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LUIGI OLIVERI

Lo statuto nella gerarchia delle fonti in relazione alle disposizioni del testo unico sull'ordinamento degli enti locali

L'articolo 1 del testo unico degli enti locali, nella formulazione diffusa attualmente in attesa del parere del Consiglio di stato, intende determinare quale tipo di fonte sia il testo unico, e quale la portata della disciplina degli enti locali in rapporto alla normativa regionale e nazionale. A questo scopo, assembla e coordina le norme contenute negli articoli 1, commi 1 e 3, 3, comma 2, e 4, comma 2-bis, della legge 142/1990, come novellati dalla legge 265/1999.

Il comma 1 introduce, rispetto al testo dell'omologo della legge 142/1990, una differenza testuale estremamente importante proprio per la corretta qualificazione del testo unico, dalla quale derivano conseguenze rilevanti anche sulla controversa questione della forza normativa degli statuti e della loro collocazione nel sistema delle fonti.

Infatti, la formulazione dell'articolo stabilisce che “il presente testo unico contiene i principi e le disposizioni vigenti in materia di ordinamento dei comuni e delle province e loro forme associative”.

Il testo unico degli enti locali, si è sopra rilevato, non è solo una legge di principi, ma anche la raccolta di disposizioni in materia di ordinamento di comuni, province e loro forme associative.

Proprio sulla qualificazione di sola legge di principi della legge 142/1990 la dottrina si è basata per sottolineare, sia pure con diversa intensità, come la riforma dell'ordinamento degli enti locali abbia attuato in maniera piena l'autonomia di comuni e province, in attuazione del disposti degli articoli 5 e 128 della Costituzione.

In particolare, il filone “municipalista”, specie dopo l'entrata in vigore della legge 265/1999 ha sostenuto con forza che in presenza di una legge sull'ordinamento generale degli enti locali che si autoqualifica come norma di principio, l'autonomia degli enti – ed in particolar modo l'autonomia statutaria – incontrerebbe limiti normativi esclusivamente nelle disposizioni di principio, ed in particolare, per il futuro, in quelle espressamente qualificate dal legislatore medesimo quali principi inderogabili. Sicchè, a contrario, le norme non di principio (o non qualificare come principio inderogabile) sarebbero pienamente derogabili, o comunque, in quegli ambiti, ampia e sostanzialmente indefinita sarebbe la possibilità per gli enti di introdurre norme con contenuti diversi rispetto a quelli previsti dalla legge. Per tale ragione, questo filone dottrinale ha qualificato gli statuti come fonte “subprimaria”, collocata immediatamente al di sotto della legge ed al di sopra delle altre fonti generali, ma comunque dotata della forza di derogare a qualsiasi norma di legge, purchè non enunciata dal legislatore quale principio inderogabile.

Dall'altro versante, altri autori nel sottolineare a loro volta che la riforma dell'ordinamento degli enti locali ha attuato e riconosciuto effettiva autonomia alle comunità locali, hanno rilevato come l'autoqualificazione della legge come di “principio” non fosse di per sé sufficiente a riconoscere agli enti un'amplissima possibilità di derogare alla legge medesima, ritenendo gli statuti fonte pur sempre secondaria, subordinata alla legge, quanto meno nella parte in cui essa, lungi dal prevedere norme di principio (siano o meno derogabili) detta discipline di dettaglio, e quindi cogenti. Secondo questo orientamento, allora, il problema è semmai rappresentato dalla capacità effettiva del legislatore di emanare una normativa che sia realmente di principio e non di diretta normazione degli aspetti organizzativi e gestionali della vita degli enti.

A proposito di autoqualificazione delle norme, la Corte costituzionale a più riprese ha escluso che sia sufficiente per una legge qualificarsi in un certo modo. I principi, perché siano davvero tali per la loro intrinseca struttura, e non perché una norma attribuisca ad una sua previsione il nomen iuris di principio.

La legge 265/1999 novellando l'articolo 4 della legge 142/1990 ha ivi introdotto il comma 2-bis, trasfuso nel comma 4 dell'articolo 1 del testo unico, nella disposizione in esso contenuta secondo la quale la legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa. Questa disposizione, letta in combinato con l'autoqualificazione della legge 142/1990 come sola legge di principio, ha rafforzato nella dottrina “municipalista” l'opinione di un'affrancazione della normativa statutaria dai vincoli della legge e di una conseguente esaltazione dell'autonomia locale, ben raffigurabile nella rappresentazione del rapporto esistente tra legge e norme locali non in termini di gerarchia, bensì di competenza. Sicchè nelle materie assegnate alla competenza della normativa locale essa avrebbe acquisito forza di legge e generale capacità di derogare alla legge.

Il Ministero dell'interno si è decisamente pronunciato in questo senso, con la circolare 7.1.2000, n. 1, secondo la quale si rileva, per effetto della riforma della legge 265/1999 “l'ampliamento dei contenuti statutari e regolamentari ma anche e soprattutto, una diversa collocazione dello statuto nel sistema delle fonti di produzione normativa”, sicchè “le norme locali sono vincolate alle leggi dello Stato che contengono i principi inderogabili in materia di ordinamento degli enti locali, ma non sono subordinate alle altre leggi statali in materia”.

Non è mancato chi (L. Vandelli, Nuovo ordinamento degli enti locali e status degli amministratori, ed, Maggioli, Rimini, 1999, pag. 44) lungo questo filone, ha ritenuto che nel silenzio del legislatore le disposizioni di legge sarebbero generalmente derogabili da parte della normativa locale, sicchè il comma 4 dell'articolo in esame autorizzerebbe statuti e regolamenti locali ad operare in deroga alla legislazione statale, ponendo un'eccezione alla disposizione contenuta nell'articolo 4 delle preleggi, secondo il quale i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi.

Questa autorevole opinione è certo degna di attenzione, soprattutto perché contribuisce all'evoluzione del sistema delle autonomie locali. Tuttavia appare necessario contenere la radicalizzazione di un'opinione verso le estreme conseguenze della medesima. La stessa formulazione dell'articolo 1, comma 1, del testo unico consente di inquadrare il rapporto tra legge sull'ordinamento degli enti locali e fonti normative di competenza di questi ultimi in modo diverso.

Infatti, il testo unico oltre a contenere i principi, contiene anche “disposizioni” in materia di enti locali. Si ha una conferma testuale da parte del legislatore delegato della circostanza innegabile che la legislazione sull'ordinamento degli enti locali, nonostante si fosse qualificata di principio, contiene pur tuttavia regole cogenti, appunto disposizioni. Secondo i dizionari per disposizione si deve intendere un ordine inteso sia come ordine spaziale (ad esempio il disporre libri negli scaffali), sia come comando, precetto.

La disposizione, allora, si presenta come fattispecie del tutto diversa dal principio, che invece è ciò che sta alla base, a fondamento di qualcos'altro. Autorevole dottrina (V. Italia, Statuti: al via le operazioni di restyling, in Il Sole 24ore n. 327 del 29.11.1999, pag. 34) ha definito il principio nel campo giuridico una disposizione normativa importante, basilare, fondamentale, dalla quale dipendono, come corollario, altre disposizioni normative secondarie o di dettaglio.

Pertanto, dal principio derivano una o più conseguenze: in questo caso è l'ente, sulla base della propria autonomia, che può scegliere quale corollario applicare al principio, introducendo una norma speciale, tipica del suo specifico ordinamento interno.

In presenza di una disposizione, invece, non v'è spazio per una disciplina che non sia di esecuzione o di completamento, senza possibilità di scelte derogatrici o alternative.

La formulazione dell'articolo 1, comma 1, del testo unico, allora, ammette che l'ordinamento degli enti locali non è composto solo da principi, ma anche da disposizioni cogenti e di dettaglio. Che in quanto tali, pur non essendo principi inderogabili, non possono certo essere modificate, né ammettere norme secondarie in deroga. Pertanto, rispetto a norme che dettano disposizioni, l'articolo 4 delle preleggi non può certamente ritenersi disapplicato, ma sempre pienamente operante, nei confronti dei regolamenti locali. Ma lo stesso vale anche per gli statuti i quali possono stabilire norme interne “nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico”, come prescrive l'articolo 5, comma 2. Questa norma, essendo presenti nel testo unico anche disposizioni cogenti, allora va intesa non nel senso che dovendosi intendere tutte le norme contenute nell'ordinamento degli enti locali “principi” lo statuto possa sempre e comunque introdurre norme diverse e al limite derogatorie: può farlo solo laddove la norma sia effettivamente un principio. Non può, invece, in presenza di una disposizione.

Un esempio può essere utile per comprendere la diversa forza normativa dello statuto a seconda della norma con la quale abbia a confrontarsi. Non vi è dubbio che la previsione contenuta nell'articolo 51, comma 2, della legge 142/1990, trasfusa nell'articolo 107, comma 1, del testo unico, introducendo il principio della separazione delle funzioni di indirizzo e controllo da quelle gestionali sia appunto una norma di principio. Gli enti locali in conseguenza di questo principio avrebbero dovuto attraverso gli statuti ed i regolamenti applicare a detto principio il corollario dell'assegnazione ai dirigenti di tutti gli atti gestionali, secondo le modalità da essi individuate. Successive disposizioni di legge, dal D.lgs 77/1995 alla legge 127/1997, al D.lgs 80/1998, intervenute per dare contenuto attuativo al principio in realtà si sono sostituite all'inerzia degli enti locali, che non applicando in pieno la previsione della separazione delle funzioni, hanno sostanzialmente demandato al legislatore il compito di individuare (sia pure comunque solo esemplificativamente) le specifiche competenze della dirigenza e le modalità di esplicazione delle medesime.

E', invece, indubitabilmente disposizione di dettaglio e cogente quella contenuta nell'articolo 47, comma 1, del testo unico in materia di composizione delle giunte. La legge, in questo caso, ha fissato la struttura della giunta, lasciando agli statuti il solo spazio per individuare il numero concreto dei componenti, a seconda della dimensione demografica. La legge, pertanto, ha esaurito praticamente tutta la potestà normativa esistente in questo ambito, sicchè gli statuti o i regolamenti non potrebbero introdurre legittimamente alcuna deroga.

Dunque, non si può concordare con chi ritiene che lo statuto o i regolamenti (per le materie di propria competenza) possano derogare alla legge quando essa non disponga norme di principio; occorre specificare con chiarezza che se la norma non di principio è una disposizione, essa è vincolante per fonti secondarie quali lo statuto o i regolamenti.

Anche in assenza dell'espresso riferimento alle disposizioni contenuto nel comma 1 dell'articolo le valutazioni fin qui esposte avrebbero avuto comunque fondamento, in quanto, come insegna la Corte Costituzionale, la natura della norma (principio o disposizione) va comunque desunta dall'analisi specifica del suo contenuto. E le disposizioni cogenti di legge non possono comunque considerarsi non vincolanti.

Sarebbe in ogni caso stato eccessivo ritenere anche in assenza della precisazione introdotta dal testo unico che la legge 265/1999 avrebbe avuto l'effetto di introdurre un'eccezione all'articolo 4 delle preleggi.

La migliore dottrina (V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II ed. Cedam, Padova, 1984; V. Italia, I problemi dello snellimento del procedimento amministrativo alla luce della Bassanini ter - l'attribuzione di funzioni ai responsabili degli uffici o dei servizi <<in deroga ad ogni diversa disposizione>>, in L'amministrazione Italiana, ed. Barbieri Noccioli, n. 10/1998) sottolinea da sempre che la deroga è il fenomeno tipico attraverso il quale una fonte anche subordinata ad un'altra introduce rispetto ad una norma di principio un'eccezione, una disposizione speciale che sottrae particolari fattispecie alla disciplina generale dettata dal principio, per assoggettarle alla diversa disciplina derogatoria. La deroga, in quanto norma speciale convive con la regola generale che non viene pertanto abrogata e conserva, anzi, valore suppletivo, nel senso che opera finchè non sia emanata una disposizione speciale diversa. In ogni caso, la norma-principio riprende vigore non appena per qualsiasi causa la deroga cessi.

La deroga permette alla fonte speciale di disciplinare la specifica fattispecie in modo diverso, ma non contrastante con la norma-principio: è ammissibile che l'atto di deroga disponga una regola diversa la quale però non può essere in contraddizione col principio cui fa riferimento, ma deve essere compatibile con la regola generale dettata dal principio. Nel caso della separazione delle competenze tra organi politici e dirigenti, il Consiglio di stato (sentenza sez. IV, n. 1164) ha ritenuto che lo statuto possa introdurre una disposizione speciale che, in attuazione di detto principio, assegni ai dirigenti la competenza ad adottare il provvedimento di costituzione in giudizio. Si tratta di una deroga (almeno per chi ritenga che tale competenza sia rimasta in capo alla giunta comunale) compatibile però col principio di separazione. Al contrario, il Tar Puglia-Bari (sentenza sez. II 23 marzo 2000, n. 1248) ha negato che lo statuto possa attribuire agli organi politici competenze gestionali, perché in tal caso la norma speciale statutaria si porrebbe in contrasto col principio della separazione delle funzioni.

La norma in deroga non può, pertanto, dettare una disciplina contraria, incompatibile col principio generale. In questo senso, allora, la norma, subordinata o subprimaria che sia, non può <<contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi>> ovvero deve obbedire alla previsione di cui all'articolo 4 delle preleggi, rispetto al quale la legge 265/1999, allora, non avrebbe introdotto alcuna eccezione. E se ciò è vero per quanto riguarda il rapporto tra norma di principio e norma in deroga, ancora più evidente lo è per quel che concerne norme dispositive, che prevedono ovvero disposizioni, ordini. Non a caso, infatti, l'articolo 4 delle preleggi vieta proprio il contrasto tra regolamenti (o fonti secondarie intese anche in senso lato) e <<disposizioni>> delle leggi. Pertanto, in presenza di norme dispositive gli statuti e i regolamenti non possono che essere considerati alla stregua di norme di esecuzione o di completamento.

Allora, la forza innovatrice degli statuti in particolare deve essere graduata a seconda del tipo di norma che ne presuppone l'operatività: è minima in presenza di disposizioni; è un po' più ampia in presenza di principi inderogabili, rispetto ai quali non può dettare mai, comunque, enunciazioni contrastanti; è ancora maggiore in presenza di norme che non siano disposizioni o principi inderogabili; è massima quando la legge, sul modello delle norme dispositive derogabili di diritto privato, assegni alla sua disposizione la forza di regolare una certa disciplina finchè non venga dettata dallo statuto una disposizione differente, al limite anche contrastante.

Poiché deve esistere però un vasto spazio normativo per gli enti locali per attuare pienamente l'articolo 128 della Costituzione, è compito del legislatore autolimitarsi e ridurre al minimo indispensabile il contenuto dispositivo-cogente delle norme sull'ordinamento degli enti locali, per ricorrere il più possibile a norme di principio o norme espressamente derogabili, lasciando così sufficiente spazio ad un'effettiva autonomia normativa locale.

Il significato del comma 4 dell'articolo 1 appare proprio questo: non consiste nell'assegnazione allo statuto di una diversa collocazione nelle fonti e di una particolare forza di resistenza alle disposizioni di legge, bensì avere affidato allo stesso legislatore l'obiettivo di disciplinare l'ordinamento degli enti locali soprattutto attraverso principi. Con l'ulteriore obbligo, qualora intenda considerarli inderogabili, di enunciarli come tali, ovvero di rendere esplicita l'impossibilità per statuti e regolamenti di prevedere una normativa diversa e contrastante, sì da limitare le incertezze applicative derivanti dall'interpretazione. Fermo restando che, in ogni caso, sarà la magistratura ad individuare la regola interpretativa da adottare di volta in volta.

Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, si può concludere che gli statuti non abbiano assunto una collocazione nella gerarchia delle fonti diversa da quella propria delle norme secondarie sia pure atipiche, né che il rapporto tra legge e statuto sua configurabile in termini di competenza.

Infatti, si può osservare, con la migliore dottrina, che il rapporto di competenza si presenti quando la disciplina delle fonti escluda una certa fonte da un certo ambito, per riservare ad altra fonte la competenza a dettare regole in quell'ambito medesimo. Vi deve essere, allora, una netta linea di confine tra il potere normativo di due diverse fonti, perché si escluda l'operatività del principio gerarchico. Ma quando sulla medesima materia più fonti possono intervenire per disciplinarla, quella di rango superiore conserva sempre la possibilità di limitare le fonti inferiori, dettando nuove regole.

Nessuna norma, né di rango costituzionale, né ordinario, ha però assegnato in linea generale agli statuti ambiti od oggetti riservati. Nell'ordinamento degli enti locali si rinviene qualche norma che assegna espressamente allo statuto il compito di disciplinare una certa materia, dando vita al contenuto obbligatorio o facoltativo dello statuto. Ma per lo più si tratta di norme a completamento della disciplina normativa, non di <<devoluzione>> della competenza.

Per tale ragione è da ritenere che sebbene la legge 265/1999, e di conseguenza il testo unico che ne riprende le norme, abbiano aumentato lo spazio dell'autonomia statutaria imponendo al legislatore di regolare l'ordinamento degli enti locali attraverso norme di principio, non sembra si possa affermare che gli statuti non siano più fonti subordinate gerarchicamente alla legge.

Anche l'affermazione contenuta nella richiamata circolare 1/2000 del Ministro dell'interno secondo la quale le norme statutarie non sono subordinate che alle norme di principi in materia di ordinamento degli enti locali, appare allora da mitigare e temperare, constatando che esistono leggi generali della Repubblica quale il D.lgs 29/1993 o le leggi finanziarie, che pur non concernendo direttamente l'ordinamento degli enti locali, possono porre principi e disposizioni rispetto alle quali la normativa locale non può non essere adeguata, in particolare se si tratti di norme generali di riforma del sistema amministrativo ed economico. Non si vede come sia possibile, del resto, che le leggi regionali debbano conformarsi alle norme fondamentali di riforma economica sociale, mentre un simile onere possa non incombere sugli statuti, in presenza di leggi generali riguardanti dette materie.

La prova che lo statuto resti fonte subordinata è data dall'espressa previsione del comma 4 dell'articolo 1, a mente della quale l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano i principi inderogabili per l'autonomia normativa abroga le norme statutarie con essi incompatibili, ed i consigli hanno 120 giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette per adeguare gli statuti. Se il rapporto legge-statuto fosse impostato in base alla competenza, non si avrebbe certamente l'effetto abrogativo delle nuove leggi rispetto alle disposizioni statutarie. Effetto che deve essere riconosciuto anche alle norme dispositive.

A questo proposito, occorre dare conto di una tesi dottrinale (M. Rubino, Lo statuto comunale nel sistema delle fonti dopo la riforma della legge 265/99, in http://www.insa-italia.com/DOTTRINA/statuto_lg_26599.htm) che sostiene che l'incompatibilità tra le nuove leggi di principio e lo statuto non determinerebbe l'immediata abrogazione delle norme statutarie, ma soltanto l'insorgere per l'ente dell'obbligo di recepire i nuovi principi adeguando lo statuto entro 120 giorni. Detta tesi ritiene questa interpretazione maggiormente rispettosa della finalità complessiva della riforma. Ovvero dare maggiore spazio all'autonomia statutaria e perché evita di porre il problema dell'eventuale sanzione che potrebbe conseguire all'inadempimento dell'obbligo di adeguamento dello statuto. Insomma l'effetto <<ghigliottina>> sarebbe posticipato al decorso dei 120 giorni.

Detta tesi, preoccupata di dare contenuto concreto all'autonomia statutaria, non pare tuttavia accettabile. Non solo perché la lettura degli atti parlamentari rivela che la prima stesura della norma oggi sfociata nel comma 4 dell'articolo 1 prevedeva espressamente che l'abrogazione della norma statuaria conseguisse all'inutile decorso dei 120 giorni dall'entrata in vigore della legge dettante nuovi principi. Non solo perché il dato letterale del comma 4 è di per sè chiaro, sicchè l'interpretazione deve arrestarsi laddove il dettato normativo risulti non controverso (in claris non fit interpretatio). Ma soprattutto perché se alcune previsioni dello statuto divengono incompatibili con nuovi principi inderogabili della legge, allora vi è un contrasto inammissibile, che non può evidentemente perdurare per 120 giorni. La norma statutaria viene, pertanto, immediatamente abrogata a conferma che la fonte atipica statutaria non ha la forza di resistere alle nuove disposizioni di legge dettanti principi o disciplinanti direttamente le materie dell'ordinamento degli enti locali. La sanzione per il mancato adeguamento nei 120 giorni è, da un lato, già insita nella perdita da parte dell'ente dell'opportunità di introdurre la disciplina di dettaglio o di completamento del principio generale e quindi in un giudizio negativo di natura politica sulla capacità di valorizzare la propria autonomia, non sembrando che il mancato adeguamento della disposizione statutaria configuri in generale l'ipotesi della grave violazione di legge.

E' pur vero che il rango degli statuti di fonte specificamente disposta a disegnare non solo l'organizzazione ma anche l'ordinamento interno degli enti locali può ricavarsi, come sostiene la dottrina più recente, dagli articoli 5 e 128 della Costituzione. Ma la Costituzione stessa non individua lo statuto quale fonte di diritto, operazione svolta invece dalla legge 142/1990, prima, e confermata dal testo unico, quali leggi generali della Repubblica in materia di ordinamento degli enti locali. Se da un lato si può riconoscere che la Costituzione abbia inteso assegnare all'ordinamento comunale un ruolo di rilievo costituzionale quale ordinamento giuridico indipendente - nel senso di non subordinato - da quello statale (ma pur sempre omogeneo all'ordinamento generale), tuttavia non sembra di cogliere come conseguenza di ciò che gli statuti siano stati collocati in una posizione paritaria rispetto alla legge. La legge, infatti, è la fonte da cui deriva il riconoscimento dell'autonomia statutaria; ma secondo la dottrina tradizionale (Zagrebelsky, Il sistema delle fonti del diritto. Manuale di diritto costituzionale, ed. Utet, Torino, pag. 5) alla legge è vietato creare fonti aventi efficacia maggiore o uguale a quella propria, potendo invece dare vita a fonti dotate di efficacia minore. E nei confronti di queste la legge, pur conservando il suo ruolo di fonte sovraordinata, può operare una devoluzione normativa, disporre di se stessa consentendo deroghe o diverse discipline, se non addirittura forza abrogativa di altre leggi.

E' ciò che avviene con i regolamenti delegati di delegificazione, emanati dal Governo ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 400/88. Anche se, accorta dottrina rileva che neanche nel caso appena citato il regolamento dispone di una propria vis abrogandi. Infatti, si rileva che è la legge delegante ad abrogare la legislazione previgente individuando con disposizione espressa le norme da abrogare, anche se l'effetto è differito all'emanazione del regolamento delegato.

La forza derogatoria, allora, delle fonti subordinate, quando è possibile e legittima, non può spingersi fino al potere di disapplicare le disposizioni sovraordinate, a meno che non siano queste a stabilirlo. Ciò vale anche per l'atto amministrativo extra ordinem tipicamente identificato come dotato di forza derogatoria anche nei confronti della legge, ovvero l'ordinanza. (L. Paladin, Diritto costituzionale, ed. Cedam, Padova 1998, pag. 131).

L'ordinamento locale, in sostanza, anche se autonomo, è ancora configurato come ordinamento uniforme proprio perché esistono norme che pongono disposizioni cogenti e principi inderogabili tali da rendere di fatto ancora abbastanza flebile la forza della fonte statutaria di creare un ordinamento locale specifico fortemente tipizzato. Questo è confermato dalla semplice constatazione che la legge 142/1990 nonostante si fosse proclamata legge di principi ha continuato a dettare norme di dettaglio immediatamente precettive per l'ordinamento interno.

E' opportuno ricordare che a più riprese la giurisprudenza ha tracciato confini molto ben demarcati sia alla forza normativa degli statuti, sia alla loro potestà derogatoria. Il Tar Umbria (sentenza 23 aprile 1996, n. 176) ha apertamente qualificato gli statuti come atti di normazione secondaria rispetto alla legge; il Consiglio di Stato (sentenza Sez. V, 23 novembre 1996, n. 1408) ha considerato illegittima la disposizione di uno statuto comunale con cui si disponeva la sottoposizione delle deliberazioni della giunta all'esame del consiglio, posto che in tal modo si sarebbe introdotta una forma ulteriore di controllo sui provvedimenti della giunta, in aperta violazione dei criteri di riparto delle competenze tra organi, nonché un inammissibile controllo di merito sulla giunta (per una più completa rassegna di sentenze in merito, si rinvia a V. Italia, Lo statuto dell'ente locale, ed. Giuffrè, Milano 1999, pagg. 49-55).

Alcuni autori hanno criticato queste posizioni giurisprudenziali. In particolare (T. Groppi, L'ordinamento dei comuni e delle province, ed. Giuffrè, 2000, Milano, pag. 124) si è ritenuta la sentenza del Tar Emilia Romagna - Bologna, (sez. I, 15 ottobre 1993, n. 472) che ha ritenuto inammissibile per lo statuto prevedere un ampliamento delle ipotesi di delega sindacale ai sensi dell'articolo 38 della legge 142/1990 in quanto è la legge statale la fonte di attribuzione delle competenze agli organi, occorrendo sempre una necessaria conformità degli statuti alle norme di legge nonostante gli statuti possano operare nell'ambito dei principi della legge.

Detta dottrina ha ritenuto questa posizione giurisprudenziale gravemente penalizzante l'autonomia dell'ente. Ma proprio nel caso della possibilità del sindaco di utilizzare l'istituto della delega il problema consiste nell'esatta qualificazione della norma di legge. L'articolo 38, trasfuso nell'articolo 53 del testo unico, non può essere certo visto come norma di principio, in quanto è evidentemente una disposizione di dettaglio, poiché descrive minutamente i casi nei quali la delega è esercitatile ed i soggetti cui può essere rivolta, esaurendo, dunque, la disciplina della delega. Questa norma non essendo un principio, ma una disposizione, non può essere considerata derogabile o integrabile o modificabile dallo statuto; poiché la norma ha direttamente determinato la disciplina, lo statuto non deve né conformarsi, né non conformarsi, ma semplicemente non può intervenire, essendogli stato sottratto spazio normativo.

E' probabilmente criticabile una disposizione del genere, in quanto certamente sottrae spazi all'autonomia locale. Ma la critica alla norma non può portare a ritenere che lo statuto possa contenere una disciplina in deroga per ciò solo. Né l'indagine sulla forza normativa dello statuto può far sostenere che esso abbia la forza di derogare alla legge quando ciò sia valutato opportuno o necessario da parte degli organi politici, come avviene proprio per l'istituto della delega, ampiamente <<rivendicato>> come metodo di distribuzione degli incarichi politici e sistema organizzativo dei vertici amministrativi, pur in mancanza della norma di legge che la consenta espressamente. Appare strano che, invece, per fattispecie rispetto alle quali aprioristicamente si ritiene lo statuto non in grado di dettare una disciplina differente, si accettino acriticamente interpretazioni miranti a garantire l'uniformità <<comunque>> dell'ordinamento degli enti locali, pur trattandosi indubitabilmente di norme di principio. E' il caso del disposto dell'articolo 109, comma 2, del testo unico, derivante dall'articolo 51, comma 3-bis, della legge 142/1990. Esso stabilisce che il sindaco possa attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari nei comuni privi di qualifiche dirigenziali: siamo in presenza di una norma non di dettaglio, ma di un principio che quindi potrebbe essere applicato in modo eterogeneo. Ma in questo caso è noto che la dottrina maggioritaria e lo stesso Ministero dell'interno con la circolare 4/98, abbiano negato qualsiasi spazio all'ordinamento interno di ciascun ente di operare, attraverso lo statuto, la scelta di non affidare le funzioni dirigenziali ai funzionari, definendo in modo diverso l'assetto istituzionale tra comuni di dimensioni diverse.

Interpretazione, questa, basata a sua volta su un principio - quello della separazione delle funzioni - che però, guardando alla lettera della norma, si potrebbe in astratto considerare derogato non dallo statuto o dal regolamento, ma dalla disposizione di legge che con quel <<può>> consentirebbe in realtà al sindaco di scegliere più di una strada operativa.

E', per la verità, da considerare corretto non consentire nell'ordinamento degli enti locali un assetto interno differenziato tra enti. Eppure in realtà amministrative nelle quali v'è una maggiore tensione all'autonomia, come in Germania, si assiste al fenomeno di una forte caratterizzazione degli specifici e singoli ordinamenti interni, addirittura anche in relazione alle norme sulle elezioni degli organi. Ed in parte questo è previsto anche dall'ordinamento degli enti locali italiano, ad esempio per i municipi: infatti, la legge lascia amplissimo spazio all'autonomia per disporre quali e quanti organi eleggere e scegliere se nominare i componenti col voto a suffragio universale diretto o con la nomina di secondo grado. Ma in questo caso, così come nel sistema tedesco, l'ampia libertà all'autonomia statutaria deriva dalla legge, non è <<data>> a priori. Non si vede perché in nome dell'autonomia si consideri derogabile una norma dispositiva quale quella sulla delega, e non derogabile una norma di legge che in realtà di per sé è una deroga. Occorre, evidentemente, coerenza anche nell'interpretare le norme e qualificarle come principi o disposizioni.

Da questo punto di vista sarà importante che il legislatore si attenga al disposto del comma 4 dell'articolo 1 del testo unico, provvedendo davvero ad enunciare di volta in volta i principi considerati inderogabili.

L'esempio cui si dovrebbe fare riferimento è dato dall'articolo 108 del D.lgs 77/95, trasfuso nell'articolo 152, comma 4, del testo unico.

In realtà la norma del testo unico ha invertito la tecnica di individuazione delle norme inderogabili. La norma del D.lgs 77/1995, infatti, aveva espressamente dichiarato quali tra le norme in esso contenute dovessero considerarsi principi inderogabili, consentendo espressamente agli enti di disapplicare le altre norme, recando una disciplina differente  nel regolamento di contabilità.

L'articolo 152, comma 4, del testo unico, invece stabilisce che tutte le previsioni in materia di contabilità contenute nel testo unico siano da considerare principi inderogabili, individuando, invece, espressamente le norme che è possibile disapplicare con una disciplina differente da parte del regolamento di contabilità.

In apparenza il risultato è lo stesso; in realtà l'articolo 108 del D.lgs 77/1995 era più fedele all'impostazione dell'articolo 1, comma 4, del testo unico, perché il legislatore deve indicare espressamente quali norme sono da considerare principi inderogabili e non le previsioni rispetto alle quali è consentita una disciplina differente. Stabilire in linea generale che tutte le norme sono principi inderogabili non risponde appieno al dovere di enunciare, di indicare ovvero analiticamente, quali norme abbiano tale natura, di talchè in sostanza si finisce per limitare la potestà normativa decentrata e per non risolvere il problema interpretativo della corretta individuazione delle norme di principio. Infatti, un'enunciazione così generale come quella proposta dall'articolo 152, comma 4, del testo unico non può esimere l'interprete dall'indagare se realmente la norma, al di là del nomen iuris, contenga un principio.

Il comma 5 dell'articolo in esame ripropone la clausola di rafforzamento dell'ordinamento degli enti locali, già presente nell'articolo 1, comma 3, della legge 142/1990. Tale disposizione impone alle leggi della Repubblica di derogare alle disposizioni del testo unico solo mediante modifica espressa delle sue disposizioni.

E' noto che la dottrina ha ampiamente criticato questa disposizione: si tratta, infatti, di un autoqualificazione della norma quale legge rinforzata, contraria al già citato orientamento degli studiosi tendente ad identificare nel sistema delle fonti il principio del divieto per le leggi di creare fonti a sé pariordinate o sovraordinate. L'esperienza ha insegnato che spesso il legislatore non ha tenuto in conto la clausola di rafforzamento contenuta nella legge 142/1990.

In presenza, tuttavia, di un testo unico, appare maggiormente necessario ed opportuno che ogni eventuale riforma legislativa non avvenga in modo episodico, e sia mirata a modificare espressamente quanto previsto dal testo unico, affinchè esso permanga tale il più a lungo possibile nel tempo.

A conferma del ruolo centrale che il testo unico intende acquisire, esso stabilisce all'articolo 5, comma 2, che lo statuto definisce le norme fondamentali dell'ente non più nell'ambito dei principi fissati dalla legge, come da ultimo aveva previsto la legge 265/1999, bensì nell'ambito dei principi fissati dal testo unico medesimo. Il che starebbe a significare che anche i successivi interventi legislativi, perché limitino ed indirizzino l'attività statutaria, dovranno necessariamente operare una riforma espressa del testo unico.


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