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GIANNI PENZO DORIA*
Siamo tutti pubblici ufficiali?
Il
D.L. 29 novembre 2008, n. 185, noto come “decreto anticrisi”, è stato
convertito, con numerose modifiche, dalla
legge 28 gennaio 2009, n. 2.
Tra le
misure che interessano più direttamente le amministrazioni pubbliche, desta
stupore l’art. 16, riguardante anche la dichiarazione di conformità di un
documento riservata ai detentori di un dispositivo di firma digitale.
Si tratta di
una norma che sembra fuori posto, giuridicamente non sostenibile e socialmente
pericolosa. Vediamo insieme di che cosa si tratta, enucleando questi tre
concetti.
L’art. 16,
comma 12 della
legge 28 gennaio 2009, n. 2 ha introdotto nel nostro ordinamento, tra le
altre, l’ennesima modifica alla normativa in materia di informatica applicata
alle amministrazioni pubbliche. Sono stati, infatti, interamente riscritti i
commi 4 e 5 dell’art. 23 del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs.
7 marzo 2005, n. 82).
Continua
pertanto – e senza freno – il preoccupante declassamento del Codice, oramai
ridotto a una serie di postille e interpolazioni, alcune delle quali incoerenti,
altre illegittime, altre ancora palesemente dettate da buoni propositi ma da
scarsa padronanza della materia.
Sul
declassamento del Codice, il Consiglio di Stato era stato categorico nel parere
n. 31/2006, espresso nell’adunanza del 30 gennaio 2006, nell’avvertimento al
legislatore circa la pericolosa parcellizzazione delle modifiche che avrebbero
portato, com’è avvenuto, a una sua snaturazione.
Sul
tentativo, abbastanza semplicistico, di far decollare la firma digitale, si
rinvia a quanto accaduto con la Finanziaria 2006 (legge 23 dicembre 2005, n.
266, in particolare all’art. 1, comma 51). In quella norma, un “incaricato di
pubblico servizio” era stato paragonato a un “pubblico ufficiale”, con il
compito di dematerializzare i polizzini postali, dichiarandone al tempo stesso
la conformità all’originale. Ora, se fosse possibile, siamo in una situazione
peggiore, come vedremo nel paragrafo seguente.
Ma il
problema che affrontiamo ora è un altro. Come mai il Governo italiano ha deciso
di introdurre in una legge inerente alle misure urgenti per il sostegno alle
famiglie, lavoro, occupazione e impresa un novellato così dirompente quando
lo stesso avrebbe potuto farlo, con più coerenza sistematica, essendo già stato
delegato dal Parlamento attraverso uno o più decreti legislativi a modificare il
Codice? È lontano dal vero pensare che è stata imposta una forzatura giuridica,
senza peraltro tener conto degli obiettivi di esaustività, sistematicità e
stabilità della normativa vigente? Non sarebbe stato più corretto e logico
inserire i due nuovi commi nell’ambito della riforma del Codice?
Il contesto
di approvazione che abbiamo appena descritto pare, dunque, “fuori posto”,
considerando il fatto che eventi del genere, allineati con la tendenza a
emettere provvedimenti “omnibus”, provocano un danno all’organicità della
materia e alla non facile gestione di mille rivoli di modifiche e contro
modifiche da parte di chi è chiamato ad applicare e a far rispettare la
normativa.
Il nuovo
comma 4 dell’art. 23 del D.Lgs. 82/2005 ora recita: «Le copie su supporto
informatico di qualsiasi tipologia di documenti analogici originali, formati in
origine su supporto cartaceo o su altro supporto non informatico, sostituiscono
ad ogni effetto di legge gli originali da cui sono tratte se la loro conformità
all’originale è assicurata da chi lo detiene mediante l’utilizzo della propria
firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71».
A parte
l’errore grammaticale (con chi concorda quel lo detiene?), questa norma
stride, non solo con altre disposizioni in materia – tra tutte, citiamo almeno
il DPR 445/2000 – ma anche con principi cardine del diritto civile e del diritto
amministrativo. Viene meno, infatti, il principio di terzietà, la terza parte
fidata, fondamentale nel nostro ordinamento giuridico, la garanzia che
deriva dall’essere al di sopra delle parti. Risulta, infatti, palesemente
scorretto delegare a un semplice detentore di un dispositivo a scadenza limitata
nel tempo (qual è la firma digitale) una funzione finora riservata, per la sua
delicatezza, ai notai e ai pubblici ufficiali, cioè a figure dotate di fede
pubblica. Ora, invece, il detentore – si badi: né possessore, né proprietario,
ma detentore anche per un periodo limitato di tempo – potrà dichiarare la
conformità all’originale.
Tuttavia, le
incongruenze del legislatore non terminano qui. Il comma 5 ora novella: «Con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate
particolari tipologie di documenti analogici originali unici per le quali, in
ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della
conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione ottica
sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un
notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da
questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico».
Al di là
della mai tanto vituperata dicitura “originale unico” – inesistente in natura,
in diplomatica e tantomeno in diritto – e della conformità “autenticata” e non
“dichiarata” o “assicurata” (come nel comma 4), non si comprende quali possano
essere le richiamate “esigenze di natura pubblicistica”. Tutti i documenti
pubblici prodotti soddisfano, indistintamente, quelle esigenze. E, in ogni caso,
in base a quale criterio un DPCM potrà stabilire, ad esempio per le autonomie
locali, per le aziende sanitarie o per le università, quale deve essere la
particolare tipologia di documento da conservare su carta? Non può sussistere
alcun criterio scientificamente e giuridicamente valido che possa supportare una
scelta simile.
Inoltre, la
diffidenza ad aderire totalmente alla riforma digitale della amministrazione
pubblica continua a creare sistemi ibridi. L’ibrido ha senso quando si
gestiscono documenti in parte cartacei e in parte digitali, che non mutano nel
corso del tempo. In altre parole, non bisogna pensare al documento
dematerializzato (operazione costosissima a medio-lungo termine, che produce
solo una fotocopia informatica), ma al documento che nasce, vive e muore in
ambiente digitale. Solo così le sacrosante trasformazioni in atto verso
un’amministrazione digitale nativa e garante di alcuni principi fondamentali del
nostro ordinamento e dei diritti dei cittadini, saranno supportabili
scientificamente e giuridicamente.
Perplessità
sorgono anche sul fronte dei possibili usi fraudolenti. La firma digitale come
strumento di garanzia della conformità di un oggetto digitale al rispettivo
documento cartaceo si basa su due fattori non propriamente positivi: da un lato,
l’eccessivo potere giuridico attribuito per legge a uno strumento che non offre
alcuna garanzia sul fronte della conservazione a lungo termine (la firma
digitale non migra, come dimostrato ampiamente da alcuni studi internazionali di
settore); dall’altro l’evidente impulso che, con pervicacia degna di miglior
causa, si vuole dare al decollo di questo strumento, che ormai da 12 anni segna
continuamente il passo.
I due commi,
che abbiamo sopra riportato, rappresentano il segnale più eclatante
dell’impreparazione del legislatore su questi temi. Si tratta di un vero e
proprio collasso normativo, che ignora le più elementari regole del diritto,
della diplomatica e dell’archivistica.
Chiunque,
dal semplice cittadino al delinquente, potrà superare – e in nome della legge –
qualsiasi controllo sull’autenticità, semplicemente esibendo un documento
dematerializzato, anche riproducente la rappresentazione di un originale
potenzialmente mai esistito. Siamo, cioè, sul fronte dell’incertezza. Così, se
due contraenti dichiarassero conformi due documenti che ambedue avessero
modificato proditoriamente, a chi presterà fede il giudice? Quali documenti
presenterà un clandestino per richiedere un permesso di soggiorno, dimostrando a
posteriori la sua presenza sul territorio italiano? Quali registri potrà
distruggere un commercialista o uno stesso pubblico ufficiale sui quali, anche
seriormente, si vorrà commettere un reato che non potrà mai essere punito per
mancanza di prove in un ambiente normativo così vulnerabile e socialmente
pericoloso?
Non si può
fermare l’innovazione solo per la presunzione di ipotetici falsi, visto che
esistono anche in ambiente tradizionale. Ne siamo certi. Ma il problema reale è
che l’innovazione dev’essere calata nel contesto giuridico di riferimento. In
questa circostanza, invece, siamo di fronte a una norma lesiva del sistema
italiano che viene camuffata da innovazione, senza dimenticare il fatto che
tutto ciò che è informaticamente possibile può non esserlo sotto il profilo del
diritto civile, amministrativo, penale.
Bene,
dunque, spingere sull’innovazione, ma a patto di non calpestare quei principi
fondamentali introdotti nel nostro ordinamento a garanzia di tutti. Per
introdurre norme di questa portata, bisogna cercare una “concordia” tra molte
professionalità sulla quali si va a incidere trasversalmente, come giuristi,
diplomatisti, archivisti e informatici. Per queste ragioni, non possiamo
permetterci il lusso di lasciare solo un legislatore tecnico, monodirezionale e
alluvionale com’è avvenuto dal 2005 ad oggi.
L’industria
del falso ringrazia, ma – se continueremo su questa strada – potremo anche
mettere una pietra tombale sulla fede pubblica, sul concetto di originale, sulla
garanzia dei controlli sulla autenticità e sulla provenienza di un documento
pubblico e privato. Oppure potremmo essere felici di dire: siamo tutti pubblici
ufficiali. Cioè, nessuno a garanzia di nessuno.
(*)
Professore a contratto di Archivistica nell'Università degli Studi di Verona.
n.
2/2009 - ©
copyright
1.
Premessa
2.
Una norma fuori posto
3.
Una norma giuridicamente non sostenibile
4.
Una norma socialmente pericolosa