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LUIGI OLIVERI

Dirigenti locali, incarichi e revoche: un sistema in cerca di equilibri

(nota a Tribunale di Parma, Sez. Lavoro,  ordinanza 28 marzo 2001 n. 125*)

L'ordinanza n. 125/01 in data 28 marzo 2001 del giudice del lavoro di Parma è degna di nota, non solo per le motivazioni con le quali giunge alla disapplicazione del regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi che ha causato il demansionamento dei dirigenti ricorrenti, ma anche per il retroterra politico amministrativo (nei confronti del quale è fortemente critica) che lascia intravedere.

Retroterra che, nonostante l'orientamento largamente maggioritario del giudice del lavoro sia conforme a quello espresso con l'ordinanza in commento, si ripete con estrema frequenza presso molti enti locali, a discapito della dirigenza, quasi che gli organi di governo ignorino o fingano di ignorare non solo quello che le norme ed i contratti prevedono dal punto di vista sostanziale, ma anche un indirizzo giurisprudenziale che, pure, dovrebbe essere considerato da chi effettua le manovre di riorganizzazione degli enti, ai fini della legittimità degli atti emessi.

I giudici, con i loro provvedimenti, continuano a ricordarci che l'azione amministrativa è ancora pur sempre subordinata al principio costituzionale di legalità buon andamento ed imparzialità, a differenza di quanto avviene per l'azione gestionale del personale, nell'impresa privata, "con buona pace della presunta omogeneizzazione delle due tipologie di impiego", chiosa, molto efficace, del giudice estensore dell'ordinanza in commento.

Eppure, sembra che la "privatizzazione" del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sia interpretata dagli organi di governo come libertà assoluta di manovra e come fonte di un processo di "riorganizzazione" che sembra non avere fine, né limiti.

L'introduzione di istituti gestionali di carattere aziendale, da parte del legislatore, ha avuto essenzialmente il fine di aggiungere alle tradizionali modalità di azione della pubblica amministrazione, anche quelle di natura aziendale. Per fornire, finalmente, strumenti di valutazione dell'azione medesima, e dei responsabili della stessa, basati su parametri concreti di efficienza ed efficacia, come risparmi di gestione, incremento delle entrate, velocizzazione delle spese, razionalizzazione delle procedure, riduzione degli adempimenti e gli altri indicatori utilizzabili dal controllo di gestione. Indicatori utili alla fondamentale funzione di governo, ovvero la programmazione (non si può programmare se non si definiscono gli obiettivi e, di conseguenza, i modi di misurazione della capacità di raggiungerli), ed il successivo controllo (cioè il confronto tra gli indicatori degli obiettivi ed i risultati concretamente raggiunti).

Da qui si sarebbe dovuto mettere in moto il processo di riqualificazione, ma anche di valutazione, del personale, per verificare le capacità di gestire secondo le modalità ulteriori previste dalla norma. Ed in base a queste valutazioni, avviare processi di riorganizzazione, mirati anche ad assegnare alla dirigenza gli incarichi più consoni alla capacità professionale, verificata sul campo, o a sanzionare coloro che non si fossero dimostrati in grado di assolvere a questi compiti.

In fondo, questo è quello che prevedono espressamente le norme ed i contratti. Lo spirito dell'articolo 19, comma 1, del D.lgs 29/1993 (immediatamente applicabile agli enti locali, come ha chiarito l'articolo 88 del D.lgs 267/2000 [1]) è esattamente quello descritto prima: la norma dispone che "per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse si tiene conto della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, […]". 

Come si può, dunque, stabilire l'idoneità di un dirigente a perseguire un programma di governo, se l'organo di governo non elabora il programma? E come si può valutare l'idoneità se non con riferimento alle concrete esperienze professionali del singolo dirigente, da valutare specificamente e non in astratto? Ancora, come è possibile non tenere conto dei precedenti risultati dell'attività svolta?

Ma per valutazioni simili, occorre una misurazione sul campo della dirigenza. Che, per quanto riguarda gli enti locali, si è potuto iniziare a svolgere con pienezza e chiarezza di strumenti solo a decorrere dal 23 dicembre 1999, data di stipulazione del secondo contratto collettivo dell'area. Il cui articolo 13, nel modificare l'articolo 22 del CCNL in data 10.4.1996, dispone:

1) che gli enti locali debbono adeguare (ma, come detto sopra, ci ha pensato il D.lgs 267/2000, con il suo articolo 88) i propri ordinamenti ai principi stabiliti dall'articolo 19, commi 1 e 2, del D.lgs 29/1993, per il conferimento, la revoca e la rotazione degli incarichi dirigenziali;

2) che la durata degli incarichi non può essere inferiore a due anni;

3) che revoche anticipate degli incarichi sono ammissibili solo per incapacità di raggiungere i risultati o per motivate ragioni organizzative (su questa specifica fattispecie si tornerà, col conforto di quanto specificato nell'ordinanza del giudice parmense).

In sostanza, il CCNL del 23.12.1999 impone agli enti locali di partire da un "anno zero" nel corso del quale assegnare i primi incarichi, per un tempo congruo (almeno due anni) in base a valutazioni dell'esperienza pregressa della dirigenza, per avviare, a conclusione della riconfigurazione delle funzioni e responsabilità della dirigenza, processi di modifica degli incarichi, legati a procedure trasparenti e fondate di valutazione dei risultati e dell'idoneità a svolgere i compiti connessi con i programmi di governo. Si ribadisce, quindi, la necessità di un programma di governo tradotto in concreti e misurabili obiettivi amministrativi, un congruo periodo di gestione, ed una conseguente valutazione.

Invece, proprio il proliferare di pronunce giudiziali come quella che qui si commenta, dimostra che le amministrazioni si sono dimostrate particolarmente impazienti di attuare subito una sorta di walzer degli incarichi, e di ricorrere con la massima larghezza consentita dalla legge a forme flessibili di acquisizione della dirigenza, a discapito dei dirigenti a tempo indeterminato, o di ruolo, o, meglio, di alcuni tra questi dirigenti.

Le parole d'ordine utilizzate, a questo fine, sono "riorganizzazione" e "idoneità a perseguire gli obiettivi dell'amministrazione": formule valide come enunciazioni di principio a livello normativo, che andrebbero però tradotte concretamente in criteri riorganizzativi e valutativi, in base a ragioni concrete e rese evidenti e previa chiarificazione del concetto di idoneità, sul presupposto dell'elaborazione di programmi ed obiettivi politico-amministrativi chiari e precisi.

Si assiste, invece, ad un proliferare di processi di riorganizzazione fine a se stessi, la cui quantità appare direttamente proporzionale al proliferare di incarichi dirigenziali esterni e di attribuzione di incarichi di direzione generale.

Non bisogna nascondersi, difatti, che la scarsa chiarezza del ruolo e delle funzioni del direttore generale [2] abbia oggettivamente portato a scompensi molto forti nei rapporti tra organi di governo e dirigenza. Proprio la mancanza di una programmazione politico-amministrativa vera e propria, ha fatto in modo che l'attenzione sulle funzioni e le prestazioni del direttore generale si concentrasse quasi esclusivamente su funzioni gestionali di tipo surrogatorio e sulla riorganizzazione del personale, quasi vi fosse, per questa strada, la necessità per le amministrazioni locali di legittimare la presenza del direttore generale, figura altrimenti di incerta collocazione e non chiara funzione.

Dunque, la volontà di attivare presto strumenti di flessibilizzazione della dirigenza e la presenza di un direttore generale hanno indubbiamente spinto le amministrazioni locali a cercare di rivoltare come un guanto l'assetto della dirigenza, nell'esercizio del potere di autorganizzazione del datore di lavoro, inteso nell'accezione privatistica di capacità assoluta di esercitare lo ius variandi in base a valutazioni di opportunità del tutto discrezionali, rispetto alle quali la dirigenza non avrebbe alcun diritto né interesse legittimo tutelabile.

Ma anche la dottrina [3] più favorevole ad una possibilità molto ampia, purchè nel rispetto degli obblighi di ragionevolezza e motivazione, per gli organi di governo di procedere alle nomine su base fiduciaria sottolinea che il carattere fiduciario delle nomine non comporta alcuna sottrazione al sindacato giurisdizionale di legittimità degli atti, né esonera gli organi dalla motivazione della nomina. Queste analisi, però, pare non tengano sufficientemente conto del fatto che se una nomina deve essere motivata, allora non si è pienamente in una fattispecie fiduciaria o intuitu personae, che propriamente esclude qualsiasi obbligo di motivazione, visto che l'unica ragione della scelta sta nella persona del soggetto da nominare.

In ogni caso, gli analisti della riforma del pubblico impiego concordemente sottolineano che il datore di lavoro pubblico è soggetto al rispetto di procedure e vincoli legislativi, disposti espressamente dal D.lgs 29/1993, sconosciuti nell'ambito privato, anche se i contratti collettivi dei comparti privati hanno introdotto misure non dissimili da quelle vigenti per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, volti a garantire che l'esercizio del potere di organizzazione del datore di lavoro non si tramuti in arbitrio.

In ogni caso, la riorganizzazione deve rispondere ai principi di buon andamento, essere quindi non il fine, ma il mezzo per raggiungere un obiettivo. La modifica della dotazione organica ed il ridisegno degli incarichi dirigenziali, insomma, non è esercizio equivalente al riordino del mobilio di una stanza, che deriva dal gusto personale dell'occupante. Le modifiche organizzative dovrebbero essere finalizzate ad eliminare una disfunzione o a cogliere un certo obiettivo, come la creazione di una task force, col compito di provvedere, per esempio ad una dismissione immobiliare, alla privatizzazione di servizi o altri obiettivi programmatici.

Pare di poter dire, tuttavia, che in questi anni si è assistito ad una convulsa riorganizzazione degli uffici, utilizzata più per il fine di creare una dirigenza omogenea agli organi di governo, che per risolvere problemi o cogliere obiettivi. Per questo il concetto di idoneità alla copertura dell'incarico dirigenziale è rimasto inespresso ed astratto, ridotto a semplice formula "magica" per nominare o revocare i dirigenti di ruolo. Nonché per reclutare dirigenti esterni, ancora una volta più per lo scopo di dotarsi di gestori omologati alle idee politiche, che non per l'individuazione di professionalità nuove anche al di fuori dei ruoli amministrativi.

Staff. La creazione di strutture di staff del direttore generale, pertanto, come nello specifico caso di Parma, ha assolto più la funzione di trovare una sistemazione a dirigenti che si è inteso rimuovere dal proprio incarico, che non la costituzione di un vero supporto tecnico amministrativo, per altro ad un soggetto, il direttore generale, che per la sua funzione di diretto collaboratore degli organi di governo può essere a sua volta considerato in staff al sindaco.

E' perfettamente comprensibile, allora, che gli organi di governo dotino se stessi, come del resto prevedono gli articoli 14, comma 2 e 17, comma 6, nonché gli articoli 90 e 110 del D.lgs 267/2000, di uffici diretta collaborazione degli organi di governo medesimi, quali il capo di gabinetto, l'addetto stampa, il nucleo di valutazione, l'ufficio per gli studi legislativi e normativi, l'addetto ai rapporti col territorio e le imprese, il segretario particolare, il direttore generale. Ma se per funzioni di staff si intende il supporto all'organo, attuato mediante assistenza alle decisioni, elaborazione di modelli e schemi gestionali per le attività di diretta competenza, analisi dei programmi presentati dalla dirigenza gestionale, allora i dirigenti di staff sono coloro che non dirigono e gestiscono aree o settori amministrativi, ma che collaborano alla funzione di governo, pur senza essere soggetti politici in quanto eletti dal corpo elettorale. Non si vede, quindi, quale utilità possa avere la creazione di posizioni dirigenziali in staff alla direzione generale, se non quella di mascherare una collocazione di sostanziale revoca e depauperamento del ruolo e delle competenze dirigenziali, come puntualmente e rigorosamente ha messo in luce l'ordinanza del giudice di Parma.

Riorganizzazione. Tornando, allora, alle esigenze di riorganizzazione che la creazione di una dirigenza non di ruolo ha indirettamente giustificato ed esaminando la problematica in stretta correlazione con le considerazioni riportate nell'ordinanza che qui si commenta, si deve mettere in evidenza che la riorganizzazione, di per sé, viene attuata con provvedimenti di carattere generale. In quanto tali, detti provvedimenti, allora, dovrebbero essere adottati valutando in astratto quello che si vorrebbe fosse l'assetto migliore delle strutture, in relazione agli obiettivi da seguire, nel rispetto del principio del buon andamento. I regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, allora, dovrebbero ragionare sui posti di dirigenti e sulle strutture di vertice "a vuoto". Il che significa che, in presenza di un riordino degli incarichi, tutte le posizioni dirigenziali preesistenti sono da mettere in discussione, o, meglio, tutti i dirigenti dovrebbero essere sottoposti alla valutazione richiesta dagli articoli 19, commi 1 e 2, del D.lgs 29/1993 e dall'articolo 13 del CCNL in data 23.12.1999, in quanto la modifica delle strutture dirigenziali comporta di per sé la necessità di rivedere l'idoneità dei dirigenti rispetto ad incarichi che, necessariamente, appaiono nuovi e diversi rispetto ai precedenti.

La revoca "mirata", allora, di incarichi di direzione in strutture operative, con conseguente assegnazione a funzioni di staff del tutto vuote, come nel caso – a dire del giudice – del comune di Parma, comporta una distorsione del concetto di organizzazione come atto generale, in quanto è lampante [4] la volontà di utilizzare il regolamento di organizzazione come strumento teso a determinare in via immediata (anche se poi con efficacia differita al provvedimento sindacale di nomina) una modifica dell'incarico dirigenziale.

Ebbene, sottolinea il giudice parmense, che l'adozione di regolamenti di organizzazione in base a simili presupposti comporta una violazione degli obblighi contrattuali previsti dal CCNL del 23.12.1999, che impone alle amministrazioni precisi criteri per l'assegnazione degli incarichi, ed, indirettamente, per il riassetto delle strutture.

Se, allora, dal regolamento derivi la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale (che non può avere durata inferiore ai due anni), questa conseguenza è illegittima, nel momento in cui, come nel caso di Parma, non sono spiegate le ragioni organizzative e produttive che, per espressa previsione dell'articolo 13 del contratto collettivo di categoria, possono consentire la modifica anticipata degli incarichi dirigenziali, non essendo sufficiente "motivare con la ristrutturazione della pianta organica, che è atto generale e non riguarda le singole posizioni lavorative", sottolinea l'ordinanza: in sostanza, non è possibile cambiare la dotazione organica perché la si vuol cambiare, né dalla semplice modifica della dotazione può discendere la revoca degli incarichi dirigenziali prima della scadenza. Infatti, la dotazione organica ha carattere programmatorio e, quindi, gli effetti conseguenti andrebbero sempre e comunque subordinati all'entrata a regime, e dunque condizionata anche ai termini di scadenza degli incarichi in corso.

Revoca. A questo proposito, appaiono del tutto prive di qualsiasi pregio posizioni difensive delle amministrazioni, tendenti inutilmente a dimostrare che nel caso di ricollocazioni dei dirigenti in diversi incarichi dirigenziali a seguito dell'adozione della nuova dotazione organica, non si sia in presenza di revoche, ma dell'esercizio del potere organizzatorio del datore di lavoro.

L'argomentazione è priva di consistenza, in primo luogo, sul piano logico. La destinazione di un dirigente ad un altro incarico, se non avviene alla naturale scadenza o per effetto di sanzioni, non può che coincidere con una revoca dell'incarico precedente, anche se la si voglia chiamare con un altro nome.

In secondo luogo, è una scorrettezza sul piano giuridico e contrattuale. Come correttamente mette in evidenza l'ordinanza, gli enti debbono informare, e quindi eventualmente assoggettare a concertazione, i dirigenti sui criteri di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali. Se l'adozione del regolamento di organizzazione modifica i criteri già esistenti, finchè non si sia avviato il processo di informazione ed eventuale concertazione, ogni atto attuativo della nuova organizzazione è assolutamente illegittimo, e coincide con una revoca, per giunta priva del sostegno di una corretta procedura contrattuale.

In ogni caso, se è posto il principio che gli incarichi non possono durare comunque meno di due anni, ogni provvedimento di modifica dell'incarico, non può essere adottato unilateralmente dall'amministrazione, ma solo con l'espresso consenso del dirigente [5], prima del decorso del termine. Si badi, l'articolo 13 del CCNL in data 23.12.1999 subordina al rispetto del termine minimo dei due anni non solo le revoche ma anche "il passaggio ad incarichi diversi", trattando, pertanto, nella stessa maniera le due fattispecie (del resto, identiche tra loro), con buona pace di chi intenda strumentalmente evidenziare differenze tra la revoca e la modifica dell'incarico.

La revoca anticipata, in particolare, può avvenire solo nei casi previsti sempre dal medesimo articolo 13, che rinvia all'articolo 21 del D.lgs 29/1993, ovvero:

1) per risultati negativi della gestione;

2) per il mancato raggiungimento degli obiettivi del Peg;

3) per grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente;

4) per ripetuta valutazione negativa.

Si aggiunge, inoltre, il quinto caso della riorganizzazione dovuta a motivare ragioni produttive [6].

Passaggio ad altro incarico. E' da ritenere che ogni fattispecie di passaggio ad altro incarico derivante da valutazioni o circostanze rientranti tra quelle sopra elencate, determini, come detto sopra, una vera e propria revoca punitiva nei confronti del dirigente interessato.

In particolare, passare un dirigente da un incarico di direzione di una struttura di line, ad una posizione di staff (in quanto tale priva, in genere, di gestione di risorse finanziare, umane e di controllo) è di per sé da ritenere una revoca di natura sanzionatoria. Infatti, l'articolo 21, comma 1, dispone che a seguito della valutazione di risultati negativi o del mancato raggiungimento degli obiettivi, può scaturire la conseguenza della "destinazione ad altro incarico, anche tra quelli di cui all'articolo 19, comma 10". Quest'ultima disposizione stabilisce che "i dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall'ordinamento […]".

Appare di lampante evidenza che l'assegnazione a funzioni sostanzialmente non gestionali ma di staff è, di per sé, una revoca ed un demansionamento del dirigente interessato. Allora, il combinato disposto degli articoli 21, comma 1, e 19, comma 10, del D.lgs 29/1993, dovrebbe farci concludere che il passaggio da incarichi di direzione di uffici, ad incarichi di staff o studio – se non concordato consensualmente – porta ad una fattispecie di revoca surrettizia, a meno che non sia il consapevole frutto di un procedimento valutativo che porti alla sanzione del dirigente, una volta dimostrata la sua inidoneità all'incarico precedente.

In questo caso, allora, deve scattare necessariamente il meccanismo di tutela previsto dall'articolo 14 del CCNL in data 23.12.1999, secondo il quale gli enti sono tenuti a disciplinare gli effetti sanzionatori degli accertamenti negativi, il relativo procedimento e gli strumenti di tutela, tra i quali la previa contestazione ed il contraddittorio col dirigente interessato.

Il contratto, quindi, prefigura un procedimento contraddittorio, rispetto al quale risultano ovviamente obbligatori gli obblighi di comunicazione e partecipazione al procedimento previsti dalla legge 241/1990. L'ordinanza in commento ha, per altro, espressamente rilevato la violazione dell'articolo 7 della citata legge, per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento.

Per altro, l'articolo 19, comma 10, lascia intendere che le posizioni dirigenziali di staff possono essere poste in relazione solo con gli organi di vertice delle amministrazioni, da intendere come organi di governo, e non certo con altri dirigenti o la direzione generale.

Specificazione dei criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi. In ogni caso, il vero punto dolente consiste nella genericità con le quali le amministrazioni definiscono i criteri, le regole concrete in base alle quali conferire o revocare gli incarichi o, ancora, attivare i processi di rotazione tra incarichi dirigenziali. 

A ben guardare, proprio la mancanza o insufficienza dei criteri è alla base di un'applicazione della disciplina degli incarichi dirigenziali piuttosto disinvolta: è più facile adottare provvedimenti di flessibilità organizzativa del tutto slegati da vincoli, nel momento in cui detti vincoli, sostanzialmente, non esistono. 

Ora, si può concordare o meno sull'opportunità che le norme o i contratti creino limiti al diritto del datore di lavoro di organizzare la sua impresa, ed in merito è aperto un dibattito politico e dottrinale da tempo. Resta il fatto, comunque, che nel diritto vigente, limiti alle determinazioni organizzative delle amministrazioni pubbliche esistono e sono determinati, soprattutto, dall'esigenza di rispettare i principi di buon andamento e di legalità, che, lo si ripete, caratterizzano l'azione amministrativa rispetto all'attività imprenditoriale privata.

Il punto maggiormente critico dell'ordinanza del giudice di Parma rispetto all'operato del comune sta proprio qui, nella sottolineatura di una omissione dell'enunciazione nel regolamento di organizzazione dei criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi.

Insomma, compito specifico delle amministrazioni è rendere concreti i principi dettati dalle leggi, attraverso norme di dettaglio capaci di tradurre i principi in scelte operative concrete.

Ciò significa che se la legge, a proposito del conferimento degli incarichi, parla in via generale di "natura e caratteristiche dei programmi da realizzare", nonché di "capacità professionale" del dirigente, occorre dare corpo a questi principi generali, sicchè la ripetizione acritica dei medesimi principi generali nei regolamenti di organizzazione o nei contratti decentrati, dà vita ad un violazione di un vero e proprio obbligo organizzativo rispondente ai principi di buona organizzazione e rende oggettivamente impossibile comprendere, per la dirigenza, quando e perché gli incarichi possano essere conferiti o revocati.

Da qui la condivisibile considerazione espressa nell'ordinanza del giudice parmense, secondo la quale al fine di limitare o eliminare arbìtri e clientelismo o scelte dettate solo da ragioni politiche, piuttosto che tecnico-produttive, occorre enunciare, dunque chiarire, definire e specificare, le regole alla base dei conferimenti e delle revoche [7].

Dunque, la natura e la caratteristica dei programmi andrebbe specificata quanto meno:

1) in relazione all'effettiva sussistenza di un programma amministrativo;

2) in base alla redazione di un programma correttamente disaggregato per obiettivi sia di natura strategica (a medio lungo termine), sia di natura operativa (a breve termine, generalmente annuale);

3) in base alla dotazione delle unità responsabili degli obiettivi di congrue risorse;

4) come frutto di una verifica delle capacità tecniche necessarie per la realizzazione di un obiettivo (la realizzazione di una privatizzazione di funzioni o servizi presuppone una conoscenza del diritto e dell'economia; la formulazione di un nuovo piano urbanistico, cognizioni tecniche urbanistiche, ecc…);

5) in base alla determinazione delle priorità che l'amministrazione intende attribuire agli obiettivi;

6) in relazione alla negoziazione tra gli obiettivi e la conformazione dei programmi impostati dall'amministrazione, con la collaborazione della direzione generale, e la dirigenza che li deve attuare.

Per converso, l'idoneità rispetto al programma ed agli incarichi da ricoprire, andrebbe vista in base a:

1) una scheda riassuntiva dei titoli di studio e scientifici acquisiti dal dirigente (pubblicazioni, incarichi professionali);

2) la valutazione dell'attività svolta in precedenza;

3) l'attenta ponderazione delle conseguenze organizzative scaturenti dallo spostamento di un dirigente che per lungo tempo abbia diretto in modo soddisfacente un settore ad un altro;

4) l'avvio di una contrattazione individuale, che tenga conto anche della remunerazione degli incarichi;

5) la valutazione necessariamente comparativa delle capacità dei dirigenti, in mancanza della quale l'approvazione di criteri e modalità come qui esemplificati risulterebbe assolutamente inutile, una sorta di copertura a valle, di decisioni già assunte a monte.

Rispetto alle revoche occorrerebbe:

1) indicare cosa si intenda per valutazione negativa; ad esempio stabilendo che, dato 100 il livello massimo di raggiungimento degli obiettivi, si considera negativa una valutazione inferiore a 60 (ovviamente dopo aver specificato molto bene i parametri di valutazione dei punteggi);

2) specificare in cosa consiste il mancato raggiungimento degli obiettivi, in base, in primo luogo, alla definizione di quali obiettivi possono far scaturire la valutazione negativa, ed in secondo luogo, all'evidenziazione dell'indicatore numerico dell'obiettivo (una scadenza, l'incremento di una certa percentuale delle entrate, la velocizzazione di un preciso indice della capacità di spesa, l'incremento degli atti prodotto a parità di risorse, ecc…);

3) chiarire quando la violazione delle direttive è da considerare grave, nel rispetto del diritto del dirigente di non dar corso a direttive che ingeriscano nella gestione o nel vincolino le scelte gestionali;

4) definire quando e come si verifichi la ripetuta valutazione negativa;

5) specificare le ragioni organizzative che possano portare all'accorpamento o alla disaggregazione di unità organizzative, in base a motivazioni di ordine economico (ad esempio, la necessità di ridurre le spese per un bilancio che dà segni di dissesto), o di ordine produttivo (ad esempio, la creazione di un'Autorità di ambito per la gestione del ciclo dell'acqua, ed il conferimento delle funzioni, giustifica la soppressione dell'unità che gestisca acqua, fognatura e ruoli relativi).

Solo la presenza di una griglia dettagliata di casi e motivazioni a base delle decisioni rendono l'esercizio della potestà di autoorganizzazione delle amministrazioni trasparente e legittima.

Diversamente, il rischio di giungere a provvedimenti mirati a demansionare i dirigenti in modo ingiustamente punitivo è oggettivamente molto alto.

Divieto di demansionamento. In ogni caso, fuori da ipotesi di revoca sanzionatoria, occorre ritenere, col giudice parmense [8], che il principio di rotazione degli incarichi non può essere inteso in violazione della tutela professionale (e della dignità anche sociale) dei dirigenti, nel senso, ovvero, che le amministrazioni sono libere ad libitum di collocare i dirigenti in qualsiasi posizione dirigenziale, anche di prestigio, contenuto professionale e valore economico inferiori.

Lo ius variandi delle amministrazioni non può comportare l'assoluto degrado di un diritto dei dirigenti ad un adeguata valorizzazione della professionalità acquisita. La rotazione, allora, non può che avvenire con riguardo ad incarichi equivalenti tra loro, per remunerazione e professionalità richiesta.

Interessante, a proposito, è la considerazione espressa nell'ordinanza, rispetto al valore che avrebbe l'esclusione dell'applicabilità dell'articolo 2103 del codice civile rispetto alle qualifiche dirigenziali. In base, probabilmente, ad una lettura letterale dell'articolo 19, comma 1, ultimo periodo, l'ordinanza, ritiene, invece, l'applicabilità dell'articolo 2103 anche alla dirigenza. L'esclusione della norma opererebbe, in sostanza, solo in un senso, ovvero solo per impedire che l'esercizio di fatto, dovuto a qualsiasi causa, di funzioni dirigenziali di livello superiore costituisca un diritto soggettivo all'assegnazione di un incarico di maggior rilievo, o per impedire automatici passaggi di dipendenti non dirigenti alla qualifica dirigenziale. 

La norma, infatti, oggettivamente limita l'applicazione dell'articolo 2103 a fattispecie di progressione di carriera nel disporre che "al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'articolo 2103 del codice civile". 

Se così non fosse interpretata la norma, allora si giungerebbe all'esclusione del divieto di reformatio in pejus, principio generale dell'ordinamento da ritenere, invece, ancora vigente ed operante proprio perché posto a tutela della professionalità dei lavoratori dipendenti, comprese anche le qualifiche dirigenziali.

Del resto, il demansionamento è regolato e disciplinato, dal D.lgs 29/1993, solo con riferimento a procedimenti sanzionatori, il che conferma indirettamente che una modifica degli incarichi dirigenziali è ammissibile solo in senso orizzontale o verso l'alto, ma mai verso il basso, conseguenza, quest'ultima, che si verifica anche quando l'incarico non venga formalmente mutato, ma si crei una sorta di fascia più elevata di incarico dirigenziale, nella quale si preponga altri dirigenti con funzioni di coordinamento o sovrintendenza, da cui deriva comunque un detrimento della professionalità.

L'eliminazione dello ius ad officium [9], pertanto, non comporta l'assoluta ed indiscriminata possibilità per le amministrazioni di disporre delle prestazioni lavorative dei dirigenti.

 

[1] Il testo della norma è il seguente: "All'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico". Alla luce di questa disposizione, non possono più ritenersi condivisibili interpretazioni dottrinali (G. ROLLA, L'ordinamento dei comuni e delle province, Milano, 2000, pag. 898 e segg.) secondo le quali le disposizioni del D.lgs 29/1993 non sono immediatamente applicabili all'ordinamento locale, in quanto principi da mediare attraverso l'autonomia normativa locale, che, piuttosto, sarebbe vincolata a conformarsi alle disposizioni.

Questa ricostruzione, data la chiarezza dell'articolo 88 del D.lgs 267/2000, non appare applicabile alla disciplina del personale locale. L'autonomia normativa di comuni e province, semmai, deve operare per adattare le disposizioni cogenti ed immediatamente applicabili del D.lgs 29/1993 alle peculiarità degli enti, così come prevedono l'articolo 27-bis del D.lgs 29/1993 medesimo, nonché l'articolo 111 del testo unico sull'ordinamento locale.

[2] Parte della dottrina, infatti, nel sottolineare che il direttore generale abbia fondamentalmente il compito di essere lo snodo tra politica ed amministrazione, col compito di tradurre in obiettivi tecnicamente percorribili gli scopi dell'azione di governo, ritiene che il direttore generale agisca quale organo sostanzialmente sovraordinato alla dirigenza, con compiti di natura anche operativa (M. CLARICH, D. IARIA, La riforma del pubblico impiego, Rimini, 1999, pagg. 274-275; L. VANDELLI, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini, 2000, pagg. 1288-1289). 

Altra dottrina (G. ROLLA, op. cit., pagg. 941 e segg.; D. FODERINI, Il direttore generale negli enti locali tra autorità politica e dirigenza. In particolare, i requisiti soggettivi richiesti per la nomina, in La Voce delle autonomie locali, n. 12/1999, pag. 32 e segg.) invece, nel sottolineare che i tradizionali modelli basati sulla gerarchia rigida non appaiono più praticabili sottolinea come i compiti e la professionalità del direttore generale non siano del tutto omogenee a quelli della dirigenza operativa, e che, per conseguenza, il direttore generale non deve esercitare attività attuative e gestionali, né si pone in sovraordinazione gerarchica con la dirigenza, rispetto alla quale occorre evitare sovrapposizioni di competenze.

[3] L. VANDELLI, op. cit. pag. 1214-1215, il quale sostiene che il carattere fiduciario della scelta della nomina del sindaco sia conseguenza imprescindibile, anche perché la personale valutazione dell'organo di governo sulla ritenuta maggiore affidabilità della persona appare una modalità di selezione più logica di una altrimenti assai ardua comparazione tra le professionalità esistenti.

Contro questa posizione si è pronunciato già più volte il giudice del lavoro. Ma anche il Consiglio di stato, Sez. VI, 18.12.1998, n. 1688, ha espressamente ritenuto necessaria una comparazione tra i dirigenti da nominare ad un incarico dirigenziale. In dottrina (P. VIRGA, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Milano, 2000, pag. 44) non manca chi sottolinea che comunque la fiduciarietà delle nomine, per altro espressamente prevista dalla legge solo per la dirigenza generale dello stato e per il direttore generale degli enti locali, non comporta discrezionalità assoluta, giacchè occorre valutare espressamente i titoli e le esperienze professionali dei dirigenti.

[4] Soprattutto nel caso, evidenziato dall'ordinanza, del dirigente già in precedenza sottoposto a modifiche del suo incarico.

[5] Si veda, in tal senso, l'ordinanza del Tribunale di Venezia 8 giugno 2000, in www.lexitalia.it, con, ivi, commento di L. OLIVERI, Il sistema degli incarichi dirigenziali e delle revoche alla luce delle interpretazioni del giudice del lavoro.

[6] Questa previsione, invece eliminata dal contratto della dirigenza statale, sembra quella maggiormente problematica e che avvicina la situazione della dirigenza locale a quella della dirigenza privata, molto più di quanto non avvenga per qualunque altra categoria di dipendenti da amministrazioni pubbliche, giacchè mette le amministrazioni in condizione di precarizzare fortemente la posizione lavorativa dei dirigenti locali, attuando processi di modifica della dotazione organica slegati da concrete ragioni produttive.

[7] In particolare per la revoca degli incarichi dirigenziali, gli interpreti (L. VANDELLI, op. cit. pag. 1217-1218) che vedono con favore la ricostruzione del rapporto tra dirigenza e organi di governo esclusivamente di tipo fiduciario, ritengono che la revoca debba essere circondata da cautele particolari, in quanto anche se il rapporto sia scaturito da elementi di fiducia, una volta instaurato tende a sfuggire alla disponibilità dell'organo di governo, tendendo ad assumere un'oggettiva stabilità fino alla scadenza naturale, a meno che non soggiungano motivate cause a fondamento della rimozione anticipata dall'incarico, che allora andrebbero soggette ad un penetrante sindacato giurisdizionale.

Parzialmente in linea con queste considerazioni è la l'ordinanza del giudice del lavoro di Lanciano (ordinanza 511 in data 1.2.2001). Detto giudice, infatti, ponendosi in sostanziale contrasto con le maggioritarie posizioni dottrinali e giurisprudenziali, ritiene che i dirigenti, una volta incardinati nel proprio incarico, vantano un vero e proprio ius ad officium, della durata minima biennale, stabilita dal CCNL del 23.12.2001. Pertanto, a fronte di revoche anticipate dell'incarico, ed in particolare per quelle fondate sulle necessità organizzative, sussiste un obbligo di motivazione particolarmente forte a carico delle amministrazioni, a garanzia dell'autonomia operativa del dirigente, perché le esigenze organizzative e le conseguenze revoche non si trasformino in indebiti sistemi di pressione nei confronti della dirigenza. Inoltre, la configurazione, sostenuta dal giudice, degli atti di conferimento e revoca, come atti negoziali di diritto privato, consente al giudice un sindacato sugli atti medesimi estremamente penetrante, che si possa estendere al merito delle scelte. Detto giudice del lavoro, però, sostiene che questo sindacato possa essere esercitato sia sulla revoca, sia sul conferimento degli incarichi, fattispecie che considera speculari.

L'ordinanza del giudice di Parma, per altro, sottolinea correttamente che l'approvazione della dotazione organica non può essere addotta a base delle ragioni organizzative e produttive che consentono l'anticipata rimozione degli incarichi, in quanto la dotazione è atto programmatico e non riguarda le singole posizioni lavorative.

[8] Nello stesso senso, anche Tribunale di Venezia, cit.

[9] Per altro negata dal citato giudice del lavoro di Lanciano.


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