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RICCARDO NOBILE

La responsabilità amministrativa e contabile del dipendente dell’ente locale territoriale nel D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. Cenni sugli elementi di maggior rilievo.

La nozione di responsabilità in generale

La problematica della responsabilità del dipendente dell’ente locale territoriale è analizzata e sviluppata dall’art. 93 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, e riprende, sostanzialmente, le acquisizioni cui era giunto il vecchio testo dell’art. 58 della legge 8/6/1990 n. 142, di cui è diretta derivazione.

Da punto di vista concettuale, e quindi generale ed astratto, la responsabilità è la conseguenza sul piano sanzionatorio delle azioni e delle omissioni commesse dal funzionario o dal dipendente nell’esercizio delle proprie funzioni in presenza della violazione di norme che devono essere osservate perché poste a presidio della corretta gestione dei rapporti intersoggettivi.

Nell’ambito che qui interessa, la responsabilità non è quella della persona fisica, ma della persona in quanto titolare di un organo dell’ente locale, o più semplicemente addetta o applicata ad un determinato ufficio pubblico.

La problematica della responsabilità di cui è caso è oggetto di trattazione da parte di varie disposizione della Costituzione, e più precisamente dell’art. 28, che sancisce il principio della responsabilità del pubblico funzionario e dipendente pubblico per i fatti commessi nell’esercizio della sua attività, e dell’art. 103, comma 2 che individua nella Corte dei conti il giudice naturale avente giurisdizione per le controversie in materia di responsabilità amministrativa e contabile del dipendente pubblico, in ossequio al principio posto dall’art. 25, comma 1 della Costituzione.

Tutta la problematica della responsabilità del pubblico dipendente in generale per danni comunque cagionati all’erario è stata oggetto di grande interesse e risistemazione concettuale negli ultimi tempi.

Qui basti solo pensare che la Corte costituzionale è più volte intervenuta in subiecta materia con pronunce davvero interessanti, tutte strettamente relazionate con le recenti innovazioni legislative di settore.

Il giudice delle leggi ha così avuto modo di fornire un compiuto inquadramento costituzionale della materia con le sentenze 20/11/1998 n. 371 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave, 30/12/1998 n. 453, in materia di solidarietà passiva limitata alle sole ipotesi di dolo, e 24/7/1998 n. 327, in materia di mancata copertura minima dei servizi comunali.

 

La nozione di responsabilità dell’ordinamento delle autonomie locali

Di particolare rilevanza nel D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 è proprio la responsabilità amministrativa del dipendente dell’ente locale territoriale, per il quale l’attuale ordinamento prevede la sostanziale equiparazione con il dipendente delle amministrazioni dello stato.

Di una certa importanza, nella normativa in argomento, è anche la responsabilità contabile, anche perché fatta oggetto della delineazione dei suoi presupposti e dei momenti in cui si articolano gli obblighi dei soggetti che in concreto possono esserne chiamati a rispondere, ossia degli agenti contabili e dei consegnatari di beni dell’ente.

La responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile sono istituti che hanno subito nel tempo sensibili trasformazioni, soprattutto in relazione all’ampliamento della nozione di danno amministrativamente rilevante ai fini del risarcimento, ed all’affermazione di una nozione di responsabilità tutta incentrata sull’elemento psicologico della colpa, al punto di ritenere che il danno e la colpa sono gli elementi attorno ai quali è imperniata tutta la nozione di responsabilità ai fini che qui interessano.

Per compiutezza di analisi della responsabilità amministrativa e contabile è bene dire partitamente, avendo cura di evidenziare che le due fattispecie, sia pure con modestissime deroghe, sono elucidabili alla luce della normativa dettata per gli analoga previsti per i dipendenti dello stato, e quindi della giurisprudenza che su tali disposizioni si è formata.

 

La responsabilità amministrativa

Di responsabilità amministrativa degli amministratori e dei pubblici dipendenti dell’ente locale si occupa a vario titolo l’art. 93 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, prevedendo al primo comma il rinvio alla disciplina vigente per i dipendenti dello stato, ed, al quarto comma, disciplinando il principio di personalità della responsabilità, il termine di prescrizione, e l’inestensibilità agli eredi salvo eccezioni.

Il danno è l’elemento centrale attorno al quale è imperniato il concetto di responsabilità amministrativa, oggi intesa non più come responsabilità derivante dalla violazione di obblighi di servizio, ma come fatto del pubblico dipendente, strettamente personale e quindi non ad altri riferibile, disciplinata da una specifica normativa di settore in ragione dell’assetto degli interessi coinvolti, non disponibili dalle parti in causa, ma oggetto di possibile composizione in sede giurisdizionale in applicazione di norme tipiche e connotanti.

Quanto ai suoi elementi costitutivi, la responsabilità amministrativa si configura sicuramente quando l’azione dolosa o gravemente colposa del pubblico dipendente ha cagionato un danno alla pubblica amministrazione.

Il danno è quindi uno dei tradizionali elementi costitutivi di natura oggettiva della responsabilità amministrativa, accanto alla condotta, commissiva od omissiva ed al nesso di causalità, anzi per essere più precisi, è l’elemento qualificante della responsabilità che qui interessa.

Non tutte le tipologie di danno astrattamente pensabili sono però – e per fortuna – rilevanti. Il danno, per essere rilevante, deve essere certo e concreto, con ciò volendo significare che è danno rilevante solo quel nocumento che può essere quantificato in modo definito sia pure articolatamente.

Il danno rilevante deve, poi, essere attuale, ossia essersi concretizzato come nocumento in atto e non in potenza, a carico dell’erario dell’ente locale. Ciò vale ad escludere la rilevanza del cosiddetto "danno paventato", ossia di quel danno che si presume che si possa verificare a seguito della condotta del pubblico dipendente o del funzionario dell’ente locale. Da ciò consegue che la Corte dei conti non può conoscere il mero pericolo di danno. Danno rilevante è quindi quel nocumento che si è concretizzato, e non quello che potrebbe scaturire dall’attuazione di un dato provvedimento dell’ente locale, ovvero dall’ipotesi di comportamento commissivo od omissivo del dipendente o del titolare dell’organo dell’ente stesso.

Secondo la più recente ricostruzione della sua natura, la responsabilità amministrativa del pubblico dipendente, e per quel che qui interessa, del dipendente degli enti locali territoriali, non è una particolare forma di responsabilità contrattuale verso la pubblica amministrazione perché il suo radicamento non presuppone la violazione dell’assetto regolativo del contratto di lavoro alle dipendenze dell’ente, ma una forma di responsabilità dotata di propria autonomia giuridica e sorretta da principi del tutto peculiari in considerazione del proprio oggetto.

Che la responsabilità amministrativa non abbia natura di responsabilità contrattuale è oggi comprovato dal fatto che il legislatore fin dall’art. 58 della legge 8/6/1990 n. 142, sostituito dall’art. 93 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, ha espressamente stabilito che essa è intrasmissibile agli eredi, sia pur con i limiti che saranno nel prosieguo evidenziati, e che per essa non opera il termine decennale di prescrizione, ma il più breve termine quinquennale.

La negozialità della responsabilità amministrativa è poi esclusa perché le regole per la chiamata al risarcimento nel caso di concorso di una pluralità di soggetti non seguono le disposizioni in materia di solidarietà passiva previste dall’art. 1294 c.c. Secondo quanto dispone l’art. 82 della legge 18/11/1923 n. 2440, sviluppato sul punto e ribadito dall’art. 1, comma 1 quater della legge 14/1/1994 n. 20, la Corte dei conti, nel caso de quo pone a carico di ciascuno dei concorrenti nella causazione del danno le conseguenze risarcitorie per la parte che ognuno vi ha preso.

In termini di quantificazione delle conseguenze risarcitorie, poi, la Corte dei conti può attivare il proprio potere riduttivo, e comunque considerare rilevante il vantaggio che dal comportamento del soggetto responsabile la comunità amministrata ha tratto. Queste eventualità rinvengono, infatti, espressi fondamenti normativi in una logica del contemperamento che passa attraverso gli artt. 52 del R.D. 12/7/1934 n. 1214 in tema di potere riduttivo e 1, comma 1 bis della legge 14/1/1994 n. 20, in tema di rapporti fra danno e "vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità".

La clausola di responsabilità amministrativa si avvicina per struttura, piuttosto, alla clausola di responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2043 c.c., pur non condividendone la natura giuridica per ragioni di carattere sia oggettivo, sia soggettivo.

La responsabilità amministrativa non è quindi riconnessa a fattispecie tipiche, come avviene per i casi di illecito penale, per i quali opera il principio di tassatività (art. 25, comma 2 Cost.), ma a condotte variabili tipizzabili a posteriori.

In sintesi, si può dire che l’art. 93 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 concorre a fondare, attraverso il rinvio mobile al complesso della normativa in tema di responsabilità amministrativa dei dipendenti dello stato, e quindi alla giurisprudenza che su di essa si è formata, la clausola di atipicità della responsabilità del dipendente e del pubblico funzionario dell’ente locale.

Quanto alla connotazione del danno rilevante, deve essere detto che la concezione meramente patrimonialistica del danno risarcibile è stata lentamente erosa dalla giurisprudenza della Corte dei conti, la quale ha finito col dilatare sensibilmente l’estensione della propria giurisdizione, rendendo possibile a buon titolo parlare di "tendenza espansiva della giurisdizione del giudice contabile".

La nozione partimonialistica del danno è stata lentamente, ma continuativamente, sostituita con quella della pubblicità e della tipicità dell’interesse tutelato dalle norme che fondano l’azione della pubblica amministrazione.

Seguendo questa linea interpretativa, ha fatto ingresso nell’ordinamento la nozione di danno risarcibile come danno pubblico subito dalla collettività, indipendentemente dal riferimento ad utilità suscettibili di appropriazioni in termini economici, in modo diretto mediante apprensione delle relative poste.

In questo modo, è stato considerato risarcibile il danno ambientale prima della devoluzione della giurisdizione al giudice ordinario, ed il danno alla cosiddetta finanza pubblica allargata, fino a giungere a considerare risarcibile ogni danno che si ripercuote sulla collettività, ossia sullo stato-persona, e, da ultimo, il danno morale, il danno all’immagine della pubblica amministrazione nonché il danno derivante da tangente corrisposta per l’acquisizione di utilità da parte dei pubblici poteri.

La logica ed estrema conseguenza di questo orientamento è il considerare risarcibile ogni danno che si ripercuote sull’economia nazionale, nonché il danno che si concretizza ogniqualvolta una collettività non è più in grado di fruire di beni utilizzabili non uti singuli, ma uti cives.

In tutti questi casi, infatti, l’ente, ed ai presenti fini il discorso è pianamente riferibile, ovviamente, anche all’ente locale, deve necessariamente distogliere altre risorse economiche dalla loro vocazione originaria, dovendo comunque garantire alla propria collettività la fruizione del bene della vita danneggiato dal pubblico dipendente con la sua azione colposa o dolosa.

Accanto all’elemento del danno, la responsabilità amministrativa presuppone una condotta commissiva od omissiva tenuta dal pubblico funzionario, alla quale sia casualmente riconnettibile il danno sofferto dall’erario.

Tralasciando la condotta, la quale nella sua concretizzazione è sostanzialmente atipica, una particolare attenzione deve esser riservata al nesso di causalità, in quanto è attraverso la sua analisi che è possibile identificare quale sia la reale fonte del danno in concreto.

Il riferimento d’obbligo va all’idoneità causativa del danno da riconnettere in concreto all’adozione di atti da parte dell’organo di gestione piuttosto che da parte dell’organo di governo dell’ente locale.

La problematica non è di poco conto per l’ente locale, giacché nel suo ambito opera oggi il rigido principio di separazione fra attività di governo, riservata agli organi politici, ed attività di gestione, ascritta agli organi burocratici, avendo l’art. 107 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 ribadito e rafforzato il principio di separazione introdotto nell’ordinamento dalla legge 25/5/1997 n. 127 in attuazione dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’attività della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), delineati ed introdotti in modo esplicito a partire dal D.Lgs. 3/2/1993 n. 29 adottato in esecuzione della delega legislativa contenuta nella legge 23/10/1992 n. 421.

Il principio dell’irrilevanza dell’organo di governo nella causazione del danno in oggetto, in considerazione dell’introduzione del principio di separazione fra attività di governo ed attività di gestione, è stato introdotto dall’art. 3 della legge 20/12/1996 n. 639, che, inserendo nell’art. 1 della legge 14/1/1994 n. 20, il comma 1 ter, ha espressamente previsto che "nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, la responsabilità non si estende ai titolari di organi politici che in buona fede li abbiano approvati, ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione".

Dalla disposizione in esame taluno ha preteso di inferire che il principio di separazione fra politica e gestione mandi sempre esente l’organo di governo in presenza di un danno connesso all’adozione di atti di gestione.

La tesi non è sostenibile, soprattutto nei casi in cui all’atto di indirizzo dell’organo di governo non abbia fatto seguito un provvedimento gestionale illecito.

Da ciò deriva che il principio di separazione non consente affatto di inferire l’irresponsabilità a priori degli organi di governo per fatti connessi all’attività gestionale dell’ente locale, la quale è, nella più gran parte dei casi, meramente esecutiva proprio di atti di programmazione ed indirizzo degli organi politici.

L’irresponsabilità dell’apparato burocratico, poi, è completamente assente quando il danno, ricostruito nei termini precedentemente illustrati, deriva direttamente dall’adozione dell’atto deliberativo dell’organo di governo, come accade, per esempio, a seguito della localizzazione di un’opera pubblica inutile per la collettività ovvero da questa non fruibile in considerazione dell’assetto climatico o della sua ubicazione (es: una piscina scoperta realizzata in località montana e fruibile solo per modestissimo tempo).

In tutti questi casi, il giudice contabile ben può considerare causativo del danno erariale non l’atto di gestione, ma l’atto di indirizzo o di programmazione, di cui il primo è una mera concretizzazione operativa che non può essere elusa dal vertice burocratico, essendosi in presenza di atti esecutori formalmente legittimi.

A ciò si deve aggiungere, per completezza, che sovente l’ordinamento demanda agli organi di governo l’adozione di atti che di indirizzo non sono (es. la predisposizione e la variazione delle piante organiche, che è ascritta alla competenza della giunta dell’ente locale). In questi casi è di tutta evidenza che l’effetto causativo del danno non è connesso all’atto di attuazione del provvedimento deliberativo, ma proprio alla deliberazione adottata dall’organo di governo (es. l’inquadramento del pubblico dipendente disposto doverosamente a seguito della variazione della dotazione organica, per stare all’esempio proposto innanzi).

Di notevole importanza, ai presenti fini, diviene quindi l’ulteriore principio posto dall’art. 3 della legge 20/12/1996 n. 639, che, introducendo il comma 1 ter nella legge 14/1/1994 n. 20, prevede espressamente che del danno cagionato dal provvedimento deliberativo dell’ente locale risponderanno solo e soltanto quegli amministratori che non hanno fatto constatare il proprio dissenso ovvero la propria astensione con esplicita richiesta di inserimento a verbale, ferma restando sempre l’insindacabilità da parte del magistrato contabile delle scelte discrezionali.

Per aversi responsabilità, l’elemento oggettivo non è di per sé solo sufficiente; esso deve essere accompagnato da un preciso nesso di riferibilità in termini soggettivi della condotta all’evento di danno.

L’ordinamento, infatti, esige che la condotta sia stata sorretta da dolo o colpa grave, ossia o dall’aver avuto rappresentazione del fatto e cionondimeno aver agito volendone la realizzazione (ipotesi di dolo diretto), ovvero aver agito accettando la probabilità della sua realizzazione (ipotesi di dolo eventuale), ovvero ancora avendo gravemente violato le regole di perizia, prudenza e diligenza che sono normalmente esigibili dal dipendente medio avente quella data collocazione nella struttura dell’ente.

Con l’art. 1 della legge 14/1/1994 n. 20 è stata eliminata dall’ordinamento la sufficienza della colpa lieve ai fini del radicamento della responsabilità amministrativa.

Ciò significa, in pratica, che in caso di danno cagionato dal dipendente pubblico, questi non sarà condannabile se la sua negligenza è sotto la soglia della colpa grave, restando sostanzialmente il contenuto economico del danno a carico dell’ente, il quale lo sopporta a titolo di "rischio d’impresa" sia pur sui generis.

In questo modo, il legislatore ha evidentemente inteso delimitare una sorta di perimetro concettuale nel cui ambito opera il principio di responsabilità, al punto che al di sotto della soglia della colpa grave nemmeno è pensabile ipotizzare una responsabilità patrimoniale azionabile in giudizio innanzi alla Corte.

All’interno del paradigma legislativamente delineato, pertanto, il comportamento del dipendente o del funzionario dell’ente locale deve essere quanto meno sorretto da colpa grave.

Ciò significa che la Corte dei conti dovrà procedere alla valutazione ed all’accertamento della colpa in concreto del soggetto agente, avendo cura di fare riferimento agli usuali parametri della diligenza, della prudenza e della perizia, riferendoli non in astratto al paradigma del buon padre di famiglia, come accade nell’ambito della responsabilità extracontrattuale di cui all’art.. 2043, ma a quella diligenza, prudenza e perizia in concreto ricostruite in forma specifica, guardando a ciò che in quella data ipotesi può essere richiesto al dipendente o al funzionario in ragione della sua collocazione all’interno dell’azione, procedimentale, negoziale o materiale, dell’ente locale per quella determinata fattispecie.

Se la ponderazione della partecipazione in termini soggettivi ritaglia l’ambito paradigmatico che circoscrive il venire ad esistenza dell’obbligo risarcitorio, essa, però, non vale a costituire il parametro della valutazione della sua entità.

Detto altrimenti, se l’elemento psicologico, in termini di dolo o di colpa grave, è condizione dell’an della responsabilità, il quantum della pretesa risarcitoria per l’erario è rinvenibile aliunde. In questo senso operano i criteri già enunciati dell’attivazione del potere riduttivo (art. 52 del R.D. 12/7/1934 n. 1214) della frazionabilità dell’obbligo risarcitorio in funzione dell’incidenza causale dei comportamenti (art. 1 quater della legge 14/1/1994 n. 20) e della necessità di considerare l’avvantaggiamento tratto dalla collettività o dall’amministrazione per effetto della condotta contra ius del responsabile (art. 1 bis della legge 14/1/1994 n. 20).

La connotazione dell’elemento psicologico è di particolare rilevanza in presenza del concorso di agenti nella causazione del danno all’erario. In questo caso la responsabilità solidale presuppone, dal punto di vista soggettivo, che la condotta commissiva od omissiva del coagente sia stata sorretta da dolo, in assenza di che non v’è responsabilità, salvo il caso di illecito arricchimento da parte dello stesso coagente (art. 1 quinquies della legge 14/1/1994 n. 20, modificata in parte qua dalla legge 20/12/1996 n. 639).

Proprio in tema di colpa la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi con la sentenza 20/12/1998 n. 371, nella quale è stato evidenziato che l’individuazione dell’ambito di rilevanza della responsabilità amministrativa con il limite della colpa grave risponde all’esigenza "di predisporre, nei confronti dei dipendenti e degli amministratori pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa". Evidente è qui il richiamo ai ben noti principi di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), che non possono essere al meglio assicurati in presenza di un regime di responsabilità fondato su una soglia di punibilità minimale.

Sempre in tema di elemento soggettivo, il giudice delle leggi ha avuto modo di intervenire con la sentenza 30/12/1998 n. 453, considerando non illegittimo costituzionalmente il circoscrivimento dell’ambito di rilevanza della solidarietà passiva ai soli casi di dolo, oltre che, indipendentemente da esso, di illeciti arricchimenti, evidenziando che la norma che pone il relativo principio "si colloca nell’ambito di una nuova conformazione della responsabilità amministrativa e contabile secondo linee volte, fra l’altro, ad accentuarne i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori".

La Corte costituzionale ha così definitivamente delineato un sistema di responsabilità amministrativa fondato su di una concezione normativa della colpevolezza, abbandonando in tal modo la concezione psicologica, che faceva della colpa un mero nesso psichico fra condotta dell’agente ed evento, per ricostruirla in termini di antidoverosità dell’atteggiamento del soggetto agente in termini di volontà. La volontà di realizzare l’evento nel caso del dolo; la mancanza di volontà di inibirlo, nel caso della colpa, ossia la volontà di non impedirlo, commisurata in concreto, in relazione ad una fattispecie concreta e data.

Il giudice naturale avente giurisdizione in materia di responsabilità amministrativa è la Corte dei conti come dispone l’art. 103, comma 2 Cost., la quale oggi, attuato il decentramento sul territorio di ogni regione, garantisce il doppio grado di giurisdizione.

Il giudizio di responsabilità è sempre procedibile d’ufficio ed è condotto dal procuratore regionale in primo grado e dal procuratore generale in sede di appello.

In presenza della necessità di procedere a riscontro, il procuratore presso la sezione regionale competente per territorio provvede alla notificazione dell’invito a dedurre cui segue, in caso di non manifesta infondatezza della pretesa risarcitoria, la notificazione della vera e propria citazione in giudizio (art. 5, comma 1 della legge 14/1/1994 n. 19).

Anche per questo tipo di giudizio vige l’obbligo di referto da parte del pubblico dipendente, il quale è tenuto, a pena di omissione di atti di ufficio, a segnalare al procuratore regionale qualsivoglia evento che abbia provocato danno all’erario dell’ente in cui opera.

Sul dipendente incombe anche l’obbligo di garantire la necessaria collaborazione istruttoria se richiesto dall’accusa. Ciò avviene normalmente mediante la trasmissione di documenti e la predisposizione di relazioni.

Con specifico riferimento agli enti locali territoriali, occorre tener presente che il D.Lgs. 18/8/200 n. 267 impone di trasmettere comunque alla Corte dei conti taluni documenti significativi, in quanto il presupposto della loro adozione può essere indice rivelatore di responsabilità amministrativa.

Ciò accade, in via ordinaria, per il rendiconto della gestione, per il quale l’art. 227, comma 3 ne impone la trasmissione per tutti i Comuni con popolazione superiore a 8000 abitanti, per le Province e per le Città metropolitane.

Ciò si verifica, in via straordinaria, ogniqualvolta i rendiconti di gestione di qualsivoglia ente locale territoriale si chiudano con l’indicazione di disavanzi ovvero con il riconoscimento di debiti fuori bilancio, nonché in presenza dell’adozione della deliberazione consiliare con cui l’ente locale territoriale dichiara il dissesto a mente dell’art. 246, 3 comma.

Nel comminare la condanna al risarcimento del danno, la Corte dei conti può avvalersi dell’esercizio del potere riduttivo, ossia diminuire la pretesa risarcitoria a fronte di un determinato danno quantificato per un importo dato ed accertato. In questo senso si esprime l’art. 52 del R.D. 12/7/1934 n. 1214, secondo il quale "la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto".

L’azione di responsabilità amministrativa si prescrive in cinque anni dalla data di commissione del fatto, ovvero entro analogo termine computato dalla data in cui ne sia divenuta certa la commissione, termine che, come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, coincide con il momento della concretizzazione del danno stesso a carico dell’ente locale, e quindi non necessariamente con l’adozione di un determinato provvedimento da parte dell’ente. In materia di prescrizione deve essere posta particolare attenzione a quanto disposto dall’art. 1, comma 3 della legge 14/1/1994 n. 20, la cui ratio è quella di far sì che i comportamenti occultanti o ritardanti posti in essere da dipendenti infedeli determinino la consumazione dei termini prescrizionali e quindi l’improponibilità dell’azione risarcitoria da parte del procuratore regionale. Qualora la prescrizione del diritto di azione da parte del procuratore regionale sia maturata a causa di omissioni o di ritardi nella denuncia del fatto, del danno erariale rispondono i soggetti che hanno omesso o ritardato la denuncia, ed in tal caso l’azione risarcitoria è utilmente esperibile contro di loro entro cinque anni dalla data in cui la prescrizione è maturata.

La responsabilità amministrativa a carico degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali è strettamente personale (art. 1, comma 1 della legge 14/1/1994 n. 20).

Ciò significa che ne è preclusa l’estensione agli eredi, salvo il caso in cui vi sta stato illecito arricchimento del condannato defunto, cui si deve cumulare l’illecito arricchimento degli eredi stessi (art. 93, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267).

La personalità della responsabilità amministrativa determina quale propria conseguenza logica la necessità del superamento della solidarietà passiva in termini civilistici fra i coobbbligati, la quale si configura in presenza di più soggetti dichiarati responsabili del danno patito dall’erario dell’ente locale.

A ciò ha posto rimedio in via definitiva il legislatore. Con l’art. 1 quater della legge 14/1/1994 n. 20 è stato, infatti, definitivamente posto il principio avverso alla solidarietà passiva espressa in termini civilistico-contrattuali per lasciare spazio alla disciplina secondo la quale "se il fatto dannoso è causato da una pluralità di persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso", con ciò ribadendo quanto in nuce già affermato dall’art. 82 del R.D. 18/11/1923 n. 2440.

 

La responsabilità contabile

La Corte dei conti è il giudice naturale anche per un altro tipo di responsabilità: la cosiddetta responsabilità contabile, per la quale l’art. 93, comma 2 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 rinvia alla normativa prevista per i dipendenti dello stato.

Per gli agenti contabili degli enti locali territoriali, a differenza di quanto accade per i dipendenti delle amministrazioni dello stato, opera una sensibile semplificazione, in quanto essi non sono tenuti alla trasmissione alla Corte dei conti, salvo il caso in cui li richieda espressamente, dei documenti ordinariamente previsti per l’instaurazione del giudizio di responsabilità contabile, ossia del conto indicato dall’art. 45 del R.D. 12/7/1934 n. 1214, la cui presentazione vale a costituite il relativo agente in giudizio, e dell’analogo conto che riguarda le movimentazioni di danaro o materia – l’una e l’altra sono i presupposti delle nozioni, rispettivamente, di agente contabile e consegnatario di beni -, indicato dall’art. 74 del R.D. 18/11/1923 n. 2440.

Questa particolare forma di responsabilità è strettamente legata alla nozione di maneggio di danaro e consegna di bene, ed è tutta incentrata sulla figura dell’agente contabile e del consegnatario di beni.

Nei confronti di questi soggetti, tutti obbligati al rendiconto, viene instaurato il giudizio necessario di conto, il quale, se ha esito positivo, porta al discarico; se negativo conduce all’instaurazione del giudizio di responsabilità amministrativa.

In questo senso, il giudizio necessario di conto si connota come il presupposto logico-giuridico e cronologico insieme del giudizio eventuale di responsabilità amministrativa.

Il giudizio di conto è di particolare importanza per gli enti locali territoriali, in quanto espressamente previsto dagli artt. 93, comma 2, e 233 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

Secondo questa normativa l’economo, il tesoriere, gli agenti contabili ed i consegnatari dei beni devono rimettere al proprio ente il resoconto della gestione entro 60 giorni dalla chiusura dell’esercizio finanziario; l’ente locale lo trasmette alla competente sezione giurisdizionale della Corte entro 60 dall’avvenuta approvazione del proprio rendiconto.

Alle risultanze del conto della propria gestione, i suddetti soggetti devono allegare tutta la documentazione indicata dall’art. 233, comma 2 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, ossia il provvedimento di preposizione all’ufficio (lett. a), la lista per tipologie di beni (lett. b), la copia degli inventari tenuti dagli agenti contabili (lett. c), la documentazione giustificativa della gestione (lett. d), i verbali di passaggio di gestione (lett. e), le verifiche ed i discarichi amministrativi e le loro variazioni (lett. f), nonché qualunque altro documentazione che la Corte dei conti richiedesse (lett. g).

Il conto della gestione dei soggetti che vi sono tenuti deve essere redatto sui modelli approvati con l’apposito regolamento governativo di cui all’art. 160 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. Tutto ciò, per evidenti ragioni di uniformità.

Dott. Riccardo Nobile


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