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Articoli e note

 

PIPIA FARA

Arricchimento senza causa nei confronti della P.A.: prime riflessioni su un recente intervento normativo.

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Sommario: 1) Considerazioni introduttive 2) Brevi cenni sulla configurazione giurisprudenziale e legislativa dell’istituto 3) La nuova normativa introdotta col decreto legislativo 15 settembre 1997 n. 342 ; 4) Possibili riflessi sulla configurazione dell’istituto 5) Profili di tutela del privato tra doverosità e discrezionalità dell’azione amministrativa

1) - Considerazioni introduttive - La tormentata vicenda dell’istituto dell’arrichimento senza causa nei confronti della P.A. costituisce un classico esempio di difficile convivenza tra le sempre più sentite e pressanti esigenze di tutela del privato e i principi che regolano l’agire della Pubblica Amministrazione.

L’andamento incerto e per molti versi contraddittorio che ha caratterizzato l’evoluzione non solo giurisprudenziale ma anche legislativa dell’istituto, è il risultato dello scontro frontale tra due diverse istanze, da un lato la necessità di applicare regole di matrice civilistica ai rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione, dall’altra la difficoltà di piegare l’azione di quest’ultima, caratterizzata da una ancora forte e preminente dose di autoritatività, agli istituti e ai moduli dello ius civile.

Si tratta di una difficoltà che emerge con tanta più evidenza quanto più numerosi divengono i tentativi di superare il dogma dello ius autoritatis , prerogativa dei pubblici poteri.

Viene subito a mente il fenomeno degli accordi di cui alla l. 241/90, sia quelli cd. endoprocedimentali che quelli sostitutivi del provvedimento.

Salutati con grande entusiasmo dalla dottrina, hanno avuto una scarsa applicazione, e non tanto, come spesso accade, per una scarsa propensione della giurisprudenza, quanto per una difficoltà di tipo "genetico".

Il modulo privatistico e consensuale, se per un verso presenta il pregio di una maggiore dinamicità e una migliore attitudine alla salvaguardia degli interessi dei privati, dall’altro è difficilmente conciliabile con le regole rigide e inderogabili che governano l’azione amministrativa, specie quando di quest’ultima viene indicato non solo il fine, ma oltre all’ an e al quid anche il quomodo .

Ostacoli di ordine teorico, legati alla difficoltà di concepire una negoziabilità dell’agire amministrativo che purtuttavia persegua il fine pubblico, e sia suscettibile di un controllo giurisdizionale, oltre che pratico, dovuti al timore dei funzionari e amministratori di allontanarsi dai consueti binari del provvedimento tipizzato, sembrano allo stato condannare l’istituto degli accordi al limbo della non applicazione.

Tornando all’arricchimento senza causa, qui l’esigenza di carattere equitativo, e rispondente a un superiore principio dell’ordinamento, di evitare un ingiustificato e dunque indebito arrichimento dell’ente pubblico a danno del privato ha spinto dottrina e giurisprudenza ad estendere la fattispecie di cui all’art. 2041 ai rapporti tra P.A. e privati.

La particolare frequenza di tale istituto è dovuta a diversi fattori, quali la necessità di fronteggiare situazioni urgenti che richiedono indifferibili forniture di beni e servizi, il moltiplicarsi, negli ultimi decenni, delle occasioni di "contatto" e di "scontro" tra cittadini e P.A, per effetto del crescente intervento dell’Amministrazione nel tessuto sociale ed economico, e, sul piano sociologico, la più spiccata consapevolezza da parte di questi ultimi dei propri diritti e la conseguente insofferenza degli stessi verso una posizione di supremazia che facilmente si traduce in arbitrio.

 

2) Brevi cenni sulla configurazione giurisprudenziale e legislativa dell’istituto

Per meglio comprendere il significato e la portata dell’ultimo intervento normativo in materia, è opportuno ripercorrere brevemente le pur note vicende che hanno caratterizzato l’arricchimento indebito nei confronti della P.A.

La figura in esame è fondamentalmente di creazione giurisprudenziale, nel senso che non c’è stata una estensione automatica dell’istituto così come configurato dall’art. 2041 c.c, ma un adattamento dello stesso alla peculiarità del soggetto arricchito : la P.A., tanto che la struttura dello stesso ne è risultata in qualche modo modificata .

La giurisprudenza della Cassazione, infatti, preoccupata di tutelare il carattere pubblico degli interessi perseguiti dall’Amministrazione, la natura discrezionale amministrativa della sua attività e i limiti posti al giudice ordinario. dall’art. 4 della legge 2248/1865 all. E, inizialmente richiedeva un atto di riconoscimento formale, contenente appunto l’apprezzamento dell’utilità dell’opera o della prestazione da parte degli organi deliberativi dell’ente pubblico.

Man mano che si è andata consolidando una visione paritaria dei rapporti P.A-privati, tale posizione è stata lentamente abbandonata, ammettendosi un atto di riconoscimento implicito, desumibile da atti dell’Amministrazione aventi differenti finalità, ovvero dalla concreta utilizzazione dell’opera o della prestazione.

A queste aperture giurisprudenziali fanno da contraccolpo gli interventi del legislatore, il quale, preoccupato per le condizioni del pubblico erario, nel tentativo di ridimensionare l’istituto, è più volte intervenuto a porre dei paletti, i quali però sono stati puntualmente aggirati.

Il primo intervento legislativo si è avuto con l’introduzione di una norma che ha sancito il carattere esclusivamente personale dell’obbligazione irritualmente contratta dall’amministratore o funzionario di un ente locale con il privato fornitore. Si tratta dell’art. 23 del D.L. 2 marzo 1989 n. 66 a (convertito con modificazioni nella legge 24 aprile 1989 n. 144), sostanzialmente riprodotto nell’art. 35 del d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77.

Tale normativa è stata generalmente interpretata nel senso che il rapporto obbligatorio per la fornitura di servizi effettuati in violazione delle norme che regolano la formazione dei relativi contratti intercorra validamente soltanto tra il privato e l’amministratore o il funzionario che abbia autorizzato la fornitura, con conseguente esclusiva responsabilità patrimoniale di questi ultimi per le obbligazioni derivanti dai contratti stessi.

Da tale conclusione è stata dedotta la conseguenza che nei casi anzidetti non sussiste il requisito della sussidiarietà richiesto dall’art. 2042 c.c. per l’azione di indebito arricchimento, anche se questo indirizzo maggioritario è stato smentito da qualche isolata pronuncia della giurisprudenza amministrativa ( C.Conti , Sicilia, Sez. giur. , 18 aprile 1996 n. 86, in Riv. C.Conti; C.Conti , Sardegna, Sez.giur.., 18 agosto 1994 n. 311, Foro amm. 1995, 1138; TAR Campania. Sez. IV, Napoli 12 gennaio 1995, ivi, 1370).

In realtà l’ammissibilità o meno di un’azione diretta nei confronti della P.A., discende oltre che dalla interpretazione della normativa pubblicistica in questione, anche dalla ricostruzione del tradizionale istituto dell’arricchimento senza causa. Il requisito della sussidiarietà dell’azione di cui all’art. 2042 è infatti interpretato solitamente in modo assai rigido, proprio in considerazione della sua natura residuale, per cui è sufficiente per escluderne la proponibilità la semplice possibilità dell’esercizio di una diversa azione, indipendentemente dal fatto che quest’ultima possa effettivamente condurre a un risultato utile.

Assolutamente minoritaria la contraria tesi che afferma la ammissibilità dell’azione in esame anche nel caso di insolvenza del soggetto nei cui confronti sia proponibile l’azione tipica,

Numerosi dubbi di legittimità costituzionale della normativa in questione, così come interpretata dalla giurisprudenza, sono stati avanzati ora con riferimento agli artt. 3 e 24, ora con riguardo allo stesso art 28 della Costituzione.

I primi sono stati risolti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 446 del 24 ottobre 1995, dove la legittimità delle norme in esame è stata salvata attraverso un artificioso meccanismo: l’esperibilità dell’actio de in rem verso da parte degli amministratori nei confronti della P.A., e, per conseguenza l’ammissibilità dell’azione surrogatoria contro l’ente da parte del privato, legittimato ad agire utendo iuribus del funzionario (suo debitore).

Ciò che il legislatore ha fatto uscire dalla porta, la Corte Costituzionale ha fatto così rientrare dalla finestra!

Con riferimento invece all’art. 28 della Costituzione, la cui ratio dovrebbe essere quella di offrire maggiori garanzie al privato, dandogli la possibilità di rivolgersi sia all’amministrazione sia ai funzionari per ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese, la interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza dovrebbe essere sufficiente, sul piano sostanziale, ad escludere possibili esiti iniqui delle vicende regolate dalla normativa in esame.

Dal punto di vista teorico, il ritenere responsabile esclusivamente il funzionario, escludendo una responsabilità diretta della P.A, postula una scissione del legame organico tra funzionario e Ammnistrazione, il che in passato accadeva solo nel caso in cui questi agisse con dolo o colpa grave.

Questa ricostruzione è stata fatta propria dalla giurisprudenza della Cassazione, la quale, con una sentenza coeva al d.lgs. 342/1997, ha ricostruito i rapporti regolati dall’art. 23 del d.l. 2 marzo 1989 n. 66, come ipotesi di novazione soggettiva dei contratti, e conseguente scissione del rapporto di immedesimazione organica tra l’amministratore o il funzionario, da una parte, e la P.A., dall’altra, con la conseguente imputabilità del rapporto obbligatorio contrattuale direttamente alla persona fisica dell’amministratore o del funzionario.

Il giudice di Cassazione tanto si è fatto interprete della ratio sottesa alla disciplina in esame, e cioè il risanamento finanziario degli enti locali che, pur definendo incidentalmente tale normativa come una "frattura rispetto al sistema", ha addirittura escluso, (sia pure in un obiter dictum), l’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A., pur nel caso in cui questa abbia riconosciuto, sia pure implicitamente, l’utilità dell’opera o della fornitura.

Infatti, venendo meno il rapporto organico verrebbe meno altresì quella posizione di alternatività o di pariteticità che ex art. 28 Cost. giustifica l’esperimento dell’azione di arricchimento senza causa verso la P.A., nel caso di riconoscimento dal parte di quest’ultima dell’utilità della prestazione.

Ricostruzione alquanto rigida se si tiene conto del fatto che se è accettabile, in considerazione della natura sussidiaria dell’azione di indebito arricchimento, l’esclusione dell’azione diretta verso la P.A. da parte del privato, già titolare di un’azione contrattuale verso il funzionario, è pur vero che il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della fornitura da parte della P.A. va al di là della figura dell’indebito, la quale nella sua struttura non richiede alcun riconoscimento. Il riconoscimento, formale o esplicito, costituirebbe infatti una vera e propria ricognizione di debito, che si porrebbe in posizione paritaria e contrapposta rispetto al rapporto obbligatorio col funzionario, specie ove si riconosca alla ricognizione natura non esclusivamente processuale, ma anche sostanziale.

Già la Corte dei Conti in realtà, al di là di ogni il rigido formalismo e dando prevalenza al principio di efficacia ed effettività dell’azione amministrativa, ha, in alcune innovative pronunce, ammesso la assunzione, mediante sanatoria, da parte della P.A., del debito contratto illegittimamente dal proprio funzionario, quando riconosca che il bene soddisfa esigenze importanti dell’amministrazione stessa.

Risulta infatti arduo seguire la tesi della novazione soggettiva del contratto e dell’interruzione del nesso di immmedesimazione organica, dal momento che, se pure il funzionario ha agito irregolarmente o anche illegittimamente, la riferibilità della sua azione alla amministrazione difficilmente potrà esser posta in dubbio, specie quando quest’ultima se ne è in concreto avvantaggiata.

Tale soluzione è d’altra parte conforme allo spirito che ha guidato il legislatore nella emanazione della nuova normativa.

 

3) La nuova normativa introdotta col decreto legislativo 15 settembre 1997 342

La recente modifica degli artt. 35 e 37 del d. lgs. 25 febbraio 1995 n.77, a opera degli artt. 4 e 5 del d.lgs. 15 settembre 1997 n. 342, sembra infatti accogliere questa linea interpretativa, sconfessando l’interpretazione fornita dalla coeva sentenza della sopra citata Corte di Cassazione.

Si tratta per la precisione di un decreto legislativo emanato in attuazione di una delle tante deleghe contenute nella cd. Bassanini bis, e in particolare nell’art. 9 comma 1 della l. 127/97.

Ancora una volta l’intento è quello di "garantire il rispetto dell’equilibrio finanziario degli enti locali e la corretta gestione delle risorse finanziarie, strumentali e umane, prevedendo (..) disposizioni per garantire il rispetto di idonea copertura finanziaria nelle deliberazioni dei provvedimenti degli enti locali e per contenere il fenomeno dei debiti fuori bilancio".

Prontamente il governo è intervenuto modificando una delle tipologie di debiti fuori bilancio fissate dal’art. 37 del d.lgl. n.77 del 1995. La precedente versione stabiliva che potessero essere riconosciuti dall’amministrazione locale i debiti fuori bilancio derivanti da " fatti e provvedimenti ai quali non hanno concorso, in alcuna fase, interventi o decisioni di amministratori, funzionari o dipendenti dell'ente", e per i quali non era quindi ipotizzabile una loro responsabilità.

L’attuale versione ha ora dato la facoltà agli enti locali di riconoscere i debiti fuori bilancio nel limite dell’indebito arricchimento.

In conseguenza di ciò è stata pure modificata la disposizione di cui all’art. 35 dello stesso decreto legislativo in ordine alla non imputabilità all’ente dell’obbligazione scaturente da impegno di spesa assunto irritualmente per la parte di debito non riconoscibile ai sensi del modificato art. 37.

 

4) Possibili riflessi sulla configurazione dell’istituto

E’ ancora troppo presto per valutare la portata innovativa delle modifiche sopra descritte.

Un dato colpisce subito l’attenzione dell’interprete : la consacrazione legislativa, sia pure implicita, dell’arricchimento senza causa nei confronti della Pubblica Amministrazione.

Si è già detto della origine pretoria di questo istituto, adattato nella sua struttura civilistica alle esigenze della P.A.

Può ora osservarsi che l’espresso riferimento alla utilità e all’arricchimento dell’ente derivante dall’acquisizione di beni e servizi in violazione delle norme giuscontabili che regolano gli impegni di spesa appare come una sorta di riconoscimento legislativo della figura in esame.

In particolare, la terminologia usata dal legislatore, pur in assenza delle espressa dizione "arricchimento senza causa", sembra confermare quella tendenza interpretativa volta a estendere tout court l’istituto di cui all’art. 2041 c.c ai rapporti tra privati e P.A, prescindendo sempre più dal requisito, per la verità estraneo all’istituto civilistico, del riconoscimento.

Ci si chiede a tal proposito se la lettera della legge abbia o possa avere un qualche significato, quantomeno sul piano interpretativo.

Dal momento che non è stata usata la dizione "riconosciuti," bensì "accertati", e, per la prima volta compare il termine "arricchimento", con una evocazione diretta della corrispondente figura prevista dal cod. civ., potrebbe ritenersi che l’indirizzo giurisprudenziale teso a prescindere il più possibile dal requisito del riconoscimento possa, in ragione di ciò, ricevere nuovo impulso.

Tanto più che il termine "accertamento" pare riferirsi non tanto a una valutazione discrezionale, quale potrebbe essere il riconoscimento dell’utilità, ma ad una operazione di ricognizione che postula l’esercizio di discrezionalità non amministrativa ma tecnica., Il che è confermato dalla finalità esclusivamente contabile della disposizione in esame.

Dal punto di vista teorico la modifica così introdotta impone una rimeditazione della struttura della fattispecie prevista prima dalla legge 144, poi dall’art. 35 del d.lgs. 77.

E’ chiaro che non regge più la ricostruzione della vicenda come novazione soggettiva, né più si giustifica la supposta interruzione del rapporto organico funzionario-amministrazione.

La possibilità da parte dell’ente di regolarizzare il debito è indice proprio della riferibilità dello stesso alla propria sfera soggettiva.

Per chiarezza espositiva occorre distingue le diverse ipotesi che potrebbero in concreto verificarsi, prescindendo per un attimo dalla doverosità o meno della sanatoria del debito, e dai profili di più o meno marcata discrezionalità di tale sanatoria.

Nel caso in cui effettivamente l’ente locale, dando attuazione alla disposizione di legge, riconosca il debito fuori bilancio, il rapporto che scaturisce dal contratto irritualmente posto in essere verrebbe ad avere una duplice direzione soggettiva: per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art. 37 resterebbe imputato al funzionario che ha ordinato la spesa, per la parte riconosciuta diverrebbe debitore l’ente locale.

Se invece l’amministrazione non dovesse procedere a tale regolarizzazione si ripropongono tutti i problemi ermeneutici e operativi cui la giurisprudenza ha in passato tentato di porre rimedio.

Le soluzioni prospettabili però sono alquanto diverse. Non regge più la tesi della improponibilità dell’azione diretta di arricchimento nei confronti della P.A., e della esclusiva riferibilità del rapporto al funzionario. Il privato ben potrà agire nei confronti della P.A. per l’indebito arricchimento, e potrà altresì rivolgersi al funzionario per tutto ciò che non può ritenersi compreso nell’arricchimento., anche se non è del tutto chiaro quale sia il titolo giuridico di tale azione

 

5) Profili di tutela del privato tra doverosità e discrezionalità dell'azione aministrativa.

Un interessante interrogativo concerne la sorte che subirà, in virtù di questa rivisitazione normativa dell’istituto, la posizione del privato cittadino che, per sua disavventura, (e in qualche caso, forse anche negligenza) si trovi ad aver irritualmente contrattato con l’ente locale .

Posto che nel caso di acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi giuscontabili il rapporto obbligatorio tra funzionario e privato intercorre solo per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art. 37 comma 1 lettera e), deve desumersi, stando alla lettera della legge, che quest’ultimo non potrà agire, come in precedenza poteva, per l’intero contro il responsabile.

La dizione normativa suggerisce infatti una sorta di sdoppiamento del rapporto, per cui la parte riconoscibile dell’obbligazione scaturente dall’impegno di spesa resterebbe imputata alla P.A., quella non riconoscibile (id est quanto eccede, nei limiti del depauperamento, l’effettivo incremento patrimoniale della P.A.) sarebbe riconducibile al funzionario.

Un’altra interpretazione , meno formalistica e più attenta alle esigenze di tutela del privato, è però prospettabile.

In base a tale interpretazione il significato della novella dovrebbe ricondursi entro un ambito strettamente contabile, non incidente sulla sostanza dell’istituto così come risultante dalla originaria dizione normativa e dalla prassi giurisprudenziale, e il rapporto rimarrebbe strutturato, dal punto di vista soggettivo e per l’intero, sul binomio privato-funzionario responsabile.

La vera novità della modifica legislativa risiederebbe cioè nella possibilità per gli enti di riconoscere i debiti fuori bilancio, regolarizzando così la propria situazione dal punto di vista contabile.

Accedendo a questa tesi, preoccupata di evitare nuovi sconvolgimenti nell’assetto dell’istituto così faticosamente raggiunto, resta tuttavia l’ostacolo derivante dalla impossibilità di attribuire un qualche significato all’espressione " per la parte non riconoscibile" inserita nell’art. 35.

Unico modo per superare l’impasse è quello di non considerare decisiva la lettera della legge , intendendo per parte non riconoscibile, la parte non riconosciuta del debito, il quale in via primaria resterebbe imputato al funzionario, essendo il riconoscimento una mera eventualità che va semplicemente a ridurre il quantum dovuto dal pubblico impiegato.

Altro quesito, che l’art. 37 nella nuova formulazione, ripropone è quello della natura discrezionale o meno del riconoscimento del debito fuori bilancio.

Utili elementi interpretativi si traggono dalla circolare del Ministero dell’interno del 14 novembre 1997. ma dalla lettura della legge, alla luce di tale documento, emerge un quadro in un certo senso contraddittorio della vicenda.

Per un verso, infatti, la circolare depone per la discrezionalità del riconoscimento, laddove accenna a una facoltà concessa agli enti locali di riconoscere i debiti fuori bilancio nel limite dell’indebito arricchimento, richiamando l’attenzione sul fatto che la relativa deliberazione consiliare deve fornire la concreta prova dell’utilità, congiunta all’arricchimento per l’ente.

Da altro punto di vista la lettura sistematica della disposizione della lettera e) dell'art 35 suggerisce riflessioni del tutto diverse.

Intanto l'esordio dello stesso art 35, sembra prescindere da eventuali profili di discrezionalità nella misura in cui si esprime dicendo che "l'ente locale riconosce i debiti fuori bilancio derivanti da."

Rafforza tale convincimento la natura dei debiti o meglio dei fatti da cui essi originano, nell'ambito dei quali è inserito il debito derivante dall'arricchimento senza causa.

Si tratta infatti di ipotesi che prescindono del tutto dall'esercizio di una pur minima discrezionalità da parte dell'ente., e il loro perfezionamento è del tutto svincolato a una qualsiasi manifestazione di volontà da parte di esso.

Troviamo infatti , debiti derivanti da sentenze passate in giudicato o comunque immediatamente esecutive; disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, perdite di società… di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali; nei limiti e nelle forme previste dallla legge, procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;

Tutto ciò depone per la doverosità del riconoscimento del debito da arricchimento senza causa, la cui fattispecie perfezionativa deriva da un fatto di cui l'amministrazione dovrebbe limitarsi a prendere atto, e rispetto al quale ha uno spatium deliberandi veramente minimo.

Questa conclusione è confermata da quella parte della già citata circolare in cui si dice, con riferimento ai requisiti della utilità e dell'arrichimento , che " devono coesistere, cioè il debito fuori bilancio deve essere conseguente a spese effettuate per le funzioni di competenza dell’ente, fatto che ne individua l’utilità, e deve esserne derivato all’ente un arricchimento"

La struttura così descritta prescinde dal requisito del riconoscimento, ricalcando perfettamente quella contenuta dall'art. 2041 c.c: l'accertamento dell'utilità è ancorato a un elemento oggettivo , derivando direttamente dal legame tra l’acquisizione del bene e del servizio e le funzioni di competenza dell’ente, mentre l'accertamento dell’arricchimento, per sua natura, richiede una semplice attività di acclaramento o al più di discrezionalità tecnica, mai amministrativa.

Concludendo, una nuova pagina si è aperta sulla intricata vicenda dell’arricchimento ingiustificato della P.A.

Non resta che attendere, curiosi, di leggerne il contenuto.

 

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(1) E’ stato così affermato (" Salvatore Alberto Romano, Indebito arricchimento nel diritto amministrativo in Dig.disc.pubbl. vol.VIII p.210) che "allo stato attuale il c.d. indebito arricchimento della Pubblica Amministrazione realizza in realtà una figura giuridica distinta da quella disciplinata dall’art. 2041 del c.c. pur se riconducibile ad un principio generale di equità di cui è espressione anche l’art. 2041. Siamo, cioè, di fronte ad una figura di origine giurisprudenziale che, nella sua autonomia , pone problematiche applicative diverse da quelle che suscita l’art. 2041, e per molti versi si avvicina ad una forma di riconoscimento di debito

(2) Per una esauriente disamina v..la nota alla sent. Tribunale di Palermo I sez.civ. 19 luglio 1996, n. 2217, di Maria Cristina Cavallaro, nella rivista Nuove Autonomie 1/98.

(3) Corte Cass., sez. I, 17 settembre 1997 n. 9248, in Giust.civ. n.1, I pag. 66.

(4) Corte dei Conti, sez. giur. Veneto - 28 dicembre 1995, nella rivista Nuove Autonomie 5-6/98, p.924


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