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LUIGI
OLIVERI
Lo statuto
nella gerarchia delle fonti in relazione alle disposizioni del testo unico
sull'ordinamento degli enti locali
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L'articolo
1 del testo unico degli enti locali, nella formulazione diffusa attualmente in
attesa del parere del Consiglio di stato, intende determinare quale tipo di
fonte sia il testo unico, e quale la portata della disciplina degli enti locali
in rapporto alla normativa regionale e nazionale. A questo scopo, assembla e
coordina le norme contenute negli articoli 1, commi 1 e 3, 3, comma 2, e 4,
comma 2-bis, della legge
142/1990, come novellati dalla
legge
265/1999.
Il
comma 1 introduce, rispetto al testo dell'omologo della legge 142/1990, una
differenza testuale estremamente importante proprio per la corretta
qualificazione del testo unico, dalla quale derivano conseguenze rilevanti anche
sulla controversa questione della forza normativa degli statuti e della loro
collocazione nel sistema delle fonti.
Infatti,
la formulazione dell'articolo stabilisce che “il presente testo unico contiene
i principi e le disposizioni vigenti in materia di ordinamento dei comuni e
delle province e loro forme associative”.
Il
testo unico degli enti locali, si è sopra rilevato, non è solo una legge di
principi, ma anche la raccolta di disposizioni in materia di ordinamento di
comuni, province e loro forme associative.
Proprio
sulla qualificazione di sola legge di principi della legge 142/1990 la dottrina
si è basata per sottolineare, sia pure con diversa intensità, come la riforma
dell'ordinamento degli enti locali abbia attuato in maniera piena l'autonomia di
comuni e province, in attuazione del disposti degli articoli 5 e 128 della
Costituzione.
In
particolare, il filone “municipalista”, specie dopo l'entrata in vigore
della legge 265/1999 ha sostenuto con forza che in presenza di una legge
sull'ordinamento generale degli enti locali che si autoqualifica come norma di
principio, l'autonomia degli enti – ed in particolar modo l'autonomia
statutaria – incontrerebbe limiti normativi esclusivamente nelle disposizioni
di principio, ed in particolare, per il futuro, in quelle espressamente
qualificate dal legislatore medesimo quali principi inderogabili. Sicchè, a
contrario, le norme non di principio (o non qualificare come principio
inderogabile) sarebbero pienamente derogabili, o comunque, in quegli ambiti,
ampia e sostanzialmente indefinita sarebbe la possibilità per gli enti di
introdurre norme con contenuti diversi rispetto a quelli previsti dalla legge.
Per tale ragione, questo filone dottrinale ha qualificato gli statuti come fonte
“subprimaria”, collocata immediatamente al di sotto della legge ed al di
sopra delle altre fonti generali, ma comunque dotata della forza di derogare a
qualsiasi norma di legge, purchè non enunciata dal legislatore quale principio
inderogabile.
Dall'altro
versante, altri autori nel sottolineare a loro volta che la riforma
dell'ordinamento degli enti locali ha attuato e riconosciuto effettiva autonomia
alle comunità locali, hanno rilevato come l'autoqualificazione della legge come
di “principio” non fosse di per sé sufficiente a riconoscere agli enti
un'amplissima possibilità di derogare alla legge medesima, ritenendo gli
statuti fonte pur sempre secondaria, subordinata alla legge, quanto meno nella
parte in cui essa, lungi dal prevedere norme di principio (siano o meno
derogabili) detta discipline di dettaglio, e quindi cogenti. Secondo questo
orientamento, allora, il problema è semmai rappresentato dalla capacità
effettiva del legislatore di emanare una normativa che sia realmente di
principio e non di diretta normazione degli aspetti organizzativi e gestionali
della vita degli enti.
A
proposito di autoqualificazione delle norme, la Corte costituzionale a più
riprese ha escluso che sia sufficiente per una legge qualificarsi in un certo
modo. I principi, perché siano davvero tali per la loro intrinseca struttura, e
non perché una norma attribuisca ad una sua previsione il nomen iuris di
principio.
La
legge 265/1999 novellando l'articolo 4 della legge 142/1990 ha ivi introdotto il
comma 2-bis, trasfuso nel comma 4 dell'articolo 1 del testo unico, nella
disposizione in esso contenuta secondo la quale la legislazione in materia di
ordinamento degli enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad
essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite
inderogabile per la loro autonomia normativa. Questa disposizione, letta in
combinato con l'autoqualificazione della legge 142/1990 come sola legge di
principio, ha rafforzato nella dottrina “municipalista” l'opinione di
un'affrancazione della normativa statutaria dai vincoli della legge e di una
conseguente esaltazione dell'autonomia locale, ben raffigurabile nella
rappresentazione del rapporto esistente tra legge e norme locali non in termini
di gerarchia, bensì di competenza. Sicchè nelle materie assegnate alla
competenza della normativa locale essa avrebbe acquisito forza di legge e
generale capacità di derogare alla legge.
Il
Ministero dell'interno si è decisamente pronunciato in questo senso, con la
circolare 7.1.2000, n. 1, secondo la quale si rileva, per effetto della riforma
della legge 265/1999 “l'ampliamento dei contenuti statutari e regolamentari ma
anche e soprattutto, una diversa collocazione dello statuto nel sistema delle
fonti di produzione normativa”, sicchè “le norme locali sono vincolate alle
leggi dello Stato che contengono i principi inderogabili in materia di
ordinamento degli enti locali, ma non sono subordinate alle altre leggi statali
in materia”.
Non
è mancato chi (L. Vandelli, Nuovo ordinamento degli enti locali e status
degli amministratori, ed, Maggioli, Rimini, 1999, pag. 44) lungo questo filone,
ha ritenuto che nel silenzio del legislatore le disposizioni di legge sarebbero
generalmente derogabili da parte della normativa locale, sicchè il comma 4
dell'articolo in esame autorizzerebbe statuti e regolamenti locali ad operare in
deroga alla legislazione statale, ponendo un'eccezione alla disposizione
contenuta nell'articolo 4 delle preleggi, secondo il quale i regolamenti non
possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi.
Questa
autorevole opinione è certo degna di attenzione, soprattutto perché
contribuisce all'evoluzione del sistema delle autonomie locali. Tuttavia appare
necessario contenere la radicalizzazione di un'opinione verso le estreme
conseguenze della medesima. La stessa formulazione dell'articolo 1, comma 1, del
testo unico consente di inquadrare il rapporto tra legge sull'ordinamento degli
enti locali e fonti normative di competenza di questi ultimi in modo diverso.
Infatti,
il testo unico oltre a contenere i principi, contiene anche “disposizioni”
in materia di enti locali. Si ha una conferma testuale da parte del legislatore
delegato della circostanza innegabile che la legislazione sull'ordinamento degli
enti locali, nonostante si fosse qualificata di principio, contiene pur tuttavia
regole cogenti, appunto disposizioni. Secondo i dizionari per disposizione si
deve intendere un ordine inteso sia come ordine spaziale (ad esempio il disporre
libri negli scaffali), sia come comando, precetto.
La
disposizione, allora, si presenta come fattispecie del tutto diversa dal
principio, che invece è ciò che sta alla base, a fondamento di qualcos'altro.
Autorevole dottrina (V. Italia, Statuti: al via le operazioni di restyling, in
Il Sole 24ore n. 327 del 29.11.1999, pag. 34) ha definito il principio nel campo
giuridico una disposizione normativa importante, basilare, fondamentale, dalla
quale dipendono, come corollario, altre disposizioni normative secondarie o di
dettaglio.
Pertanto,
dal principio derivano una o più conseguenze: in questo caso è l'ente, sulla
base della propria autonomia, che può scegliere quale corollario applicare al
principio, introducendo una norma speciale, tipica del suo specifico ordinamento
interno.
In
presenza di una disposizione, invece, non v'è spazio per una disciplina che non
sia di esecuzione o di completamento, senza possibilità di scelte derogatrici o
alternative.
La
formulazione dell'articolo 1, comma 1, del testo unico, allora, ammette che
l'ordinamento degli enti locali non è composto solo da principi, ma anche da
disposizioni cogenti e di dettaglio. Che in quanto tali, pur non essendo
principi inderogabili, non possono certo essere modificate, né ammettere norme
secondarie in deroga. Pertanto, rispetto a norme che dettano disposizioni,
l'articolo 4 delle preleggi non può certamente ritenersi disapplicato, ma
sempre pienamente operante, nei confronti dei regolamenti locali. Ma lo stesso
vale anche per gli statuti i quali possono stabilire norme interne
“nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico”, come prescrive
l'articolo 5, comma 2. Questa norma, essendo presenti nel testo unico anche
disposizioni cogenti, allora va intesa non nel senso che dovendosi intendere
tutte le norme contenute nell'ordinamento degli enti locali “principi” lo
statuto possa sempre e comunque introdurre norme diverse e al limite
derogatorie: può farlo solo laddove la norma sia effettivamente un principio.
Non può, invece, in presenza di una disposizione.
Un
esempio può essere utile per comprendere la diversa forza normativa dello
statuto a seconda della norma con la quale abbia a confrontarsi. Non vi è
dubbio che la previsione contenuta nell'articolo 51, comma 2, della legge
142/1990, trasfusa nell'articolo 107, comma 1, del testo unico, introducendo il
principio della separazione delle funzioni di indirizzo e controllo da quelle
gestionali sia appunto una norma di principio. Gli enti locali in conseguenza di
questo principio avrebbero dovuto attraverso gli statuti ed i regolamenti
applicare a detto principio il corollario dell'assegnazione ai dirigenti di
tutti gli atti gestionali, secondo le modalità da essi individuate. Successive
disposizioni di legge, dal D.lgs 77/1995 alla legge 127/1997, al D.lgs 80/1998,
intervenute per dare contenuto attuativo al principio in realtà si sono
sostituite all'inerzia degli enti locali, che non applicando in pieno la
previsione della separazione delle funzioni, hanno sostanzialmente demandato al
legislatore il compito di individuare (sia pure comunque solo
esemplificativamente) le specifiche competenze della dirigenza e le modalità di
esplicazione delle medesime.
E',
invece, indubitabilmente disposizione di dettaglio e cogente quella contenuta
nell'articolo 47, comma 1, del testo unico in materia di composizione delle
giunte. La legge, in questo caso, ha fissato la struttura della giunta,
lasciando agli statuti il solo spazio per individuare il numero concreto dei
componenti, a seconda della dimensione demografica. La legge, pertanto, ha
esaurito praticamente tutta la potestà normativa esistente in questo ambito,
sicchè gli statuti o i regolamenti non potrebbero introdurre legittimamente
alcuna deroga.
Dunque,
non si può concordare con chi ritiene che lo statuto o i regolamenti (per le
materie di propria competenza) possano derogare alla legge quando essa non
disponga norme di principio; occorre specificare con chiarezza che se la norma
non di principio è una disposizione, essa è vincolante per fonti secondarie
quali lo statuto o i regolamenti.
Anche
in assenza dell'espresso riferimento alle disposizioni contenuto nel comma 1
dell'articolo le valutazioni fin qui esposte avrebbero avuto comunque
fondamento, in quanto, come insegna la Corte Costituzionale, la natura della
norma (principio o disposizione) va comunque desunta dall'analisi specifica del
suo contenuto. E le disposizioni cogenti di legge non possono comunque
considerarsi non vincolanti.
Sarebbe
in ogni caso stato eccessivo ritenere anche in assenza della precisazione
introdotta dal testo unico che la legge 265/1999 avrebbe avuto l'effetto di
introdurre un'eccezione all'articolo 4 delle preleggi.
La
migliore dottrina (V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II ed.
Cedam, Padova, 1984; V. Italia, I problemi dello snellimento del procedimento
amministrativo alla luce della Bassanini ter - l'attribuzione di funzioni ai
responsabili degli uffici o dei servizi <<in deroga ad ogni diversa
disposizione>>, in L'amministrazione Italiana, ed. Barbieri Noccioli, n.
10/1998) sottolinea da sempre che la deroga è il fenomeno tipico attraverso il
quale una fonte anche subordinata ad un'altra introduce rispetto ad una norma di
principio un'eccezione, una disposizione speciale che sottrae particolari
fattispecie alla disciplina generale dettata dal principio, per assoggettarle
alla diversa disciplina derogatoria. La deroga, in quanto norma speciale convive
con la regola generale che non viene pertanto abrogata e conserva, anzi, valore
suppletivo, nel senso che opera finchè non sia emanata una disposizione
speciale diversa. In ogni caso, la norma-principio riprende vigore non appena
per qualsiasi causa la deroga cessi.
La
deroga permette alla fonte speciale di disciplinare la specifica fattispecie in
modo diverso, ma non contrastante con la norma-principio: è ammissibile che
l'atto di deroga disponga una regola diversa la quale però non può essere in
contraddizione col principio cui fa riferimento, ma deve essere compatibile con
la regola generale dettata dal principio. Nel caso della separazione delle
competenze tra organi politici e dirigenti, il Consiglio di stato (sentenza sez.
IV, n. 1164) ha ritenuto che lo statuto possa introdurre una disposizione
speciale che, in attuazione di detto principio, assegni ai dirigenti la
competenza ad adottare il provvedimento di costituzione in giudizio. Si tratta
di una deroga (almeno per chi ritenga che tale competenza sia rimasta in capo
alla giunta comunale) compatibile però col principio di separazione. Al
contrario, il Tar Puglia-Bari (sentenza sez. II 23 marzo 2000, n. 1248) ha
negato che lo statuto possa attribuire agli organi politici competenze
gestionali, perché in tal caso la norma speciale statutaria si porrebbe in
contrasto col principio della separazione delle funzioni.
La
norma in deroga non può, pertanto, dettare una disciplina contraria,
incompatibile col principio generale. In questo senso, allora, la norma,
subordinata o subprimaria che sia, non può <<contenere norme contrarie
alle disposizioni delle leggi>> ovvero deve obbedire alla previsione di
cui all'articolo 4 delle preleggi, rispetto al quale la legge 265/1999, allora,
non avrebbe introdotto alcuna eccezione. E se ciò è vero per quanto riguarda
il rapporto tra norma di principio e norma in deroga, ancora più evidente lo è
per quel che concerne norme dispositive, che prevedono ovvero disposizioni,
ordini. Non a caso, infatti, l'articolo 4 delle preleggi vieta proprio il
contrasto tra regolamenti (o fonti secondarie intese anche in senso lato) e
<<disposizioni>> delle leggi. Pertanto, in presenza di norme
dispositive gli statuti e i regolamenti non possono che essere considerati alla
stregua di norme di esecuzione o di completamento.
Allora,
la forza innovatrice degli statuti in particolare deve essere graduata a seconda
del tipo di norma che ne presuppone l'operatività: è minima in presenza di
disposizioni; è un po' più ampia in presenza di principi inderogabili,
rispetto ai quali non può dettare mai, comunque, enunciazioni contrastanti; è
ancora maggiore in presenza di norme che non siano disposizioni o principi
inderogabili; è massima quando la legge, sul modello delle norme dispositive
derogabili di diritto privato, assegni alla sua disposizione la forza di
regolare una certa disciplina finchè non venga dettata dallo statuto una
disposizione differente, al limite anche contrastante.
Poiché
deve esistere però un vasto spazio normativo per gli enti locali per attuare
pienamente l'articolo 128 della Costituzione, è compito del legislatore
autolimitarsi e ridurre al minimo indispensabile il contenuto
dispositivo-cogente delle norme sull'ordinamento degli enti locali, per
ricorrere il più possibile a norme di principio o norme espressamente
derogabili, lasciando così sufficiente spazio ad un'effettiva autonomia
normativa locale.
Il
significato del comma 4 dell'articolo 1 appare proprio questo: non consiste
nell'assegnazione allo statuto di una diversa collocazione nelle fonti e di una
particolare forza di resistenza alle disposizioni di legge, bensì avere
affidato allo stesso legislatore l'obiettivo di disciplinare l'ordinamento degli
enti locali soprattutto attraverso principi. Con l'ulteriore obbligo, qualora
intenda considerarli inderogabili, di enunciarli come tali, ovvero di rendere
esplicita l'impossibilità per statuti e regolamenti di prevedere una normativa
diversa e contrastante, sì da limitare le incertezze applicative derivanti
dall'interpretazione. Fermo restando che, in ogni caso, sarà la magistratura ad
individuare la regola interpretativa da adottare di volta in volta.
Sulla
base delle considerazioni sin qui svolte, si può concludere che gli statuti non
abbiano assunto una collocazione nella gerarchia delle fonti diversa da quella
propria delle norme secondarie sia pure atipiche, né che il rapporto tra legge
e statuto sua configurabile in termini di competenza.
Infatti,
si può osservare, con la migliore dottrina, che il rapporto di competenza si
presenti quando la disciplina delle fonti escluda una certa fonte da un certo
ambito, per riservare ad altra fonte la competenza a dettare regole in
quell'ambito medesimo. Vi deve essere, allora, una netta linea di confine tra il
potere normativo di due diverse fonti, perché si escluda l'operatività del
principio gerarchico. Ma quando sulla medesima materia più fonti possono
intervenire per disciplinarla, quella di rango superiore conserva sempre la
possibilità di limitare le fonti inferiori, dettando nuove regole.
Nessuna
norma, né di rango costituzionale, né ordinario, ha però assegnato in linea
generale agli statuti ambiti od oggetti riservati. Nell'ordinamento degli enti
locali si rinviene qualche norma che assegna espressamente allo statuto il
compito di disciplinare una certa materia, dando vita al contenuto obbligatorio
o facoltativo dello statuto. Ma per lo più si tratta di norme a completamento
della disciplina normativa, non di <<devoluzione>> della competenza.
Per
tale ragione è da ritenere che sebbene la legge 265/1999, e di conseguenza il
testo unico che ne riprende le norme, abbiano aumentato lo spazio dell'autonomia
statutaria imponendo al legislatore di regolare l'ordinamento degli enti locali
attraverso norme di principio, non sembra si possa affermare che gli statuti non
siano più fonti subordinate gerarchicamente alla legge.
Anche
l'affermazione contenuta nella richiamata circolare 1/2000 del Ministro
dell'interno secondo la quale le norme statutarie non sono subordinate che alle
norme di principi in materia di ordinamento degli enti locali, appare allora da
mitigare e temperare, constatando che esistono leggi generali della Repubblica
quale il D.lgs 29/1993 o le leggi finanziarie, che pur non concernendo
direttamente l'ordinamento degli enti locali, possono porre principi e
disposizioni rispetto alle quali la normativa locale non può non essere
adeguata, in particolare se si tratti di norme generali di riforma del sistema
amministrativo ed economico. Non si vede come sia possibile, del resto, che le
leggi regionali debbano conformarsi alle norme fondamentali di riforma economica
sociale, mentre un simile onere possa non incombere sugli statuti, in presenza
di leggi generali riguardanti dette materie.
La
prova che lo statuto resti fonte subordinata è data dall'espressa previsione
del comma 4 dell'articolo 1, a mente della quale l'entrata in vigore di nuove
leggi che enunciano i principi inderogabili per l'autonomia normativa abroga le
norme statutarie con essi incompatibili, ed i consigli hanno 120 giorni dalla
data di entrata in vigore delle leggi suddette per adeguare gli statuti. Se il
rapporto legge-statuto fosse impostato in base alla competenza, non si avrebbe
certamente l'effetto abrogativo delle nuove leggi rispetto alle disposizioni
statutarie. Effetto che deve essere riconosciuto anche alle norme dispositive.
A
questo proposito, occorre dare conto di una tesi dottrinale (M. Rubino, Lo
statuto comunale nel sistema delle fonti dopo la riforma della legge 265/99, in
http://www.insa-italia.com/DOTTRINA/statuto_lg_26599.htm) che sostiene che
l'incompatibilità tra le nuove leggi di principio e lo statuto non
determinerebbe l'immediata abrogazione delle norme statutarie, ma soltanto
l'insorgere per l'ente dell'obbligo di recepire i nuovi principi adeguando lo
statuto entro 120 giorni. Detta tesi ritiene questa interpretazione maggiormente
rispettosa della finalità complessiva della riforma. Ovvero dare maggiore
spazio all'autonomia statutaria e perché evita di porre il problema
dell'eventuale sanzione che potrebbe conseguire all'inadempimento dell'obbligo
di adeguamento dello statuto. Insomma l'effetto <<ghigliottina>>
sarebbe posticipato al decorso dei 120 giorni.
Detta
tesi, preoccupata di dare contenuto concreto all'autonomia statutaria, non pare
tuttavia accettabile. Non solo perché la lettura degli atti parlamentari rivela
che la prima stesura della norma oggi sfociata nel comma 4 dell'articolo 1
prevedeva espressamente che l'abrogazione della norma statuaria conseguisse
all'inutile decorso dei 120 giorni dall'entrata in vigore della legge dettante
nuovi principi. Non solo perché il dato letterale del comma 4 è di per sè
chiaro, sicchè l'interpretazione deve arrestarsi laddove il dettato normativo
risulti non controverso (in claris non fit interpretatio). Ma soprattutto perché
se alcune previsioni dello statuto divengono incompatibili con nuovi principi
inderogabili della legge, allora vi è un contrasto inammissibile, che non può
evidentemente perdurare per 120 giorni. La norma statutaria viene, pertanto,
immediatamente abrogata a conferma che la fonte atipica statutaria non ha la
forza di resistere alle nuove disposizioni di legge dettanti principi o
disciplinanti direttamente le materie dell'ordinamento degli enti locali. La
sanzione per il mancato adeguamento nei 120 giorni è, da un lato, già insita
nella perdita da parte dell'ente dell'opportunità di introdurre la disciplina
di dettaglio o di completamento del principio generale e quindi in un giudizio
negativo di natura politica sulla capacità di valorizzare la propria autonomia,
non sembrando che il mancato adeguamento della disposizione statutaria configuri
in generale l'ipotesi della grave violazione di legge.
E'
pur vero che il rango degli statuti di fonte specificamente disposta a disegnare
non solo l'organizzazione ma anche l'ordinamento interno degli enti locali può
ricavarsi, come sostiene la dottrina più recente, dagli articoli 5 e 128 della
Costituzione. Ma la Costituzione stessa non individua lo statuto quale fonte di
diritto, operazione svolta invece dalla legge 142/1990, prima, e confermata dal
testo unico, quali leggi generali della Repubblica in materia di ordinamento
degli enti locali. Se da un lato si può riconoscere che la Costituzione abbia
inteso assegnare all'ordinamento comunale un ruolo di rilievo costituzionale
quale ordinamento giuridico indipendente - nel senso di non subordinato - da
quello statale (ma pur sempre omogeneo all'ordinamento generale), tuttavia non
sembra di cogliere come conseguenza di ciò che gli statuti siano stati
collocati in una posizione paritaria rispetto alla legge. La legge, infatti, è
la fonte da cui deriva il riconoscimento dell'autonomia statutaria; ma secondo
la dottrina tradizionale (Zagrebelsky, Il sistema delle fonti del diritto.
Manuale di diritto costituzionale, ed. Utet, Torino, pag. 5) alla legge è
vietato creare fonti aventi efficacia maggiore o uguale a quella propria,
potendo invece dare vita a fonti dotate di efficacia minore. E nei confronti di
queste la legge, pur conservando il suo ruolo di fonte sovraordinata, può
operare una devoluzione normativa, disporre di se stessa consentendo deroghe o
diverse discipline, se non addirittura forza abrogativa di altre leggi.
E'
ciò che avviene con i regolamenti delegati di delegificazione, emanati dal
Governo ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 400/88. Anche se,
accorta dottrina rileva che neanche nel caso appena citato il regolamento
dispone di una propria vis abrogandi. Infatti, si rileva che è la legge
delegante ad abrogare la legislazione previgente individuando con disposizione
espressa le norme da abrogare, anche se l'effetto è differito all'emanazione
del regolamento delegato.
La
forza derogatoria, allora, delle fonti subordinate, quando è possibile e
legittima, non può spingersi fino al potere di disapplicare le disposizioni
sovraordinate, a meno che non siano queste a stabilirlo. Ciò vale anche per
l'atto amministrativo extra ordinem tipicamente identificato come dotato di
forza derogatoria anche nei confronti della legge, ovvero l'ordinanza. (L.
Paladin, Diritto costituzionale, ed. Cedam, Padova 1998, pag. 131).
L'ordinamento
locale, in sostanza, anche se autonomo, è ancora configurato come ordinamento
uniforme proprio perché esistono norme che pongono disposizioni cogenti e
principi inderogabili tali da rendere di fatto ancora abbastanza flebile la
forza della fonte statutaria di creare un ordinamento locale specifico
fortemente tipizzato. Questo è confermato dalla semplice constatazione che la
legge 142/1990 nonostante si fosse proclamata legge di principi ha continuato a
dettare norme di dettaglio immediatamente precettive per l'ordinamento interno.
E'
opportuno ricordare che a più riprese la giurisprudenza ha tracciato confini
molto ben demarcati sia alla forza normativa degli statuti, sia alla loro potestà
derogatoria. Il Tar Umbria (sentenza 23 aprile 1996, n. 176) ha apertamente
qualificato gli statuti come atti di normazione secondaria rispetto alla legge;
il Consiglio di Stato (sentenza Sez. V, 23 novembre 1996, n. 1408) ha
considerato illegittima la disposizione di uno statuto comunale con cui si
disponeva la sottoposizione delle deliberazioni della giunta all'esame del
consiglio, posto che in tal modo si sarebbe introdotta una forma ulteriore di
controllo sui provvedimenti della giunta, in aperta violazione dei criteri di
riparto delle competenze tra organi, nonché un inammissibile controllo di
merito sulla giunta (per una più completa rassegna di sentenze in merito, si
rinvia a V. Italia, Lo statuto dell'ente locale, ed. Giuffrè, Milano 1999,
pagg. 49-55).
Alcuni
autori hanno criticato queste posizioni giurisprudenziali. In particolare (T.
Groppi, L'ordinamento dei comuni e delle province, ed. Giuffrè, 2000, Milano,
pag. 124) si è ritenuta la sentenza del Tar Emilia Romagna - Bologna, (sez. I,
15 ottobre 1993, n. 472) che ha ritenuto inammissibile per lo statuto prevedere
un ampliamento delle ipotesi di delega sindacale ai sensi dell'articolo 38 della
legge 142/1990 in quanto è la legge statale la fonte di attribuzione delle
competenze agli organi, occorrendo sempre una necessaria conformità degli
statuti alle norme di legge nonostante gli statuti possano operare nell'ambito
dei principi della legge.
Detta
dottrina ha ritenuto questa posizione giurisprudenziale gravemente penalizzante
l'autonomia dell'ente. Ma proprio nel caso della possibilità del sindaco di
utilizzare l'istituto della delega il problema consiste nell'esatta
qualificazione della norma di legge. L'articolo 38, trasfuso nell'articolo 53
del testo unico, non può essere certo visto come norma di principio, in quanto
è evidentemente una disposizione di dettaglio, poiché descrive minutamente i
casi nei quali la delega è esercitatile ed i soggetti cui può essere rivolta,
esaurendo, dunque, la disciplina della delega. Questa norma non essendo un
principio, ma una disposizione, non può essere considerata derogabile o
integrabile o modificabile dallo statuto; poiché la norma ha direttamente
determinato la disciplina, lo statuto non deve né conformarsi, né non
conformarsi, ma semplicemente non può intervenire, essendogli stato sottratto
spazio normativo.
E'
probabilmente criticabile una disposizione del genere, in quanto certamente
sottrae spazi all'autonomia locale. Ma la critica alla norma non può portare a
ritenere che lo statuto possa contenere una disciplina in deroga per ciò solo.
Né l'indagine sulla forza normativa dello statuto può far sostenere che esso
abbia la forza di derogare alla legge quando ciò sia valutato opportuno o
necessario da parte degli organi politici, come avviene proprio per l'istituto
della delega, ampiamente <<rivendicato>> come metodo di
distribuzione degli incarichi politici e sistema organizzativo dei vertici
amministrativi, pur in mancanza della norma di legge che la consenta
espressamente. Appare strano che, invece, per fattispecie rispetto alle quali
aprioristicamente si ritiene lo statuto non in grado di dettare una disciplina
differente, si accettino acriticamente interpretazioni miranti a garantire
l'uniformità <<comunque>> dell'ordinamento degli enti locali, pur
trattandosi indubitabilmente di norme di principio. E' il caso del disposto
dell'articolo 109, comma 2, del testo unico, derivante dall'articolo 51, comma
3-bis, della legge 142/1990. Esso stabilisce che il sindaco possa attribuire le
funzioni dirigenziali ai funzionari nei comuni privi di qualifiche dirigenziali:
siamo in presenza di una norma non di dettaglio, ma di un principio che quindi
potrebbe essere applicato in modo eterogeneo. Ma in questo caso è noto che la
dottrina maggioritaria e lo stesso Ministero dell'interno con la circolare 4/98,
abbiano negato qualsiasi spazio all'ordinamento interno di ciascun ente di
operare, attraverso lo statuto, la scelta di non affidare le funzioni
dirigenziali ai funzionari, definendo in modo diverso l'assetto istituzionale
tra comuni di dimensioni diverse.
Interpretazione,
questa, basata a sua volta su un principio - quello della separazione delle
funzioni - che però, guardando alla lettera della norma, si potrebbe in
astratto considerare derogato non dallo statuto o dal regolamento, ma dalla
disposizione di legge che con quel <<può>> consentirebbe in realtà
al sindaco di scegliere più di una strada operativa.
E',
per la verità, da considerare corretto non consentire nell'ordinamento degli
enti locali un assetto interno differenziato tra enti. Eppure in realtà
amministrative nelle quali v'è una maggiore tensione all'autonomia, come in
Germania, si assiste al fenomeno di una forte caratterizzazione degli specifici
e singoli ordinamenti interni, addirittura anche in relazione alle norme sulle
elezioni degli organi. Ed in parte questo è previsto anche dall'ordinamento
degli enti locali italiano, ad esempio per i municipi: infatti, la legge lascia
amplissimo spazio all'autonomia per disporre quali e quanti organi eleggere e
scegliere se nominare i componenti col voto a suffragio universale diretto o con
la nomina di secondo grado. Ma in questo caso, così come nel sistema tedesco,
l'ampia libertà all'autonomia statutaria deriva dalla legge, non è
<<data>> a priori. Non si vede perché in nome dell'autonomia si
consideri derogabile una norma dispositiva quale quella sulla delega, e non
derogabile una norma di legge che in realtà di per sé è una deroga. Occorre,
evidentemente, coerenza anche nell'interpretare le norme e qualificarle come
principi o disposizioni.
Da
questo punto di vista sarà importante che il legislatore si attenga al disposto
del comma 4 dell'articolo 1 del testo unico, provvedendo davvero ad enunciare di
volta in volta i principi considerati inderogabili.
L'esempio
cui si dovrebbe fare riferimento è dato dall'articolo 108 del D.lgs 77/95,
trasfuso nell'articolo 152, comma 4, del testo unico.
In
realtà la norma del testo unico ha invertito la tecnica di individuazione delle
norme inderogabili. La norma del D.lgs 77/1995, infatti, aveva espressamente
dichiarato quali tra le norme in esso contenute dovessero considerarsi principi
inderogabili, consentendo espressamente agli enti di disapplicare le altre
norme, recando una disciplina differente nel
regolamento di contabilità.
L'articolo
152, comma 4, del testo unico, invece stabilisce che tutte le previsioni in
materia di contabilità contenute nel testo unico siano da considerare principi
inderogabili, individuando, invece, espressamente le norme che è possibile
disapplicare con una disciplina differente da parte del regolamento di
contabilità.
In
apparenza il risultato è lo stesso; in realtà l'articolo 108 del D.lgs 77/1995
era più fedele all'impostazione dell'articolo 1, comma 4, del testo unico,
perché il legislatore deve indicare espressamente quali norme sono da
considerare principi inderogabili e non le previsioni rispetto alle quali è
consentita una disciplina differente. Stabilire in linea generale che tutte le
norme sono principi inderogabili non risponde appieno al dovere di enunciare, di
indicare ovvero analiticamente, quali norme abbiano tale natura, di talchè in
sostanza si finisce per limitare la potestà normativa decentrata e per non
risolvere il problema interpretativo della corretta individuazione delle norme
di principio. Infatti, un'enunciazione così generale come quella proposta
dall'articolo 152, comma 4, del testo unico non può esimere l'interprete
dall'indagare se realmente la norma, al di là del nomen iuris, contenga un
principio.
Il
comma 5 dell'articolo in esame ripropone la clausola di rafforzamento
dell'ordinamento degli enti locali, già presente nell'articolo 1, comma 3,
della legge 142/1990. Tale disposizione impone alle leggi della Repubblica di
derogare alle disposizioni del testo unico solo mediante modifica espressa delle
sue disposizioni.
E'
noto che la dottrina ha ampiamente criticato questa disposizione: si tratta,
infatti, di un autoqualificazione della norma quale legge rinforzata, contraria
al già citato orientamento degli studiosi tendente ad identificare nel sistema
delle fonti il principio del divieto per le leggi di creare fonti a sé
pariordinate o sovraordinate. L'esperienza ha insegnato che spesso il
legislatore non ha tenuto in conto la clausola di rafforzamento contenuta nella
legge 142/1990.
In
presenza, tuttavia, di un testo unico, appare maggiormente necessario ed
opportuno che ogni eventuale riforma legislativa non avvenga in modo episodico,
e sia mirata a modificare espressamente quanto previsto dal testo unico, affinchè
esso permanga tale il più a lungo possibile nel tempo.
A
conferma del ruolo centrale che il testo unico intende acquisire, esso
stabilisce all'articolo 5, comma 2, che lo statuto definisce le norme
fondamentali dell'ente non più nell'ambito dei principi fissati dalla legge,
come da ultimo aveva previsto la legge 265/1999, bensì nell'ambito dei principi
fissati dal testo unico medesimo. Il che starebbe a significare che anche i
successivi interventi legislativi, perché limitino ed indirizzino l'attività
statutaria, dovranno necessariamente operare una riforma espressa del testo
unico.