dimostrata, ma si presume ove il contabile non offra la prova dell’esimente che gli ha impedito l’adempimento dell’obbligo di restituzione.

Ciò si desume dall’articolo 194 del regolamento di contabilità in base al quale le mancanze, deteriorazioni, o diminuzioni di denaro o di cose mobili avvenute per causa di furto, di forza maggiore, o di naturale deperimento, non sono ammesse a discarico degli agenti contabili, se essi non esibiscono le giustificazioni stabilite nei regolamenti dei rispettivi servizi, e non provano che il danno non è ad essi imputabile, né per negligenza, né per indugio frapposto nel richiedere i provvedimenti necessari per la conservazione del danaro o delle cose avute in consegna. Ovviamente si applica anche ai contabili il più qualificato elemento psicologico della colpa grave, come riconosciuto dalla stessa corte costituzionale. Quanto al danno, si osserva che esso è in re ipsa tutte le volte che è accertata una deficienza delle cose o dei valori, che il contabile aveva in carico.

Va ricordato, infine, che nel caso di deficienze accertate dall’amministrazione o di danni arrecati per fatto addebitabile al contabile la Corte, ovviamente dietro impulso del Pubblico Ministero, può pronunziarsi prima del giudizio di conto.

Questa circostanza e la sostanziale identità degli elementi costitutivi tra responsabilità contabile e amministrativa hanno, di fatto, sminuito la rilevanza del giudizio di conto che, invece andrebbe opportunamente riformato per adeguarlo alla mutata realtà dell’amministrazione pubblica, consentendo così di rendere effettivo il principio costituzionale della verifica sulla corretta gestione del denaro dei contribuenti.

Mario Pischedda


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