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LUIGI OLIVERI

Organizzazione degli uffici degli enti locali e norme cedevoli alla luce della legge 3/2001

E' destinato a continuare ed intensificarsi il dibattito sugli effetti della riforma del Titolo V della Costituzione, almeno finché non si sia assestata la giurisprudenza costituzionale (il che comporterà necessariamente tempi lunghi), che appare lo strumento necessario e fondamentale per razionalizzare la materia.

Merita, allora, ulteriore approfondimento l'analisi delle modifiche agli assetti normativi determinati dalla legge 3/2001 ed in particolare dei rapporti tra legge statale e legge regionale e tra queste e la normazione degli enti locali, al fine di verificare la portata dell'autonomia normativa di questi ultimi.

Nel delicato passaggio da un regime normativo ad un altro, esiste sempre una propensione alla conservazione di canoni interpretativi collaudati, funzionali anche ad ottenere obiettivi di conformazione delle geometrie giuridiche a prospettive ideologiche.

In questo momento un canone del quale si fa largo uso è quello della cedevolezza delle leggi. Utilizzato allo scopo di ottenere effetti completamente opposti, in relazione ai rapporti tra le fonti ai quali si applica.

Rispetto al rapporto tra legge dello Stato e leggi regionali che esercitino la potestà legislativa generale e residuale, il canone della cedevolezza delle leggi statali è invocato per giustificare più che la permanenza (non è possibile parlare di permanenza di rapporti tra norme, in quadro costituzionale che, comunque, appare molto diverso dal precedente), la sussistenza di una potestà legislativa dello Stato anche nelle materie della legislazione generale e residuale delle regioni.

L'effetto di conservazione del regime precedente scaturente da questa tesi è assolutamente chiaro: si nega, in sostanza, che le regioni dispongano di una potestà legislativa esclusiva nell'ambito della legislazione generale, per affermarne una "prevalenza" o "preferenza" rispetto alla legge statale che abbia, comunque, dettato una disciplina negli ambiti assegnati dalla Costituzione alla potestà residuale delle regioni.

Rispetto al rapporto, invece, tra leggi sia statali che regionali e normazione locale, la cedevolezza è invocata per legittimare l'effetto diametralmente opposto: l'affermazione di una sorta di riserva normativa agli statuti e regolamenti locali, i quali, quanto meno in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, disporrebbero di una forza normativa sostanzialmente assimilabile a quella delle leggi regionali del precedente regime, sicchè le norme statali non contenenti principi, ma la regolamentazione diretta della materia sarebbero, appunto, cedevoli rispetto a quelle locali.

L'antinomia è evidente: si utilizza il medesimo meccanismo interpretativo, che come un Giano bifronte da un lato comprime una potestà normativa (quella regionale) e dall'altro ne esalta un'altra (quella locale).

Poiché tale antinomia non è espressamente disciplinata dal diritto positivo, ma è frutto dell'applicazione al nuovo ordinamento costituzionale di una ricostruzione interpretativa del rapporto leggi statali-leggi regionali del precedente sistema, sembra necessario verificare se e in che misura essa sia da ritenere corretta.

Nella Costituzione ante riforma si era posto il problema dell'eventuale possibilità per le leggi dello Stato di ingerire nelle materie assegnate alla potestà legislativa concorrente delle regioni.

L'articolo 9, comma 1, della legge 62/1953 in merito stabilisce, ma sarebbe meglio utilizzare l'imperfetto, che "l'emanazione di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall'art. 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei princìpi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti". Il successivo articolo 10 precisa che "le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell'articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse. I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni".

Tali disposizioni normative fornirono alla Corte costituzionale una chiave di lettura particolare del rapporto tra legge statale e regionale, superando in senso restrittivo per le regioni il dubbio sulla sussistenza, o meno, di una riserva della normazione di dettaglio in favore delle leggi regionali.

Posto che la legge statale era legittimata dalla Costituzione stessa ad emanare la normativa di principio, occorreva, infatti, comprendere che ruolo potesse giocare detta normativa nei confronti dell'ordinamento regionale, se le norme di principio potessero anche incidere sulle leggi regionali e, ancora, se lo Stato potesse abbinare alla normativa di principio anche la disciplina del dettaglio, cioè l'indicazione operativa delle modalità attuative dei principi.

La legge 62/1953 fornisce la risposta ai dubbi, come detto in senso restrittivo, indicando, in primo luogo, che il limite alla legislazione regionale derivava non solo dai principi espressamente stabiliti dalle leggi, ma anche da quelli desumibili in via implicita.

In secondo luogo, chiarendo che le leggi di principio potessero direttamente abrogare le norme regionali in contrasto con esse, finendo con l'eliminare dal mondo giuridico sia le disposizioni generali che di dettaglio di fonte regionale.

La Consulta confermò con una pacifica giurisprudenza la possibilità della legge statale di ingerirsi nelle materie delle regioni, affermando l'insussistenza di una riserva normativa in favore della legislazione regionale.

Tanto è vero che in dottrina si è affermata la tesi che esclude la riserva di competenza della legge regionale sulle norme di dettaglio, per parlare di una "preferenza" della legge regionale di dettaglio nell'ambito delle materie dell'articolo 117 del vecchio testo costituzionale (1).

La Corte costituzionale, tuttavia, per salvaguardare il potere normativo delle leggi regionali ha riconosciuto la possibilità per tali fonti di intervenire nell'ambito della normativa di principio dettata dal legislatore statale, mediante disposizioni di dettaglio che prevalessero su quelle contenute nella legge statale, la quale, pertanto, risultava applicabile finché non disponesse diversamente la legge regionale.

Tale posizione giurisprudenziale è bene esemplificata dalla sentenza della Consulta 22 luglio 1985, n. 214, nella quale si è stabilito che "La legge quadro dello Stato, nel dettare i principì fondamentali nelle materie di competenza regionale, vincolanti per le regioni a statuto ordinario ai sensi dell'art. 117 cost. può emanare norme di dettaglio che sostituiscano la vigente legislazione regionale, nelle more dell'adeguamento della legislazione stessa ai principì della legge statale".

La coesistenza di una normativa statale di disciplina dell'esercizio della potestà legislativa delle regioni piuttosto restrittiva, nonché una posizione della Corte costituzionale incline a permettere un'invasione di campo della legge statale negli ambiti della potestà regionale ha dato luogo al fenomeno della cosiddetta cedevolezza delle leggi statali di dettaglio.

La cedevolezza è, pertanto, istituto di concezione giurisprudenziale e dottrinale adottato per:

1)      garantire comunque l'attuazione dei principi generali delle leggi statali, permettendo a queste di contenere anche la disciplina di dettaglio, nell'inerzia delle regioni;

2)      anticipare, dunque, la vigenza delle regole concrete di applicazione dei principi;

3)      garantire, per altro verso, egualmente una sfera di intervento normativo regionale, consentendo alle regioni di riappropriarsi della propria potestà anche successivamente alla normativa statale, legiferando sul dettaglio attuativo dei principi, sicchè le disposizioni legislative statali, per questa parte, cedono il passo a quelle regionali.

Sembra evidente la caratteristica fondamentale della cedevolezza: l'appartenenza delle fonti rispetto alle quali opera al medesimo piano della scala gerarchica, in questo caso quello primario, nonché la finalità di permettere alla fonte che viene "invasa" nella propria sfera di competenza dall'altra, di esercitare pur sempre una propria funzione normativa, dando luogo a quella "preferenza" di cui parla la dottrina.

In sostanza, la cedevolezza si può considerare come un sistema di rapporti tra fonti intermedio tra il rapporto di competenza ed il rapporto gerarchico puri.

Infatti, nel rapporto di competenza è inammissibile qualsiasi superamento dei confini della reciproca riserva di materie che separa l'una fonte dall'altra. Nel rapporto di gerarchia puro, al contrario, la fonte di rango superiore può sempre abrogare direttamente o implicitamente la fonte di rango inferiore, agendo mediante la normazione sia di principio, sia di dettaglio. Nel primo caso tutte le disposizioni normative di rango inferiore non conformi ai principi decadono; nel secondo, si ha un effetto abrogativo che può essere implicito od esplicito, dovuto, nel primo caso, all'assoluta incompatibilità tra le previsioni normative.

E', per la verità, dibattuto in dottrina e giurisprudenza se le norme di rango superiore dispongano del potere di abrogare automaticamente quelle subordinate (2).

Sul tema anche la giurisprudenza è divisa, tuttavia, in mancanza di una precisa disposizione in materia ed in presenza di un ordinamento normativo ancora imperniato sulla gerarchia delle fonti (anche se largamente influenzato da altri tipi di relazione tra norme) pare corretto propendere per la sussistenza di un potere abrogativo automatico della fonte di rango superiore su quella inferiore, dovuto al fatto che l'ente dotato dalla Costituzione e dalla legge di un superiore potere normativo può e deve imporre la propria discrezionalità nell'innovare l'ordinamento giuridico. In tal senso appare persuasiva la sentenza del Tar Emilia-Romagna, 19 giugno 1981, n. 337, secondo la quale "nel caso in cui le nuove norme che disciplinano in linea generale una materia presentino carattere di determinatezza tale da vulnerare subito le norme anteriori prodotte da fonte gerarchicamente inferiore, l'abrogazione di tali norme si verifica automaticamente al momento dell'entrata in vigore delle norme di grado superiore, successive ed incompatibili". La verifica dell'incompatibilità assoluta tra le due norme deve essere il parametro, la misura della possibilità di convivenza tra le due disposizioni di rango diverso.

Sta di fatto, che la cedevolezza della legge statale di dettaglio rispetto alla legge regionale di dettaglio, salvaguarda la possibilità per la norma Statale di ingerirsi nella sfera regionale (ciò che è tipico del rapporto di gerarchia), ma consente alla norma regionale, pur in mancanza di una riserva di competenza, di estendere la propria sfera normativa, riappropiandosi del potere legiferante e di innovare il diritto anche in quegli ambiti occupati (temporaneamente) dalla legge statale (ciò che è proprio del rapporto di competenza o, quanto meno, della relazione tra norme poste in posizione gerarchica paritaria).

Non è sfuggito, tuttavia, a parte della dottrina (3) che nel sistema costituzionale precedente le leggi statali si imponessero nei confronti di quelle regionali a vario titolo, non solo potendo intervenire anche nella disciplina di dettaglio, ma con pesanti limiti nel momento in cui dettavano i principi dell'ordinamento o quando realizzavano le grandi riforme economico-sociali, tanto da giungere a ritenere la legge regionale, in realtà, come fonte di fatto subordinata a quella statale.

Tale posizione di inferiorità della legge regionale rispetto a quella dello Stato era ulteriormente confermata da un ulteriore orientamento della giurisprudenza costituzionale e degli studiosi, tendente a legittimare una capacità di incidenza della normativa statale anche nel dettaglio attuativo dei principi molto più profondo del rapporto di cedevolezza.

La Consulta, con sentenza 18 febbraio 1988, n. 177, ha avuto modo di sostenere che "lo Stato può emanare, nelle materie di competenza regionale, non solo leggi contenenti norme di principio, ma anche norme di dettaglio, ove ricorrano motivi di interesse nazionale, che vanno peraltro rigorosamente controllati dal giudice costituzionale il quale deve verificare che il discrezionale apprezzamento del legislatore non sia irragionevole, arbitrario o pretestuoso, che l'interesse posto a base della disciplina sia infrazionabile oppure non possa essere ragionevolmente perseguito mediante l'intervento normativo delle singole regioni o province autonome e che, in ogni caso, l'intervento legislativo dello Stato, considerato nella sua concreta articolazione, risulti in ogni sua parte giustificato e contenuto nei limiti segnati dalla reale esigenza di soddisfare l'interesse regionale posto a proprio fondamento".

O ancora, e più esplicitamente, con la sentenza 28 luglio 1993, n. 355: "le disposizioni che pongono principi relativi all'organizzazione delle usl sono norme fondamentali di riforma economico-sociale, nelle quali possono essere introdotte anche norme di dettaglio, che siano coessenziali ed integrative al fine dell'attuazione della riforma; pertanto, è infondata la questione di costituzionalità dell'art. 3, 6° comma, d.leg. 30 dicembre 1992 n. 502, sollevata per violazione degli art. 116, 117, 118 e 119 cost., sotto il profilo che esso detterebbe norme di dettaglio, in violazione dei limiti delle competenze statali, poiché tali norme o sono organicamente legate ai principi della riforma, come ad es. la prescrizione del tempo pieno per il direttore generale e per il direttore amministrativo e quelle sull'ineleggibilità ed incompatibilità dei direttori generali, o sono invece di carattere dispositivo, e sono quindi applicabili solo in mancanza di norme emanate dalle regioni. Le eventuali disposizioni di dettaglio che accompagnino queste norme fondamentali sono tali da vincolare l'esercizio delle competenze regionali soltanto ove siano legate con i principi della riforma da un rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione".

Ad ulteriore limitazione della forza normativa delle leggi regionali v'era, dunque, la categoria delle leggi statali che, oltre a disporre principi, dettavano anche disposizioni di completamento dei principi ed attuative degli stessi, organicamente ed inscindibilmente connesse ai primi, sì da escludere del tutto alcuna possibilità di ulteriore o diversa definizione del dettaglio da parte delle leggi regionali.

In questi casi, pertanto, non operava neanche il criterio della cedevolezza, verificandosi sostanzialmente una completa invasione della sfera normativa della legge regionale da parte di quella dello Stato.

Il criterio della cedevolezza delle leggi statali ha, comunque, assicurato l'autocompletamento dell'ordinamento giuridico e la garanzia da pericoli di vuoti legislativi, dovuti da un canto al pericolo di leggi regionali non conformi ai principi della legislazione statale, meglio dire alle leggi della Repubblica, dall'altro all'inerzia legislativa dei consigli regionali.

Ora, questo sistema alla luce della legge 3/2001 fa intravedere crepe piuttosto consistenti.

Partiamo dall'analisi degli elementi appena sopra esposti: il principio dell'autocompletamento e quello della supplenza della legge statale.

Essi presuppongono necessariamente un ordinamento nel quale lo Stato coincide con la Repubblica e le regioni (così come gli enti locali) sono una componente della Repubblica, riconosciuta da questa ed assegnataria di poteri normativi, tuttavia, non paritari a quelli dello Stato, così come certamente non paritario è il rapporto istituzionale tra ente Stato ed altri enti territoriali.

In un siffatto sistema è perfettamente ammissibile che l'unitarietà dell'ordinamento è affidata al ruolo centrale della legge della Repubblica che ha competenza generale e non incontra limite alcuno a tale competenza, nemmeno nelle materie assegnate alle leggi regionali, in quanto non sono ad esse "riservate". Dunque, lo Stato, il Parlamento ha e si assume il compito di mantenere l'unità dell'ordinamento, il beneficio dell'omogeneità del diritto operando in vario modo, dalla legiferazione per soli grandi principi, fino alla regolamentazione diretta della materia, lasciando uno spazio tutto sommato residuale e ristretto alla potestà normativa di enti territoriali nei quali la Repubblica si suddivide.

Ma il nuovo articolo 114 della Costituzione, come unanimemente riconosciuto, pone comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato su un piano di pari dignità istituzionale. La Repubblica non si ripartisce più in enti territoriali, ma è costituita dagli enti poco prima menzionati, i quali, dunque, non sono solo una parte di un tutto, ma concorrono, ciascuno per la propria parte, ad un insieme che di tali enti non può fare senza.

Siamo molto vicini ad un rapporto federale, anche se non si può affermare che la legge 3/2001 abbia modificato l'ordinamento italiano, trasformandolo in un assetto federalista.

Quanto sopra affermato deve necessariamente portare ad esaminare i rapporti tra le diverse fonti normative degli enti che costituiscono la Repubblica secondo canoni nuovi, che tengano sempre presente, in primo luogo, il rapporto di pari dignità istituzionale e che, in secondo luogo, partano dal nuovo dettato costituzionale, dal significato complessivo della riforma e che non si fermino, pertanto, all'esame esclusivamente letterale di alcuni punti del nuovo testo costituzionale, estrapolandolo dal contesto interpretativo.

Abbandonando ogni tentazione di tale genere non si può che confutare ogni tesi, pur autorevolmente sostenuta (4), incline a ritenere che nell'ambito della potestà legislativa generale e residuale delle regioni sussista ancora una possibilità di intervento della legge statale, impostata sul criterio della cedevolezza.

Le notevoli argomentazioni sulle quali tali teorie si fondano appaiono, infatti, influenzate da un approccio eccessivamente legato a canoni interpretativi propri del vecchio ordinamento, non più utilizzabili in modo convincente dopo la riforma.

Infatti, occorre prendere atto che il nuovo articolo 117 della Costituzione prevede per le regioni due tipi di potestà legislativa, che sono da considerare necessariamente diversi tra loro. Da un lato la potestà legislativa concorrente con quella dello Stato, nell'ambito della quale lo Stato può esclusivamente legiferare per principi generali.

Dall'altro, la potestà legislativa generale e residuale, che, in quanto diversa dalla prima, non può essere considerata concorrente.

In primo luogo, perché in via sistematica, essendo disciplinata da un comma diverso e non collegato a quello che regola la potestà concorrente, dispone di una regolamentazione costituzionale autonoma e specifica.

In secondo luogo, perché la Costituzione non qualifica tale potestà come concorrente. Al contrario, stabilendo espressamente l'articolo 117, comma 4, che alle regioni "spetta" la potestà legislativa in ogni materia "non espressamente riservata" alla legge dello Stato, ciò implica:

1)      che allo Stato sono riservate delle materie specifiche e non generali;

2)      che le materie non riservate allo Stato, spettano alle regioni.

Poiché ciò che spetta alla regione, nella misura in cui ciò non sia riservato allo Stato, non può che essere riservato in via esclusiva alla regione, si ha, per effetto dell'articolo 117, comma 4, della Costituzione quella doppia riserva (alla regione "spetta" un ambito non definito di materie, mentre lo Stato può legiferare in un ambito ben individuato, a lui riservato) la classica doppia riserva di materia, tipica del rapporto di competenza.

La chiave corretta di lettura del comma 4 sta nella corretta interpretazione del verbo spettare: ciò che spetta a qualcuno, non spetta a nessun altro, perché se così fosse vi sarebbe concorrenza. Ma allora rientreremmo, nel caso delle norme, o nel rapporto della concorrenza, oppure nel rapporto dell'alternatività di fonti aventi medesimo rango, emanate indifferentemente da un ente piuttosto che da un altro, regolate esclusivamente dalla successione nel tempo.

Ma così non è: la Costituzione ha necessariamente riservato alle leggi regionali un ambito esclusivo, precludendo qualsiasi intervento della legge statale nella propria sfera. Questo è il vero e concreto elemento di novità nella modifica dell'articolo 117 della Costituzione, che attribuisce significato all'inversione del rapporto tra leggi statali e regionali, attribuendo alle prime un ambito di intervento in un elenco tassativo di materie e, dunque, non derogabile, ed alle seconde un ambito di intervento riservato in tutte le restanti materie, con l'eccezione della via di mezzo, costituita dalle materie di legislazione concorrente.

Al di fuori di questa chiave di lettura, il comma 4 dell'articolo 117, così come l'intero articolo, 117 perde ogni pregnanza riformatrice. Con ciò non si vuole aderire ad alcuna ideologia precostituita di tipo federalista, ma solo analizzare in modo oggettivo i veri effetti di una riforma, che non appare corretto sminuire in via interpretativa. Se tali effetti possono apparire, come in effetti appaiono, forieri di incertezza nell'ambito dell'ordinamento giuridico, appare più corretto modificarli con un'opera di correzione e miglioramento del testo costituzionale.

Se così è, se, come appare, la potestà legislativa regionale di cui al comma 4 dell'articolo 117 è esclusiva (5) si deve necessariamente verificare l'effetto della preclusione per la legge statale ad un'invasione della sfera di competenza riservata alla legge regionale.

Dunque, anche quando la legge statale disciplini ed affronti le materie definite "trasversali", come la disciplina dell'ordinamento civile, della concorrenza e la determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali da garantire sull'intero territorio, ciò non implica che la legge dello Stato possa appropriarsi di ambiti normativi appartenenti, invece, alle regioni.

Né è possibile sostenere che lo Stato, in queste materie trasversali, disponga norme di principio, alle quali le leggi regionali debbano adeguarsi, chè ciò è previsto solo nell'ambito della potestà legislativa concorrente.

Le leggi regionali, operando nelle materie generali e residuali, non hanno da adeguarsi, ma, semplicemente, non possono contenere regole ulteriori o diverse rispetto a quelle fissate dallo Stato nelle materie trasversali. Lo Stato, a sua volta, deve intervenire in questo ambito con una normativa completa, che giunga fino al dettaglio, potendo scegliere se l'esecuzione dei principi eventualmente disposti in siffatte leggi possa essere demandata ai regolamenti del Governo o non, addirittura, ai regolamenti delegati alle regioni, nell'esercizio della potestà di delega prevista dal comma 6 dell'articolo 117 della Costituzione.

Pertanto, nella legislazione esclusiva delle regioni, l'influenza delle materie trasversali di competenza esclusiva dello Stato crea un "mosaico normativo", certamente di difficile composizione, anche per l'assenza della tanto invocata Camera delle regioni, che avrebbe dovuto assolvere al compito dell'armonizzazione della legge statale con quelle regionali.

Comunque, il criterio della cedevolezza nel rapporto tra leggi dello Stato e leggi regionali di cui all'articolo 117, comma 4, della Costituzione deve ritenersi inapplicabile, soppiantato da un più chiaro "rapporto di competenza" tra leggi statali e regionali.

Non sembra inopportuno sottolineare che, per altro, il comma 3 dell'articolo 117 della Costituzione appare espungere del tutto il criterio della cedevolezza nell'ambito della legislazione concorrente, ponendo un più evidente vincolo alla legge statale di operare solo per principi, talmente forte da far ritenere incostituzionali norme di dettaglio.

Tale intento di disciplinare le leggi statali e quelle regionali concorrenti in base al solo rapporto del rispetto dei principi appare confermato dal disegno di legge 1545, al momento all'esame del Senato, che superando del tutto i criteri di cui alla legge 62/1953 limita la potestà legislativa concorrente delle regioni ai soli principi fondamentali dettati dalla legge statale, senza consentire né esplicitamente né tacitamente un intervento anche nella legislazione di dettaglio.

Può, allora, il criterio della cedevolezza applicarsi ai rapporti tra legge (statale e regionale) e statuti e regolamenti degli enti locali che disciplinino l'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite?

Come si ripete, in questo caso la cedevolezza delle leggi avrebbe lo scopo di rendere più forte e rilevante la potestà normativa locale.

Appare assolutamente chiaro, in effetti, l'intento della Costituzione di assegnare agli enti locali un potere normativo più ampio, rispetto al passato regime.

Tuttavia, sembra assolutamente da escludere che questo effetto possa ottenersi applicando il principio della cedevolezza al rapporto tra leggi e fonti regolamentari o statutarie.

Infatti, come rilevato in precedenza, caratteristica della cedevolezza è la posizione delle fonti rispetto alle quali il principio si applica su un medesimo piano gerarchico. Altrimenti, non è possibile alcuna cedevolezza. Se, infatti, la norma gerarchicamente superiore disciplina la regola completa della materia, ciò significa non solo che la norma inferiore è da considerare abrogata, ma anche che essa abbia perso qualsiasi potere di disciplinare il dettaglio successivamente alla vigenza della regola concreta fissata per legge.

L'esempio è classicamente fornito dall'individuazione delle competenze consiliari da parte del D.lgs 267/2000: la legge non solo stabilisce il criterio di assegnazione delle funzioni al consiglio (programmazione di lungo periodo e controllo sull'attività di attuazione dei programmi), ma elenca partitamente le competenze che si ascrivono a tali funzioni. Tale elenco è, pertanto, tassativo: né lo statuto, né il regolamento locale possono modificarlo, neanche prevedendo la delega delle competenze consiliari alla giunta o ad altri organi locali.

La riforma della Costituzione prevedendo esplicitamente lo statuto come fonte di rango costituzionale lascia chiaramente intendere che il legislatore (sia statale, sia regionale) non dovrebbe più operare in tal modo, costringendolo, piuttosto, a disciplinare l'ordinamento locale solo per ampli principi, così da rispettare la pari dignità istituzionale e permettere agli enti locali di esercitare la più importante funzione, quella di autodeterminare il proprio assetto istituzionale.

C'è, tuttavia, da osservare, e questa osservazione è essenziale per verificare se la cedevolezza possa applicarsi al rapporto tra leggi e normativa locale, che la Costituzione non ha:

1)      né fatto assurgere la potestà normativa locale a rango primario;

2)      né riservato alla potestà normativa locale una sfera di competenza, sì da far ritenere che tra leggi e regolamenti e statuti locali intercorra un rapporto di competenza.

Anche autori secondo i quali vi sarebbe una sorta di riserva di competenza ai regolamenti ed agli statuti sulla materia dell'organizzazione delle funzioni(6) notano che il testo costituzionale oltre a prevedere espressamente la potestà statutaria ed a confermare quella regolamentare, non prevede nulla in merito alla forza normativa di tale potestà e tace, pertanto, rispetto alla relazione intercorrente con la legge.

Indubbiamente, allora, statuti e regolamenti locali non sono stati parificati dalla Costituzione a fonti normative primarie. D'altra parte, la potestà legislativa, a mente dell'articolo 117, comma 1, della Costituzione, è esercitata solo dallo Stato e dalle regioni; sicchè, se la potestà normativa primaria si fa coincidere, come appare tutt'oggi necessario, con quella legislativa, non rimane che ammettere che la potestà statutaria e regolamentare degli enti locali rimane secondaria, anche se trova nella Costituzione una maggiore tutela da interventi normativi invasivi e pervasivi, al punto tale da giungere, ad esempio, a definire gli atti di impegno di spesa "determinazioni", sì da privare gli enti locali anche della possibilità di stabilire autonomamente quali siano e come si denominino gli atti di propria competenza.

Se, allora, statuti e regolamenti operano su un piano diverso (ed inferiore) rispetto alle leggi, l'istituto della cedevolezza non può operare.

Piuttosto, se si ammette che la Costituzione abbia assegnato a statuti e regolamenti la forza di stabilire in modo fortemente autonomo le norme sull'organizzazione dell'ente, così da disporre anche in modo molto diverso rispetto a quanto prevede la legge (statale e regionale), occorre concludere solo per due sistemi alternativi:

1)      che le leggi statali e regionali siano sempre derogabili da statuti e regolamenti;

2)      che statuti e regolamenti, invece, dispongano realmente di uno spazio normativo riservato.

A ben vedere, la prima prospettiva, quella del diffuso e prevalente potere di deroga delle norme locali sulle leggi, non modifica il rapporto gerarchico tra le une e le altre, né muta in modo eccessivo il quadro complessivo dei rapporti tra leggi e norme secondarie già definito dal precedente ordinamento costituzionale.

Infatti, la deroga opera tra fonti di rango differente, in quanto la regola generale tra norme poste sullo stesso piano gerarchico è quello della disapplicazione della norma più vecchia da parte della norma più recente, in quanto la deroga parziale è l'eccezione volta a salvaguardare una parte della disciplina già vigente.

Ma la deroga di una fonte di rango superiore da parte di una subordinata è ammessa esclusivamente in quanto l'ordinamento o, comunque, la norma sovraordinata lo consenta. La deroga, allora, non può essere considerata un'eccezione alla regola della preminenza delle fonti di legge, in quanto la loro derogabilità è condizionata dall'espressa volontà del legislatore di consentire la deroga stessa e di stabilire se questa possa giungere al punto di consentire alla fonte sottordinata di sostituire completamente la legge, che diviene dunque norma suppletiva, o di dettare un contenuto in parte differente rispetto ad un quadro fissato dai principi enunciati o desumibili dalla legge.

La deroga, allora, non è connaturata ad un'efficacia propria degli atti non normativi (7), i quali non hanno alcuna possibilità di disporre diversamente dalle leggi, se queste non lo consentano.

In questo quadro, l'espressa previsione degli statuti e dei regolamenti quali fonti dell'autonomia locale dovrebbero indurre, comunque, il legislatore a legiferare sull'ordinamento locale solo per ampli principi generali, ricorrendo il più possibile alla tecnica della supplementarietà della norma di legge o, comunque, della derogabilità della stessa (vedremo di seguito se ciò possa consistere in un obbligo per il legislatore).

La seconda possibilità, allora, per affermare una capacità normativa assolutamente autonoma e non influenzata dalle leggi per statuti e regolamenti consiste nel concludere per la sussistenza di una riserva costituzionale di competenza in loro favore, quanto meno nelle materie previste dal comma 6 dell'articolo 117, ovvero la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Occorre sottolineare che si è delineato un robusto filone interpretativo che afferma la sussistenza di tale riserva di competenza.

Prima di affrontare il tema specifico, appare opportuno, però, tornare sulla cedevolezza, per sottolineare che di fronte ad un rapporto di riserva di competenza tra norme il criterio della cedevolezza non può considerarsi operante. Come visto sopra, la configurazione delle leggi dello Stato come cedevoli rispetto alla legislazione di dettaglio regionale, nel precedente sistema, venne elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale proprio perché ed in quanto si negò la sussistenza di una riserva di competenza in favore delle leggi regionali.

La cedevolezza ed il rapporto di competenza, pertanto, sono due diversi generi di relazione tra fonti, non integrabili tra loro e, dunque, alternativi.

Infatti, se due fonti sono tra loro in relazione di competenza, ciò significa che a ciascuna è reciprocamente preclusa la possibilità di normare sulle materie riservate all'altra. Pertanto, nell'ipotesi in cui avvenga l'invasione di campo, non opera la cedevolezza, quanto, piuttosto, l'illegittimità (costituzionale, nell'ipotesi che la riserva sia prevista dalla Costituzione) della norma che abbia violato la sfera di competenza dell'altra. Dunque, detta norma non è che ceda a quella dotata di competenza, ma si rivela direttamente ed immediatamente lesiva dell'ordinamento. Non così le leggi "cedevoli", le quali possono legittimamente contenere una disciplina, finchè non subentri una nuova disciplina legislativa da parte dell'ente cui è assegnato il potere di ritornare a legiferare in materia.

Torniamo, a questo punto, al problema della derogabilità delle leggi da parte di statuti e regolamenti locali, per approfondire la specifica tematica del potere normativo in merito all'organizzazione ed alle funzioni degli enti locali.

Si pongono, a questo punto, i seguenti temi:

1)      se anche le leggi regionali abbiano uno spazio di intervento sull'ordinamento locale e, dunque, direttamente o indirettamente sull'organizzazione;

2)      se statuti e regolamenti possano o meno derogare alle leggi (statali o regionali);

3)      se statuti e regolamenti siano posti in relazione di competenza con le leggi, una volta escluso il criterio della cedevolezza.

Rispetto alla prima questione, maggioritaria appare l'opinione che le leggi regionali dispongano di uno spazio normativo sull'ordinamento locale.

Tale conclusione è avvalorata dalla considerazione che l'ordinamento locale può essere considerato come materia normativa omogenea, tanto da essere stata da sempre (l'unica eccezione il decennio compreso tra il '90 ed il 2000) oggetto di una disciplina organicamente trattata in testi unici. Se ciò è vero, poiché le regioni possono disciplinare con legge tutte le materie non riservate alla potestà legislativa statale, non si può negare che le regioni abbiano potestà legislativa sull'ordinamento locale, con l'eccezione della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali, che l'articolo 117, comma 2, lettera p), assegna espressamente alla potestà legislativa dello Stato.

La Costituzione ha disposto, dunque, implicitamente per la potestà legislativa delle regioni sull'ordinamento locale, prevedendo esplicitamente una riserva di parte della materia alla legge dello Stato.

L'operazione normativa del legislatore costituente si rivela corretta e doverosa: poiché, infatti, ha attribuito alle regioni una competenza generale e residuale, l'unico sistema per limitare tale competenza consiste nel riservare espressamente alla potestà esclusiva dello Stato materie o parti di materie. Se la riserva non è esplicita, il principio della residualità della competenza della potestà legislativa regionale deve necessariamente prevalere e, quindi, occorre concludere per la sussistenza della competenza del legislatore regionale.

Quest'ultimo criterio, come è logico, non solo opera nei rapporti tra legge statale e legge regionale, ma anche tra questa e norme degli enti locali.

Non bisogna mai perdere di vista la caratteristica della generalità e residualità della competenza legislativa regionale. Che è residuale in quanto è la Costituzione stessa che estende lo spettro della competenza normativa ad ogni materia non riservata allo Stato. Ed è generale perché, appunto, l'intervento sulle materie non espressamente escluse riguarda tutte, ma proprio tutte, le altre materie, senza eccezione alcuna.

Queste conclusioni debbono, allora, essere la guida per verificare quali siano i rapporti tra fonti che disciplinano l'organizzazione degli enti locali e per determinare quali siano queste fonti.

Si può subito fornire una risposta parziale al secondo quesito: le fonti abilitate a disciplinare l'ordinamento, ma anche, pro quota, l'organizzazione sono sicuramente la legge dello Stato e sicuramente statuti e regolamenti locali. Questi ultimi, perché lo stabilisce con assoluta chiarezza l'articolo 117, comma 6, della Costituzione. La legge dello Stato, perché la legislazione sugli organi di governo non può contenere anche una disciplina delle funzioni e delle loro competenze, anche indiretta, che, a sua volta, implicitamente afferisce all'assetto organizzativo.

Per essere più chiari, l'attuale testo dell'articolo 42 del D.lgs 267/2000 nell'indicare in premessa che il consiglio comunale e provinciale (organo degli enti) svolge le funzioni di indirizzo e controllo, poi definisce anche le sue competenze, andando ad un dettaglio definitorio che trasborda, talvolta, dal piano dell'indirizzo a quello della concreta gestione, come nel caso della competenza per le compravendite immobiliari, che, per quanto siano atti considerabili di straordinaria amministrazione, incidono maggiormente sulla concreta operatività, che non sul piano della programmazione e dell'indirizzo. Ciò significa che, pur essendo operante il principio della separazione delle funzioni di indirizzo e controllo da quelle gestionali, assegnate ala dirigenza, vi sono alcuni ambiti nei quali la legge stessa assegna funzioni di natura gestionale agli organi politici, il che determina effetti anche sull'organizzazione interna degli enti, oltre che indubbiamente sugli assetti istituzionali.

E' del tutto evidente, comunque, per completare la risposta, che anche la legge regionale è fonte dell'ordinamento locale e può essere fonte legislativa per la specifica materia dell'organizzazione degli uffici e delle funzioni. Questo perché, come rilevato prima, la potestà legislativa è assegnata a Stato e regioni e perché queste la esercitano su tutte le materie non riservate alla legge statale. Ora, l'articolo 97 della Costituzione, al comma 1, prevede che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge.

Poiché questo prevede la Costituzione, allora è inevitabile concludere che:

1)      i pubblici uffici statali e degli enti pubblici nazionali possono essere disciplinati dalla legge dello Stato, in quanto così stabilisce espressamente l'articolo 117, comma 2, lettera g), della Costituzione;

2)      gli altri pubblici uffici, per effetto della generale e residuale competenza normativa delle leggi regionali, se sono disciplinati con legge, sono disciplinati con legge regionale.

Non si può, in sostanza, negare che la legge regionale possa intervenire nella regolamentazione dell'ordinamento locale ed, in particolare, nella disciplina dell'organizzazione, a meno di non individuare nella Costituzione una riserva agli statuti ed ai regolamenti che escluda tale competenza regionale.

Ma tale riserva, a ben vedere, non sussiste. E ciò priva di pregio le tesi di chi non solo dubita che sussista una possibilità di intervento normativo della legge regionale nella materia degli enti locali, ma afferma addirittura che l'organizzazione degli uffici sia stata attribuita in via esclusiva alle fonti statutarie e regolamentari.

La riserva di competenza, perché sia realmente tale, come visto prima, deve essere esplicita. Un certo ambito normativo, per essere riservato, dunque sottratto, ad un altro ambito, deve necessariamente essere individuato espressamente come spettante ad una fonte piuttosto che ad un'altra.

Leggendo la Costituzione, non si riscontra, tuttavia, alcuna formula che riservi a statuti e regolamenti la competenza esclusiva sulla materia dell'organizzazione: in merito, infatti, il comma 6 dell'articolo 117 si limita ad effettuare la ricognizione che comuni, province e città metropolitane hanno potestà regolamentare. Dal testo del comma 6 non si ricava alcuna assegnazione alla sola sfera di competenza dei regolamenti o degli statuti di detta materia.

Pertanto, in mancanza di simile formula, per il principio della generalità e residualità della potestà legislativa regionale, le regioni possono certamente legiferare in merito, attivando, del resto, una riserva di legge prevista dalla Costituzione stessa, all'articolo 97.

Conta poco che la riserva di legge in questione sia considerata assoluta o relativa: conta, invece, che detta riserva di legge esista e poiché, come ripetuto più volte, la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni, senza alcun dubbio le regioni possono legiferare in merito all'organizzazione degli uffici.

Negare questo, significa commettere il grave errore di ritenere l'articolo 97 della Costituzione applicabile, apoditticamente, solo alla legge dello Stato.

Insomma, altro è affermare che in merito all'organizzazione la potestà regolamentare è degli enti locali, tesi da condividere, altro è sostenere che detta potestà regolamentare soppianti quella legislativa, in carenza di una riserva esplicita in merito.

Altro è sostenere che le leggi sia dello Stato sia delle regioni, a causa della valorizzazione delle autonomie locali e della costituzionalizzazione della fonte statutaria, debbono limitarsi il più possibile a legiferare per ampi principi, tesi da considerare corretta, altro è ritenere che non abbiano (le leggi regionali) alcun modo di disciplinare legislativamente la materia.

Bisogna prendere atto che la Costituzione non ha inserito alcun criterio né di riserva, né di preferenza dei regolamenti locali per quanto riguarda l'organizzazione degli uffici(8).

La preferenza è possibile ricavarla esclusivamente in via interpretativa, risalendo alla volontà del legislatore costituente ed agli effetti della riforma costituzionale, tendenti a porre su un piano di pari dignità gli enti territoriali (9).

Ma giungere, sempre in via interpretativa all'affermazione della riserva di competenza degli statuti e dei regolamenti sull'organizzazione, è certamente una forzatura, un vulnus difficile da accettare alla funzione legislativa.

Oltre tutto, poco persuasiva appare l'argomentazione che, a sostegno della tesi della riserva di competenza alla normativa locale, si fonda sulla relatività della riserva di legge contenuta nell'articolo 97 della Costituzione.

Si osserva(10) che l'articolo 97 della Costituzione tenderebbe a garantire il riparto delle competenze organizzative tra potere legislativo e potere esecutivo, tra Parlamento e Governo, sicchè sarebbe operante esclusivamente nell'ambito dello Stato, nel quale opera la divisione dei poteri.

L'articolo 97 della Costituzione, allora, potrebbe operare nelle regioni solo laddove gli statuti delle medesime ammettano e tutelino la separazione dei poteri, in quanto dotati del potere di determinare la forma di governo.

Ma questa impostazione non persuade, in quanto appare incompleta. Si limita, infatti, alla lettura dell'articolo 123 della Costituzione, che in effetti assegna agli statuti il compito di determinare la forma di governo delle regioni. Gli statuti, afferma il comma 1 dell'articolo 123, debbono essere in armonia con la Costituzione. Questa, all'articolo 121, commi 2 e 3, tuttavia, stabilisce espressamente che il consiglio regionale esercita le potestà legislative, mentre definisce la giunta regionale l'organo esecutivo: appare assolutamente chiaro che la separazione dei poteri sia necessariamente operante anche nelle regioni, sicché l'articolo 97, quale garanzia del riparto dei poteri di organizzazione tra organo legiferante ed organo esecutivo non può non operare anche nell'ambito dell'ordinamento regionale.

L'articolo 97, invece, assolve a tutt'altro scopo: assegnare alla legge il compito di attribuire agli uffici pubblici la misura dei poteri che essi possono esercitare, fissando, così, la loro competenza in modo preordinato, in modo da consentire ai cittadini di conoscere in anticipo e con norme certe quale sia l'autorità competente, quali siano i poteri che può esercitare e con quali limiti, nonché in quali forme tali poteri possano esplicarsi. Si tratta di un principio di trasparenza, necessario ad evitare che il potere esecutivo ed amministrativo, disponendo di se stesso, modifichi continuamente i propri assetti di poteri, sfuggendo al contraddittorio con i terzi (11).

Insomma, occorre che provveda la legge a predeterminare gli assetti delle competenze. Poi, attraverso i regolamenti gli organi esecutivi sono liberi, nell'ambito degli assetti generali indicati dalla legge, di scegliere come ripartire le varie competenze tra i vari uffici, titolari dell'esercizio di funzioni cui le competenze siano ascrivibili.

La constatazione che la riserva di legge di cui all'articolo 97 della Costituzione sia solo relativa e non assoluta, non può portare a concludere che perciò solo gli enti locali possano produrre statuti e regolamenti concernenti l'organizzazione delle funzioni con forza prevalente sulle leggi regionali o, comunque, in deroga alle stesse.

Dunque, è da escludere che a comuni, province e città metropolitane sia stata assegnata, da parte dell'articolo 117, comma 6, della Costituzione una potestà normativa regolamentare di tipo esclusivo, mentre è da considerare che la tutela costituzionale a detta potestà vincoli il legislatore a dettare norme di principio, per lasciare agli enti locali il necessario spazio di autonomia normativa.

C'è, tuttavia, da definire cosa si intenda per regolamenti di disciplina dell'organizzazione e di disciplina dello svolgimento delle funzioni attribuite.

La disciplina dell'organizzazione attiene al potere di auto organizzazione, tipico degli enti autonomi, i quali, nell'esercizio, appunto, della propria autonomia, stabiliscono come debbono essere esercitati i poteri pubblici di cui sono dotati i propri organi.

Questa potestà non va confusa, allora, con quella di determinare i poteri stessi e, dunque, le sfere di competenza degli organi amministrativi. Tale compito, a mente del combinato disposto dell'articolo 97, commi 1 e 2, della Costituzione, appartiene alla legge. Dunque, la potestà regolamentare di organizzazione assegnata agli enti locali permette loro, nell'ambito delle competenze assegnata dalla legge agli organi, di determinare come le competenze previste sono esercitate, in base a quali procedimenti, nonché in base alla struttura di vertice prevista, che può cambiare notevolmente da ente ad ente, in relazione alle dimensioni ed alla quantità di uffici di livello dirigenziale ivi previsti.

La disciplina dello svolgimento delle funzioni, a sua volta, non va confusa con la materia dell'attribuzione delle funzioni stesse, anch'essa riservata alla legge, per effetto dell'articolo 118, comma 2, della Costituzione. I regolamenti, allora, relativi allo svolgimento delle funzioni debbono stabilire il flusso dei procedimenti, necessario per il concreto esercizio delle funzioni medesime.

L'articolo 7 del D.lgs 267/2000 impone ai regolamenti il rispetto dei principi fissati dalla legge (e dallo statuto). Si tratta di una norma che, letta in combinazione con la Costituzione, estende la portata normativa dei regolamenti locali, prevedendo che la loro potestà normativa non è limitata rigidamente dalla legge, ma può esercitarsi nell'ambito di una banda di oscillazione entro la quale muoversi, disponendo delle previsioni che integrino ed in parte pieghino il principio alla specifica disciplina della fattispecie. Ciò, ovviamente, non significa che i regolamenti comunali non appartengano più alla categoria delle norme secondarie: essi sono pur sempre subordinati alla legge ed ai limiti previsti dall'ordinamento giuridico. L'articolo 7 del testo unico, soprattutto alla luce dell'articolo 117, comma 6, della Costituzione, è da considerare come una disposizione di carattere programmatico, nel rispetto della quale le leggi, che disciplinano materie rientranti nell’ordinamento degli enti locali, dovrebbero limitarsi a fissare i principi generali delle materie regolate, lasciando ai regolamenti la normativa di dettaglio.

Pertanto, nelle intenzioni del legislatore, i regolamenti degli enti locali dovrebbero essere configurati come regolamenti tipicamente attuativi ed integrativi, ma di larghissimi spazi normativi lasciati dalla legislazione di principio.

Gran parte dei regolamenti degli enti locali, comunque, rientrano nella categoria dei regolamenti esecutivi, in quanto hanno il compito di dare concreta esecuzione, in ambito locale, alle disposizioni di legge.

Rara o quasi inesistente è la fattispecie dei regolamenti delegati.

Poiché i regolamenti degli enti locali debbono rispettare i principi fissati dalla legge, nonché dallo statuto, possono disciplinare solo materie sulle quali vi sia una disciplina normativa a monte: per questa ragione non può esistere la fattispecie dei regolamenti locali di tipo indipendente. Sicchè, non si può condividere l'opinione di chi sostiene che la relatività della riserva di legge di cui all'articolo 97 della Costituzione consenta agli enti locali di normare in merito all'organizzazione sia praeter che contra legem, giacché tale affermazione non trova riscontri normativi concreti.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria, infatti, la relatività della riserva di legge non può giungere a rendere relativa la legge, ovvero ad espungere la legge (in questo caso regionale) dal sistema delle fonti dell'organizzazione degli uffici. Il Tar Lazio, sez. I, 23 aprile 1996, n. 667, ha sancito che "la riserva di legge posta dall'art. 97 Cost. in materia di organizzazione degli uffici pubblici deve considerarsi relativa e, pertanto, deve ritenersi soddisfatta nel caso in cui la legge predetermina i principi fondamentali ai quali la normazione secondaria deve ispirarsi".

Ciò significa che la normazione secondaria può disciplinare la materia dell'organizzazione degli uffici pubblici nell'ambito dei confini dei principi fondamentali che le leggi debbono pur sempre indicare.

Alla stessa conclusione è giunta la Corte dei conti, sez. contr., 24 novembre 1995, n. 149, secondo la quale "gli art. 95 e 97 cost. non consentono che l'organizzazione dei pubblici uffici, oggetto di riserva di legge, sia pur relativa, possa venir demandata a norme di rango secondario, attraverso il meccanismo della cosiddetta delegificazione, senza che una norma primaria stabilisca criteri sufficientemente determinati ed individui esattamente l'ambito di operatività dei successivi regolamenti governativi".

Non bisogna, in sostanza, incorrere nel medesimo errore in cui è incappato il Ministero dell'interno, nell'intento di risolvere la questione delle sanzioni amministrative per violazioni di ordinanze e regolamenti locali, a seguito dell'abrogazione degli articoli 106 e 107 del R.D. 383/1934.

Come è noto, il Consiglio di stato, col parere 855/01, ha clamorosamente bocciato la tesi ministeriale, secondo la quale i comuni potevano ripristinare tale potere sanzionatorio mediante la potestà statutaria, espressamente riconosciuta dalla Costituzione.

L'alto consesso amministrativo ha smentito le tesi ministeriali, approfondendo proprio la questione della riserva relativa di legge, contenuta nel caso delle sanzioni – quali prestazioni patrimoniali – nell'articolo 23 della Costituzione. I ragionamenti del Consiglio di stato appaiono integralmente applicabili anche alla fattispecie dell'articolo 97 della Costituzione.

I giudici di Palazzo Spada hanno correttamente osservato che la riserva di legge relativa preclude alle fonti secondarie di dettare direttamente una disciplina normativa, ma non esclude che la legge primaria, emanata in adempimento alla riserva prevista dalla Costituzione, proprio perché salvaguardata da una riserva solo relativa, possa demandare ai regolamenti il completamento della fattispecie, attribuendo loro anche poteri derogatori.

L'esercizio della potestà normativa secondaria, in mancanza di una riserva costituzionale di competenza, esplicato in carenza della legge (anche regionale) che eserciti la riserva di legge di cui all'articolo 97 della Costituzione, o che sia in contrasto con detta legge, determina l'illegittimità delle fonti secondarie, per violazione del principio di legalità, ma anche per violazione stessa della Costituzione.

In effetti, l'articolo 114 della carta costituzionale, con riferimento alla potestà statutaria, prevede che detta potestà debba essere esercitata secondo i principi fissati dalla Costituzione: insomma è del tutto ovvio che gli statuti debbano obbedire ai principi, così come non possano contraddire alle discipline concrete della Costituzione. Non si vede, allora, come uno statuto, e ancor meno un regolamento, possano dettare la disciplina dell'organizzazione degli uffici in modo da contrastare con l'articolo 97 della Costituzione.

Non si vede, allora, come le leggi possano essere considerate cedevoli rispetto alla normazione secondaria, mentre la loro derogabilità, astrattamente ammissibile, è rimessa ad una precisa volontà del legislatore, che appare necessaria anche se non obbligatoria. Insomma, se il legislatore entrasse nel dettaglio della disciplina dell'ordinamento locale certamente non opererebbe in linea col rilievo costituzionale assunto dagli statuti e dai regolamenti, ma indubbiamente non violerebbe la Costituzione, posto che essa non riserva alcuna competenza alla normativa locale.

Questa impostazione è nella sostanza contenuta nell'articolo 2 del disegno di legge 1545, il quale assegna allo statuto il compito di stabilire i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente "in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica". Non si vede quale fonte, se non la legge, e nell'esercizio della riserva di cui all'articolo 97, possa disporre tali principi generali.

Il comma 6 del citato articolo 2 del disegno di legge, nel disporre che "fino all'adozione dei regolamenti degli enti locali (i quali debbono rispettare le norme statutarie e dunque sono a loro volta soggetti ai medesimi limiti degli statuti, nda), si applicano le norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente articolo":

1)      conferma espressamente che le leggi regionali hanno competenza nella materia dell'ordinamento locale e dell'organizzazione degli uffici degli enti locali;

2)      non introduce alcun criterio di cedevolezza delle leggi, in quanto ribadisce che quanto prevede l'articolo 2 al quale appartiene rimane comunque fermo, cioè continuano ad operare sempre i limiti dei principi generali in materia di organizzazione pubblica;

3)      introduce, semmai, l'autolimitazione al legislatore, il quale, in sostanza, in adempimento alla riforma della Costituzione, assegna alla legge il compito di definire gli ambiti, i confini generali dell'organizzazione.

Ciò è confermato dal disposto del comma 4 dell'articolo 6 del disegno di legge, a mente del quale "la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei comuni, delle province e delle città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell'ente locale, nell'ambito della legislazione dello Stato o della regione, secondo le rispettive competenze". Non si tratta di una vera riserva di competenza, pertanto, ma della definizione dei rapporti tra legge e regolamenti nel senso di escludere:

1)      che le leggi possano entrare nella regolamentazione diretta della materia organizzativa, come per esempio, indicando quali e quanti uffici debbano esistere, quali compiti debbano svolgere, quali procedure debbano seguire;

2)      che a questo scopo possano essere adottati regolamenti statali o regionali.

In ogni caso, il disegno di legge "La Loggia", nel disporre questa impropria riserva di competenza ai regolamenti locali, darebbe corso al potere della legge, previsto dall'articolo 97 della Costituzione, di disporre di se stessa e autolimitare la propria portata, nell'esercizio della riserva relativa contenuta nell'articolo 97 stesso, sicchè per questa strada appare in linea con la Costituzione.

La cedevolezza delle leggi rispetto agli statuti, per altro, è stata esplicitamente esclusa dalle ordinanze 11 luglio 2002, n. 4066 e 11 luglio 2002, n. 4123, con le quali il Tar Lazio ha accolto la domanda di sospensiva contro la modifica statutaria approvata dal comune di Castel di Tora. Si tratta di una prima, parziale, pronuncia che esclude l'operatività di detto criterio nei rapporti tra leggi e fonti secondarie, che può anticipare l'avviso, in merito, dei giudici amministrativi. E che conferma che gli assetti organizzativi degli enti locali sono determinati dalla Costituzione e dalla legge (in questo caso, il D.lgs 267/2000), e completati e specificati da statuti e regolamenti.

 

 

(1)   Così L. Paladin, Diritto Costituzionale, Padova, 1998, pag. 221.

(2)   Propendono per il no V. Caianiello pomeridiana e P. Amovili, Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 – Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione. Impatto sull'ordinamento degli enti locali, in www.comuni.it; per il sì A. Baldassarre, audizione alla Commissione affari costituzionali del Senato del 24.10.2001 meridiana, nonché, nonché. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1996, pag. 51.

(3)   L. Paladin, cit.

(4)   In tal senso: C. A. Manfredi Selvaggi, Effetti del nuovo assetto costituzionale sull'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, in www.giust.it; S. Mielli, E' possibile una lettura del nuovo riparto di competenze tra Stato e regioni in chiave giuridica e non politica?; L. Antonini, Sono ancora legittime le normative statali cedevoli?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; contra: L. Torchia, La potestà legislativa residuale delle regioni, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; con qualche elemento di dubbio, M. Luciani, Le nuove competenze legislative delle regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; L. Oliveri, Della permanenza di un ordinamento omogeneo degli enti locali dopo la legge costituzionale 3/2001, in www.giust.it.

(5)   Sull'esclusività di tale potestà legislativa dubitano in pochi, compresi i fautori della permanenza delle leggi statali cedevoli anche nell'ambito della legislazione residuale e generale delle leggi regionali: ad es. M. Luciani cit. La dottrina maggioritaria ritiene, comunque, tale potestà legislativa come esclusiva: vedasi L. Torchia, cit.; M. Olivetti, Le Funzioni legislative regionali, in La Repubblica delle autonomie, Torino, 2001, pag. 96; T. Groppi, La legge costituzionale n. 3/2001 tra attuazione e autoapplicazione, in La Repubblica delle autonomie cit., pag. 222; A. Corpaci, L'incidenza della riforma del titolo V della Costituzione in materia di organizzazione amministrativa, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, supplemento al Fascicolo 1, gennaio-febbraio 2002, pag. 44; G. Naimo, Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle regioni alla luce della modifica del titolo V della Costituzione.

(6) A. Corpaci, cit., pag. 46.

(7) Così L. Paladin, cit., pag. 131.

(8) A ben vedere, alcuni interpreti che negano la potestà normativa regionale sull'ordinamento locale, come A. Purcaro, Autonomie locali ed autonomia normativa dopo la riforma del titolo V della Costituzione, sembrano influenzati dalla preoccupazione che uno spazio normativo regionale relativo a detto ordinamento possa determinare forti modifiche alla disciplina dei segretari comunali, preoccupazione giustificata dall'appartenenza alla categoria.

(9) Cadono, allora, in chiara contraddizione sistematica autori come P. Amovilli, cit., che affermano la sussistenza della cedevolezza delle leggi rispetto ai regolamenti locali concernenti l'organizzazione, proprio per sottolineare la volontà del costituente di valorizzare le autonomie locali e, nel contempo, negano che l'evidente intenzione del legislatore – affermata per delineare i rapporti tra fonti – possa essere considerata canone interpretativo per affermare l'abrogazione implicita delle norme sui controlli, dovuta all'abrogazione dell'articolo 130, che altro non è se non l'affermazione concreta della parità istituzionale tra Stato, regioni ed enti locali.

(10)  A. Corpaci, cit., pag. 46.

(11) In tal senso, P. Sacco, Il profilo della delega e subdelega di funzioni amministrative, Milano, 1984, pagg. 5-9.

Per ulteriori riferimenti v. la pagina di approfondimento dedicata alla modifica del Titolo V della Costituzione*.


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