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LUIGI OLIVERI
Organizzazione degli uffici degli enti locali e norme cedevoli alla luce della legge 3/2001
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E' destinato a continuare ed intensificarsi il dibattito sugli effetti della riforma del Titolo V della Costituzione, almeno finché non si sia assestata la giurisprudenza costituzionale (il che comporterà necessariamente tempi lunghi), che appare lo strumento necessario e fondamentale per razionalizzare la materia.
Merita,
allora, ulteriore approfondimento l'analisi delle modifiche agli assetti
normativi determinati dalla legge 3/2001 ed in particolare dei rapporti tra
legge statale e legge regionale e tra queste e la normazione degli enti locali,
al fine di verificare la portata dell'autonomia normativa di questi ultimi.
Nel
delicato passaggio da un regime normativo ad un altro, esiste sempre una
propensione alla conservazione di canoni interpretativi collaudati, funzionali
anche ad ottenere obiettivi di conformazione delle geometrie giuridiche a
prospettive ideologiche.
In
questo momento un canone del quale si fa largo uso è quello della cedevolezza
delle leggi. Utilizzato allo scopo di ottenere effetti completamente opposti, in
relazione ai rapporti tra le fonti ai quali si applica.
Rispetto
al rapporto tra legge dello Stato e leggi regionali che esercitino la potestà
legislativa generale e residuale, il canone della cedevolezza delle leggi
statali è invocato per giustificare più che la permanenza (non è possibile
parlare di permanenza di rapporti tra norme, in quadro costituzionale che,
comunque, appare molto diverso dal precedente), la sussistenza di una potestà
legislativa dello Stato anche nelle materie della legislazione generale e
residuale delle regioni.
L'effetto
di conservazione del regime precedente scaturente da questa tesi è
assolutamente chiaro: si nega, in sostanza, che le regioni dispongano di una
potestà legislativa esclusiva nell'ambito della legislazione generale, per
affermarne una "prevalenza" o "preferenza" rispetto alla
legge statale che abbia, comunque, dettato una disciplina negli ambiti assegnati
dalla Costituzione alla potestà residuale delle regioni.
Rispetto
al rapporto, invece, tra leggi sia statali che regionali e normazione locale, la
cedevolezza è invocata per legittimare l'effetto diametralmente opposto:
l'affermazione di una sorta di riserva normativa agli statuti e regolamenti
locali, i quali, quanto meno in ordine alla disciplina dell'organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, disporrebbero di una forza
normativa sostanzialmente assimilabile a quella delle leggi regionali del
precedente regime, sicchè le norme statali non contenenti principi, ma la
regolamentazione diretta della materia sarebbero, appunto, cedevoli rispetto a
quelle locali.
L'antinomia
è evidente: si utilizza il medesimo meccanismo interpretativo, che come un
Giano bifronte da un lato comprime una potestà normativa (quella regionale) e
dall'altro ne esalta un'altra (quella locale).
Poiché
tale antinomia non è espressamente disciplinata dal diritto positivo, ma è
frutto dell'applicazione al nuovo ordinamento costituzionale di una
ricostruzione interpretativa del rapporto leggi statali-leggi regionali del
precedente sistema, sembra necessario verificare se e in che misura essa sia da
ritenere corretta.
Nella
Costituzione ante riforma si era posto il problema dell'eventuale possibilità
per le leggi dello Stato di ingerire nelle materie assegnate alla potestà
legislativa concorrente delle regioni.
L'articolo
9, comma 1, della legge 62/1953 in merito stabilisce, ma sarebbe meglio
utilizzare l'imperfetto, che "l'emanazione
di norme legislative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall'art.
117 della Costituzione si svolge nei limiti dei princìpi fondamentali quali
risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o
quali si desumono dalle leggi vigenti". Il successivo articolo 10
precisa che "le leggi della
Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma
dell'articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con
esse. I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti
necessarie modificazioni entro novanta giorni".
Tali
disposizioni normative fornirono alla Corte costituzionale una chiave di lettura
particolare del rapporto tra legge statale e regionale, superando in senso
restrittivo per le regioni il dubbio sulla sussistenza, o meno, di una riserva
della normazione di dettaglio in favore delle leggi regionali.
Posto
che la legge statale era legittimata dalla Costituzione stessa ad emanare la
normativa di principio, occorreva, infatti, comprendere che ruolo potesse
giocare detta normativa nei confronti dell'ordinamento regionale, se le norme di
principio potessero anche incidere sulle leggi regionali e, ancora, se lo Stato
potesse abbinare alla normativa di principio anche la disciplina del dettaglio,
cioè l'indicazione operativa delle modalità attuative dei principi.
La
legge 62/1953 fornisce la risposta ai dubbi, come detto in senso restrittivo,
indicando, in primo luogo, che il limite alla legislazione regionale derivava
non solo dai principi espressamente stabiliti dalle leggi, ma anche da quelli
desumibili in via implicita.
In
secondo luogo, chiarendo che le leggi di principio potessero direttamente
abrogare le norme regionali in contrasto con esse, finendo con l'eliminare dal
mondo giuridico sia le disposizioni generali che di dettaglio di fonte
regionale.
La
Consulta confermò con una pacifica giurisprudenza la possibilità della legge
statale di ingerirsi nelle materie delle regioni, affermando l'insussistenza di
una riserva normativa in favore della legislazione regionale.
Tanto
è vero che in dottrina si è affermata la tesi che esclude la riserva di
competenza della legge regionale sulle norme di dettaglio, per parlare di una
"preferenza" della legge regionale di dettaglio nell'ambito delle
materie dell'articolo 117 del vecchio testo costituzionale (1).
La
Corte costituzionale, tuttavia, per salvaguardare il potere normativo delle
leggi regionali ha riconosciuto la possibilità per tali fonti di intervenire
nell'ambito della normativa di principio dettata dal legislatore statale,
mediante disposizioni di dettaglio che prevalessero su quelle contenute nella
legge statale, la quale, pertanto, risultava applicabile finché non disponesse
diversamente la legge regionale.
Tale
posizione giurisprudenziale è bene esemplificata dalla sentenza della Consulta
22 luglio 1985, n. 214, nella quale si è stabilito che "La legge quadro dello Stato, nel dettare i principì fondamentali nelle
materie di competenza regionale, vincolanti per le regioni a statuto ordinario
ai sensi dell'art. 117 cost. può emanare norme di dettaglio che sostituiscano
la vigente legislazione regionale, nelle more dell'adeguamento della
legislazione stessa ai principì della legge statale".
La
coesistenza di una normativa statale di disciplina dell'esercizio della potestà
legislativa delle regioni piuttosto restrittiva, nonché una posizione della
Corte costituzionale incline a permettere un'invasione di campo della legge
statale negli ambiti della potestà regionale ha dato luogo al fenomeno della
cosiddetta cedevolezza delle leggi statali di dettaglio.
La
cedevolezza è, pertanto, istituto di concezione giurisprudenziale e dottrinale
adottato per:
1)
garantire
comunque l'attuazione dei principi generali delle leggi statali, permettendo a
queste di contenere anche la disciplina di dettaglio, nell'inerzia delle
regioni;
2)
anticipare,
dunque, la vigenza delle regole concrete di applicazione dei principi;
3)
garantire,
per altro verso, egualmente una sfera di intervento normativo regionale,
consentendo alle regioni di riappropriarsi della propria potestà anche
successivamente alla normativa statale, legiferando sul dettaglio attuativo dei
principi, sicchè le disposizioni legislative statali, per questa parte, cedono
il passo a quelle regionali.
Sembra
evidente la caratteristica fondamentale della cedevolezza: l'appartenenza delle
fonti rispetto alle quali opera al medesimo piano della scala gerarchica, in
questo caso quello primario, nonché la finalità di permettere alla fonte che
viene "invasa" nella propria sfera di competenza dall'altra, di
esercitare pur sempre una propria funzione normativa, dando luogo a quella
"preferenza" di cui parla la dottrina.
In
sostanza, la cedevolezza si può considerare come un sistema di rapporti tra
fonti intermedio tra il rapporto di competenza ed il rapporto gerarchico puri.
Infatti,
nel rapporto di competenza è inammissibile qualsiasi superamento dei confini
della reciproca riserva di materie che separa l'una fonte dall'altra. Nel
rapporto di gerarchia puro, al contrario, la fonte di rango superiore può
sempre abrogare direttamente o implicitamente la fonte di rango inferiore,
agendo mediante la normazione sia di principio, sia di dettaglio. Nel primo caso
tutte le disposizioni normative di rango inferiore non conformi ai principi
decadono; nel secondo, si ha un effetto abrogativo che può essere implicito od
esplicito, dovuto, nel primo caso, all'assoluta incompatibilità tra le
previsioni normative.
E',
per la verità, dibattuto in dottrina e giurisprudenza se le norme di rango
superiore dispongano del potere di abrogare automaticamente quelle subordinate
(2).
Sul
tema anche la giurisprudenza è divisa, tuttavia, in mancanza di una precisa
disposizione in materia ed in presenza di un ordinamento normativo ancora
imperniato sulla gerarchia delle fonti (anche se largamente influenzato da altri
tipi di relazione tra norme) pare corretto propendere per la sussistenza di un
potere abrogativo automatico della fonte di rango superiore su quella inferiore,
dovuto al fatto che l'ente dotato dalla Costituzione e dalla legge di un
superiore potere normativo può e deve imporre la propria discrezionalità
nell'innovare l'ordinamento giuridico. In tal senso appare persuasiva la
sentenza del Tar Emilia-Romagna, 19 giugno 1981, n. 337, secondo la quale "nel
caso in cui le nuove norme che disciplinano in linea generale una materia
presentino carattere di determinatezza tale da vulnerare subito le norme
anteriori prodotte da fonte gerarchicamente inferiore, l'abrogazione di tali
norme si verifica automaticamente al momento dell'entrata in vigore delle norme
di grado superiore, successive ed incompatibili". La verifica
dell'incompatibilità assoluta tra le due norme deve essere il parametro, la
misura della possibilità di convivenza tra le due disposizioni di rango
diverso.
Sta
di fatto, che la cedevolezza della legge statale di dettaglio rispetto alla
legge regionale di dettaglio, salvaguarda la possibilità per la norma Statale
di ingerirsi nella sfera regionale (ciò che è tipico del rapporto di
gerarchia), ma consente alla norma regionale, pur in mancanza di una riserva di
competenza, di estendere la propria sfera normativa, riappropiandosi del potere
legiferante e di innovare il diritto anche in quegli ambiti occupati
(temporaneamente) dalla legge statale (ciò che è proprio del rapporto di
competenza o, quanto meno, della relazione tra norme poste in posizione
gerarchica paritaria).
Non
è sfuggito, tuttavia, a parte della dottrina (3) che nel sistema costituzionale
precedente le leggi statali si imponessero nei confronti di quelle regionali a
vario titolo, non solo potendo intervenire anche nella disciplina di dettaglio,
ma con pesanti limiti nel momento in cui dettavano i principi dell'ordinamento o
quando realizzavano le grandi riforme economico-sociali, tanto da giungere a
ritenere la legge regionale, in realtà, come fonte di fatto subordinata a
quella statale.
Tale
posizione di inferiorità della legge regionale rispetto a quella dello Stato
era ulteriormente confermata da un ulteriore orientamento della giurisprudenza
costituzionale e degli studiosi, tendente a legittimare una capacità di
incidenza della normativa statale anche nel dettaglio attuativo dei principi
molto più profondo del rapporto di cedevolezza.
La
Consulta, con sentenza 18 febbraio 1988, n. 177, ha avuto modo di sostenere che
"lo Stato può emanare, nelle materie
di competenza regionale, non solo leggi contenenti norme di principio, ma anche
norme di dettaglio, ove ricorrano motivi di interesse nazionale, che vanno
peraltro rigorosamente controllati dal giudice costituzionale il quale deve
verificare che il discrezionale apprezzamento del legislatore non sia
irragionevole, arbitrario o pretestuoso, che l'interesse posto a base della
disciplina sia infrazionabile oppure non possa essere ragionevolmente perseguito
mediante l'intervento normativo delle singole regioni o province autonome e che,
in ogni caso, l'intervento legislativo dello Stato, considerato nella sua
concreta articolazione, risulti in ogni sua parte giustificato e contenuto nei
limiti segnati dalla reale esigenza di soddisfare l'interesse regionale posto a
proprio fondamento".
O
ancora, e più esplicitamente, con la sentenza 28 luglio 1993, n. 355: "le
disposizioni che pongono principi relativi all'organizzazione delle usl sono
norme fondamentali di riforma economico-sociale, nelle quali possono essere
introdotte anche norme di dettaglio, che siano coessenziali ed integrative al
fine dell'attuazione della riforma; pertanto, è infondata la questione di
costituzionalità dell'art. 3, 6° comma, d.leg. 30 dicembre 1992 n. 502,
sollevata per violazione degli art. 116, 117, 118 e 119 cost., sotto il profilo
che esso detterebbe norme di dettaglio, in violazione dei limiti delle
competenze statali, poiché tali norme o sono organicamente legate ai principi
della riforma, come ad es. la prescrizione del tempo pieno per il direttore
generale e per il direttore amministrativo e quelle sull'ineleggibilità ed
incompatibilità dei direttori generali, o sono invece di carattere dispositivo,
e sono quindi applicabili solo in mancanza di norme emanate dalle regioni. Le
eventuali disposizioni di dettaglio che accompagnino queste norme fondamentali
sono tali da vincolare l'esercizio delle competenze regionali soltanto ove siano
legate con i principi della riforma da un rapporto di coessenzialità e di
necessaria integrazione".
Ad
ulteriore limitazione della forza normativa delle leggi regionali v'era, dunque,
la categoria delle leggi statali che, oltre a disporre principi, dettavano anche
disposizioni di completamento dei principi ed attuative degli stessi,
organicamente ed inscindibilmente connesse ai primi, sì da escludere del tutto
alcuna possibilità di ulteriore o diversa definizione del dettaglio da parte
delle leggi regionali.
In
questi casi, pertanto, non operava neanche il criterio della cedevolezza,
verificandosi sostanzialmente una completa invasione della sfera normativa della
legge regionale da parte di quella dello Stato.
Il
criterio della cedevolezza delle leggi statali ha, comunque, assicurato l'autocompletamento
dell'ordinamento giuridico e la garanzia da pericoli di vuoti legislativi,
dovuti da un canto al pericolo di leggi regionali non conformi ai principi della
legislazione statale, meglio dire alle leggi della Repubblica, dall'altro
all'inerzia legislativa dei consigli regionali.
Ora,
questo sistema alla luce della legge 3/2001 fa intravedere crepe piuttosto
consistenti.
Partiamo
dall'analisi degli elementi appena sopra esposti: il principio dell'autocompletamento
e quello della supplenza della legge statale.
Essi
presuppongono necessariamente un ordinamento nel quale lo Stato coincide con la
Repubblica e le regioni (così come gli enti locali) sono una componente della
Repubblica, riconosciuta da questa ed assegnataria di poteri normativi,
tuttavia, non paritari a quelli dello Stato, così come certamente non paritario
è il rapporto istituzionale tra ente Stato ed altri enti territoriali.
In
un siffatto sistema è perfettamente ammissibile che l'unitarietà
dell'ordinamento è affidata al ruolo centrale della legge della Repubblica che
ha competenza generale e non incontra limite alcuno a tale competenza, nemmeno
nelle materie assegnate alle leggi regionali, in quanto non sono ad esse
"riservate". Dunque, lo Stato, il Parlamento ha e si assume il compito
di mantenere l'unità dell'ordinamento, il beneficio dell'omogeneità del
diritto operando in vario modo, dalla legiferazione per soli grandi principi,
fino alla regolamentazione diretta della materia, lasciando uno spazio tutto
sommato residuale e ristretto alla potestà normativa di enti territoriali nei
quali la Repubblica si suddivide.
Ma
il nuovo articolo 114 della Costituzione, come unanimemente riconosciuto, pone
comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato su un piano di pari
dignità istituzionale. La Repubblica non si ripartisce più in enti
territoriali, ma è costituita dagli enti poco prima menzionati, i quali,
dunque, non sono solo una parte di un tutto, ma concorrono, ciascuno per la
propria parte, ad un insieme che di tali enti non può fare senza.
Siamo
molto vicini ad un rapporto federale, anche se non si può affermare che la
legge 3/2001 abbia modificato l'ordinamento italiano, trasformandolo in un
assetto federalista.
Quanto
sopra affermato deve necessariamente portare ad esaminare i rapporti tra le
diverse fonti normative degli enti che costituiscono la Repubblica secondo
canoni nuovi, che tengano sempre presente, in primo luogo, il rapporto di pari
dignità istituzionale e che, in secondo luogo, partano dal nuovo dettato
costituzionale, dal significato complessivo della riforma e che non si fermino,
pertanto, all'esame esclusivamente letterale di alcuni punti del nuovo testo
costituzionale, estrapolandolo dal contesto interpretativo.
Abbandonando
ogni tentazione di tale genere non si può che confutare ogni tesi, pur
autorevolmente sostenuta (4), incline a ritenere che nell'ambito della potestà
legislativa generale e residuale delle regioni sussista ancora una possibilità
di intervento della legge statale, impostata sul criterio della cedevolezza.
Le
notevoli argomentazioni sulle quali tali teorie si fondano appaiono, infatti,
influenzate da un approccio eccessivamente legato a canoni interpretativi propri
del vecchio ordinamento, non più utilizzabili in modo convincente dopo la
riforma.
Infatti,
occorre prendere atto che il nuovo articolo 117 della Costituzione prevede per
le regioni due tipi di potestà legislativa, che sono da considerare
necessariamente diversi tra loro. Da un lato la potestà legislativa concorrente
con quella dello Stato, nell'ambito della quale lo Stato può esclusivamente
legiferare per principi generali.
Dall'altro,
la potestà legislativa generale e residuale, che, in quanto diversa dalla
prima, non può essere considerata concorrente.
In
primo luogo, perché in via sistematica, essendo disciplinata da un comma
diverso e non collegato a quello che regola la potestà concorrente, dispone di
una regolamentazione costituzionale autonoma e specifica.
In
secondo luogo, perché la Costituzione non qualifica tale potestà come
concorrente. Al contrario, stabilendo espressamente l'articolo 117, comma 4, che
alle regioni "spetta" la potestà legislativa in ogni materia
"non espressamente riservata" alla legge dello Stato, ciò implica:
1)
che allo
Stato sono riservate delle materie specifiche e non generali;
2)
che le
materie non riservate allo Stato, spettano alle regioni.
Poiché
ciò che spetta alla regione, nella misura in cui ciò non sia riservato allo
Stato, non può che essere riservato in via esclusiva alla regione, si ha, per
effetto dell'articolo 117, comma 4, della Costituzione quella doppia riserva
(alla regione "spetta" un ambito non definito di materie, mentre lo
Stato può legiferare in un ambito ben individuato, a lui riservato) la classica
doppia riserva di materia, tipica del rapporto di competenza.
La
chiave corretta di lettura del comma 4 sta nella corretta interpretazione del
verbo spettare: ciò che spetta a qualcuno, non spetta a nessun altro, perché
se così fosse vi sarebbe concorrenza. Ma allora rientreremmo, nel caso delle
norme, o nel rapporto della concorrenza, oppure nel rapporto dell'alternatività
di fonti aventi medesimo rango, emanate indifferentemente da un ente piuttosto
che da un altro, regolate esclusivamente dalla successione nel tempo.
Ma
così non è: la Costituzione ha necessariamente riservato alle leggi regionali
un ambito esclusivo, precludendo qualsiasi intervento della legge statale nella
propria sfera. Questo è il vero e concreto elemento di novità nella modifica
dell'articolo 117 della Costituzione, che attribuisce significato all'inversione
del rapporto tra leggi statali e regionali, attribuendo alle prime un ambito di
intervento in un elenco tassativo di materie e, dunque, non derogabile, ed alle
seconde un ambito di intervento riservato in tutte le restanti materie, con
l'eccezione della via di mezzo, costituita dalle materie di legislazione
concorrente.
Al
di fuori di questa chiave di lettura, il comma 4 dell'articolo 117, così come
l'intero articolo, 117 perde ogni pregnanza riformatrice. Con ciò non si vuole
aderire ad alcuna ideologia precostituita di tipo federalista, ma solo
analizzare in modo oggettivo i veri effetti di una riforma, che non appare
corretto sminuire in via interpretativa. Se tali effetti possono apparire, come
in effetti appaiono, forieri di incertezza nell'ambito dell'ordinamento
giuridico, appare più corretto modificarli con un'opera di correzione e
miglioramento del testo costituzionale.
Se
così è, se, come appare, la potestà legislativa regionale di cui al comma 4
dell'articolo 117 è esclusiva (5) si deve necessariamente verificare l'effetto
della preclusione per la legge statale ad un'invasione della sfera di competenza
riservata alla legge regionale.
Dunque,
anche quando la legge statale disciplini ed affronti le materie definite
"trasversali", come la disciplina dell'ordinamento civile, della
concorrenza e la determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti
civili e sociali da garantire sull'intero territorio, ciò non implica che la
legge dello Stato possa appropriarsi di ambiti normativi appartenenti, invece,
alle regioni.
Né
è possibile sostenere che lo Stato, in queste materie trasversali, disponga
norme di principio, alle quali le leggi regionali debbano adeguarsi, chè ciò
è previsto solo nell'ambito della potestà legislativa concorrente.
Le
leggi regionali, operando nelle materie generali e residuali, non hanno da
adeguarsi, ma, semplicemente, non possono contenere regole ulteriori o diverse
rispetto a quelle fissate dallo Stato nelle materie trasversali. Lo Stato, a sua
volta, deve intervenire in questo ambito con una normativa completa, che giunga
fino al dettaglio, potendo scegliere se l'esecuzione dei principi eventualmente
disposti in siffatte leggi possa essere demandata ai regolamenti del Governo o
non, addirittura, ai regolamenti delegati alle regioni, nell'esercizio della
potestà di delega prevista dal comma 6 dell'articolo 117 della Costituzione.
Pertanto,
nella legislazione esclusiva delle regioni, l'influenza delle materie
trasversali di competenza esclusiva dello Stato crea un "mosaico
normativo", certamente di difficile composizione, anche per l'assenza della
tanto invocata Camera delle regioni, che avrebbe dovuto assolvere al compito
dell'armonizzazione della legge statale con quelle regionali.
Comunque,
il criterio della cedevolezza nel rapporto tra leggi dello Stato e leggi
regionali di cui all'articolo 117, comma 4, della Costituzione deve ritenersi
inapplicabile, soppiantato da un più chiaro "rapporto di competenza"
tra leggi statali e regionali.
Non
sembra inopportuno sottolineare che, per altro, il comma 3 dell'articolo 117
della Costituzione appare espungere del tutto il criterio della cedevolezza
nell'ambito della legislazione concorrente, ponendo un più evidente vincolo
alla legge statale di operare solo per principi, talmente forte da far ritenere
incostituzionali norme di dettaglio.
Tale
intento di disciplinare le leggi statali e quelle regionali concorrenti in base
al solo rapporto del rispetto dei principi appare confermato dal disegno di
legge 1545, al momento all'esame del Senato, che superando del tutto i criteri
di cui alla legge 62/1953 limita la potestà legislativa concorrente delle
regioni ai soli principi fondamentali dettati dalla legge statale, senza
consentire né esplicitamente né tacitamente un intervento anche nella
legislazione di dettaglio.
Può,
allora, il criterio della cedevolezza applicarsi ai rapporti tra legge (statale
e regionale) e statuti e regolamenti degli enti locali che disciplinino
l'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite?
Come
si ripete, in questo caso la cedevolezza delle leggi avrebbe lo scopo di rendere
più forte e rilevante la potestà normativa locale.
Appare
assolutamente chiaro, in effetti, l'intento della Costituzione di assegnare agli
enti locali un potere normativo più ampio, rispetto al passato regime.
Tuttavia,
sembra assolutamente da escludere che questo effetto possa ottenersi applicando
il principio della cedevolezza al rapporto tra leggi e fonti regolamentari o
statutarie.
Infatti,
come rilevato in precedenza, caratteristica della cedevolezza è la posizione
delle fonti rispetto alle quali il principio si applica su un medesimo piano
gerarchico. Altrimenti, non è possibile alcuna cedevolezza. Se, infatti, la
norma gerarchicamente superiore disciplina la regola completa della materia, ciò
significa non solo che la norma inferiore è da considerare abrogata, ma anche
che essa abbia perso qualsiasi potere di disciplinare il dettaglio
successivamente alla vigenza della regola concreta fissata per legge.
L'esempio
è classicamente fornito dall'individuazione delle competenze consiliari da
parte del D.lgs 267/2000: la legge non solo stabilisce il criterio di
assegnazione delle funzioni al consiglio (programmazione di lungo periodo e
controllo sull'attività di attuazione dei programmi), ma elenca partitamente le
competenze che si ascrivono a tali funzioni. Tale elenco è, pertanto,
tassativo: né lo statuto, né il regolamento locale possono modificarlo,
neanche prevedendo la delega delle competenze consiliari alla giunta o ad altri
organi locali.
La
riforma della Costituzione prevedendo esplicitamente lo statuto come fonte di
rango costituzionale lascia chiaramente intendere che il legislatore (sia
statale, sia regionale) non dovrebbe più operare in tal modo, costringendolo,
piuttosto, a disciplinare l'ordinamento locale solo per ampli principi, così da
rispettare la pari dignità istituzionale e permettere agli enti locali di
esercitare la più importante funzione, quella di autodeterminare il proprio
assetto istituzionale.
C'è,
tuttavia, da osservare, e questa osservazione è essenziale per verificare se la
cedevolezza possa applicarsi al rapporto tra leggi e normativa locale, che la
Costituzione non ha:
1)
né fatto
assurgere la potestà normativa locale a rango primario;
2)
né
riservato alla potestà normativa locale una sfera di competenza, sì da far
ritenere che tra leggi e regolamenti e statuti locali intercorra un rapporto di
competenza.
Anche
autori secondo i quali vi sarebbe una sorta di riserva di competenza ai
regolamenti ed agli statuti sulla materia dell'organizzazione delle funzioni(6)
notano che il testo costituzionale oltre a prevedere espressamente la potestà
statutaria ed a confermare quella regolamentare, non prevede nulla in merito
alla forza normativa di tale potestà e tace, pertanto, rispetto alla relazione
intercorrente con la legge.
Indubbiamente,
allora, statuti e regolamenti locali non sono stati parificati dalla
Costituzione a fonti normative primarie. D'altra parte, la potestà legislativa,
a mente dell'articolo 117, comma 1, della Costituzione, è esercitata solo dallo
Stato e dalle regioni; sicchè, se la potestà normativa primaria si fa
coincidere, come appare tutt'oggi necessario, con quella legislativa, non rimane
che ammettere che la potestà statutaria e regolamentare degli enti locali
rimane secondaria, anche se trova nella Costituzione una maggiore tutela da
interventi normativi invasivi e pervasivi, al punto tale da giungere, ad
esempio, a definire gli atti di impegno di spesa "determinazioni", sì
da privare gli enti locali anche della possibilità di stabilire autonomamente
quali siano e come si denominino gli atti di propria competenza.
Se,
allora, statuti e regolamenti operano su un piano diverso (ed inferiore)
rispetto alle leggi, l'istituto della cedevolezza non può operare.
Piuttosto,
se si ammette che la Costituzione abbia assegnato a statuti e regolamenti la
forza di stabilire in modo fortemente autonomo le norme sull'organizzazione
dell'ente, così da disporre anche in modo molto diverso rispetto a quanto
prevede la legge (statale e regionale), occorre concludere solo per due sistemi
alternativi:
1)
che le
leggi statali e regionali siano sempre derogabili da statuti e regolamenti;
2)
che
statuti e regolamenti, invece, dispongano realmente di uno spazio normativo
riservato.
A
ben vedere, la prima prospettiva, quella del diffuso e prevalente potere di
deroga delle norme locali sulle leggi, non modifica il rapporto gerarchico tra
le une e le altre, né muta in modo eccessivo il quadro complessivo dei rapporti
tra leggi e norme secondarie già definito dal precedente ordinamento
costituzionale.
Infatti,
la deroga opera tra fonti di rango differente, in quanto la regola generale tra
norme poste sullo stesso piano gerarchico è quello della disapplicazione della
norma più vecchia da parte della norma più recente, in quanto la deroga
parziale è l'eccezione volta a salvaguardare una parte della disciplina già
vigente.
Ma
la deroga di una fonte di rango superiore da parte di una subordinata è ammessa
esclusivamente in quanto l'ordinamento o, comunque, la norma sovraordinata lo
consenta. La deroga, allora, non può essere considerata un'eccezione alla
regola della preminenza delle fonti di legge, in quanto la loro derogabilità è
condizionata dall'espressa volontà del legislatore di consentire la deroga
stessa e di stabilire se questa possa giungere al punto di consentire alla fonte
sottordinata di sostituire completamente la legge, che diviene dunque norma
suppletiva, o di dettare un contenuto in parte differente rispetto ad un quadro
fissato dai principi enunciati o desumibili dalla legge.
La
deroga, allora, non è connaturata ad un'efficacia propria degli atti non
normativi (7), i quali non hanno alcuna possibilità di disporre diversamente
dalle leggi, se queste non lo consentano.
In
questo quadro, l'espressa previsione degli statuti e dei regolamenti quali fonti
dell'autonomia locale dovrebbero indurre, comunque, il legislatore a legiferare
sull'ordinamento locale solo per ampli principi generali, ricorrendo il più
possibile alla tecnica della supplementarietà della norma di legge o, comunque,
della derogabilità della stessa (vedremo di seguito se ciò possa consistere in
un obbligo per il legislatore).
La
seconda possibilità, allora, per affermare una capacità normativa
assolutamente autonoma e non influenzata dalle leggi per statuti e regolamenti
consiste nel concludere per la sussistenza di una riserva costituzionale di
competenza in loro favore, quanto meno nelle materie previste dal comma 6
dell'articolo 117, ovvero la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite.
Occorre
sottolineare che si è delineato un robusto filone interpretativo che afferma la
sussistenza di tale riserva di competenza.
Prima
di affrontare il tema specifico, appare opportuno, però, tornare sulla
cedevolezza, per sottolineare che di fronte ad un rapporto di riserva di
competenza tra norme il criterio della cedevolezza non può considerarsi
operante. Come visto sopra, la configurazione delle leggi dello Stato come
cedevoli rispetto alla legislazione di dettaglio regionale, nel precedente
sistema, venne elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale
proprio perché ed in quanto si negò la sussistenza di una riserva di
competenza in favore delle leggi regionali.
La
cedevolezza ed il rapporto di competenza, pertanto, sono due diversi generi di
relazione tra fonti, non integrabili tra loro e, dunque, alternativi.
Infatti,
se due fonti sono tra loro in relazione di competenza, ciò significa che a
ciascuna è reciprocamente preclusa la possibilità di normare sulle materie
riservate all'altra. Pertanto, nell'ipotesi in cui avvenga l'invasione di campo,
non opera la cedevolezza, quanto, piuttosto, l'illegittimità (costituzionale,
nell'ipotesi che la riserva sia prevista dalla Costituzione) della norma che
abbia violato la sfera di competenza dell'altra. Dunque, detta norma non è che
ceda a quella dotata di competenza, ma si rivela direttamente ed immediatamente
lesiva dell'ordinamento. Non così le leggi "cedevoli", le quali
possono legittimamente contenere una disciplina, finchè non subentri una nuova
disciplina legislativa da parte dell'ente cui è assegnato il potere di
ritornare a legiferare in materia.
Torniamo,
a questo punto, al problema della derogabilità delle leggi da parte di statuti
e regolamenti locali, per approfondire la specifica tematica del potere
normativo in merito all'organizzazione ed alle funzioni degli enti locali.
Si
pongono, a questo punto, i seguenti temi:
1)
se anche
le leggi regionali abbiano uno spazio di intervento sull'ordinamento locale e,
dunque, direttamente o indirettamente sull'organizzazione;
2)
se
statuti e regolamenti possano o meno derogare alle leggi (statali o regionali);
3)
se
statuti e regolamenti siano posti in relazione di competenza con le leggi, una
volta escluso il criterio della cedevolezza.
Rispetto
alla prima questione, maggioritaria appare l'opinione che le leggi regionali
dispongano di uno spazio normativo sull'ordinamento locale.
Tale
conclusione è avvalorata dalla considerazione che l'ordinamento locale può
essere considerato come materia normativa omogenea, tanto da essere stata da
sempre (l'unica eccezione il decennio compreso tra il '90 ed il 2000) oggetto di
una disciplina organicamente trattata in testi unici. Se ciò è vero, poiché
le regioni possono disciplinare con legge tutte le materie non riservate alla
potestà legislativa statale, non si può negare che le regioni abbiano potestà
legislativa sull'ordinamento locale, con l'eccezione della legislazione
elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali, che
l'articolo 117, comma 2, lettera p), assegna espressamente alla potestà
legislativa dello Stato.
La
Costituzione ha disposto, dunque, implicitamente per la potestà legislativa
delle regioni sull'ordinamento locale, prevedendo esplicitamente una riserva di
parte della materia alla legge dello Stato.
L'operazione
normativa del legislatore costituente si rivela corretta e doverosa: poiché,
infatti, ha attribuito alle regioni una competenza generale e residuale, l'unico
sistema per limitare tale competenza consiste nel riservare espressamente alla
potestà esclusiva dello Stato materie o parti di materie. Se la riserva non è
esplicita, il principio della residualità della competenza della potestà
legislativa regionale deve necessariamente prevalere e, quindi, occorre
concludere per la sussistenza della competenza del legislatore regionale.
Quest'ultimo
criterio, come è logico, non solo opera nei rapporti tra legge statale e legge
regionale, ma anche tra questa e norme degli enti locali.
Non
bisogna mai perdere di vista la caratteristica della generalità e residualità
della competenza legislativa regionale. Che è residuale in quanto è la
Costituzione stessa che estende lo spettro della competenza normativa ad ogni
materia non riservata allo Stato. Ed è generale perché, appunto, l'intervento
sulle materie non espressamente escluse riguarda tutte, ma proprio tutte, le
altre materie, senza eccezione alcuna.
Queste
conclusioni debbono, allora, essere la guida per verificare quali siano i
rapporti tra fonti che disciplinano l'organizzazione degli enti locali e per
determinare quali siano queste fonti.
Si
può subito fornire una risposta parziale al secondo quesito: le fonti abilitate
a disciplinare l'ordinamento, ma anche, pro quota, l'organizzazione sono
sicuramente la legge dello Stato e sicuramente statuti e regolamenti locali.
Questi ultimi, perché lo stabilisce con assoluta chiarezza l'articolo 117,
comma 6, della Costituzione. La legge dello Stato, perché la legislazione sugli
organi di governo non può contenere anche una disciplina delle funzioni e delle
loro competenze, anche indiretta, che, a sua volta, implicitamente afferisce
all'assetto organizzativo.
Per
essere più chiari, l'attuale testo dell'articolo 42 del D.lgs 267/2000
nell'indicare in premessa che il consiglio comunale e provinciale (organo degli
enti) svolge le funzioni di indirizzo e controllo, poi definisce anche le sue
competenze, andando ad un dettaglio definitorio che trasborda, talvolta, dal
piano dell'indirizzo a quello della concreta gestione, come nel caso della
competenza per le compravendite immobiliari, che, per quanto siano atti
considerabili di straordinaria amministrazione, incidono maggiormente sulla
concreta operatività, che non sul piano della programmazione e dell'indirizzo.
Ciò significa che, pur essendo operante il principio della separazione delle
funzioni di indirizzo e controllo da quelle gestionali, assegnate ala dirigenza,
vi sono alcuni ambiti nei quali la legge stessa assegna funzioni di natura
gestionale agli organi politici, il che determina effetti anche
sull'organizzazione interna degli enti, oltre che indubbiamente sugli assetti
istituzionali.
E'
del tutto evidente, comunque, per completare la risposta, che anche la legge
regionale è fonte dell'ordinamento locale e può essere fonte legislativa per
la specifica materia dell'organizzazione degli uffici e delle funzioni. Questo
perché, come rilevato prima, la potestà legislativa è assegnata a Stato e
regioni e perché queste la esercitano su tutte le materie non riservate alla
legge statale. Ora, l'articolo 97 della Costituzione, al comma 1, prevede che i
pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge.
Poiché
questo prevede la Costituzione, allora è inevitabile concludere che:
1)
i
pubblici uffici statali e degli enti pubblici nazionali possono essere
disciplinati dalla legge dello Stato, in quanto così stabilisce espressamente
l'articolo 117, comma 2, lettera g), della Costituzione;
2)
gli altri
pubblici uffici, per effetto della generale e residuale competenza normativa
delle leggi regionali, se sono disciplinati con legge, sono disciplinati con
legge regionale.
Non
si può, in sostanza, negare che la legge regionale possa intervenire nella
regolamentazione dell'ordinamento locale ed, in particolare, nella disciplina
dell'organizzazione, a meno di non individuare nella Costituzione una riserva
agli statuti ed ai regolamenti che escluda tale competenza regionale.
Ma
tale riserva, a ben vedere, non sussiste. E ciò priva di pregio le tesi di chi
non solo dubita che sussista una possibilità di intervento normativo della
legge regionale nella materia degli enti locali, ma afferma addirittura che
l'organizzazione degli uffici sia stata attribuita in via esclusiva alle fonti
statutarie e regolamentari.
La
riserva di competenza, perché sia realmente tale, come visto prima, deve essere
esplicita. Un certo ambito normativo, per essere riservato, dunque sottratto, ad
un altro ambito, deve necessariamente essere individuato espressamente come
spettante ad una fonte piuttosto che ad un'altra.
Leggendo
la Costituzione, non si riscontra, tuttavia, alcuna formula che riservi a
statuti e regolamenti la competenza esclusiva sulla materia dell'organizzazione:
in merito, infatti, il comma 6 dell'articolo 117 si limita ad effettuare la
ricognizione che comuni, province e città metropolitane hanno potestà
regolamentare. Dal testo del comma 6 non si ricava alcuna assegnazione alla sola
sfera di competenza dei regolamenti o degli statuti di detta materia.
Pertanto,
in mancanza di simile formula, per il principio della generalità e residualità
della potestà legislativa regionale, le regioni possono certamente legiferare
in merito, attivando, del resto, una riserva di legge prevista dalla
Costituzione stessa, all'articolo 97.
Conta
poco che la riserva di legge in questione sia considerata assoluta o relativa:
conta, invece, che detta riserva di legge esista e poiché, come ripetuto più
volte, la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni, senza
alcun dubbio le regioni possono legiferare in merito all'organizzazione degli
uffici.
Negare
questo, significa commettere il grave errore di ritenere l'articolo 97 della
Costituzione applicabile, apoditticamente, solo alla legge dello Stato.
Insomma,
altro è affermare che in merito all'organizzazione la potestà regolamentare è
degli enti locali, tesi da condividere, altro è sostenere che detta potestà
regolamentare soppianti quella legislativa, in carenza di una riserva esplicita
in merito.
Altro
è sostenere che le leggi sia dello Stato sia delle regioni, a causa della
valorizzazione delle autonomie locali e della costituzionalizzazione della fonte
statutaria, debbono limitarsi il più possibile a legiferare per ampi principi,
tesi da considerare corretta, altro è ritenere che non abbiano (le leggi
regionali) alcun modo di disciplinare legislativamente la materia.
Bisogna
prendere atto che la Costituzione non ha inserito alcun criterio né di riserva,
né di preferenza dei regolamenti locali per quanto riguarda l'organizzazione
degli uffici(8).
La
preferenza è possibile ricavarla esclusivamente in via interpretativa,
risalendo alla volontà del legislatore costituente ed agli effetti della
riforma costituzionale, tendenti a porre su un piano di pari dignità gli enti
territoriali (9).
Ma
giungere, sempre in via interpretativa all'affermazione della riserva di
competenza degli statuti e dei regolamenti sull'organizzazione, è certamente
una forzatura, un vulnus difficile da
accettare alla funzione legislativa.
Oltre
tutto, poco persuasiva appare l'argomentazione che, a sostegno della tesi della
riserva di competenza alla normativa locale, si fonda sulla relatività della
riserva di legge contenuta nell'articolo 97 della Costituzione.
Si
osserva(10) che l'articolo 97 della Costituzione tenderebbe a garantire il
riparto delle competenze organizzative tra potere legislativo e potere
esecutivo, tra Parlamento e Governo, sicchè sarebbe operante esclusivamente
nell'ambito dello Stato, nel quale opera la divisione dei poteri.
L'articolo
97 della Costituzione, allora, potrebbe operare nelle regioni solo laddove gli
statuti delle medesime ammettano e tutelino la separazione dei poteri, in quanto
dotati del potere di determinare la forma di governo.
Ma
questa impostazione non persuade, in quanto appare incompleta. Si limita,
infatti, alla lettura dell'articolo 123 della Costituzione, che in effetti
assegna agli statuti il compito di determinare la forma di governo delle
regioni. Gli statuti, afferma il comma 1 dell'articolo 123, debbono essere in
armonia con la Costituzione. Questa, all'articolo 121, commi 2 e 3, tuttavia,
stabilisce espressamente che il consiglio regionale esercita le potestà
legislative, mentre definisce la giunta regionale l'organo esecutivo: appare
assolutamente chiaro che la separazione dei poteri sia necessariamente operante
anche nelle regioni, sicché l'articolo 97, quale garanzia del riparto dei
poteri di organizzazione tra organo legiferante ed organo esecutivo non può non
operare anche nell'ambito dell'ordinamento regionale.
L'articolo
97, invece, assolve a tutt'altro scopo: assegnare alla legge il compito di
attribuire agli uffici pubblici la misura dei poteri che essi possono
esercitare, fissando, così, la loro competenza in modo preordinato, in modo da
consentire ai cittadini di conoscere in anticipo e con norme certe quale sia
l'autorità competente, quali siano i poteri che può esercitare e con quali
limiti, nonché in quali forme tali poteri possano esplicarsi. Si tratta di un
principio di trasparenza, necessario ad evitare che il potere esecutivo ed
amministrativo, disponendo di se stesso, modifichi continuamente i propri
assetti di poteri, sfuggendo al contraddittorio con i terzi (11).
Insomma,
occorre che provveda la legge a predeterminare gli assetti delle competenze.
Poi, attraverso i regolamenti gli organi esecutivi sono liberi, nell'ambito
degli assetti generali indicati dalla legge, di scegliere come ripartire le
varie competenze tra i vari uffici, titolari dell'esercizio di funzioni cui le
competenze siano ascrivibili.
La
constatazione che la riserva di legge di cui all'articolo 97 della Costituzione
sia solo relativa e non assoluta, non può portare a concludere che perciò solo
gli enti locali possano produrre statuti e regolamenti concernenti
l'organizzazione delle funzioni con forza prevalente sulle leggi regionali o,
comunque, in deroga alle stesse.
Dunque,
è da escludere che a comuni, province e città metropolitane sia stata
assegnata, da parte dell'articolo 117, comma 6, della Costituzione una potestà
normativa regolamentare di tipo esclusivo, mentre è da considerare che la
tutela costituzionale a detta potestà vincoli il legislatore a dettare norme di
principio, per lasciare agli enti locali il necessario spazio di autonomia
normativa.
C'è,
tuttavia, da definire cosa si intenda per regolamenti di disciplina
dell'organizzazione e di disciplina dello svolgimento delle funzioni attribuite.
La
disciplina dell'organizzazione attiene al potere di auto organizzazione, tipico
degli enti autonomi, i quali, nell'esercizio, appunto, della propria autonomia,
stabiliscono come debbono essere esercitati i poteri pubblici di cui sono dotati
i propri organi.
Questa
potestà non va confusa, allora, con quella di determinare i poteri stessi e,
dunque, le sfere di competenza degli organi amministrativi. Tale compito, a
mente del combinato disposto dell'articolo 97, commi 1 e 2, della Costituzione,
appartiene alla legge. Dunque, la potestà regolamentare di organizzazione
assegnata agli enti locali permette loro, nell'ambito delle competenze assegnata
dalla legge agli organi, di determinare come le competenze previste sono
esercitate, in base a quali procedimenti, nonché in base alla struttura di
vertice prevista, che può cambiare notevolmente da ente ad ente, in relazione
alle dimensioni ed alla quantità di uffici di livello dirigenziale ivi
previsti.
La
disciplina dello svolgimento delle funzioni, a sua volta, non va confusa con la
materia dell'attribuzione delle funzioni stesse, anch'essa riservata alla legge,
per effetto dell'articolo 118, comma 2, della Costituzione. I regolamenti,
allora, relativi allo svolgimento delle funzioni debbono stabilire il flusso dei
procedimenti, necessario per il concreto esercizio delle funzioni medesime.
L'articolo
7 del D.lgs 267/2000 impone ai regolamenti il rispetto dei principi fissati
dalla legge (e dallo statuto). Si tratta di una norma che, letta in combinazione
con la Costituzione, estende la portata normativa dei regolamenti locali,
prevedendo che la loro potestà normativa non è limitata rigidamente dalla
legge, ma può esercitarsi nell'ambito di una banda di oscillazione entro la
quale muoversi, disponendo delle previsioni che integrino ed in parte pieghino
il principio alla specifica disciplina della fattispecie. Ciò, ovviamente, non
significa che i regolamenti comunali non appartengano più alla categoria delle
norme secondarie: essi sono pur sempre subordinati alla legge ed ai limiti
previsti dall'ordinamento giuridico. L'articolo 7 del testo unico, soprattutto
alla luce dell'articolo 117, comma 6, della Costituzione, è da considerare come
una disposizione di carattere programmatico, nel rispetto della quale le leggi,
che disciplinano materie rientranti nell’ordinamento degli enti locali,
dovrebbero limitarsi a fissare i principi generali delle materie regolate,
lasciando ai regolamenti la normativa di dettaglio.
Pertanto,
nelle intenzioni del legislatore, i regolamenti degli enti locali dovrebbero
essere configurati come regolamenti tipicamente attuativi ed integrativi, ma di
larghissimi spazi normativi lasciati dalla legislazione di principio.
Gran
parte dei regolamenti degli enti locali, comunque, rientrano nella categoria dei
regolamenti esecutivi, in quanto hanno il compito di dare concreta esecuzione,
in ambito locale, alle disposizioni di legge.
Rara
o quasi inesistente è la fattispecie dei regolamenti delegati.
Poiché
i regolamenti degli enti locali debbono rispettare i principi fissati dalla
legge, nonché dallo statuto, possono disciplinare solo materie sulle quali vi
sia una disciplina normativa a monte: per questa ragione non può esistere la
fattispecie dei regolamenti locali di tipo indipendente. Sicchè, non si può
condividere l'opinione di chi sostiene che la relatività della riserva di legge
di cui all'articolo 97 della Costituzione consenta agli enti locali di normare
in merito all'organizzazione sia praeter
che contra legem, giacché tale
affermazione non trova riscontri normativi concreti.
Secondo
la giurisprudenza maggioritaria, infatti, la relatività della riserva di legge
non può giungere a rendere relativa la legge, ovvero ad espungere la legge (in
questo caso regionale) dal sistema delle fonti dell'organizzazione degli uffici.
Il Tar Lazio, sez. I, 23 aprile 1996, n. 667, ha sancito che "la
riserva di legge posta dall'art. 97 Cost. in materia di organizzazione degli
uffici pubblici deve considerarsi relativa e, pertanto, deve ritenersi
soddisfatta nel caso in cui la legge predetermina i principi fondamentali ai
quali la normazione secondaria deve ispirarsi".
Ciò
significa che la normazione secondaria può disciplinare la materia
dell'organizzazione degli uffici pubblici nell'ambito dei confini dei principi
fondamentali che le leggi debbono pur sempre indicare.
Alla
stessa conclusione è giunta la Corte dei conti, sez. contr., 24 novembre 1995,
n. 149, secondo la quale "gli art. 95
e 97 cost. non consentono che l'organizzazione dei pubblici uffici, oggetto di
riserva di legge, sia pur relativa, possa venir demandata a norme di rango
secondario, attraverso il meccanismo della cosiddetta delegificazione, senza che
una norma primaria stabilisca criteri sufficientemente determinati ed individui
esattamente l'ambito di operatività dei successivi regolamenti governativi".
Non
bisogna, in sostanza, incorrere nel medesimo errore in cui è incappato il
Ministero dell'interno, nell'intento di risolvere la questione delle sanzioni
amministrative per violazioni di ordinanze e regolamenti locali, a seguito
dell'abrogazione degli articoli 106 e 107 del R.D. 383/1934.
Come
è noto, il Consiglio di stato, col parere 855/01, ha clamorosamente bocciato la
tesi ministeriale, secondo la quale i comuni potevano ripristinare tale potere
sanzionatorio mediante la potestà statutaria, espressamente riconosciuta dalla
Costituzione.
L'alto
consesso amministrativo ha smentito le tesi ministeriali, approfondendo proprio
la questione della riserva relativa di legge, contenuta nel caso delle sanzioni
– quali prestazioni patrimoniali – nell'articolo 23 della Costituzione. I
ragionamenti del Consiglio di stato appaiono integralmente applicabili anche
alla fattispecie dell'articolo 97 della Costituzione.
I
giudici di Palazzo Spada hanno correttamente osservato che la riserva di legge
relativa preclude alle fonti secondarie di dettare direttamente una disciplina
normativa, ma non esclude che la legge primaria, emanata in adempimento alla
riserva prevista dalla Costituzione, proprio perché salvaguardata da una
riserva solo relativa, possa demandare ai regolamenti il completamento della
fattispecie, attribuendo loro anche poteri derogatori.
L'esercizio
della potestà normativa secondaria, in mancanza di una riserva costituzionale
di competenza, esplicato in carenza della legge (anche regionale) che eserciti
la riserva di legge di cui all'articolo 97 della Costituzione, o che sia in
contrasto con detta legge, determina l'illegittimità delle fonti secondarie,
per violazione del principio di legalità, ma anche per violazione stessa della
Costituzione.
In
effetti, l'articolo 114 della carta costituzionale, con riferimento alla potestà
statutaria, prevede che detta potestà debba essere esercitata secondo i
principi fissati dalla Costituzione: insomma è del tutto ovvio che gli statuti
debbano obbedire ai principi, così come non possano contraddire alle discipline
concrete della Costituzione. Non si vede, allora, come uno statuto, e ancor meno
un regolamento, possano dettare la disciplina dell'organizzazione degli uffici
in modo da contrastare con l'articolo 97 della Costituzione.
Non
si vede, allora, come le leggi possano essere considerate cedevoli rispetto alla
normazione secondaria, mentre la loro derogabilità, astrattamente ammissibile,
è rimessa ad una precisa volontà del legislatore, che appare necessaria anche
se non obbligatoria. Insomma, se il legislatore entrasse nel dettaglio della
disciplina dell'ordinamento locale certamente non opererebbe in linea col
rilievo costituzionale assunto dagli statuti e dai regolamenti, ma indubbiamente
non violerebbe la Costituzione, posto che essa non riserva alcuna competenza
alla normativa locale.
Questa
impostazione è nella sostanza contenuta nell'articolo 2 del disegno di legge
1545, il quale assegna allo statuto il compito di stabilire i principi di
organizzazione e funzionamento dell'ente "in
armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di
organizzazione pubblica". Non si vede quale fonte, se non la legge, e
nell'esercizio della riserva di cui all'articolo 97, possa disporre tali
principi generali.
Il
comma 6 del citato articolo 2 del disegno di legge, nel disporre che "fino all'adozione dei regolamenti degli enti locali (i quali debbono
rispettare le norme statutarie e dunque sono a loro volta soggetti ai medesimi
limiti degli statuti, nda), si applicano
le norme statali e regionali, fermo restando quanto previsto dal presente
articolo":
1)
conferma
espressamente che le leggi regionali hanno competenza nella materia
dell'ordinamento locale e dell'organizzazione degli uffici degli enti locali;
2)
non
introduce alcun criterio di cedevolezza delle leggi, in quanto ribadisce che
quanto prevede l'articolo 2 al quale appartiene rimane comunque fermo, cioè
continuano ad operare sempre i limiti dei principi generali in materia di
organizzazione pubblica;
3)
introduce,
semmai, l'autolimitazione al legislatore, il quale, in sostanza, in adempimento
alla riforma della Costituzione, assegna alla legge il compito di definire gli
ambiti, i confini generali dell'organizzazione.
Ciò
è confermato dal disposto del comma 4 dell'articolo 6 del disegno di legge, a
mente del quale "la disciplina
dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei
comuni, delle province e delle città metropolitane è riservata alla potestà
regolamentare dell'ente locale, nell'ambito della legislazione dello Stato o
della regione, secondo le rispettive competenze". Non si tratta di una
vera riserva di competenza, pertanto, ma della definizione dei rapporti tra
legge e regolamenti nel senso di escludere:
1)
che le
leggi possano entrare nella regolamentazione diretta della materia
organizzativa, come per esempio, indicando quali e quanti uffici debbano
esistere, quali compiti debbano svolgere, quali procedure debbano seguire;
2)
che a
questo scopo possano essere adottati regolamenti statali o regionali.
In
ogni caso, il disegno di legge "La Loggia", nel disporre questa
impropria riserva di competenza ai regolamenti locali, darebbe corso al potere
della legge, previsto dall'articolo 97 della Costituzione, di disporre di se
stessa e autolimitare la propria portata, nell'esercizio della riserva relativa
contenuta nell'articolo 97 stesso, sicchè per questa strada appare in linea con
la Costituzione.
La cedevolezza delle leggi rispetto agli statuti, per altro, è stata esplicitamente esclusa dalle ordinanze 11 luglio 2002, n. 4066 e 11 luglio 2002, n. 4123, con le quali il Tar Lazio ha accolto la domanda di sospensiva contro la modifica statutaria approvata dal comune di Castel di Tora. Si tratta di una prima, parziale, pronuncia che esclude l'operatività di detto criterio nei rapporti tra leggi e fonti secondarie, che può anticipare l'avviso, in merito, dei giudici amministrativi. E che conferma che gli assetti organizzativi degli enti locali sono determinati dalla Costituzione e dalla legge (in questo caso, il D.lgs 267/2000), e completati e specificati da statuti e regolamenti.
![]()
(1)
Così L.
Paladin, Diritto Costituzionale, Padova, 1998, pag. 221.
(2)
Propendono
per il no V. Caianiello pomeridiana e P. Amovili, Legge costituzionale n. 3 del
18 ottobre 2001 – Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione. Impatto sull'ordinamento degli enti locali, in www.comuni.it; per
il sì A. Baldassarre, audizione alla Commissione affari costituzionali del
Senato del 24.10.2001 meridiana, nonché, nonché. G. Zagrebelsky, Manuale di
diritto costituzionale, vol. I, Il sistema delle fonti del diritto, Torino 1996,
pag. 51.
(3)
L.
Paladin, cit.
(4)
In tal
senso: C. A. Manfredi Selvaggi, Effetti del nuovo assetto costituzionale
sull'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, in www.giust.it; S.
Mielli, E' possibile una lettura del nuovo riparto di competenze tra Stato e
regioni in chiave giuridica e non politica?; L. Antonini, Sono ancora legittime
le normative statali cedevoli?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it;
contra: L. Torchia, La potestà legislativa residuale delle regioni, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it; con qualche elemento di dubbio, M.
Luciani, Le nuove competenze legislative delle regioni a statuto ordinario.
Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del
2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; L. Oliveri, Della permanenza
di un ordinamento omogeneo degli enti locali dopo la legge costituzionale
3/2001, in www.giust.it.
(5)
Sull'esclusività
di tale potestà legislativa dubitano in pochi, compresi i fautori della
permanenza delle leggi statali cedevoli anche nell'ambito della legislazione
residuale e generale delle leggi regionali: ad es. M. Luciani cit. La dottrina
maggioritaria ritiene, comunque, tale potestà legislativa come esclusiva:
vedasi L. Torchia, cit.; M. Olivetti, Le Funzioni legislative regionali, in La
Repubblica delle autonomie, Torino, 2001, pag. 96; T. Groppi, La legge
costituzionale n. 3/2001 tra attuazione e autoapplicazione, in La Repubblica
delle autonomie cit., pag. 222; A. Corpaci, L'incidenza della riforma del titolo
V della Costituzione in materia di organizzazione amministrativa, in Il lavoro
nelle pubbliche amministrazioni, supplemento al Fascicolo 1, gennaio-febbraio
2002, pag. 44; G. Naimo, Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle regioni
alla luce della modifica del titolo V della Costituzione.
(6) A.
Corpaci, cit., pag. 46.
(7) Così L.
Paladin, cit., pag. 131.
(8) A ben
vedere, alcuni interpreti che negano la potestà normativa regionale
sull'ordinamento locale, come A. Purcaro, Autonomie locali ed autonomia
normativa dopo la riforma del titolo V della Costituzione, sembrano influenzati
dalla preoccupazione che uno spazio normativo regionale relativo a detto
ordinamento possa determinare forti modifiche alla disciplina dei segretari
comunali, preoccupazione giustificata dall'appartenenza alla categoria.
(9) Cadono,
allora, in chiara contraddizione sistematica autori come P. Amovilli, cit., che
affermano la sussistenza della cedevolezza delle leggi rispetto ai regolamenti
locali concernenti l'organizzazione, proprio per sottolineare la volontà del
costituente di valorizzare le autonomie locali e, nel contempo, negano che
l'evidente intenzione del legislatore – affermata per delineare i rapporti tra
fonti – possa essere considerata canone interpretativo per affermare
l'abrogazione implicita delle norme sui controlli, dovuta all'abrogazione
dell'articolo 130, che altro non è se non l'affermazione concreta della parità
istituzionale tra Stato, regioni ed enti locali.
(10)
A. Corpaci, cit., pag. 46.
(11)
In tal senso, P. Sacco, Il profilo della delega e subdelega di funzioni
amministrative, Milano, 1984, pagg. 5-9.
![]()
Per ulteriori riferimenti v. la pagina di approfondimento dedicata alla modifica del Titolo V della Costituzione*.