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n. 5/2005 - © copyright

SERGIO  PIGNATARO
(Università di Bari)

 Le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura
tra Scilla e Cariddi dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001

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La Costituzione italiana vigente non fa cenno alcuno alle “Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura” e nemmeno menziona la locuzione “autonomie funzionali” alla quale queste sono riconducibili unitamente alle Università degli studi [1].

Tale circostanza pone sul tappeto un importante problema, di non facile soluzione, ossia quale debba essere il soggetto competente, ed in quale misura, a dettare le norme, di grado legislativo e, conseguentemente, regolamentare, concernenti l’ordinamento, l’organizzazione, le competenze, le funzioni, le attribuzioni delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.

A questo punto, risulta necessario stabilire, quantomeno in base alla configurazione legislativa che tali enti rivestono attualmente nell’ordinamento italiano, la loro natura [2].

È bene precisare che le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura hanno trovato una loro definizione organica sul piano della legislazione con la legge 29 dicembre 1993, n. 580 [3].

Essa suggella il ruolo di centralità che tali enti hanno assunto nei confronti delle imprese.

La legge, al comma 1 dell’art. 1, definisce le Camere di commercio “enti autonomi di diritto pubblico che svolgono, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali” [4].

In tal modo, si provvede a “rompere” definitivamente il legame che le univa, inscindibilmente, al ministero dell’industria, commercio e artigianato (ora ministero delle attività produttive), omologandole ad apparati dell’amministrazione statale [5].

Si sancisce, quindi, l’indipendenza da ogni condizionamento del potere esecutivo e dall’indirizzo governativo, che si sostanzia in potestà normativa, in autonomia organizzativa e di gestione, finanziaria e contabile[ 6].

Tradizionalmente la migliore dottrina ha ricompreso le Camere di commercio tra gli enti locali non territoriali [7]. Locali perché le loro competenze e attribuzioni concernono precipuamente l’ambito provinciale ove sono localizzate; non territoriali perché, per gli enti camerali, il territorio costituisce soltanto l’ambito spaziale entro il quale esse vengono esercitate.

Si è, infatti, autorevolmente rilevato che l’espressione enti locali sia comprensiva di ogni ente che operi prevalentemente su un piano locale e che sia destinato a curare interessi e perseguire fini aventi una dimensione locale [8].

Per la verità, l’art. 1, comma 4, lett. d), della legge n. 59 del 1997 qualifica le Camere di commercio quali enti esplicanti, sia pur “localmente”, compiti “in regime di autonomia funzionale”, volendo, probabilmente, evidenziare l’ambito ultraregionale delle funzioni amministrative e delle attività promozionali da esse poste in essere a favore delle imprese.

Pur tuttavia, la medesima legge, all’art. 3, comma 1, lett. b), riconduce su base prettamente locale le Camere di commercio, facendo riferimento testuale agli “enti locali, territoriali o funzionali”.

A riguardo si è espressa, pure, abbastanza di recente, la Corte costituzionale che, con sent. 8 novembre 2000, n. 477 [9], ha, invero, dichiarato l’illegittimità di una loro configurazione quali “enti locali non territoriali” – contenuta nella legge regionale sottoposta al suo sindacato – in quanto eccessivamente generica e, dunque, compatibile con soluzioni istituzionali negatrici di ogni manifestazione di autonomia propria delle Camere di commercio.

La Consulta ha, tuttavia, chiarito la natura di “ente pubblico locale” dotato di autonomia funzionale, di natura non strumentale, non riconducibile né all’amministrazione statale, né a quella territoriale, ufficializzando l’ingresso delle Camere di commercio, a pieno titolo, “nel sistema dei poteri locali, secondo lo schema dell’art. 118 della Costituzione”.

Peraltro, alla concezione di enti locali, elaborata dalla dottrina più antica, si è in seguito obiettato come esistano alcuni enti che non possono, a rigore, classificarsi né fra quelli locali, né fra quelli nazionali, in quanto, pur avendo sede in una determinata città e provincia e svolgendo la loro attività preferibilmente a vantaggio dei rispettivi abitanti, estendono questa a qualunque persona, senza distinzione di origine e di residenza [10].

Tale critica, però, per quanto aderente alla realtà, non è parsa comportare il ripudio dell’originaria definizione di ente locale, ma solo una correzione, riferendo, quindi, la natura locale dell’ente, in relazione allo svolgimento prevalente, e non esclusivo, della sua attività entro una circoscrizione territoriale più ristretta di quella nazionale.

Sul punto, ha avuto modo di esprimersi il Consiglio di Stato il quale ha sostenuto che il carattere locale di un ente non può essere determinato esclusivamente sulla base dell’ampiezza della circoscrizione territoriale in cui opera, ma deve essere individuato con riguardo ai suoi compiti e agli interessi pubblici dei quali assicura il soddisfacimento [11].  

Ritornando alla natura giuridica dell’ente camerale, si è sostenuto come si tratti di un “ente pubblico associativo” [12] analogo ad un Ordine professionale, in quanto ad esso aderiscono tutti coloro che hanno la qualifica di imprenditori.

In dissonanza, taluno [13] ha sottolineato come le Camere di commercio non presentino la caratteristica tipica degli enti associativi, che si sostanzia nella volontarietà dell’adesione, sull’assunto che l’appartenenza agli enti camerali è automatica per tutti coloro che sono iscritti (o annotati) nel registro delle imprese e parimenti obbligatoria è la contribuzione alle spese di funzionamento degli stessi [14].

Tuttavia, a nostro avviso, tale impostazione non è particolarmente convincente, in quanto pare innegabile che così come per esercitare un’attività d’impresa, individuale o collettiva (industriale, commerciale, agricola o artigianale) è necessario essere iscritti (o annotati) nel registro delle imprese della Camera di commercio territorialmente competente, per esercitare una libera professione (avvocato, commercialista ecc.), bisogna, parimenti, essere iscritti nel relativo albo e, quindi, far parte dell’Ordine professionale e pagarne la tassa di iscrizione e conservazione. Di contro come un’impresa può essere iscritta (o annotata) nel registro delle imprese della Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e non essere attiva, anche un professionista può essere iscritto al relativo albo professionale e non esercitare la professione.

Pertanto, a nostro modo di vedere, non può negarsi alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura la qualifica di enti associativi.

Gli enti camerali vanno pure inquadrati nel novero degli enti “esponenziali” perché rappresentano gli interessi economici della rispettiva provincia [15].

Va aggiunto che, allorché la Camera di commercio gestisce direttamente alcuni servizi (come le borse, i magazzini generali ecc.), essa assume la configurazione di “ente di servizi”. Ma ciò non è sufficiente per attribuire all’ente stesso la qualifica di “ente pubblico economico”, giacché, anche quando istituisce strutture di interesse economico, sia direttamente, sia mediante la partecipazione ad enti e società o aziende da essa costituite ed operanti secondo le norme di diritto privato, ex art. 2, comma 2, della legge n. 580 del 1993, le sue funzioni principali sono di carattere “non imprenditoriale” [16].

Non a caso le Camere di commercio si configurano, invece, come enti autarchici [17], in quanto detengono la possibilità di esercitare funzioni amministrative aventi gli stessi caratteri ed effetti di quelle proprie dello Stato.

Ciò premesso occorre concentrare l’attenzione sull’art. 117 Cost., come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 [18].

Il comma 2 indica le materie di competenza legislativa esclusiva statale.

Il successivo comma 3 elenca quelle di competenza legislativa concorrente, in cui lo Stato pone i principi fondamentali ispiratori della materia e le Regioni, nel rispetto di tali principi, le disposizioni ulteriori di completamento. In caso di assenza di una espressa legislazione statale di principio, le Regioni legiferano nel rispetto dei principi desumibili dalle leggi statali vigenti.

Il comma 4 fissa il criterio di residualità, sancendo il principio secondo cui le materie che non figurano espressamente tra quelle di competenza esclusiva statale, ovvero concorrente, sono di competenza (esclusiva) delle Regioni.

Peraltro, sia la legislazione statale che quella regionale incontrano, ai sensi del comma 1 dell’art. 117, Cost., i medesimi limiti costituiti dal rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Infatti, anche se la dottrina e la giurisprudenza sono tutt’altro che univocamente schierate, non è più da ritenersi sussistente, per la legislazione regionale, il limite dell’interesse nazionale[19], a cui faceva riferimento esplicito il vecchio testo dell’art. 117 Cost. [20].

Risulta, inoltre, controversa la permanenza, per le Regioni, del limite delle leggi statali di principio aventi valore di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, originariamente coniato per le Regioni a statuto speciale, anche se risulta prevalente la soluzione affermativa [21].

Il comma 6 dell’art. 117 Cost., comunque, fissa il criterio per stabilire la spettanza della potestà regolamentare che è statale, nelle materie di esclusiva competenza legislativa dello Stato, salvo delega alle Regioni; è, invece, inderogabilmente regionale in tutte le altre materie (concorrenti e regionali esclusive).

Per la verità, la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale ha precisato che l’interpretazione da dare all’art. 117 Cost. non deve essere puramente formale o letterale, nel senso che vi sono materie di competenza statale che hanno valore trasversale, ossia investono più ambiti [22].

Sicuramente esistono, tra i compiti e le attribuzioni attualmente allocati in capo agli enti camerali, numerose branche riconducibili, pacificamente, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

È il caso delle funzioni e delle competenze relative al registro delle imprese, istituito dalla legge n. 580 del 1993 in attuazione dell’art. 2188 e seguenti, Cod. civ., essendo il diritto d’impresa, ovvero il diritto societario di pertinenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost., e la funzione del registro delle imprese assimilabile a quella anagrafica ex art. 117, comma 2, lett. i), Cost.

Le attribuzioni in materia di ambiente e smaltimento rifiuti si correlano alla materia legislativa esclusiva statale della “tutela dell’ambiente” e dell’“ecosistema” di cui all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.

Analogo ragionamento può farsi in riferimento alle funzioni inerenti i promotori dei servizi finanziari, i protesti cambiari, le borse immobiliari e le borse merci, attinenti alla tutela dei mercati finanziari, della concorrenza e del risparmio ex art. 117, comma 2, lett. e), Cost.

Le attribuzioni concernenti la costituzione di commissioni conciliative e arbitrali per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori ed utenti, la predisposizione di contratti tipo, il controllo avverso le clausole abusive o inique inserite nei contratti, la repressione della concorrenza sleale e la costituzione di parte civile nei giudizi relativi ai delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, nonché le competenze in materia di marchi e brevetti si innestano nelle previsioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. e), Cost. (tutela della concorrenza e dei mercati finanziari), 117, comma 2, lett. l), Cost. (norme processuali, ordinamento civile e penale) e 117, comma 2, lett. r), Cost. (opere dell’ingegno).

Le funzioni riguardanti la metrologia legale, alla lett. r) del comma 2 dell’art. 117 Cost., in ordine alla determinazione di quanto attiene ai “pesi” ed alle “misure”.

La lett. l) del comma 2 dell’art. 117 Cost., e, segnatamente, l’ordinamento civile, potrebbe essere richiamata anche a proposito del rapporto di impiego “privatizzato”, a seguito del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, del personale dipendente, nonché con riferimento al regime giuridico proprio dei beni di proprietà dell’ente (palazzi, arredi, mezzi materiali).

Le competenze dei settori che si occupano di effettuare l’elaborazione di studi, censimenti, statistiche, prezzi, mercuriali, raccolta di usi ecc. potrebbero riconnettersi all’art. 117, comma 2, lett. r) Cost. (coordinamento del sistema informativo e statistico), oltre che collegarsi alla materia di cui all’art. 117, comma 2, alla lett. l), Cost., ossia l’ordinamento civile, per quel che attiene la raccolta degli “usi commerciali”.

Un discorso abbastanza simile potrebbe riguardare il tributo camerale denominato “diritto annuale”.

La disciplina di principio concernente gli aspetti fondamentali del tributo dovrebbe essere rimessa allo Stato, stante il disposto dell’art. 117, comma 3, Cost., che affida allo Stato una legislazione concorrente in materia di “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.

Allo stesso modo ricadono nel comma 3 dell’art. 117 Cost. le competenze legislative concorrenti in tema di “commercio con l’estero”, nonché “sostegno all’innovazione per i settori produttivi” e, infine, “alimentazione” a cui sono sicuramente riconducibili le attribuzioni inerenti la panificazione e quelle attinenti ai prodotti della filiera agricola (frutta, ortaggi, verdure ecc.), ai prodotti ittici, carnei ecc.

Similmente, le funzioni amministrative in merito alla tenuta dei ruoli abilitanti (periti ed esperti) possono essere agganciate all’art. 117 comma 3, Cost., che prevede una competenza legislativa concorrente Stato-Regioni in materia di “professioni”, essendo l’inserimento nel ruolo di tali figure finalizzato all’esercizio di un’attività di carattere professionale.

Alle ipotesi elencate, potrebbero aggiungersi i compiti assegnati agli enti camerali in materia di lavoro (es. commissione provinciale per l’emersione del lavoro non regolare) che possono ritenersi rientranti nella competenza legislativa concorrente, prevista sempre dall’art. 117, comma 3, Cost., in tema di “tutela e sicurezza del lavoro”.

Nei casi predetti lo Stato potrebbe intervenire mediante l’adozione di leggi contenenti i principi fondamentali della materia, mentre le disposizioni legislative integrative e la normativa regolamentare competerebbero alle Regioni.

Più arduo appare ricondurre altri settori camerali nel novero degli ambiti rimessi dal legislatore costituzionale del 2001 a materie di legislazione statale, esclusiva e concorrente.

Ci si potrebbe spingere fino ad ammettere una competenza implicita a dettare norme aventi valore essenzialmente di principi generali dell’ordinamento della Repubblica, in merito alle Camere di commercio, desumendola dall’art. 120, comma 2, Cost., laddove si fa riferimento alla “tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica” per legittimare un potere sostitutivo del Governo [23].

Se ne dovrebbe dedurre, a rigore, che laddove vi siano materie che non trovano un sicuro aggancio costituzionale che le ancori alla potestà legislativa statale, esclusiva o concorrente, esse dovranno essere rimesse, ipso jure, alla volontà dei singoli legislatori regionali.

È il caso degli organi istituzionali camerali (presidente, consiglio, giunta, collegio dei revisori dei conti), delle loro funzioni, del sistema elettorale preordinato alla loro costituzione, della durata dei componenti, delle ipotesi di ineleggibilità e di incompatibilità, della determinazione degli emolumenti ecc.

La legislazione regionale esclusiva potrebbe interessare svariati campi come, ad esempio, il tema dell’“industria”, del “commercio interno”, dell’“artigianato” ecc.

Tuttavia, tracciato un quadro generale conforme alla formulazione di cui all’art. 117 Cost., merita risalto un recentissimo orientamento del Consiglio di Stato, sez. consult. atti normativi, 10 gennaio 2005, n. 150/2001[24], chiamato a dare parere sullo schema del nuovo regolamento statale recante la disciplina della gestione patrimoniale e finanziaria delle Camere di commercio, che sostituirebbe quello adottato con decreto ministeriale 23 luglio 1997, n. 287.

Il massimo organo di consulenza giuridico-amministrativa della Repubblica ha affrontato, preliminarmente, la questione della legittimità dell’esercizio del potere regolamentare da parte dello Stato nella materia de qua, alla luce della riforma recata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, risolvendola positivamente sulla base di argomentazioni, per la verità, dal fondamento assai dubbio.

In primis, ha evidenziato come “la struttura associativo-territoriale delle Camere di commercio fa da substrato all’esercizio di funzioni generali, di natura certamente pubblica, disciplinate dalla legge in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale ed alimentate da forme di prelievo parafiscale, tipiche dell’esercizio dei poteri autoritativi, riconducibili all’ambito di applicazione del principio di legalità di cui all’art. 23 della Costituzione”.

Il parere richiama, in premessa, l’art. 117, comma 2, lett. g) Cost., che ascrive alla legislazione statale esclusiva “l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.

Ora, è vero che gli enti camerali, pur localizzati sul territorio, esercitano funzioni di rilievo nazionale e con effetti sull’intero territorio della Repubblica. Pare eccessivo, tuttavia, avallare l’ipotesi che ogni singola Camera di Commercio operante sul territorio della Repubblica, potendo espletare funzioni (il riferimento è segnatamente a quelle promozionali) che trascendono l’ambito locale o regionale e che riverberano effetti sull’intero territorio nazionale, si debba considerare, ipso facto, addirittura, “ente nazionale”.

Tale conclusione, che assegnerebbe allo Stato il potere di dettare norme legislative e regolamentari, evidentemente a tutto campo, in relazione alle Camere di commercio, pare, dunque, molto discutibile.

L’istituzione delle Camere di Commercio è, infatti, obbligatoria in ogni provincia.

Il caso dell’accorpamento tra due o più enti camerali è del tutto eventuale e, comunque, non incide sull’essenza del problema.

Dunque, sul territorio nazionale è presente una rete di Camere di commercio, ciascuna avente funzioni e compiti prefigurati in modo pressoché uniforme dalla legislazione ed operante, prevalentemente e precipuamente, in favore della rispettiva comunità di cittadini e di imprenditori.

Tale circostanza, considerata accanto al notevole grado di autonomia posseduto da ciascuna Camera di commercio nei confronti del ministero di riferimento, dovrebbe escluderne il carattere di “ente pubblico nazionale”, sicuramente detenuto, invece, dall’Unione Italiana delle Camere di commercio.

Una seconda argomentazione andrebbe ad integrare la precedente.

Si osserva che lo Stato, a mente dell’art. 117, comma 2, lett. e), Cost., ha potestà legislativa esclusiva in materia di “tutela della concorrenza”.

Si evidenzia, a riguardo, che una simile funzione “viene garantita, su tutto il territorio nazionale, in modo particolare attraverso la tenuta e l’aggiornamento, secondo le leggi in vigore, del registro delle imprese, che trova come fonti di finanziamento il diritto annuale e i diritti di segreteria”.

Alle Camere di commercio sono affidate “delicate ed importanti funzioni di indirizzo, promozione, formazione e stimolo del tessuto imprenditoriale, a partire dalla tenuta del relativo registro, funzioni finalizzate alla realizzazione di condizioni di mercato segnate da trasparenza e stabilità informativa: elementi questi fondamentali per il buon funzionamento della infrastruttura giuridica-immateriale costituita dal mantenimento e dallo sviluppo di condizioni di libera concorrenza”.

Tutto ciò, in sintesi, presupporrebbe una stretta correlazione con i criteri di gestione finanziaria e patrimoniale degli enti camerali.

Questa seconda conclusione, ancorché autorevolmente rappresentata, appare abbastanza fragile.

In primo luogo sostenere che la funzione propria del registro delle imprese sia la tutela della concorrenza appare un’affermazione forzosa.

In effetti, il regime pubblicitario a cui sono soggette le imprese potrebbe influire, in modo meramente indiretto, sul sistema di libera concorrenzialità tra le stesse. Certamente, però, tale finalità produce effetti all’esterno, verso il mondo degli operatori economici, mentre la gestione patrimoniale e finanziaria delle Camere di commercio attiene a forme e criteri di gestione da applicarsi all’interno di ciascuna realtà camerale.

Vieppiù, la potestà regolamentare ha carattere di perfetta simmetria rispetto a quella legislativa, per cui deve attenere strettamente la medesima materia primaria di cui deve integrare e completare, in dettaglio, le prescrizioni.

Ora, la materia della gestione patrimoniale e finanziaria delle Camere di commercio nulla ha a che vedere con la tutela della concorrenza.

Ad onor del vero, riteniamo fermamente che il legislatore costituzionale sia incorso di certo in errore non menzionando le Camere di commercio, ovvero gli enti di autonomia funzionale, nel novero delle materie in cui sussista una competenza legislativa esclusiva statale [25].

Sicuramente sarebbe stato opportuno prevedere, in favore dello Stato, la competenza legislativa esclusiva in merito alla determinazione delle norme generali concernenti le Camere di commercio, facendo residuare in capo a queste ultime un ampio margine di autonomia normativa (statutaria e regolamentare) in ossequio ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, consacrati nell’art. 118 della Costituzione vigente [26].

Ma l’orientamento interpretativo del massimo consesso amministrativo appare senz’altro travalicare il dettato costituzionale e, quindi, prestare il fianco a numerose critiche.

Concludendo, a nostro modo di vedere, la materia delle Camere di commercio si presenta, assai inopportunamente, a carattere misto (statale e regionale).

In altri termini, nelle materie per le quali sussista copertura costituzionale a favore della legislazione esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, Cost., la potestà legislativa spetta allo Stato, come pure quella regolamentare. Quest’ultima, però, potrebbe essere delegata alle Regioni ex art. 117, comma 6, n. 1, Cost.

Ove non sia riscontrabile, per la natura delle funzioni e dei servizi esercitati e per la tipologia dell’oggetto disciplinato, un preciso ancoraggio alle materie espressamente indicate nell’art. 117, commi 2 e 3, Cost., è da ritenersi che la potestà legislativa e regolamentare spetti unicamente alle singole Regioni ex commi 4 e 6, n. 2, del medesimo articolo della Carta fondamentale.

Ove vi sia un addentellato che radichi una competenza legislativa concorrente Stato-Regioni, le norme di completamento dei principi fondamentali tracciati dal legislatore statale o desumibili dal tessuto legislativo statale, nonché la potestà regolamentare, saranno di matrice regionale, a mente dei commi 3 e 6, n. 2, dell’art. 117 Cost.

Il che lascia alquanto perplessi, in quanto pone il sistema camerale in un autentico caos normativo.

Motivo per cui, sembrerebbe senz’altro auspicabile un intervento correttivo sull’art. 117 Cost. che, nella direzione prima indicata, sia idoneo a dissipare ogni incertezza e ad evitare uno spaventoso intreccio e una quanto mai probabile sovrapposizione tra norme legislative e regolamentari, statali e regionali [ 27].


 

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[1] Tale denominazione rinviene, per entrambe le amministrazioni, nell’art. 1, comma 4, lett. d) della legge 15 marzo 1997, n. 59, laddove si fa riferimento testuale ai “compiti esercitati localmente, in regime di autonomia funzionale, dalle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e dalle Università degli studi”.

Sulle Università degli studi si veda l’art. 33 Cost.

[2] In generale, sugli enti pubblici, si vedano Rossi G., Gli enti pubblici, Bologna, 1991; Cerulli Irelli V.-Morbidelli G. (a cura di), Ente pubblico ed enti pubblici, Torino, 1994.

[3] Sulle Camere di commercio, si vedano, tra gli altri, Molteni F., voce Camera di commercio, industria e agricoltura, in Enc. dir., Milano, 1959, vol. V, pp. 957 ss.; Zuelli F., voce Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in Noviss. dig. it., Torino, 1980, App., vol. I, pp. 982 ss.; Pizzi A., voce Camere di commercio, in Dig. disc. pubbl., Torino, 1987, vol. II, pp. 446 ss.; Giovannini G., voce Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in Enc. giur., Roma, 1988, vol. V, pp. 1 ss.; Gessa C., Il profilo giuridico delle Camere di commercio (spunti di riflessione), in Dir. economia, 1989, pp. 417 ss.; Voci P., La riforma delle Camere di commercio, in Giorn. dir. amm., 1995, pp. 674 ss.; Sepe O., Il sistema organizzativo delle Camere di commercio in Italia, in Dir. economia, 1996, pp. 319 ss.; Teatini, M.E., Il nuovo ordinamento delle Camere di commercio, Padova, 1996; Selmin A. (a cura di), Le nuove Camere di commercio nella legge di riforma 29 dicembre 1993, n. 580. L'ordinamento, Padova, 1996, vol. 1; Id. (a cura di) Le nuove Camere di commercio nella legge di riforma 29 dicembre 1993, n. 580. Le funzioni amministrative, Padova, 1997, vol. 2;  Fricano R., Le Camere di commercio in Italia, Milano, 1997; Ferrari G. F. (a cura di), Le Camere di commercio e le innovazioni normative di cui alla legge n. 580 del 1993, Milano, 1997; Guzzardo G., Le nuove Camere di commercio, Bari, 2000; Cassese S., Le Camere di commercio e l’autonomia funzionale, Unioncamere, Roma, 2000; Pastori G., Significato e portata della configurazione delle Camere di commercio come autonomie funzionali, Unioncamere, Roma, 2000; Bilancia P.-Pizzetti F:, Le Camere di commercio in Italia e in alcuni Paesi dell’Unione europea. Studio sulle autonomie funzionali, Unioncamere, Roma, 2000; Poggi A., Le autonomie funzionali tra sussidiarietà verticale e orizzontale, Milano, 2002; Gallo C.E.-Poggi A. (a cura di), Le autonomie funzionali:il dibattito sulla governance in Europa e le riforme costituzionali in Italia, Milano, 2002; Antonini L., Le Camere di commercio tra attuazione della riforma del titolo V della Costituzione e nuova potestà statutaria regionale, Unioncamere, Roma, 2003; Grande A., Legge costituzionale n. 3 del 2001 e Camere di commercio: tra occasione perduta e opportunità da cogliere, in Dir. economia, 2003, pp. 407 ss.; Antonini L., Il cammino costituzionale delle Camere di commercio, Unioncamere, Roma, 2004; D’atena A., Le autonomie funzionali tra riforma del titolo V e “riforma della riforma”, Unioncamere, Roma, 2004; Torretta P., Camere di commercio ed enti territoriali: dalla specificità dei rispettivi ruoli all’integrazione in un modello di cooperazione nel sistema di governo locale, in Foro amm. T.A.R., 2004, pp. 2776 ss.

[4] A comprova del riconoscimento alle Camere di commercio di un ruolo istituzionale di notevole spessore si consideri:

-  la possibilità, sancita dall’art. 2, comma ,1 della legge n. 580 del 1993, di ricevere deleghe, sia dallo Stato che dalle Regioni;

-  la possibilità, conferita dalla medesima norma appena citata, di svolgere funzioni a seguito di convenzioni internazionali;

- la possibilità, prevista dall’art. 2, comma 3, della legge n. 580 del 1993, di partecipare agli accordi di programma di cui all’attuale art. 34 del testo unico degli enti locali (decreto legislativo 18 agosto 2000,  n. 267).

[5] In questi termini Torretta P., cit., pp. 2776-2777.

[6] L’autonomia delle Camere di commercio si concreta, in particolare:

-  nella possibilità, ad esse riconosciuta dall’art. 3 della legge n. 580 del 1993, di darsi un proprio statuto e di adottare, a mente dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 59 del 1997, introdotto dalla legge 16 giugno 1998, n. 191, propri regolamenti (autonomia normativa);

-  nella capacità di darsi una struttura organizzativa, a norma dell’art. 2, comma 2, legge n. 580 del 1993, e di decidere il proprio programma di azione senza dipendere da direttive ministeriali e senza essere sottoposte a forme paralizzanti di controlli in conformità all’art. 4 della legge n. 580 del 1993 ed in virtù dell’art. 37, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (autonomia organizzativa e gestionale);

- nella capacità di imporre propri tributi ex art. 18 della legge n. 580 del 1993 e di provvedere a impiegare le proprie risorse finanziarie secondo i criteri contenuti nel bilancio predisposto ed approvato dai propri organi di direzione (autonomia finanziaria e contabile).

[7] V., per tutti, Martines T., Diritto costituzionale, Milano, 1992, pp. 172 e 419; Staderini F., Diritto degli enti locali, Padova, 2003, p. 8; Virga P., Diritto amministrativo. Amministrazione locale, Milano, 1998, vol. 3, pp. 335 ss.

Secondo Romano S., Principi di diritto amministrativo, Milano, 1912, p. 176, gli enti locali sarebbero quegli enti la cui azione è circoscritta ad una parte soltanto del territorio statuale.

[8] Così Staderini F., cit., p. 15.

[9] La sentenza è reperibile sul sito www.giurcost.it

[10] In questi termini Zanobini G., Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, vol. I,  p. 127; Treves G., L’organizzazione amministrativa, Torino, 1967, p. 151.

[11] In tal senso Consiglio di Stato, sez. IV, 20 gennaio 1965, n. 43, in Cons. Stato, 1965, I, p. 35. Secondo questi criteri sono stati riconosciuti come enti nazionali il Provveditorato al porto di Venezia, il Consorzio autonomo del porto di Napoli e il Consorzio del porto di Genova. V. Consiglio di Stato, sez. IV, 27 gennaio 1965, n. 74, in Cons. Stato, 1965, I, p. 48; Consiglio di Stato, sez. IV, 10 febbraio 1965, n. 152, in Cons. Stato, 1965, I, p. 178.

[12] Sugli enti pubblici associativi, v. Rossi G., Enti pubblici associativi: aspetti del rapporto tra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979.

[13] Virga P., cit., pp. 336-337.

[14] Il Consiglio di Stato, sez. VI, 17 febbraio 1996, n. 224, in Cons. Stato, 1996, I, p. 297, ha qualificato le Camere di commercio “enti consociativi ad appartenenza necessaria”.

[15] Pizzi A., cit., p. 449.

[16] In questi termini Virga P., cit., p. 336.

[17] In merito alla contrapposizione tra enti pubblici economici ed enti autarchici, si veda, ad esempio, Staderini F., cit., p. 12.

[18] Sul tema si segnala Martines T.-Ruggieri A.- Salazar C., Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2005 e la bibliografia ivi riportata.

[19] Sul limite dell’interesse nazionale, apposto all’art. 117 Cost. nel testo originario, rilevante lo studio di Gabriele F., Il principio unitario nella autonomia regionale: studio critico sui modi e sull’incidenza della funzione statale di indirizzo e coordinamento, Milano, 1980.

[20] V. ora Corte costituzionale, sent. 23 dicembre 2003, n. 370; cfr., tuttavia, Corte costituzionale, sent. 29 gennaio 2005, n. 62, entrambe reperibili sul sito www.giurcost.it

[21] In dottrina, a favore della sussistenza del limite suddetto per tutte le Regioni, si veda Clarich M.-Pisaneschi A., La legge costituzionale n. 3 del 2001, la competenza esclusiva delle Regioni in materia di commercio ed il limite delle grandi riforme economico- sociali, in Disc. comm. e serv., 2002, pp. 255 ss. In giurisprudenza, conformemente, Corte costituzionale, sent. 20 dicembre 2002, n. 536, reperibile sul sito www.giurcost.it

[22] V., per tutte, Corte costituzionale, sent. 27 luglio 2004 , n. 272, reperibile sul sito www.giurcost.it

[23] Cfr ., a riguardo, Corte costituzionale, sent. 1 ottobre 2003, n. 303, reperibile sul sito www.giurcost.it

[24] In www.giustizia-amministrativa.it

[25] In tale ottica si è orientato il disegno di legge costituzionale intitolato “Nuove modifiche al titolo V, parte seconda della Costituzione” (c.d. riforma costituzionale La Loggia), approvato dal Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2003, che, nel prevedere, tra l’altro, la sostituzione dell’art. 117 Cost., al comma 3, lett. o), di tale articolo, intesterebbe allo Stato, in via esclusiva, la materia “ordinamento generale degli enti di autonomia funzionale”. Sottolinea Antonini L. Il cammino costituzionale delle Camere di commercio, cit., p. 14, come una simile formulazione sia idonea ad evitare la possibilità di ingerenze della legislazione regionale sull’ordinamento delle Camere di commercio. A riguardo cfr., pure, D’atena A., cit., pp. 13-14.

Non a caso, il T.A.R. Liguria, 23 agosto 2004, n. 1138, in Foro amm. T.A.R, 2004, p. 2045, ha sostenuto che, stante l’attuale formulazione del titolo V, parte II, della Costituzione, “l’ordinamento delle Camere di commercio non appare riconducibile alle materie di competenza esclusiva dello Stato, ovvero a competenza concorrente Stato-Regioni”.

[26] Concorde Antonini L., Il cammino costituzionale delle Camere di commercio, cit. pp. 10-12, per il quale l’antidoto previsto dalla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 7, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131, secondo cui, in relazione al conferimento delle funzioni amministrative da parte dello Stato e delle Regioni, il “rispetto, anche ai fini dell’assegnazione di ulteriori funzioni, delle attribuzioni degli enti di autonomia funzionale, anche nei settori della promozione dello sviluppo economico e della gestione dei servizi”, nonché nell’art. 2, comma 4, lett. o), della stessa legge, a tenore del quale si deve “garantire il rispetto delle attribuzioni degli enti ad autonomia funzionale”, tra i principi e criteri direttivi che devono orientare i decreti legislativi adottati dal Governo, non preserva dall’eventualità di una legislazione regionale esclusiva in materia afferente le funzioni delle Camere di commercio, nonché dal rischio di una nuova legislazione nazionale che le disciplini in modo regressivo (ossia comprimendo l’autonomia riconosciuta a tali enti dalla legge n. 580 del 1993); per cui occorre un’apposita previsione costituzionale.

[27] Gli obiettivi auspicati di assegnare allo Stato, in via esclusiva, la competenza legislativa in materia di ordinamento generale delle Camere di commercio e di garantire un ampio grado di autonomia ai singoli enti camerali potrebbero essere perseguiti, altresì, tramite una nuova formulazione dell’art. 118 Cost.

Tale potrebbe essere rappresentata dalla versione dell’art. 118 Cost. contenuta nel disegno di legge costituzionale, recante “Modifiche alla parte II della Costituzione” (c.d. riforma dell’ordinamento della Repubblica), approvato dal Senato della Repubblica il 23 marzo 2005.

Il comma 6 di tale articolo recita testualmente: “Comuni, Province, Città metropolitane e Stato riconoscono e favoriscono l’iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per le attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà, anche attraverso misure fiscali. Essi riconoscono e favoriscono, altresì, l’autonoma iniziativa degli enti di autonomia funzionale per le medesime attività e sulla base del medesimo principio; l’ordinamento generale degli enti di autonomia funzionale è definito con legge approvata ai sensi dell’articolo 70, primo comma”.


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