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LUIGI OLIVERI

Statuto comunale e sanzioni amministrative

La dottrina, all'indomani dell'entrata in vigore del D.lgs 267/2000, ha correttamente concentrato la sua attenzione sugli indesiderati effetti derivanti dall'abrogazione completa del testo unico 383/1934, comprendente anche gli articolo 106 e seguenti, che fondavano la possibilità, per il comune, di sanzionare ogni violazione ai regolamenti ed alle ordinanze.

Il problema è noto: l'articolo 106 del testo unico del '34 conteneva la disposizione della generale sanzionabilità con l'ammenda delle contravvenzioni ai regolamenti comunali, salvo che specifiche norme di legge non disponessero altrimenti.

In base a questa norma di legge, qualsiasi disposizione regolamentare era perseguibile con la sanzione amministrativa, che, a seguito della depenalizzazione operata con la legge 689/1981, ha sostituito la contravvenzione e dunque l'illecito penale.

Il venir meno del testo unico del '34 fa cadere, evidentemente, la norma generale dell'articolo 106, che "copriva" ogni ipotesi di violazione dei regolamenti amministrativi, anche a prescindere dall'esistenza di una legge specifica che, a monte, stabilisse quali comportamenti dovessero essere sanzionati.

Ora, l'assenza di una simile norma generale, deve essere vista in rapporto a quanto stabilisce l'articolo 1, comma 1, della legge 689/81, a mente del quale "nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione". Risulta, quindi, impossibile sanzionare amministrativamente una violazione ai regolamenti comunali, se non esista una disposizione di legge che preveda espressamente la possibilità di provvedere a tale sanzione. L'esempio classico è il regolamento d'igiene comunale, che adesso risulta "incoercibile", giacchè manca una disposizione di legge che disciplini le violazioni e le sanzioni relative.

Si è, pertanto, aperto un "vuoto" normativo che, oggettivamente, mette i comuni in grandi difficoltà, poiché l'applicazione di una sanzione amministrativa in carenza della norma di legge che ne sta alla base dovrebbe dare altissime probabilità di successo al cittadino che si opponga, rilevando l'illegittimità della sanzione medesima.

Da qui il tentativo di individuare, con mezzi rapidi e che esaltino l'autonomia degli enti locali, sistemi per colmare il vuoto normativo e riattribuire agli enti locali la perduta potestà sanzionatoria.

Alcuni autori hanno sollevato la questione, invitando il legislatore ad intervenire con celerità, suggerendo, tuttavia, di procedere, in mancanza di una legge, attraverso lo statuto, introducendo una disposizione in tutto analoga a quella contenuta nell'abrogato articolo 106 del testo unico del '34. I medesimi autori notano, comunque, che la soluzione non pone del tutto al riparo l'azione sanzionatoria dei comuni, perché l'articolo 1 della legge 689/1981 dispone una vera e propria riserva di legge in merito alle sanzioni amministrative.

Proprio la presenza di questa riserva di legge, deve far ritenere che l'abrogazione dell'articolo 106 del testo unico del '34, anche se complica la vita agli enti locali, è un segno di civiltà giuridica.

Non si può non notare, infatti, il contrasto tra una disposizione quale quella del citato articolo 1 della legge sulla depenalizzazione, che applica anche alle sanzioni amministrative il principio riassunto nel brocardo nullum crimen, nulla poena sine lege. Il principio della riserva di legge, pertanto, comporta: che solo la legge può considerare un certo fatto quale illecito amministrativo; tale disposizione di legge deve essere espressa; non può essere passibile di applicazione analogica, in quanto ciascuna specifica sanzione scaturisce da una precisa fattispecie di violazione.

Allora, l'articolo 106 del testo unico del '34 appariva abbastanza non in linea col principio della riserva di legge, giacchè era con ogni evidenza una sorta di "norma in bianco", che consentiva l'applicazione di sanzioni amministrative, senza però individuare i fatti concretamente considerabili violazioni amministrative.

Non si deve dimenticare che quanto previsto dall'articolo 1, comma 1, della legge 689/1981 non è che l'estensione, anche alle sanzioni amministrative, di fondamentali disposizioni costituzionali. In primo luogo, l'articolo 23, a mente del quale "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge". In secondo luogo, l'articolo 25, secondo il quale "… nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

Il sistema sanzionatorio disegnato dalla stessa Costituzione, allora, impone espressamente che sia la legge ad indicare espressamente le violazioni sanzionabili e l'entità (al limite da comprendere tra un minimo ed un massimo) della sanzione pecuniaria. Pertanto, l'abrogazione dell'articolo 106, da questo punto di vista, appare in linea con il sistema sanzionatorio, in quanto obbliga il legislatore ad indicare espressamente i casi nei quali gli enti locali possono imporre sanzioni (e quali) per le violazioni ai propri regolamenti.

Ora, proprio le medesime considerazioni fin qui svolte, dovrebbero lasciar concludere per l'impossibilità che gli statuti intervengano a colmare il vuoto normativo, derivante dall'abrogazione del R.D. 383/1934.

La presenza nell'ordinamento giuridico di ben due disposizioni costituzionali e di una derivante da legge ordinaria che contengono la riserva alla legge della possibilità di prevedere le sanzioni amministrative, dovrebbe preclude sia l'esistenza di generiche norme di legge, sia, soprattutto, la possibilità che siano altre fonti a regolamentare la materia.

L'unico sistema per considerare lo statuto fonte legittimata a disciplinare la materia è operare una ricostruzione della sua collocazione nel campo delle fonti tale da poterlo considerare fonte non sottordinata gerarchicamente alla legge, ma in rapporto con essa, in base al principio della competenza.

Questa ricostruzione può andare bene de iure condendo, ma alla luce dell'attuale sistema giuridico non appare persuasiva. La Costituzione, che è la fonte delle fonti, mette in rapporto di competenza e non di gerarchia solo la legge ordinaria dello stato e la legge regionale (anche se alcuni autori, vedi Paladin, sottolineano che le leggi regionali, in quanto soggette ai principi generali dell'ordinamento restano su un piano pur sempre inferiore).

La medesima carta costituzionale non parla mai degli statuti comunali. Né ha mai abrogato espressamente l'articolo 4, comma 1, delle cosiddette "preleggi", che sta alla base del sistema gerarchico delle fonti. Né, guardando al sistema normativo costituzionale, appare che esista un 'incompatibilità tra la Costituzione e la citata norma delle "preleggi"[i], sicchè sembra corretto concludere per l'esistenza di una gerarchia delle fonti, ad esclusione, dunque, di un rapporto di competenza tra legge e statuto.

Che lo statuto sia, inoltre, pur sempre subordinato alla legge, nonostante il rilievo maggiore acquisito per effetto della sua maggiore capacità di resistenza alle norme di legge che non contengano principi inderogabili, lo dimostra la circostanza che la fonte statutaria è disciplinata da una legge ordinaria e che, per principio pacifico in dottrina, le fonti non possono disciplinare fonti a sé sovraordinate o pari ordinate.

Ma al di là di queste considerazioni, ammesso che gli statuti si possano collocare nel medesimo gradino della scala gerarchia al quale appartiene la legge, sia la Costituzione, sia la legge 689/1981, parlano espressamente di legge, tanto che non apparirebbe corretta la disciplina delle sanzioni amministrative attraverso qualsiasi altra fonte che non sia legislativa o avente forza di legge (decreto legge o decreto legislativo).

L'evidente intento della riserva di legge espressa prevista dall'ordinamento giuridico consiste nell'assicurare certezza del diritto, uniforme considerazione delle fattispecie sanzionabili in tutto il territorio, migliore conoscibilità astratta del precetto legislativo, tutte condizioni che sarebbero sicuramente vulnerare se ad ognuno degli oltre 8.100 si desse la possibilità di disciplinare attraverso il proprio statuto le sanzioni amministrative. Ciascun cittadino dovrebbe conoscere le 8.000 e più norme diverse, e correrebbe il rischio di subire sanzioni che da un'altra parte non sono invece previste, o previste in misura diversa, senza poter più, quindi, avere un parametro per il proprio comportamento.

La soluzione al problema, allora, è legislativa, ed è opportuno che così resti.

Si osserva che, per altro, è rimasto in vigore l'articolo 650 del codice penale, che continua a punire l'inosservanza dei provvedimenti legalmente dati delle autorità per ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o igiene con l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda fino a lire 400 mila. In questo caso la violazione resta ascritta all'illecito penale e non a quello amministrativo, ma nell'ordinamento resta pur sempre una disposizione di legge che sanziona, dunque, sicuramente l'inosservanza delle ordinanze emanate dal sindaco (ma nel caso dell'igiene anche dai dirigenti). In questo caso non si applicano le disposizioni sulla depenalizzazione di cui alla legge 689/81, fuoriuscendo dalla fattispecie considerata. Appare, però, opportuno sottolineare come nell'ordinamento esista una norma che continua a sanzionare la violazione delle disposizioni delle autorità amministrative.

Resta, inoltre, il problema della competenza ai fini dell'adozione dell'ordinanza-ingiunzione, nell'ambito di quei procedimenti sanzionatori che siano basati su un'espressa previsione normativa.

Parte della dottrina continua a nutrire dubbi sull'attribuzione della competenza alla dirigenza, per due ragioni. In primo luogo, perché l'articolo 107, comma 3, lettera g), fa espresso riferimento alle sole sanzioni edilizie e paesaggistiche. in secondo luogo, perché l'articolo 107 medesimo, al comma 5, prevede che ai dirigenti siano state definitivamente devolute tutte le competenze gestionali, con l'eccezione delle previsioni di cui agli articoli 50 e 54, che si riferiscono proprio alle competenze del sindaco.

Tuttavia, il problema può e deve essere risolto avendo per riferimento il principio dell'assegnazione delle funzioni gestionali ai dirigenti, che deve essere guardato come la regola generale, rispetto alla quale ogni diversa previsione è un'eccezione, che può valere solo se fondata da previsioni normative.

In questo senso, occorre tenere presente:

1) ai sensi dell'articolo 107, comma 4, del D.lgs 267/2000 le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui sopra, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni normative: si è, allora, anche qui in presenza di una riserva di legge, che impedisce ad altre fonti di incidere sul catalogo delle competenze dirigenziali, che al limite possono essere incrementate, ma mai diminuite, come sottolinea la sentenza del Tar Publia – Bari, sezione II, 23 marzo 2000, n. 1248 (in Giust.it);

2) a conferma di ciò, il comma 5 seguente dispone che a decorrere dall'entrata in vigore del testo unico, le disposizioni (dunque di qualsiasi fonte) che conferiscono agli organi di governo atti di gestione o atti o provvedimenti amministrativi (da intendere come atti di amministrazione attiva e diretta) si intendono che la relativa competenza spetta ai dirigenti;

3) l'eccezione è contenuta nel medesimo comma 5, che fa salve le previsioni di cui agli articoli 50 e 54, che come tali, cioè, si ribadisce, eccezioni, vanno trattate;

4) quando gli articoli 50 e 54 fanno, in effetti, riferimento a competenze sindacali per l'emanazione di ordinanze, il presupposto di ciò consiste sempre nell'esistenza di un'emergenza (sanitaria, di igiene, di ordine e sicurezza pubblica), che il legislatore stesso ha considerato alla base di una speciale ed eccezionale assegnazione al sindaco della competenza ad emanare atti di amministrazione attiva e diretta, che comunque, almeno per quanto riguarda l'articolo 50, possono essere delegate alla dirigenza ex art. 107, comma 3, lettera l), essendo adottate dal sindaco quale rappresentante dell'amministrazione e non ufficiale di Governo;

5) l'articolo 107, comma 3, non è tassativo ma meramente esemplificativo delle competenze dirigenziali, come rivela il fatto che il testo di legge prevede che tra i compiti dei dirigenti sono attribuiti "in particolare" quelli ivi enumerati e come, del resto, chiarisce il già citato successivo comma 5, che altrimenti rimarrebbe privo di senso;

6) pertanto, l'espresso riferimento, in proposito di sanzioni, alle sole materie della repressione e prevenzione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale, non può e non deve essere inteso come limitativo della competenza dei dirigenti, ma come chiarificatore che dette sanzioni, nonostante il loro rilievo, non possono essere adottate dal sindaco. Ma insieme con queste, tutte le sanzioni derivanti dalla normale gestione amministrativa, sono da ritenere di competenza dei dirigenti.

 

[i] Si veda in tal senso V. Speziale, Il riassorbimento dei trattamenti economici più favorevoli in godimento dei dipendenti pubblici e la funzione del contratto collettivo, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n. 5/2000, pag. 858 e ss.


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