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LUIGI OLIVERI
Delegabilità delle funzioni della dirigenza locale - linee interpretative
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POSIZIONE DEL PROBLEMA
Le riforme operate agli assetti amministrativi delle amministrazioni pubbliche e segnatamente degli enti locali dalla legge 127/97 e dal D.lgs 80/98 sono finalizzate ad una diversa organizzazione dell'attività amministrativa. Le riforme mirano, sostanzialmente, tra gli altri, ad un risultato: modificare la mentalità dei soggetti preposti alla direzione dell'attività gestionale, in modo da passare dalla cultura del perseguimento della sola regolarità dell'atto, a quella dell'efficacia della complessiva attività amministrativa, finalizzata al raggiungimento degli obiettivi previsti dagli organi politici di governo.
Il dirigente, pertanto, deve diventare sempre più un manager, cioè un programmatore, un gestore di risorse e di processi ed un controllore dei flussi, più che il produttore di atti. Mutuando una tipica filosofia aziendale, il dirigente deve fare accadere le cose, non farle direttamente. Gli atti amministrativi, necessari per il perseguimento degli obiettivi, debbono essere, allora, il mezzo, frutto dell'attività della struttura diretta dal dirigente, attraverso il quale raggiungere l'obiettivo. Dunque, per il dirigente, conta di più l'obiettivo, oggetto della valutazione finale della sua attività lavorativa, rispetto all'atto.
Sta di fatto, però, che se questa è la linea tendenziale, le medesime disposizioni normative sopra citate non hanno cancellato nel dirigente le competenze alla materiale e concreta adozione dei provvedimenti attraverso i quali esplicare l'attività amministrativa.
Con cristallina chiarezza, l'articolo 3, comma 2, del D.lgs 29/93 e successive modificazioni pone in capo ai dirigenti la competenza all'adozione <<degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo>>.
La legislazione vigente, quindi, anche se più marcatamente improntata verso una gestione della cosa pubblica di tipo aziendalistica, non ha abbandonato il modello essenziale di funzionamento della P.A., che si estrinseca, pur sempre, mediante la produzione di provvedimenti amministrativi.
Per altro, la formulazione del citato articolo 3, comma 2, del D.lgs 29/93 lascia capire come la funzione dirigenziale si esplichi in due modi: mediante l'adozione degli atti amministrativi, da un lato, e attraverso la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, dall'altro. In sostanza, alla managerialità continua a sposarsi una funzione più propriamente <<burocratica>> nel senso positivo e non deteriore del termine.
Questa impostazione è confermata anche dall'articolo 51, commi 2 e 3, della legge 142/90, come modificati dalle leggi 127/97 e 191/98, i quali affiancano ai compiti di direzione degli uffici, la competenza all'adozione di atti amministrativi, per altro analiticamente indicati e dettagliati dal comma 3. Il quale, in più, specifica che tali atti spettano ai dirigenti <<in particolare>>: sicchè è da ritenere l'elencazione non tassativa, nel senso che gli enti, nell'esplicazione della propria autonomia, possono ampliarla, ma non restringerla.
Parte della dottrina, tuttavia, di fronte ad una tendenza del legislatore ad esaltare il momento progettuale complessivo rispetto all'attività amministrativa di minuta attuazione, si è chiesta se il nuovo modello manageriale della dirigenza non implichi, come conseguenza, un potere di delega degli atti amministrativi a livelli inferiori, così da consentire al dirigente di svolgere in pieno i fondamentali compiti di programmazione, gestione e controllo dei propri settori di competenza, essendo gli atti amministrativi, tutto sommato, una conseguenza della strategia gestionale.
A fondamento delle interpretazioni di tale dottrina viene, oggi, chiamato in causa il nuovo ordinamento del personale degli enti locali, approvato con contratto collettivo in data 31 marzo 1999, che ha previsto la possibilità di istituire le cosiddette <<posizioni organizzative>>, ovvero delle figure intermedie tra il dirigente e il funzionario, in sostanza qualcosa di molto simile alla figura del <<quadro>> prevista dall'articolo 2095 del codice civile.
Si chiede, dunque, tale dottrina se la previsione di tali figure non autorizzi a creare un nuovo sistema gestionale, mediante il quale mantenere ai livelli dirigenziali solo le funzioni strategiche di programmazione, valutazione, organizzazione e controllo, lasciando la concreta attuazione degli obiettivi in tutto e per tutto alla struttura, la quale ora potrebbe agire con rilevanza esterna, adottando i provvedimenti amministrativi.
L'IPOTESI DELLA DELEGABILITA'
Le interpretazioni dottrinali, in merito, oscillano tra due sponde opposte: da un lato c'è chi sostiene la delegabilità delle funzioni dirigenziali, dall'altro chi la nega.
Analizzando le ragioni della prima posizione interpretativa, essa si fonda in particolare sulla manifesta intenzione del legislatore di modificare il modello gestionale e cerca di individuare nella normativa disposizioni che possano sorreggere una distinzione tra funzioni dirigenziali ed amministrative, nel nome di un'attuazione della riforma della P.A. meno formale e più attenta alla sostanza dei cambiamenti richiesti dalle riforme.
Essenzialmente, le disposizioni normative evocate a suffragio di dette posizioni sono le norme statutarie e le disposizioni sul procedimento amministrativo contenute nella legge 241/90.
Con riferimento allo statuto, la dottrina favorevole alla delegabilità delle funzioni sostiene che se anche il D.lgs 29/93 consente la delegabilità delle funzioni solo tra qualifiche dirigenziali, la possibilità offerta dall'articolo 27-bis del medesimo D.lgs 29/93 di adeguare l'ordinamento locale nel rispetto delle sue peculiarità ed autonomia, consentirebbe di prevedere per via statutaria quella delegabilità di funzioni non espressamente consentita dalla legge.
Tale interpretazione fa sua la tesi di autorevole dottrina che ritiene lo statuto comunale una fonte atipica, dotata di una particolare garanzia assicurata dagli articoli 5 e 128 della Costituzione, per effetto della quale gli statuti, nelle materie ad essi demandati dalla legge, stanno rispetto alla legge in una posizione pari ordinata, analogamente alle leggi regionali.
Sicchè, poiché gli statuti stabiliscono le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente, ben possono introdurre un modello che preveda la delegabilità delle funzioni dirigenziali, specie se tale modello è conforme al nuovo sistema gestionale desumibile dalle riforme riguardanti la pubblica amministrazione.
Del resto, osservano gli autori, esiste una fonte normativa che autorizza e legittima una disposizione statutaria del genere, ed è costituita dal combinato disposto degli articoli 5 e 6 della legge 241/90.
Il primo assegna al dirigente la facoltà di assegnare la responsabilità del procedimento a sé o ad altro dipendente addetto all'unità responsabile dell'istruttoria, comprendendo in tale incarico ogni adempimento inerente il singolo procedimento, inclusa l'adozione del provvedimento finale. L'articolo 6, alla lettera f), inoltre, prevede espressamente che tra le competenze del responsabile del procedimento v'è quella di adottare il provvedimento finale.
Allora, dette norme autorizzano a distinguere, nel regolamento di organizzazione, le funzioni dirigenziali da quelle amministrative. Le prime attengono alla fase gestionale complessiva, e mirano all'organizzazione di una struttura capace di cogliere gli obiettivi. Le altre sono funzioni tecniche e di dettaglio, assegnate a funzionari specializzati, in grado di adottare con competenza gli atti amministrativi necessari per la minuta attuazione dei programmi.
Così il dirigente potrebbe meglio espletare le proprie funzioni di amministrazione strategica mirante alla traduzione degli intenti politici in progetti gestionali.
E, d'altro lato, la remunerazione prevista dal contratto del 31.3.99 per le posizioni organizzative (un'indennità compresa tra i 10 ed i 25 milioni a seconda del peso della posizione) sarebbe giustificata dall'adozione di atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno e dalla relativa assunzione di responsabilità.
L'IPOTESI DELL'INDELEGABILITA'
Seppur autorevolmente sostenuta e meritoriamente finalizzata a rendere già oggi concreta ed attuale una manifesta intenzione del legislatore, tuttavia, l'ipotesi della delegabilità non pare reggersi su solide basi giuridiche. Almeno finchè il diritto amministrativo sarà retto dall'attuale sistema delle fonti, infatti, la delega delle funzioni (che certamente ha il merito di essere un flessibile sistema gestionale capace di responsabilizzare più livelli dell'apparato) non pare possa operare.
A fondare tale conclusione possono essere portate argomentazioni del tutto opposte alle tesi espresse dalla dottrina favorevole alla delega. Ed in aggiunta, altre considerazioni.
Partendo dalla critica delle interpretazioni della dottrina favorevole alla delegabilità, il primo fondamento della tesi – la pariordinazione dello statuto alla legge – non sembra conclusiva.
L'articolo 97, comma 1, della Costituzione riserva alla legge il compito di organizzare gli uffici pubblici, ed il comma 2 prevede che nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.
Da tale disposizione la dottrina amministrativistica ha ricavato il principio generale secondo il quale la delega delle funzioni è ammissibile solo se espressamente prevista dalla legge. Infatti, la delega determina uno scardinamento del sistema delle attribuzioni e competenze, poiché fa sì che un potere venga esercitato da un soggetto (organo) diverso da quello competente per disposizione generale.
Ora, sebbene la maggior parte della dottrina sostenga che la riserva di cui all'articolo 97 sia solo relativa, tuttavia l'organizzazione fondamentale della pubblica amministrazione va determinata da disposizioni generali dell'ordinamento.
Sicchè lo statuto non pare possa avere la forza di prevedere ciò che la legge espressamente non dispone, specie in presenza di un precetto costituzionale di riserva di legge.
Del resto, la pariordinazione dello statuto alle leggi non è affatto pacifica in dottrina, molti essendo gli interpreti che hanno seguitato a ritenere lo statuto fonte pur sempre subordinata alla legge.
Per altro, tale querelle dovrebbe oggi ritenersi chiusa, a seguito dell'articolo 1, comma 2, della legge 265/99. Detta norma, infatti, che ha introdotto il comma 2-bis all'articolo 4 della legge 142/90, prevede che l'entrata in vigore di leggi in materia di ordinamento degli enti locali abroga le norme statutarie con esse incompatibili. Tale norma conferma che per il legislatore lo statuto è senza dubbio fonte subordinata alla legge, visto che è esplicitamente confermato nella legge medesima un potere abrogativo automatico.
Qualche equivoco potrebbe ingenerare la locuzione <<legislazione in materia di ordinamento dei comuni e delle province>>: infatti, si potrebbe sostenere che norme di legge non espressamente regolanti tale materia non esplicherebbero i medesimi effetti abrogativi. Ma per ordinamento degli enti si deve necessariamente intendere anche l'organizzazione dei medesimi. Sicchè, allora, una norma quale il D.lgs 29/93, che per altro prevede anche l'espresso invito agli enti locali ad adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni in esso contenute, non può non essere considerata indirettamente di disciplina dell'ordinamento locale, come tale, quindi, sovraordinata allo statuto.
Se, allora, il D.lgs 29/93 si limita a prevedere, all'articolo 16, la sola delegabilità tra dirigenti generali e i dirigenti di prima fascia, non sembra possibile introdurre una diversa delegabilità a livello locale, mediante uno statuto che si porrebbe contro la Costituzione e contro il medesimo D.lgs 29/93. Come afferma accorta dottrina proprio sul medesimo tema (1) l'intento di adottare strumenti aziendalistici di gestione della cosa pubblica non può portare all'abrogazione implicita della Costituzione, prevalendo pur sempre la Costituzione formale su quella sostanziale.
Neanche la legge 241/90 pare possa fondare la delegabilità. Una cosa, infatti, è la responsabilità del procedimento, cosa diversa è il potere di adottare i provvedimenti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno.
Le norme della legge 241/90 non disegnano (se non indirettamente) un modello gestionale, bensì regolano il flusso procedimentale, richiedendo che le attività finalizzate al progredite di un iter siano imputate ad una certa unità organizzativa, e ad un ben identificato soggetto, che ha appunto la responsabilità del regolare fluire procedimentale.
Che la funzione del responsabile del procedimento, allora, sia essenzialmente di tipo istruttoria e non rivolta alla produzione dell'atto e meno che mai all'impegno dell'amministrazione verso l'esterno, lo dimostra l'elencazione degli adempimenti del responsabile contenuta nell'articolo 6 della legge 241/90.
Né può eccepirsi che la legge 241/90 attribuisca al responsabile il provvedimento finale. Infatti, tale competenza, ai sensi dell'articolo 5, comma 1, è esercitabile soltanto <<eventualmente>>mentre, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera e), il responsabile del procedimento adotta il provvedimento finale solo <<ove ne abbia la competenza>>, altrimenti trasmette gli atti all'organo competente per l'adozione.
Quindi l'adozione dell'atto da parte del responsabile incaricato dal dirigente, al contrario di essere una regola (o un modello gestionale), costituisce un'eccezione, visto che è la stessa legge 241 a considerare tale ipotesi un'eventualità, subordinata all'attribuzione di una specifica competenza.
A conferma di quanto detto fin ora può farsi riferimento alla ricostruzione compiuta dalla dottrina classica (2) del fenomeno del procedimento amministrativo.
Esso viene definito come una sequenza di atti che pur possedendo natura e funzioni diverse, sono tutti preordinati all'emanazione di un provvedimento finale.
Il procedimento amministrativo, quindi, proprio perché consiste in una sequenza di diversi atti, si compone di diverse fasi, che spesso consistono in vari subprocedimenti, miranti alla formazione del provvedimento finale. Dette fasi si svolgono per lo più all'interno della struttura amministrativa, mentre il provvedimento finale è generalmente rivolto all'esterno e ad esso è rimessa la funzione di impegnare l'amministrazione (con le sue decisioni) nei confronti dei destinatari.
La dottrina distingue le fasi del procedimento amministrativo essenzialmente in quella di iniziativa, quella preparatoria ed istruttoria, quella dispositiva e quella integrativa dell'efficacia.
La fase dell'istruttoria è quella finalizzata all'acquisizione dei documenti, dei dati, delle informazioni necessari alla ponderazione degli interessi che sottostanno al procedimento, al fine di fornire una valutazione finale in merito alla legittimità, all'opportunità, all'economicità ed all'efficacia del provvedimento finale.
Poiché l'istruttoria, però, si può disaggregare in più fasi ed atti, la legge 241/90 ha previsto che essa sia coordinata e gestita da un unico soggetto, una ben individuata persona fisica che si assuma la responsabilità di ricondurre a unità e coordinare le diverse attività istruttorie.
Sebbene, come detto sopra, la fase preparatoria è rivolta essenzialmente all'interno dell'amministrazione, ciò non vuol dire che il responsabile del procedimento non svolga anche attività a rilevanza esterna. Basti pensare alle comunicazioni di avvio o sospensione del procedimento, alle richieste di integrazione degli atti, all'acquisizione di prove o documenti dal cittadino o da altre amministrazioni. Spesso, anzi, il responsabile del procedimento compie a sua volta atti rivolti all'esterno. Per tale ragione, egli assume tutte le responsabilità civili, penali ed amministrative connesse ala sua attività, ivi comprese le responsabilità di cui all'articolo 328 del codice penale.
Il fatto, quindi, che il responsabile del procedimento non adotti il provvedimento finale, non significa che tale figura sia deresponsabilizzata. Al contrario, proprio in quanto nominato eventualmente coordinatore, egli risponde all'esterno, in sede civile e penale, di tutta l'attività istruttoria, ed all'interno risponde in relazione alle responsabilità amministrative e contabili che si assume, oltre che in relazione alla diligenza e competenza.
La nomina del responsabile del procedimento esenta il dirigente dall'eseguire in prima persona tali funzioni istruttorie. E', pertanto, un tipico atto organizzativo di natura dirigenziale, in quanto è rivolto ad individuare il soggetto più competente e meglio in grado di attendere ai compiti istruttori. Naturalmente, a tale nomina deve anche accompagnarsi l'assegnazione di adeguate risorse umane e strumentali, la formulazione d indirizzi e direttive di carattere gestionale, la previsione di strumenti di formazione e aggiornamento professionale, la verifica dei tempi e il riscontro di eventuali scostamenti rispetto al modello organizzativo per porvi rimedio a monte. Il dirigente, quindi, nel nominare il responsabile del procedimento, ed ancor più il coordinatore ai sensi del CCNL vigente, esercita il suo potere organizzativo e, così agendo, si espone alla tipica responsabilità dirigenziale, consistente nell'obbligo di saper cogliere i risultati allestendo al meglio la macchina organizzativa. Chè se essa non è poi in grado di svolgere le sue attività con la competenze e nei tempi previsti, è il dirigente che risponde all'amministrazione di eventuali inefficienze, anche se, in ipotesi, la struttura fornisca <<prodotti>> amministrativi ineccepibili sul piano della legittimità.
Pertanto, la legge 241/90 conferma un metodo manageriale: quel lasciare che le cose accadano, invece di farle, insito nel potere organizzativo.
Allora, l'adozione del provvedimento finale, da parte del dirigente, non è esercizio di un'attività amministrativa minuta e pervasiva della struttura, ma in qualche modo il suggello ad un processo produttivo che da lui viene posto sia per dare efficacia esterna all'atto, sia per verificare, esercitando il suo dovere di controllo, che la struttura sia capace, puntuale ed efficace, tale da produrre la proposta di atto finale in maniera corretta ed efficace.
Non bisogna dimenticare che il responsabile del procedimento adotta il provvedimento finale solo qualora ne abbia la competenza. Altrimenti trasmette al dirigente la proposta di provvedimento.
Come nota autorevole dottrina (3), la proposta è a sua volta un atto amministrativo che chiude la fase preparatoria del procedimento amministrativo, attestando che esso è stato svolto in modo completo e corretto (altrimenti la proposta non potrebbe essere elaborata). La procedimentalizzazione della fase istruttoria fa sì che eventuali vizi procedurali si riverberino nel provvedimento finale, rendendolo eventualmente illegittimo per violazione della norma procedurale che sta alla base, sicchè il responsabile del procedimento assume precise responsabilità correlate anche all'adozione del procedimento finale, che con la proposta contribuisce ad emettere, predeterminandone il contenuto.
L'organo preposto all'adozione del provvedimento finale, in questo caso il dirigente, nell'adottare il provvedimento finale, pur esercitando un controllo finale, non è tenuto a ripetere l'attività istruttoria (della quale resta responsabile l'istruttore) ma chiude la fattispecie, assumendo in proprio la responsabilità esterna correlata all'atto, fermo restando che, a meno di rilevanti elementi di illegittimità o di responsabilità contabile tali per cui il dirigente dovrebbe non adottare l'atto, il dirigente medesimo non dovrebbe rispondere di errori operativi (mancato rispetto di termini, non corretta valutazione di atti istruttori) commessi dal responsabile del procedimento.
Vista la configurazione del procedimento amministrativo come fattispecie a formazione progressiva, la proposta di provvedimento finale verso il dirigente può essere vista come atto di iniziativa, parte di atto complesso o di un atto composto. Nel primo caso, entrambe le autorità (il responsabile del procedimento ed il dirigente) concorrono alla produzione dell'atto finale; nel secondo, enfatizzandosi la diversa funzione dei soggetti partecipanti all'iter, solo il dirigente può dare vita al provvedimento finale, sulla base della sua particolare competenza, ma sul presupposto di un atto, la proposta, che precostituisce il contenuto dell'atto da adottare.
Sicchè, secondo la ricostruzione della dottrina classica, la legge 241/90 non prevede che il provvedimento finale sia di competenza del responsabile del procedimento, se non quando questo non ne abbia la competenza, ma non esclude le sue specifiche responsabilità istruttorie, né quelle di tipo organizzative-manageriali del dirigente preposto alla struttura.
Ora, guardando la lettera dell'articolo 51, comma 3-bis, della legge 142/90, come modificato dalle legge 127/97 e 191/98, si nota che ove siano presenti qualifiche dirigenziali, mai i funzionari privi di tale qualifica possono adottare gli atti di competenza dirigenziale. Infatti, tale possibilità è prevista solo <<nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale>>.
Questa disposizione esclude in radice la possibilità sia di delegare le funzioni dirigenziali, perché la delega sarebbe manifestamente contraria a legge; sia la possibilità di attribuire ai funzionari responsabili del procedimento il potere di adottare l'atto finale, in quanto manca in loro la competenza, richiesta dall'articolo 6 della legge 241/90.
Né il CCNL può ricondurre a conclusioni diverse, in quanto le posizioni organizzative possono essere individuate per l'assunzione di elevata responsabilità di prodotto e di risultato, non per adottare al posto dei dirigenti i provvedimenti assegnati dalla legge alla loro competenza.
Norme statutarie che intendano dare un assetto organizzativo differente da quello disegnato dalla legge appaiono, così stando le cose, insanabilmente in contrasto col sistema normativo vigente.
Inoltre, tornando al CCNL del 31.3.1999, esso all'articolo 9 stabilisce che gli incarichi per le posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti (ovviamente negli enti nei quali sono presenti).
Se, allora, il dirigente nel conferire l'incarico prevedesse una delega delle sue funzioni al funzionario incaricato, tale atto sarebbe illegittimo, per contrasto con l'articolo 36, comma 5-ter, della legge 142/90. A mente di tale norma, infatti, è il sindaco che nomina i responsabilità degli uffici e dei servizi e attribuisce e definisce gli incarichi dirigenziali, secondo le modalità ed i criteri previsti dall'articolo 51 della medesima legge 142/90, nonché (in subordine) dagli statuti e regolamenti.
Qualora il dirigente attribuisse, per delega o incarico diretto, funzioni dirigenziali al funzionario incaricato di rivestire una posizione organizzativa, modificherebbe illegittimamente la definizione degli incarichi dirigenziali così come determinata dal sindaco con i suoi provvedimenti di attribuzione degli incarichi medesimi. O, addirittura, eserciterebbe una funzione in assoluta carenza di competenza, essendo la definizione e l'attribuzione degli incarichi dirigenziali esclusiva prerogativa del capo dell'amministrazione.
Conclusivamente, l'attuale situazione normativa non consente la delega delle funzioni dirigenziali. Non si vuole, con ciò, sostenere che tale strumento, in una diversa configurazione dell'ordinamento giuridico, non abbia potenziali elementi di validità, dal punto di vista organizzativo.
Anche se l'eccessivo frazionamento dei centri di responsabilità finirebbe per disorientare il cittadino che non avrebbe punti di riferimento certi, e contrasta con la logica utilizzata dal Governo nel modificare l'assetto dei ministeri, in quanto il decreto legislativo di riforma degli stessi ha addirittura previsto un generale processo di accorpamento dei centri di responsabilità, fondendo in pochissime strutture (spesso non più di quattro), denominate dipartimenti, le direzioni generali, e riducendo quindi gli organismi gestionali.
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NOTE:
(1) Carlo Saffioti, <<Dirigenti degli enti locali e delega delle funzioni>>, in Comuni d'Italia, Maggioli, n. 6/99, pagg. 882-884.
(2) Pietro Virga, <<Diritto amministrativo>>.
(3) Francesco Botta, <<Atti amministrativi, elaborazione, redazione e adozione>>, ed. Giuffrè; <<Le proposte di atto amministrativo degli organi comunali e provinciali>> in Nuova Rassegna, n. 2/99.