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RICCARDO NOBILE

L’interferenza fra procedura disciplinare e processo penale: la sentenza assolutoria, la sentenza di condanna e la sentenza di patteggiamento.

SOMMARIO: 1. L’interferenza del processo penale sulla procedura disciplinare. Introduzione. - 2. Le ipotesi in cui si configura l’interferenza. Gli interventi del legislatore. - 3. Il primo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare. - 4. Il secondo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare. - 5. Il terzo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare. - 6. La consumazione della pregiudiziale penale e le fattispecie rilevanti. La riassunzione, i termini ed il completamento della procedura disciplinare. - 7. La sentenza assolutoria. - 8. La sentenza di condanna. Il divieto degli automatismi espulsivi. - 9. La sentenza di patteggiamento.

1. L’interferenza del processo penale sulla procedura disciplinare. Introduzione.

L’interferenza fra procedura disciplinare [1] e processo penale è un’evenienza di sicura rilevanza che si configura, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo, in modo non semplice, ma almeno triplice, e trova la propria scaturigine quando un medesimo fatto può essere molteplicemente qualificato da norme poste a tutela di differenti interessi entrambi giuridicamente rilevanti, e quindi, nel caso di specie, quando la condotta del pubblico dipendente concretizza simultaneamente violazione sia di doveri di servizio [2], sia di specifici precetti penali [3]. Di qui la possibilità di specifiche relazioni fra responsabilità disciplinare e responsabilità penale, e quindi fra procedure sanzionatorie differenti, ancorché non irrelate.

La presenza nell’ordinamento complessivamente inteso di una molteplicità di forme di responsabilità può essere esemplificata in termini puramente logico-formali mediante una precisa locuzione sintagmatica, la quale ha il vantaggio di spiegare in termini assiomatici e quindi neutri l’intensione e l’estensione della categoria giuridica della responsabilità tout court.

In particolare, la categoria giuridica della responsabilità può essere utilmente indagata rappresentandola nei termini di una relazione di implicazione necessaria [4], del tipo “{[-(Op)→□S) & -(Op)] → □S}”, laddove “p” è l’azione che un dato soggetto agente deve tenere, “O” la sua obbligatorietà, “-(Op)” rappresenta la violazione della norma “Op”, “□” denota la necessarietà, “S” la sanzione prevista dall’ordinamento, e “→” l’implicazione necessaria [5].

Il sintagma “{[-(Op)→□S) & -(Op)] → □S}”, può pertanto essere letto nei termini seguenti: se una data norma “Op” che qualifica come obbligatoria una data azione viene violata, allora segue necessariamente la sanzione S [6].

Dall’interpretazione della formula si ricava agevolmente che le conseguenze in termini giuridici della violazione di un obbligo che ha ad oggetto una medesima azione sono una funzione, ossia una variabile dipendente, della tipologia della sanzione “S” che l’ordinamento ad essa riconnette, e che quindi data la molteplicità delle tipologie delle sanzioni ammesse in un dato ordinamento giuridico, una medesima azione può simultaneamente costituire il presupposto logico della comminazione di più sanzioni, il che, detto altrimenti, significa che una medesima condotta può dare luogo a molteplici forme di responsabilità.

In questo modo, se “S”, ossia la sanzione ordinamentalmente prevista, è una sanzione penale, la violazione del precetto “Op” dà luogo a responsabilità penale, mentre, in modo del tutto speculare, se la sanzione “S” è di natura disciplinare, la violazione del precetto “Op” dà luogo a responsabilità qualificata in tali termini, in quanto concretizza una violazione del codice disciplinare [7] [8].

Guardando allo sviluppo storico delle relazioni fra responsabilità penale e responsabilità disciplinare, e quindi in presenza della concomitante violazione di più interessi violati definiti in tale modo, l’ordinamento da sempre ha optato per la pregiudiziale penale, e quindi ha sempre inteso far dipendere, sia pure in vario modo [9], l’esito del procedimento o della procedura [10] disciplinare dalla previa definizione del processo penale rispetto al quale il primo o la prima sono connessi.

L’attuale disciplina della pregiudizialità del processo penale rispetto alla procedura disciplinare è molteplicemente articolata e variamente distribuita nell’ambito di varie fonti di regolazione, delle quali solo talune sono vere e proprie fonti-atto nel senso previsto dall’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile [11]. Di pregiudiziale penale, infatti, trattano sia norme di legge, sia norme della contrattazione collettiva nazionale di comparto, le quali ultime, come è noto, non sono fonti-atto dell’ordinamento, quantunque ad esse sia specificamente commessa la regolamentazione di specifici rapporti giuridici [12].

La sistematica attuale della pregiudiziale penale rispetto alla procedura disciplinare non si discosta molto da quella normata dal D.P.R. 10/1/1957 n. 3, prima vera e propria disciplina organica del rapporto di pubblico impiego [13], dalla quale, per contro, ha mutuato peculiarità e caratteristiche salienti.

La continuità sostanziale fra l’ordinamento previgente al D.Lgs. 3/2/1993 n. 29 e quello successivo alla depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego in esso contenuta è dimostrabile osservando che l’art. 117 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3 prevedeva in termini espliciti che qualora un medesimo comportamento tenuto dal pubblico dipendente avesse contravvenuto simultaneamente sia a norme penali e sia alle specifiche norme a tutela dei doveri di servizio, la prosecuzione o l’avvio del procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere subordinata alla previa definizione con sentenza passata in giudicato del relativo processo penale comunque interconnesso [14].

Come si desume analizzando l’attuale ordinamento disciplinare, la regola della pregiudizialità penale è stata mantenuta anche dopo la depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, e quindi anche dopo che le varie fattispecie in cui essa si articola sono state enucleate e definite dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, in applicazione dell’art. 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Superato l’art. 117 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, la normativa rilevante in subiecta materia è ora quella prevista nello specifico dai varî contratti collettivi nazionali di comparto [15], cui si affiancano gli artt. 9 e 10 della legge 17/1/1990 n. 19 e l’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97.

2. Le ipotesi in cui si configura l’interferenza. Gli interventi del legislatore.

Ferma restando la pregiudizialità del processo penale sulla procedura disciplinare, le ipotesi in cui tale evenienza può in concreto verificarsi, come cennato di passaggio, sono tre.

Il primo caso in cui la pregiudiziale in esame sicuramente sussiste è disciplinato dalle fonti contrattuali [16], e si configura ogni qualvolta la scaturigine della procedura disciplinare è un fatto riconducibile in via immediata ad una fattispecie penalmente rilevante. L’evenienza, per essere più precisi, si configura quando l’autorità disciplinare ritiene che il fatto per il quale sta per attivare la misura reattiva a presidio del corretto adempimento della prestazione lavorativa è in contrasto anche con una norma penale, in quanto offende uno specifico interesse tutelato in tale ambito.

La seconda ipotesi di interferenza è parimenti disciplinata dalle fonti contrattuali collettive nazionali [17], e si configura quando la commissione del reato si appalesa durante il corso di una procedura disciplinare già regolarmente avviata dall’autorità competente.

La terza ipotesi di interferenza si configura quando la violazione dei doveri di servizio contenuti nel codice disciplinare [18] emerge dopo la formazione del giudicato sul processo penale che sia stato autonomamente avviato e condotto a termine senza che la pubblica amministrazione datrice di lavoro ne sia stata comunque interessata ed informata [19].

Accanto ai tre tipi di concomitanza appena evidenziati, che afferiscono propriamente alle ragioni dell’interferenza fra i due ambiti sanzionatorî, ne sussiste un quarto, il quale riguarda il suo modo, ossia gli effetti della sentenza penale di assoluzione e di condanna sulla procedura disciplinare, con particolare riferimento all’automatico riversamento delle risultanze della prima sulla seconda.

La materia dell’interferenza fra processo penale e procedura disciplinare è stata fatta oggetto di molteplici interventi legislativi, sia a carattere generale, sia di tipo settoriale, nonché di pronunce della Corte costituzionale che sono intervenute in materia di termini per la riassunzione del procedimento disciplinare [20] ed in materia di divieto degli automatismi espulsivi e di conseguenziale necessità di collocare la comminazione delle sanzioni disciplinari nel loro luogo naturale: il procedimento disciplinare [21].

Cosí, in primo luogo, il legislatore è intervenuto in modo non semplice, ma duplice con la legge 17/1/1990 n. 19, in tema sia di riassunzione del procedimento disciplinare successivamente alla formazione del giudicato penale di condanna, sia in materia di divieto degli automatismi espulsivi.

In secondo luogo, il legislatore ha normato parte della materia con la legge 27/3/2001 n. 97 in riferimento sia ai termini per la riassunzione della procedura disciplinare in pendenza del processo penale, sia in materia di vincolatività della sentenza penale nella procedura disciplinare, sia, infine, in relazione alle ripercussioni del patteggiamento della pena in sede penale sulla responsabilità disciplinare [22].

3. Il primo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare.

La prima ipotesi di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare è disciplinata dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, ed ha ad oggetto il caso in cui l’avvio della procedura disciplinare trova il proprio fondamento in un fatto che costituisce reato, talché la contestazione degli addebiti assolve alla duplice funzione di avvio della procedura disciplinare e di momento di emergenza dell’ipotesi di illecito penale mediante obbligo di denuncia [23] e quindi di una vera e propria notizia criminis.

In questo primo caso, l’ufficio di disciplina deve procedere senza indugio alla contestazione degli addebiti, disponendo, peraltro, subito sia la sospensione della procedura disciplinare, sia l’immediata trasmissione della notizia criminis al pubblico ministero territorialmente competente al fine di rispettare la pregiudiziale penale, salvo riassume la prima entro il termine previsto dalla normativa di settore una volta conclusa la relativa vicenda [24].

La riassunzione deve essere perfezionata mediante l’adozione di una atto esplicito [25] entro i termini perentorî previsti dalla disciplina di settore, la quale si rinviene nella specifica normativa contrattale di comparto [26] e negli artt. 9, comma 2 e 10, comma 3 della legge 7/2/1990 n. 19 in via generale, salve le eccezioni previste dall’art. 5, comma 5 della legge 27/3/2001 n. 97, limitatamente ai reati indicati nel suo art. 3, comma 1 [27].

I termini, sulla conformità a Costituzione dei quali ha avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale con sentenza 28/5/1999 n. 197 [28], sono quindi in via generale di 180 giorni per la riassunzione della procedura disciplinare [29] e di 90 giorni per la sua definizione; essi decorrono dalla data dall’avvenuta piena conoscenza della sentenza da parte del responsabile dell’ufficio di disciplina perché formalmente comunicata dalla cancelleria del giudice penale. Ovviamente, la sentenza di cui è caso deve essere passata in giudicato e munita della relativa clausola di esecutività.

Il dies a quo decorre, più precisamente, dal momento in cui la sentenza passata in giudicato e munita della relativa clausola di esecutività è formalmente pervenuta al responsabile dell’ufficio di disciplina, ed è quindi nella sua piena disponibilità [30].

La riattivazione si perfeziona con la riassunzione della procedura, e quindi entro il relativo termine deve essere adottato l’atto datoriale che la dispone, senza che nel medesimo termine debba essere perfezionata anche la sua relativa consegna al dipendente.

La procedura disciplinare, una volta effettuata la sua riassunzione nei termini appena visti, deve essere conclusa entro il termine di 90 giorni, con l’adozione dello specifico atto di comminazione della sanzione, eventualmente anche patteggiata ai sensi dell’art. 55, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 [31]

I termini di riassunzione e di conclusione della procedura disciplinare sono invertiti nel caso in cui i fatti di reato rilevanti siano riconducibili ad una delle ipotesi previste dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97. La riassunzione della procedura disciplinare, in questo caso, deve essere perfezionata entro 90 giorni, ed essa deve essere conclusa entro 180 giorni. Anche in questo caso, i termini della procedura decorrono dal concretizzarsi dei medesimi eventi precedentemente illustrati.

I termini previsti dalle specifiche normative di settore sono perentorî, come del resto ha più volte avuto modo di pronunciarsi la giurisprudenza nella vigenza della legge 7/1/1990 n. 19 [32], in quanto posti a tutela del principio di certezza della definizione di rapporti giuridici sottostanti, la cui disciplina ed il cui governo costituiscono specificazione di potestà rimesse in via esclusiva alla pubblica amministrazione perché estrinsecazione della potestà di autoorganizzazione al pari di qualunque datore di lavoro [33].

4. Il secondo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare.

La seconda ipotesi di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare si configura quando la commissione del reato interconnesso si appalesa durante il corso di una procedura disciplinare già regolarmente avviata mediante specifica contestazione degli addebiti al pubblico dipendente incolpato [34] secondo la normativa contrattuale di comparto di volta in volta rilevante.

In questo caso, il responsabile dell’ufficio di disciplina deve procedere all’immediata sospensione della relativa procedura sanzionatoria, sempre al fine di rispettare la pregiudiziale penale in subiecta materia, salvo riassumerla entro il termine previsto dalla normativa di settore nei modi e nei termini già evidenziati nella precedente partizione, alla quale si rimanda in toto.

5. Il terzo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare.

La terza ipotesi di interferenza in subiecta materia si configura quando la violazione dei doveri di servizio da parte del pubblico dipendente emerge dopo la formazione del giudicato a conclusione del processo penale che sia stato autonomamente avviato e condotto a compimento definitivo senza che la pubblica amministrazione ne sia stata interessata o comunque resa partecipe [35].

In questo caso, il responsabile dell’ufficio di disciplina deve procedere a pena di decadenza all’avvio della procedura disciplinare entro il termine previsto dalla relativa contrattazione collettiva nazionale di comparto, ossia entro 20 giorni dalla data della conoscenza della sentenza penale di condanna [36].

Anche in questo caso fa eccezione la procedura di attivazione prevista dall’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97, la quale, peraltro, come più volte evidenziato, opera solo per i reati indicati al suo art. 3, comma 1. In questo caso, il termine di avvio della procedura disciplinare è di 90 giorni dal perfezionamento della cognizione della sentenza penale di condanna formalmente comunicata dalla cancelleria del giudice a quo, fermo restando che essa deve essere conclusa entro 180 giorni dalla data del perfezionamento degli effetti recettizî della contestazione degli addebiti nei confronti del pubblico dipendente incolpato.

In questa terza ipotesi di interferenza, l’avvio della procedura disciplinare sulla base della sentenza penale soggiunta non si discosta concettualmente da quanto previsto in via generale dalla normativa in materia di contestazione di addebiti.

Qui la differenza specifica rispetto alla disciplina generale è data dal fatto che la rappresentazione dei fatti e la loro riferibilità al dipendente incolpato sono delineati in modo definitivo dalla sentenza penale passata in giudicato, rispetto alla quale l’ufficio di disciplina è vincolato, salvo sempre l’autonomo apprezzamento dello specifico disvalore effettuato assumendo come paradigma di giudizio il codice disciplinare.

6. La consumazione della pregiudiziale penale e le fattispecie rilevanti. La riassunzione, i termini ed il completamento della procedura disciplinare.

Una volta che il processo penale si è completato con il formarsi del giudicato sulla relativa pronuncia definitiva, sia essa di assoluzione piuttosto che di condanna, si consuma la pregiudiziale penale rispetto alla procedura disciplinare.

In relazione a tale evenienza si pone il problema della portata degli effetti preclusivi che la sentenza penale definitiva ha rispetto alle procedure sanzionatorie di tipo disciplinare, e quindi del margine di apprezzamento che residua in capo alla pubblica amministrazione in subiecta materia.

Poiché la logica del processo penale riferita giudizio in termini di illiceità di un determinato fatto è binaria, e culmina in senso positivo o negativo per l’imputato, a seconda che questi venga condannato o meno, un primo ordine di problemi che si pone all’interprete è quello di stabilire quale sia l’effettiva portata dell’effetto preclusivo che hanno le sentenze di assoluzione fermo restando che l’assoluzione può intervenire sia sul fatto, sia per effetto della qualificazione del fatto.

Un secondo ordine di problemi è poi quello speculare della rilevanza delle sentenze di condanna definitive e delle sentenze con pena patteggiata [37].

Strettamente connesso a quest’ultima eventualità è la necessità che l’ufficio di disciplina proceda alla riassunzione o all’attivazione con contestazione degli addebiti entro i termini decadenziali previsti, a seconda dei casi, o dalla specifica normativa desunta dalla contrattazione collettiva nazionale di settore, ovvero dagli artt. 9, comma 2 e 10, comma 3 della legge 7/2/1990 n. 19 in via generale, salve le eccezioni previste dall’art. 5, comma 5 della legge 27/3/2001 n. 97, limitatamente ai reati indicati nel suo art. 3, comma 1.

Dal punto di vista procedurale, la riassunzione della procedura disciplinare una volta consumata la pregiudiziale penale è rigidamente normata dalle fonti pattizie e da quelle legislative.

Così, in primo luogo, la procedura disciplinare connessa con un procedimento penale comunque attivata ed incidentalmente sospesa deve essere riassunta entro 180 giorni dalla data in cui la pubblica amministrazione ha avuto conoscenza della sentenza definitiva [38]. L’ipotesi avuta presente dalla fonte di regolazione pattizia è chiaramente riferita all’ipotesi in cui l’ufficio di disciplina abbia attivato la relativa procedura a fronte di un fatto che costituisce ictu oculi violazione cumulativa sia di una norma penale, sia di una norma del codice disciplinare, caso nel quale la contestazione degli addebiti assolve al duplice scopo sia di attivazione della pretesa punitiva nel secondo ambito, sia di momento di concretizzazione di una specifica notizia criminis, nonché al caso in cui la procedura disciplinare sia stata sospesa successivamente al suo avvio in quanto le ragioni dell’interferenza penale si sono concretizzate in un momento successivo alla sua attivazione.

In secondo luogo, la procedura disciplinare connessa ad un processo penale afferente ad uno dei reati previsti dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97 deve essere riassunta, nel caso della sua previa attivazione e successiva sospensione ovvero avviata ex novo, entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione della sentenza penale di condanna alla pubblica amministrazione e deve concludersi, salvi differenti termini previsti in modo specifico ed esplicito dai contratti collettivi nazionali, entro 180 giorni dal termine di inizio o di prosecuzione del procedimento disciplinare stesso, secondo quanto prevede l’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97.

In terzo luogo, la procedura disciplinare connessa ad un processo penale del cui esito la pubblica amministrazione sia venuta a conoscenza solo dopo la sua ultimazione deve essere attivata a pena di decadenza entro 20 giorni dal momento in cui l’autorità disciplinare ha avuto comunicazione della sentenza di condanna [39], salvo il caso in cui il reato sia riconducibile ad una delle fattispecie di cui all’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97.

Con riferimento alle varie scansioni temporali che concorrono a definire il modo mediante il quale opera la riassunzione, l’attivazione, ovvero la conclusione della procedura disciplinare in subiecta materia sorgono specifici problemi di ordine logico-giuridico, sui quali è necessario soffermarsi.

Cosí, in primo luogo, di natura ambigua è il termine di attivazione della procedura disciplinare entro 20 giorni dalla data di conoscenza della sentenza penale definitiva quando essa sia l’elemento che ne genera l’avvio nei termini da ultimo elucidati.

Per l’ipotesi de qua il momento del decorso del termine coincide con la conoscenza della sentenza di condanna passata in giudicato. Per ragioni di tipo sistematico, il termine de quo non può che essere considerato perentorio, in quanto la comunicazione della sentenza di condanna assolve alle medesime funzioni del rapporto amministrativo del capo struttura [40] al titolare dell’ufficio disciplinare, il quale ultimo deve procedere alla relativa contestazione degli addebiti.

Il dies a quo decorre piú precisamente dal momento in cui la sentenza passata in giudicato e munita della relativa clausola di esecutività è formalmente pervenuta al titolare dell’ufficio di disciplina.

L’attivazione si perfeziona con la contestazione degli addebiti, e quindi entro il relativo termine deve essere perfezionata la fase dell’adozione del relativo atto, senza che entro il termine di 20 giorni debba essere altresì perfezionata anche la consegna al dipendente dell’atto con cui essa è disposta, quantunque essa abbia natura intrinsecamente recettizia [41].

Considerazioni del tutto analoghe valgono sia per le ipotesi delineate dagli artt. 9, comma 2 e 10 comma 3 della legge 7/2/1990 n. 19, sia per quelle avute presenti dall’art.5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97, indipendentemente dalla differente distribuzione dei termini di 90 e 180 giorni in esse prevista [42].

Anche in questo caso, pertanto, la riassunzione o l’attivazione del procedimento disciplinare deve essere attuata con un apposito atto di riattivazione ovvero con una contestazione degli addebiti ex novo debitamente perfezionata con la relativa consegna al dipendente ferma sempre la conclusione della procedura disciplinare nei termini previsti dalla specifica disciplina di settore.

Quanto ai termini di riassunzione o di attivazione, essi decorrono dall’avvenuta piena conoscenza da parte del responsabile dell’ufficio per le procedure disciplinari, perché formalmente comunicata dalla cancelleria del giudice penale la relativa sentenza passata in giudicato e munita della relativa clausola di esecutività.

Quanto ai termini di conclusione delle procedure disciplinari riattivate o avviate ex novo a séguito della consumazione della pregiudiziale penale, non può non essere osservato che non sussiste piena sovrapposizione fra di essi e l’ordinario temine di ultimazione fisiologico di 120 giorni previsto dalla specifica normativa di settore a livello di contrattazione collettiva nazionale di comparto [43].

Il problema interpretativo appena adombrato può essere risolto osservando che la normativa in materia di attivazione o riattivazione della procedura disciplinare una volta consumata la pregiudiziale penale ha natura di lex specialis in relazione alla materia che ne costituisce oggetto, talché prevale sui contenuti dalla normativa ordinaria, che, in aggiunta, non è fonte di diritto in quanto avente natura contrattuale.

Così, in primo luogo, il termine di 90 giorni avuto presente dalla legge 7/2/1990 n. 19 per le ipotesi in cui sia caso di una sanzione disciplinare di tipo espulsivo è l’unico applicabile all’ipotesi in esame, senza che possa in alcun modo essere sostenuto che la definizione del relativo procedimento disciplinare può essere protratta fino allo spirare del termine di 120 giorni previsto dalla contrattazione collettiva nazionale in via generale [44].

Differente è il caso previsto dall’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97, il quale prevede che la conclusione del procedimento disciplinare connesso a taluni dei reati previsti dal suo art. 3, comma 1 debba essere ultimato entro 180 giorni dalla riassunzione o dall’attivazione, salvo che un differente termine non sia previsto dalla contrattazione collettiva nazionale. In questo caso, il legislatore ha indebolito la cogenza della norma, prevenendo che un atto pattizio possa individuare termini differenti da quello specifico di 180 giorni. E’ pertanto onere specifico parti della suddetta contrattazione operare in tale senso, osservando peraltro che l’intervento deve afferire strettamente all’ipotesi in esame, in assenza di che si è in presenza di una chiara violazione dell’art. 8 della legge 27/2/2001 n. 97 [45].

Da ciò si conclude che non costituisce affatto attuazione dell’art. 5, comma 4 della presente legge il richiamo al termine generale di 120 giorni previsto dalla disciplina normativa contrattuale nazionale di comparto per carenza del requisito della specificità.

7. La sentenza assolutoria

Come si è avuto modo di evidenziare sia pure di passaggio, la sentenza assolutoria può avere contenuto duplice. Essa, infatti, può riguardare sia il fatto, ossia un accadimento collocato nel tempo e nello spazio, ed allora mette capo ad un giudizio di tipo storico, sia la qualificazione del fatto, ed allora presuppone un giudizio valutativo su di un fatto comunque accertato e quindi ascritto e riferito all’imputato.

La materia è ora normata dall’art. 653 c.p.p. nel testo modificato dall’art. 1 della legge 27/3/2001 n. 97, il quale prevede che la sentenza penale irrevocabile ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste, non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso.

Dall’analisi della normativa appena richiamata è possibile trarre una prima conclusione, ossia che non tutte le sentenze definitive assolutorie esplicano davvero effetti preclusivi sulle procedura disciplinare proprio perché differente è l’oggetto cui esse afferiscono. Detto altrimenti, la preclusività della sentenza penale di assoluzione è una variabile dipendente, e quindi una funzione, del suo contenuto in concreto, e quindi della sua motivazione.

Effetti autenticamente preclusivi sono esplicati solo dalle sentenze sul fatto, ossia quelle emesse perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso. In questo caso è del tutto evidente che l’esito del processo penale mette capo ad un giudizio storico in termini vero-funzionali sull’essere o meno avvenuta una data azione o omissione originariamente ascritta al dipendente pubblico, e che l’accertamento negativo di esso non può che riversarsi automaticamente nella procedura disciplinare proprio per effetto della pregiudiziale penale [46].

Del pari è evidente che la sentenza assolutoria resa “perché il fatto non costituisce reato” non ha effetti vincolanti sulla procedura disciplinare, se non in relazione all’accertamento del fatto in quanto nulla toglie che il medesimo fatto, il cui accadimento è stato comunque accertato dal punto di vista storico, possa configurare violazione del codice disciplinare, con conseguente obbligo di attivare o di riassumere la relativa procedura sanzionatoria [47].

In quest’ultimo caso, sulla pubblica amministrazione grava l’onere di riassunzione o attivazione della procedura disciplinare, nonché quello del tutto conseguenziale della sua definizione nel rispetto della normativa di riferimento piú volte richiamata e quindi dei termini perentorî ordinamentalmente previsti.

Dal punto di vista procedurale, l’ufficio di disciplina, una volta acquisita la sentenza penale di assoluzione con formula piena sul fatto, non può fare altro che prendere atto degli effetti preclusivi proprî del provvedimento giurisdizionale de quo, disponendo il non luogo a procedere a séguito della formazione del giudicato sulla condotta del pubblico dipendente cosí assolto, in quanto non a lui riferibile in un modo purchessia.

Differente, per contro, è il caso in cui la sentenza assolutoria ha a proprio fondamento non un giudizio sul fatto, ma una valutazione in termini di non illiceità penale del fatto stesso comunque oggetto di specifico accertamento in sede penale.

In questo caso, il fatto, ancorché non penalmente illecito, può essere ciò nondimeno, rilevante ai fini disciplinari, il che significa che la relativa procedura deve essere riassunta o attivata nei termini previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore o dalla normativa specifica di riferimento a pena di decadenza e che il fatto accertato nei modi e nei termini che sono scaturiti dal processo penale deve essere posto in relazione con il codice disciplinare per essere valutato alla sua stregua.

Del resto la rilevanza di giudicato perché il fatto non costituisce illecito penale nei modi indicati dall’art. 653, comma 1 c.p.p. cosí come modificato dall’art. 1, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97, significa che un accertamento sul fatto è stato compiuto da parte del giudice penale, e che su di esso si è formato il giudicato, evenienza della quale l’ufficio di disciplina non può non tenere conto dal punto di vista storico proprio in ragione della pregiudizialità penale operante in subiecta materia [48].

Le medesime conclusioni valgono quando l’imputato viene prosciolto per il sopraggiungere di eventi che nulla hanno a che fare con l’accertamento in concreto della responsabilità penale come accade quando il reato si prescrive o l’imputato beneficia di provvedimenti clemenziali.

In quest’ultimo caso, nel quale la sentenza del giudice penale ha ad oggetto piú propriamente non il fatto, ma il processo, è di immediata evidenza che valgono le medesime considerazione di tipo logico-giuridico prima esposte in relazione alla formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” o “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, che, in questo caso, operano a fortiori.

8. La sentenza di condanna. Il divieto degli automatismi espulsivi

La sentenza penale di condanna al pari della sentenza di assoluzione esplica effetti immediati nell’ambito della procedura disciplinare pendente o da attivare, e gli effetti che ad essa sono proprî sono quelli indicati dall’art. 653, comma 1 bis c.p.p. nel testo modificato dall’art. 1, comma 2 della legge 27/3/2001 n. 97.

Più in dettaglio, secondo quanto stabilito dalla norma di riferimento, la sentenza penale di condanna, una volta divenuta definitiva, ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

Una volta sopravvenuta la sentenza penale di condanna, l’ufficio di disciplina deve disporre la riassunzione o l’attivazione della relativa procedura nei modi e nei termini previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento o dalla normativa specifica di settore, nel rispetto dei relativi termini perentorî a pena di estinzione.

La sentenza penale di condanna, comunque, non può mai condurre all’automatica attivazione di misure espulsive al di fuori di un procedura disciplinare regolarmente incardinata, giacché la Corte costituzionale [49] ha piú volte avuto modo di evidenziare che nessuna sanzione disciplinare può essere irrogata al di fuori di un procedimento che costituisce cumulativamente il luogo ed il modo dell’esercizio dei poteri disciplinari da parte della pubblica amministrazione [50].

La vicenda non era estranea all’ordinamento, e di essa si era già occupato il legislatore, il quale con l’art. 22 della legge 29/3/1983 n. 93 aveva introdotto nell’ordinamento disciplinare del pubblico impiego il principio di tassatività ed il principio del necessario procedimento. Su di essa, peraltro, il giudice delle leggi aveva avuto modo di pronunciarsi, dichiarando inammissibili le relative questioni [51] di costituzionalità, sostanzialmente facendo appello al noto paradigma della discrezionalità delle scelte rimessa in via esclusiva al legislatore, la quale, come noto, esclude in radice che la Corte Costituzionale possa sindacare il merito della questione, salvo poi smentire il proprio precedente pronunciamento in subiecta materia con le sentenze 14/10/1988 n. 971 e 27/04/1993 n. 197 [52].

In sintesi, dalla sentenza penale di condanna non può mai scaturire l’adozione di automatismi espulsivi di sorta, in quanto le condotte per le quali è previsto il licenziamento con e senza preavviso previsto [53] costituiscono solo e soltanto il presupposto per l’irrogazione della relativa sanzione, talché essa non può derivare necessariamente ed automaticamente dalla pura e semplice sopravvenienza della sentenza penale di condanna regolarmente passata in giudicato.

A ciò sembra fare eccezione quanto previsto dall’art. 5 della legge 27/3/2001 n. 97, il quale prevede una misura espulsiva automatica nel caso in cui sopraggiunga la condanna penale definitiva a sanzione detentiva non inferiore a tre anni per taluno dei delitti indicati dal suo art. 3, comma 1, ossia per i reati di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319 ter, e 320 c.p..

Per comprendere le ragioni della correttezza dell’intervento legislativo occorre inserire il disposto dell’art. 5 della legge de qua nel testo e nel contesto dei richiami cui esso fa riferimento.

Seguendo quest’opzione interpretativa è agevole evidenziare che l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro prevista dall’art. 5, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97 non è una misura espulsiva di natura disciplinare per la cui adozione è sempre e comunque necessaria una procedura disciplinare, ma una sanzione penale accessoria che si aggiunge a quelle già previste dall’art. 19 c.p., e che consegue di diritto alla condanna definitiva come effetto penale di essa ai sensi dell’art. 20 c.p. [54] cosí come previsto dalla normativa generale in subiecta materia.

Seguendo questa tesi, inoltre, diviene evidente che l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego non è neppure l’unica misura epurativa disciplinata dalla normativa penalistica, giacché l’art. 19, comma 1 c.p. prevede ed ha sempre previsto quale pena accessoria proprio l’interdizione dai pubblici ufficî, che può essere perpetua o temporanea, come si ricava dall’art. 28 c.p..

Dal punto di vista sistematico, l’art. 5, comma 2 della legge 27/3/2001 n. 97 prevede, in modo del tutto conseguenziale, l’inserimento di un art. 32 quinquies nel codice penale per descrivere il contenuto della nuova pena accessoria, evidenziandone l’ambito di applicabilità.

La pena accessoria dell’estinzione del rapporto lavoro o di servizio alle dipendenze dell’ente pubblico, e quindi anche della pubblica amministrazione, consegue de iure quando, salvo quanto previsto dagli artt. 29 e 31 c.p. [55], vi sia stata condanna alla reclusione per un periodo temporale non inferiore ai tre anni a séguito dell’accertamento definitivo della responsabilità penale per uno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97, e quindi per i reati di cui agli artt. 314, comma 1 , 317, 318, 319, 319 ter, e 320 c.p..

Ciò detto, è ora utile delineare il quadro organico delle misure penali a carattere espulsivo anche in considerazione della recente novella legislativa.

Dalla comparazione fra le varie fattispecie in esame si ricava il seguente assetto normativo, che costituisce l’ambito di riferimento in materia di sanzioni penali accessorie che si riversano sul rapporto di lavoro del pubblico dipendente condannato, a prescindere dal fatto che egli sia o meno assoggettato a procedura disciplinare.

Così, in primo luogo, quando la sanzione penale principale comporta l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici ufficî, il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione si estingue automaticamente per effetto della sentenza penale definitiva, indipendentemente dalla tipologia del reato commesso dal pubblico dipendente, purché il fatto commesso sia un delitto e la condanna alla reclusione non sia inferiore ai cinque anni, e comunque quando il pubblico dipendente è condannato all’ergastolo.

In secondo luogo, quando la sanzione penale principale è stata comminata per taluno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97 e non è inferiore ai tre anni, il rapporto di lavoro si estingue per effetto della sentenza penale di condanna, rendendo evidente il maggior rigore rispetto all’ipotesi precedentemente illustrata, giacché in questo caso il limite sanzionatorio minimo è di soli tre anni e non di cinque.

In terzo luogo, quando la sanzione penale principale è stata comminata per altri delitti comunque previsti dalla normativa vigente, e la pena non è inferiore ai tre anni, o il reato è stato commesso con violazione dei doveri di ufficio connessi all’esercizio di una pubblica funzione, il rapporto di lavoro è sospeso per effetto dell’automatico operare dell’interdizione temporanea dai pubblici ufficî.

Al di fuori delle ipotesi evidenziate si colloca l’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97, il quale prevede esplicitamente l’evenienza che la sentenza penale definitiva di condanna per taluno dei reati previsti dal precedente art. 3, comma 1 alla reclusione inferiore ai tre anni possa condurre all’estinzione dal rapporto di impiego.

In questo caso, del tutto correttamente, la norma richiede l’attivazione o la riassunzione dell’apposita procedura disciplinare, solo al termine della quale può essere disposta la misura epurativa del licenziamento con o senza preavviso ai sensi della specifica normativa di cui alla contrattazione collettiva nazionale di comparto.

Ovviamente, la procedura disciplinare deve essere avviata o riassunta entro 90 giorni dalla piena conoscenza della sentenza definitiva di condanna comunicata da parte della competente cancelleria del giudice che la ha emessa. La procedura disciplinare deve essere poi conclusa entro i successivi 180 giorni a pena di estinzione, così come previsto dall’art. 5, comma 5 della legge 23/3/2001 n. 97 nei modi e nei termini evidenziati nei precedenti paragrafi.

9. La sentenza di patteggiamento

Una specifica ipotesi di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare si verifica sicuramente quando il primo viene definito mediante sentenza di condanna con sanzione a richiesta dell’imputato, meglio nota come sentenza di patteggiamento della pena [56].

Questa tipologia di sentenza pone all’interprete non pochi problemi di tipo sistematico, in quanto, nonostante l’apparenza, la sentenza di patteggiamento in ambito penale presenta peculiarità che sono sintomatiche del fatto che essa non ha la medesima connotazione di una comune sentenza di condanna che sia sopraggiunta a conclusione di un processo pervenuto a definizione a séguito di un’ordinaria istruttoria dibattimentale negli usuali gradi del giudizio [57].

La sentenza penale di patteggiamento è prevista dall’art. 444 c.p.p. ed è descritta nei suoi elementi essenziali nei termini di un provvedimento giurisdizionale di applicazione della pena di minore entità su richiesta di una della parti del processo alle condizioni normativamente indicate e date.

La sentenza di patteggiamento può essere adottata dal giudice penale se sussistono cumulativamente due ordini di condizioni, l’uno positivo, l’altro negativo.

Cosí, dal primo punto di vista, l’adozione della sentenza di patteggiamento da parte del giudice è subordinata sia all’assenso della parte che non ha formulato la domanda, sia all’evenienza che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., sia ancora alla circostanza che, sulla base degli atti acquisiti al processo, sia stata considerata esatta la qualificazione giuridica del fatto, nonché corretta l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate.

Dal secondo punto di vista, la sentenza di patteggiamento non può essere adottata quando la sanzione detentiva che dovrebbe essere irrogata eccede, da sola o congiunta all’eventuale sanzione pecuniaria, in concreto i due anni di detenzione o di arresto.

La sentenza di patteggiamento della pena in ambito penale, pertanto, incontra limitazioni di ordine sia quantitativo, sia qualitativo.

La sentenza di patteggiamento prevista dall’art. 444 c.p.p., in quanto conduce all’irrogazione di una sanzione penale principale, sembra presupporre l’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato in ordine ai fatti ascritti ed assunti come rilevanti nell’impianto accusatorio. In questo senso, non parrebbe concettualmente scorretto ritenere che la sentenza de qua abbia natura giuridica di sentenza di condanna, come del resto sembrerebbe potersi desumere dalla lettura dell’art. 445, comma 1, ultima proposizione c.p..

Rispetto alle usuali sentenze penali di condanna, peraltro, la pronuncia di patteggiamento non rende applicabili le sanzioni penali accessorie, e comunque conduce all’estinzione del reato sempre che l’imputato non commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, rispettivamente, entro i cinque e i due anni dalla sua adozione [58].

La sentenza di patteggiamento, non esplica effetti sui giudizî amministrativi che fossero pendenti perché fondati sul medesimo fatto. Ciò non significa affatto che essa non esplichi effetti sulla procedura disciplinare che fosse pendente o da attivare. Una simile evenienza, infatti, si ricava a partire da quanto dispone l’art. 653, comma 1 bis c.p.p., aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. c) della legge 27/3/2001 n. 97, espressamente fatto salvo dall’art. 2 della medesima fonte.

Nonostante le facili suggestioni che paiono essere desumibili dalla lettura dell’art. 445, comma 1, c.p.p. sulla natura giuridica della sentenza di patteggiamento occorre rettamente intendersi, giacché il legislatore ben lungi dall’averla definita in termini di sentenza di condanna, si è limitato a porre un mero nesso di equiparazione fra le due tipologie di provvedimenti giurisdizionali.

Come ha correttamente avuto modo di evidenziare la Corte di Cassazione a sezioni unite [59], il fatto che la sentenza di patteggiamento sia equiparata ad una comune sentenza di condanna esclude proprio ciò che parrebbe argomentabile in modo frettoloso dalla lettura della disposizione normativa che la prevede.

L’equiparazione legislativamente disposta, infatti, esclude proprio che la sentenza di patteggiamento abbia natura giuridica di sentenza di condanna. L’equiparazione disposta dal legislatore, infatti, concerne esclusivamente “ l’applicazione di una pena ad un soggetto per un determinato reato: il rapporto di affinità si dissolve e la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. manifesta la sua singolare tipicità rispetto ad ogni altra pronuncia di condanna proprio con riferimento all’altra essenziale componente e cioè, l’accertamento della responsabilità dell’accusato. Ed infatti anche sul piano formale della estrinsecazione della decisione assunta dal giudice, l’applicazione della pena, indicata dalla parte, si dissocia completamente dalla dichiarazione di colpevolezza nei confronti del destinatario della sanzione, per l’assoluta incompatibilità di una siffatta dichiarazione con i limiti genetici e strutturali del procedimento al quale si ricollega” [60].

Ed infatti, “non potendo l’art. 445 c.p.p. occuparsi di effetti che da quella sentenza giammai avrebbero potuto derivare per l’ovvia ragione che in essa era assente la componente capace di produrli, e cioè il riconoscimento giudiziale completo della responsabilità penale dell’accusato, una volta fatta salva la disciplina delle deroghe, ha con una norma di chiusura, evidenziato che in relazione agli altri effetti si applicava la disciplina generale, però pur sempre nell’ambito di quel rapporto di equiparazione che tanto era giustificato in quanto poggiava su di una componente costante della pronuncia di condanna, e cioè l’applicazione di una sanzione penale” [61].

L’equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una sentenza penale di condanna ha immediate ripercussioni in ámbito disciplinare quoad effectum, con la conseguenza che l’autorità disciplinare della pubblica amministrazione nella quale è incardinato il pubblico dipendente che ha patteggiato l’applicazione della sanzione penale incontra gli stessi vincoli procedurali di cui dovrebbe tenere conto in presenza di una comune sentenza penale di condanna.

Detto altrimenti, l’autorità disciplinare della pubblica amministrazione deve attivare o riassumere la relativa procedura nei termini previsti dalla rispettiva normativa di settore più volte richiamata e disporre la comminazione della sanzione disciplinare ritenuta applicabile in concreto, anche patteggiata ai sensi dell’art. 55, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Dal punto di vista procedurale, pertanto, il comportamento della sentenza penale di patteggiamento è del tutto identico a quello dell’usuale sentenza penale conosciuta dal codice di rito, il che significa che l’autorità disciplinare o riassume una procedura già avviata nei modi e nei termini previsti dalla singola normativa contrattuale [62], o attiva ex novo una procedura disciplinare nel caso in cui il momento emergente della relativa responsabilità sia costituito proprio dalla sentenza di patteggiamento della pena [63].

Se gli effetti procedurali proprî della sentenza penale di patteggiamento sono identici a quelli generati da una comune sentenza penale di condanna, differenti sono le conseguenze indotte sulla procedura disciplinare dal punto di vista sostanziale.

Più in particolare, sugli effetti della sentenza di patteggiamento nella procedura disciplinare occorre correttamente intendersi, giacché se da un lato è fuor di dubbio che essa esplichi effetti in tale sede, dall’altro non è immediatamente evidente individuare in ordine a cosa ciò si verifichi.

A questo proposito, seguendo anche l’orientamento della giurisprudenza dominante, utilmente corroborata dalla giurisprudenza delle Corte costituzionale [64] sembra utile distinguere fra affermazione della responsabilità e suo accertamento, avendo cura di evidenziare che le due nozioni possono non essere in concreto completamente coincidenti, anche se è indubitabile che esse siano fra di loro in relazione logica [65].

Per rendersi conto di ciò è bene iniziare l’indagine in subiecta materia dalla constatazione che la sentenza di patteggiamento è una sentenza con la quale viene comminata una sanzione penale, che presuppone che l’imputato non sia proscioglibile per ragioni che riguardano il fatto commesso. In questo senso, è di immediata evidenza che la sentenza di patteggiamento abbia delle evidenti relazioni di presupposizione con i fatti commessi dall’imputato, giacché è proprio in rapporto ad essi che trova fondamento il giudizio di proscioglimento.

Di immediata evidenza, però, è che il processo di accertamento dei fatti in concreto non interviene, né si consolida con la precisione e l’approfondimento che sono tipici della sentenza di condanna che definisce il dibattimento nella sua massima estensione e quindi nell’ambito di un’istruttoria dibattimentale effettuata in pubblica udienza.

Ovvio è pertanto che gli effetti vincolanti della sentenza di patteggiamento sulla procedura disciplinare siano una diretta funzione del momento nel quale la richiesta di patteggiamento viene richiesta e conseguenzialmente accordata dal giudice. Ed a questo proposito deve essere rammentato che la richiesta di patteggiamento può essere esperita nel corso delle indagini preliminari, piuttosto che nella fase preliminare del dibattimento prima della sua formale apertura. In questi momenti, il giudice competente a decidere, che può essere sia il giudice per le indagini preliminari, sia il giudice del dibattimento, fonda il proprio convincimento sulla rappresentazione dei fatti desumibile dal fascicolo di causa nello stato di fatto in cui si trova [66]

Da ciò si desume subito che la sentenza di patteggiamento, pur presupponendo un accertamento di responsabilità, può, in concreto, ed a seconda dei casi, fondarsi su un accertamento più o meno completo dei fatti.

Se ciò è vero, come si ritiene che sia, allora non si può non dedurre che l’utilizzazione della sentenza penale di patteggiamento nel corso della procedura disciplinare non può essere decisa e risolta in modo apodittico argomentando a partire puramente e semplicemente dalla sua equiparazione ad una sentenza penale di condanna, ma deve essere decisa caso per caso, assumendo come rilevante il contenuto motivazionale della pronuncia del giudice penale in funzione del momento in cui essa sopraggiunge.

Di qui, come cennato di passaggio, l’utilità della distinzione fra affermazione della responsabilità ed accertamento della responsabilità, per osservare che la sentenza penale di patteggiamento presuppone sempre nella sua massima estensione l’affermazione della responsabilità, rispetto alla quale l’accertamento delle responsabilità è tanto piú approfondito quanto piú avanzate sono le indagini del pubblico ministero nel corso del divenire del processo penale, fermo restando che il completo accertamento della responsabilità dell’imputato è logicamente incompatibile con il procedimento di cui all’art. 444 c.p.p..

L’endiadi “affermazione della responsabilità ed accertamento della responsabilità”, pertanto, ha il pregio di rendere evidente il differente ambito nel quale i suoi due membri rilevano, il che, a sua volta, contribuisce a corroborare l’utilità della distinzione e le conseguenze che da essa derivano.

L’affermazione della responsabilità, infatti, è l’esito di un tipico giudizio di valore, quale è quello che conduce alla sentenza di condanna, ed ha ad oggetto una statuizione giurisdizionale che investe il puro e semplice disvalore ordinamentale di una data azione od omissione del reo.

L’accertamento della responsabilità, per contro, mette capo ad un giudizio storico, definito all’interno del gioco del processo e, pertanto, normato dalle sue regole, il quale produce una “verità convenzionale”, accertata ed accettata dall’ordinamento giuridico come tale [67] nella sua massima estensione possibile.

Di qui la conseguenza che fra accertamento della responsabilità ed affermazione della responsabilità sussiste una mera relazione di presupposizione unidirezionale, nel senso che la seconda presuppone la prima, senza che il modo in cui si concretizza tale nesso di presupposizione possa essere dato aprioristicamente. Ciò, in buona sostanza, significa che l’affermazione della responsabilità può essere fondata anche su un suo accertamento parziale in relazione ai fatti sub iudice, il che accade tutte le volte in cui la prima non è l’esito di un’istruttoria dibattimentale condotta nella sua massima estensione possibile.

Quanto appena evidenziato deve indurre a riflettere seriamente sulla rilevanza dei fatti accertati nel giudizio penale definito con una sentenza di patteggiamento, proprio perché il modo dell’accertamento della responsabilità esclude una piena cognizione dei fatti e quindi la formazione di un giudizio storico completo sulla loro collocazione nello spazio e nel tempo.

Alla sentenza di condanna a pena patteggiata può essere pertanto fatto riferimento in ambito disciplinare per ritenere accertati quei fatti che, essendo emersi dal giudizio in sede penale, o non sono stati contestati all’imputato, ovvero appaiono fondatamente attribuibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali [68].

Tutto ciò consente di enucleare una casistica sufficientemente articolata nella quale a séguito della sopravvenienza della sentenza penale di condanna a pena patteggiata non è necessario procedere ad autonoma ricostruzione dei fatti in ambito disciplinare.

In primo luogo, si possono considerare accertati in sede disciplinare i fatti non controversi in ambito penale, perché ammessi dall’imputato, o perché a lui ascrivibili mediante procedimento di carattere logico deduttivo o di presupposizione. In questo primo caso trovano applicazione le usuali regole stabilite in materia di confessione, in base alle quali si considera provato un fatto ogniqualvolta sfavorevole a colui che ne dichiara l’avvenuto accadimento, nonché le usuali regole inferenziali che consentono di addivenire alla prova di un fatto a partire da un’altra verità certa già assunta come tale e quindi incontestata.

In secondo luogo, possono ritenersi accertati tutti quei fatti che sono stati provati a seguito di regolare istruttoria dibattimentale ogni qualvolta la relativa sentenza di patteggiamento sia stata pronunciata in esito al dibattimento stesso nel giudizio di primo grado ovvero in quello di impugnazione, secondo quanto previsto dall’art. 448, comma 1 c.p.p..

In terzo luogo, si possono considerare accertati i fatti presupposti dal capo di imputazione tutte le volte che la richiesta di patteggiamento sia stata esperita prima delle formalità di apertura del dibattimento, posto che per decidere sul patteggiamento il giudice ha a propria disposizione l’intero fascicolo di causa e quindi la globalità delle risultanze delle indagini disposte dal pubblico ministero.

In tutte queste circostanze, i fatti posti a fondamento della sentenza penale di condanna previo patteggiamento possono essere ritenuti provati anche in ambito disciplinare, senza che il responsabile del relativo ufficio debba procedere a nuovi accertamenti o a nuove ricostruzioni storiche dei relativi accadimenti.

In definitiva, si può concludere osservando che la sentenza di patteggiamento esplica effetti vincolanti e preclusivi in ambito disciplinare in diretta funzione del suo contenuto in concreto, il che significa che tali effetti non possono essere aprioristicamente predeterminati, ma sono una variabile dipendente della motivazione del provvedimento giurisdizionale che la dispone in ogni singola e data evenienza.

Un ulteriore problema posto dalla sentenza di patteggiamento emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. riguarda le modalità alla stregua delle quali deve essere perfezionata la successiva fase di riassunzione della procedura disciplinare.

La questione non è di poco conto, giacché, come si è avuto modo di evidenziare in precedenza, la pronuncia della condanna penale a pena patteggiata normalmente non presuppone, ma anzi concettualmente esclude, la compiutezza della ricostruzione dei fatti posti a fondamento della pronuncia. Tutto ciò rende inevitabile che l’autorità disciplinare della pubblica amministrazione debba effettuare sovente un’autonoma ricostruzione dei fatti.

Una tale evenienza rende fortemente dubbia la possibilità di conclusione della procedura disciplinare nei termini di 90 giorni assegnati dalla legge 7/1/1990 n. 19, termine più breve dell’usuale termine di 120 giorni previsto dalla normativa contrattuale [69].

La questione è stata definitivamente risolta dalla Corte costituzionale con sentenza 28/5/1999 n. 197 [70], la quale ha avuto modo di evidenziare che la previsione di termini abbreviati per addivenire alla definizione della procedura disciplinare in presenza di una sentenza penale di condanna a pena patteggiata è giustificata solo in presenza di una pronuncia giurisdizionale il cui accertamento in fatto sia di estensione tale da esibire il carattere della compiutezza e della definitività.

Secondo il giudice delle leggi, una tale eventualità è del tutto esclusa in caso di patteggiamento, evenienza in cui è piú che normale che la relativa pronuncia possa essere richiamata solo e soltanto per i fatti non controversi, ammessi dal dipendente o a questi ascrivibili in base a processi logico-inferenziali, mentre per tutte le restanti ipotesi l’autorità disciplinare non può fare altro che ricostruire i fatti in modo autonomo.

Tutto ciò, allora, rende evidente l’insufficienza dei termini abbreviati di 90 giorni, imponendo che il responsabile della procedura possa disporre dell’ordinario termine fisiologico di 120 giorni previsto dalla contrattazione collettiva nazionale di settore [71], tesi oggi pacificamente ammessa dalla giurisprudenza più autorevole [72].

Anche in questo caso, i termini sono invertiti quando il reato sub iudice per il quale viene richiesta l’applicazione della pena a domanda dell’imputato è riconducibile all’elencazione tassativa dell’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97. In quest’ipotesi, data la natura di lex specialis della normativa, la procedura disciplinare non potrà che essere riassunta o attivata entro 90 giorni dalla formale comunicazione della sentenza di patteggiamento, per essere definita a pena di estinzione entro i successivi 180 giorni.

 

 

[1] Sulla responsabilità disciplinare, da ultimo, Bronzetti, La responsabilità nella pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1993, 11 e 47; Mor, Le sanzioni disciplinari ed il principio del nullum crimen sine lege, Giuffrè, Milano, 1970; Frascaroli,  Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego, in “Foro Amm.”, 1976, I, 862.

[2] Com’è noto, la responsabilità disciplinare è una particolare forma di responsabilità che rinviene il proprio fondamento nella violazione di specifici doveri di servizio, i quali devono essere previsti dal codice disciplinare, debitamente affisso dalla pubblica amministrazione datrice di lavoro, e normati, per effetto di quanto dispone l’art. 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, dai contratti collettivi nazionali di lavoro per ciascun singolo comparto.

La contrattualizzazione del diritto disciplinare, o meglio la sua depubblicizzazione, è stata perfezionata per tutti i comparti di contrattazione del pubblico impiego. A questo proposito, si vedano per il comparto Regioni – Enti locali gli artt. 23, 24, 25, 26 e 27 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri gli artt. 23, 24, 25, 26 e 27 del c.c.n.l. del  16/5/1995.

[3] Del resto, che un medesimo fatto possa dare luogo a molteplici qualificazioni in termini giuridici, tutti egualmente rilevanti per l’ordinamento, è un’evenienza tuttaltro che rara. Le ipotesi di interferenza fra ámbiti differenti, infatti, è perfettamente coerente, e rinviene il proprio presupposto logico nella molteplicità degli interessi rilevanti tutti egualmente degni di tutela di volta in volta oggetto di specifica protezione nelle singole e varie esperienze storiche. L’eterogeneità degli interessi di volta in volta oggetto di specifica tutela, pertanto, non configura casi di antinomia o contrasto e quindi di incoerenza ordinamentale, ma risponde a specifiche esigenze di tutela avvertite come rilevanti.

[4] Sulla nozione di implicazione necessaria o di stretta implicazione si possono utilmente consultare i più rinomati manuali di logica. Per tutti, Copi, Introducition to Locic, The Macmillan Company, New York, 1961, trad. il. Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna, 1964, 283;  Strowson,  Introduction to Logical Theory, Methuen & Co Ltd, London, 1961, trad. it. Introduzione alla teoria logica, Einaudi, Torino, 1961, 32; Quine, Elementary Logic, Harvard University Press, Harvard, 1965, trad. it. Logica elementare, Ubaldini Editore, Roma, 1965, 11 e 135.

Sull’applicazione della nozione in termini di modalità, von Wright, An Essay in Modal Logic, Routledge and Kegan Paul, London, 1951, 9; Hughes e Cresswell, An Introduction to Modal Logic, North-Holland Publishing Company, Amsterdam 1951, 1968, trad. it. Introduzione alla logica modale, Il Saggiatore, Milano, 1973, 23, 44 e 252.

[5] In modo del tutto speculare può essere rappresentata la relazione di responsabilità quando la norma violata è di divieto: “{[-(O-p)→□S) & -(O-p)] → □S}”, locuzione sintagmatica che può essere parafrasata nei termini che seguono: se una data norma “O-p” che qualifica come obbligatoria l’omissione di una data azione, e quindi vietata la sua commissione, viene violata, allora segue necessariamente la sanzione S.

[6] Tale evenienza è ben compendiata da Kelsen, Allgemeine Teorie der Normen, Manesche Verlags und Universitatsbuchhandlung, Wien, 1979, trad. it. Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino, 1985, 209: “Si fa di solito una distinzione tra norme giuridiche, che prescrivono un certo comportamento, e norme giuridiche che collegano una sanzione al comportamento contrario a queste norme, ricorrendo al concetto di norme primarie e norme secondarie; come ad esempio “Non si deve rubare”; “Se qualcuno ruba, deve essere punito”. Ma la formulazione della prima delle due norme è superflua, in quanto il non-dover-rubare consiste giuridicamente nel dover-essere-punito alla condizione del rubare”. In questo senso, l’affermazione della responsabilità è condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione della sanzione.

[7] Il codice disciplinare è quella particolare fonte di regolazione che individua quali sono i doveri di servizio del pubblico dipendente e quali sono le  sanzioni previste in caso di loro violazione. Il codice disciplinare è oggetto di contrattualizzazione ed è enucleato dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto.

[8] Il codice disciplinare non deve essere confuso con il codice di comportamento ossia con il D.M. 28/11/2000, adottato dal Ministro per  la funzione pubblica, che è un mero atto amministrativo, la cui cogenza per le pubbliche amministrazioni differenti da quelle statali è fortemente dubbia.

Il codice disciplinare è quella particolare fonte di regolamentazione che disciplina, mediante la specifica previsione di una relazione normativa, il rapporto che connette e lega la violazione di uno specifico obbligo di servizio ad una altrettanto specifica sanzione. La relazione di cui è caso è ascrivibile al novero delle relazioni diadiche, ossia a quelle che possono essere rappresentate facendo riferimento al sintagma “-aRb”, dove “-a” rappresenta il comportamento contrario ai doveri di servizio contrattualmente individuati e normati, “b” la sanzione o per meglio dire la conseguenza sanzionatoria, ed “R” la relazione che interconnette i due membri, altrimenti definibile in termini di illiceità o contrarietà al diritto. Da ciò emerge abbastanza chiaramente che, come precedentemente evidenziato nel corpo del lavoro, la relazione normativa che interconnette “-a” e “b” è a sua volta definibile in funzione della specificità della sanzione prevista dall’ordinamento, il che vale a dire che la responsabilità disciplinare è tale in quanto la sanzione ordinamentalmente indicata è sanzione disciplinare, per l’appunto.

[9] Il riferimento al modo dell’interferenza è una diretta funzione della tipologia della sentenza penale che definisce con efficacia di cosa giudicata la vicenda giurisdizionale del dipendete. Come sarà evidenziato nel prosieguo del lavoro, infatti, non sempre il sopraggiungere di un giudicato in sede penale esplica davvero effetti totalmente preclusivi in sede disciplinare.

[10] L’endiadi “procedimento disciplinare” – “procedura disciplinare” non è né deve aprire vaga ed oziosa. A séguito della depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, infatti, l’adozione delle sanzioni disciplinari avviene nell’esercizio di poteri privatistici, giacché il rapporto di impiego del pubblico dipendente è gestito dalla pubblica amministrazione con i poteri del privato datore di lavoro, come esplicitamente dispone l’art. 5, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 in generale e l’art.89, comma 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 per gli enti locali territoriali. Ciò costituisce condizione necessaria e sufficiente per rimarcare che l’esercizio dei poteri disciplinari  non avviene nell’ámbito di un procedimento amministrativo, ma all’interno di una procedura che presuppone meri atti datoriali che sono atti amministrativi solo dal punto i vista soggettivo e non oggettivo, e che pertanto non hanno natura di provvedimenti amministrativi.

[11] Di “fonti-atto” parla in termini “Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale II, Cedam, Padova, 1978, 9. Sulle fonti del diritto, si veda l’interessante lavoro di Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Giuffrè, Milano, 1993, nel quale l’intera tematica è trattata mediante utilizzazione delle piú moderne tecniche di analisi del linguaggio.

[12] Nei confronti della materia disciplinare esiste nell’ordinamento una vera e propria riserva a favore della contrattazione collettiva nazionale di comparto ciò si ricava agevolmente dalla lettura dell’art. 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. Sulla vicenda, Miscione,  in Carinci e D’Antona (ed.), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Giuffrè, Milano, 2000, 1677.

[13] Sulla pregiudiziale penale rispetto al procedimento disciplinare nella vigenza del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, per tutti, Virga, Il pubblico impiego, Giuffrè, Milano, 1964, 273, nonché del medesimo autore, Diritto amministrativo. I principi. 1, Giuffrè, Milano, 1989, 228.

[14] A questo proposito deve essere súbito osservato che se il diritto disciplinare è animato, al pari di tutti i sistemi punitivi, dal principio del nulla poena sine lege, l’ordinamento delineato dal D.P.R. 10/1/1957 n. 3 non prevedeva in termini tassativi né l’assetto delle infrazioni, né quello della sanzioni, né ancóra la relazione sanzionatoria fra condotta e conseguenza punitiva. L’estensione dei doveri di servizio, infatti, non era organicamente normata, giacché il loro assetto si ricavava accostando le specifiche disposizioni che li enunciavano alle disposizioni che enucleavano la formula del giuramento, fermo restando che talune delle fattispecie esplicitamente previste dalla norma erano talmente ampie da consentire di ricomprendervi tutto ed il suo contrario. L’indeterminatezza dell’assetto disciplinare e la faraginosità delle procedure previste per la sua gestione ne hanno determinato il fallimento. Sul punto, Mor, op. cit, loc. cit..

[15] Per il comparto Regioni – Enti locali, si veda l’art. 25, commi 8 e 9 del c.c.n.l. del 6/7/1995. Per il comparto Ministeri, l’art. 25, commi 6, 7 ed 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995.

[16] La fattispecie è normata in modo sostanzialmente identico ancorché formalmente dissimile nei varî comparti di contrattazione. Si vedano, dall’art. 25, comma 8, prima proposizione  del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto Regioni – Enti locali; l’art. 25, comma 6 del c.c.n.l  del 16/5/1995 per il comparto Ministeri.    

[17] Anche per questa fattispecie valgono le medesime considerazioni già espresse nella nota 12. Si vedano l’art. 25, comma 8, seconda proposizione del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto di contrattazione Regioni – Enti locali; l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto Ministeri.

[18] La fattispecie è normata dall’art. 25, comma 8, ultima proposizione del c.c.n.l. del 6/7/1995. La presente ipotesi non è esplicitamente normata dal c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto Ministeri.

[19] A questo proposito deve essere rammentato che quando il processo penale afferisce ad un pubblico dipendente, sulla cancelleria del giudice a quo incombe l’obbligo di trasmettere la sentenza definitiva alla pubblica amministrazione.

[20] Corte Cost. 28/5/1999 n. 197, in www.lexitalia.it.

[21] La prima sentenza in subiecta materia e la pronuncia di incostituzionalità dell’art. 85, comma  1, lett. a) del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, e quindi la sentenza della Corte costituzionale 14/10/1988  n. 971, costantemente ribadita dal giudice delle leggi. Per tutte, si veda Corte Cost. 27/4/1993 n. 197. L’intera vicenda è ben compendiata con dovizia di particolari da Gulì, Destituzione e patteggiamento, in http://www.lexitalia.it.

[22] Per il primo ordine di problemi, si veda l’art. 5, comma 4 della legge 23/3/2001 n. 97; per il secondo l’art.1; per il terzo, l’art. 2, comma 1.

[23] Nella vigenza del precedente codice di rito, la vicenda era disciplinata dall’art. 3 c.p.. Oggi la disposizione rilevante in subiecta materia è l’art. 347 c.p.p..

[24] La riassunzione è l’istituto giuridico previsto dall’ordinamento per recuperare l’operatività della procedura disciplinare sospesa. Essa risponde all’esigenza di dare termine certo alla riattivazione di una procedura oggetto di sospensione al fine di addivenire alla definizione in termini di certezza al relativo rapporto sottostante.

[25] E’ di immediata evidenza che la riassunzione della procedura disciplinare presuppone l’adozione di un atto datoriale esplicito, in quanto è da essa che decorre il termine perentorio previsto dalla normativa di settore per addivenire alla definizione della procedura disciplinare. E’ altresí ovvio che la riassunzione deve essere comunicata al dipendente sub iudice, ancorché non sia atto recettizio, ossia atto i cui effetti si perfezionano al momento della sua avvenuta comunicazione al suo destinatario.

[26] Per gli enti del comparto i contrattazione Regioni – Enti locali, i termini di riassunzione sono indicati dall’art. 25, comma 9 del c.c.n.l. del 6/7/1995, Per il comparto Ministeri dall’art.25, comma 8 del c.c.n.l. del16/5/1995; essi coincidono con 180 giorni computati dalla conoscenza della sentenza penale di condanna definitiva.

[27] I reati presi in considerazione dall’art. 3, comma 1 della legge 23/3/2001 n. 97 sono i tipici reati contro la pubblica amministrazione, e fra questi quelli percepiti dalla coscienza sociale come particolarmente gravi. Piú in dettaglio, essi sono quelli indicati dagli artt.  314, comma 1 , 317, 318, 319, 319 ter, e 320 c.p..

[28] Sulla durata dei termini ha avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale con la sentenza 28/5/1999 n. 197, in www.lexitalia.it, la quale ha espressamente statuito che i termini de quibus sono ragionevoli, e che non contrastano con i principî di buona amministrazione previsti dall’art. 97 Cost..

[29] I termini de quibus sono previsti in via generale dalla normativa contrattuale, che li ha mutuati dalla legge 7/1/1990 n. 19. Per il comparto regioni – Enti locali, si vada l’art. 25, comma 9 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995.

[30] Da ciò si desume che il puro e semplice pervenimento al protocollo generale della pubblica amministrazione non costituisce valido momento per il computo del termine in esame.

[31] La procedura disciplinare a séguito della sua riattivazione presuppone, come nella generalità dei casi, l’autonoma valutazione dei termini dell’antigiuridicità del comportamento del dipendente sub iudice in piena autonomia. Da ciò si desume l’evenienza descritta non è affatto incompatibile con l’irrogazione di una sanzione disciplinare patteggiata nei modi e nei termini indicati dall’art. 55, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

[32] Sulla perentorietà dei termini de quibus si veda Corte Cost. 28/5/1999 n. 197, in www.lexitalia.it la quale ha avuto modo di evidenziare che i termini brevi previsti dalla normativa di settore (allora dall’art. 9, comma 2 della legge 7/1/1990 n. 19) rinvengono il loro fondamento nell’esigenza di definire con sollecitudine la procedura disciplinare, evitando “situazioni di incertezza dannose per il buon andamento dell’amministrazione, e lesive della posizione personale del dipendente condannato”.

La tesi della perentorietà dei termini è sostenuta dalla giurisprudenza piú autorevole. C.f.r. nota 40.

[33] Questa affermazione presuppone una specifica presa di posizione in ordine alla chiarificazione della natura giuridica della potestà disciplinare della pubblica amministrazione. Per chi scrive, la potestà disciplinare della pubblica amministrazione è una specificazione dei poteri di organizzazione che l’ordinamento riconosce al datore di lavoro e non piú mero riflesso della sua cosiddetta “supremazia speciale”. Su tutto ciò, Nobile, Atti e procedure disciplinari nei comuni e nelle province, di prossima pubblicazione per i tipi I.C.A..

[34] La fattispecie è disciplinata dall’art. 25, comma 8, seconda proposizione del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto Regioni - Enti locali e dall’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto Ministeri.

[35] La presente evenienza era di particolare rilevanza nella vigenza del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, nel quale molto spesso la specifica normativa di settore consentiva l’attivazione di procedimenti disciplinari in presenza della condanna in sede penale per fatti di reato che nulla avevano a che fare con la condotta lavorativa del pubblico dipendente.

La fattispecie non è estranea all’ordinamento disciplinare oggi delineato dalla contrattazione collettiva nazionale, ed in tale ámbito rileva solo con riferimento al licenziamento con e senza preavviso, come nel caso in cui si sia in presenza di “condanna passata in giudicato per un delitto che, commesso fuori dal servizio e non attinente in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consente la sua prosecuzione per la sua specifica gravità” (c.f.r. art. 25, comma 6, lett. f) del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto Regioni – Enti locali ed art. 25, comma 4, ultimo punto del c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto Ministeri).

[36] Il termine de quo è quello indicato, per il comparto contrattuale Regioni – Enti locali dall’art. 25, comma 8 ultima proposizione del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, la fattispecie non è oggetto di specifica normazione, ma lo si desume in via interpretativa per intuitive ragioni di tipo sistematico.

[37] La sentenza penale di condanna a pena patteggiata pone non pochi problemi di tipo dogmatico in relazione alla rilevanza che gli accertamenti sui fatti che la supportano hanno sulla procedura disciplinare. Un secondo ordine di problemi è connesso all’estensione dei termini per la definizione delle procedure disciplinari in presenza di patteggiamento della sanzione penale. Su tutto ciò, si veda § 9.

[38] Anche in questo caso, vale quanto evidenziato nella nota precedente. . A questo proposito, si vedano, per il comparto Regioni – Enti locali, l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, si veda l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995.

[39] Per il comparto di contrattazione Regioni – Enti locali, la fattispecie è disciplinata dall’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, come piú volte segnalato, la fattispecie non è espressamente normata.

[40] In termini, Cons. stato sez. IV 27/3/2002 n. 1728, in “Cons. Stato”, 2002, I, 636, secondo cui il vizio della procedura in caso di mancato rispetto del termine per la contestazione degli addebiti sussiste solo “con riferimento alla particolare situazione accertata a alla peculiare complessità di eventuali e successive acquisizioni istruttorie”; Cons. stato sez. IV 22/2/2001 n. 696, in “Cons. Stato”, 2001, I, 381; di particolare importanza è Cons. stato sez. IV 1/3/2001 n. 1132, in “Cons. Stato”, 2001, I, 519, la quale tratta nello specifico del termine massimo di 20 giorni previsto dalla contrattazione collettiva nazionale.

[41] Cons. stato sez. IV 26/9/2001 n. 5049, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2149; Cons. stato sez. IV 9/1/2001 n. 43, in “Cons. Stato”, 2001, I, 30; Cons. stato sez. VI 17/2/2000 n. 901, in “Cons. Stato”, 2000, I, 332.

[42] Cons. stato sez. IV 20/6/2001 n. 3288, in “Cons. Stato”, 2001, I, 1382.

[43]  Per il comparto Regioni Enti locali, si veda l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, si veda l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 16/5/1995.

[44] A questo proposito, oltre alla fondamentale Corte Cost. 28/5/1999 n. 197, in http://www.lexitalia.it si vedano Cons. stato sez. VI 22/3/2002 n. 1651, in “Cons. Stato”, 2002, I, 603; Cons. stato sez. VI 18/4/2001 n. 2339, in “Cons. Stato”, 2001, I, 953; Cons. stato sez. ad. Plen. 25/1/2000 n. 4, in “Cons. Stato”, 2000, I, 4; Cons. stato sez. VI 6/2/1999 n. 3288, in “Cons. Stato”, 1999, I, 220; Cons. stato comm. spec. pubbl. imp. 5/2/2001 n. 482/2000, in “Cons. Stato”, 2000, I, 224, con specifico riferimento alla sopravvenienza della normativa a livello di contrattazione collettiva nazionale di comparto.

[45] Per ragioni di completezza, si riporta il testo dell’art. 8 della legge 27/3/2001 n. 97: “1. Le disposizioni della presente legge prevalgono sulle disposizioni di natura contrattuale regolanti la materia. 2. I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dopo la data di entrata in vigore della presente legge non possono, in alcun caso, derogare alle disposizioni della presente legge”.

[46] Cons. stato IV ord. 30/10/2001 n. 5868, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2395.

[47] Quest’evenienza è una diretta conseguenza della relazione che intercede fra medesimezza del fatto ed eterogeneità dei varî assetti sanzionatorî, in base al quale un medesimo fatto può essere oggetto di molteplici tipologie di responsabilità, senza che ciò configuri antinomia o conflitto.

[48] La disamina della rilevanza in sede disciplinare della formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato è molto ben compendiata in Cons. Stato sez. III  del 16/4/2002, in www.lexitalia.it in base al quale “secondo un’interpretazione logico sistematica che risulti essere la piú coerente e compatibile con i principi generali (…), l’elemento aggiuntivo (…) inserito nel nuovo testo dell’art. 653, comma 1, c.p.p. non è tale da paralizzare l’azione della pubblica amministrazione, bensì ha il solo scopo e la funzione di obbligare a ritenere avvenuti fatti e situazioni oggetto di accertamento da parte del giudice penale anche nell’ipotesi in cui il procedimento penale sia sfociato in una sentenza assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” o “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. In altre parole, il legislatore si è limitato ad estendere dell’accertamento eseguito in sede penale, notoriamente più ricco di strumenti d’indagine e di mezzi probatori, anche ai fatti posti a fondamento di decisioni assolutorie sfociate in formule differenti da quelle “perché il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”.

[49] Corte cost. 14/10/1988 n. 971,  in “Giur. cost.”, 1988, I, 2212; Corte cost. 27/4/1993 n. 197, in “Giur. cost.”, 1993, I, 1341.

[50] In dottrina la sentenza 14/10/1988 n. 971 è stata oggetto di interessanti commenti ed annotazioni, tutti orientati a mettere in evidenza l’insensatezza della disposizione colpita dalla censura di incostituzionalità. Per tutti, Cacioppoli, Sulla destituzione di diritto. Riflessi della sentenza della Corte Costituzionale n. 971/88, in “Riv. Amm.” 1990,  63; Caiaffa, La Corte Costituzionale e la destituzione di diritto dei pubblici dipendenti in conseguenza della pronuncia di incostituzionalità, in “Nuova. Rass.” 1989, 2113; Caponi, Incapacità di accedere ai pubblici impieghi e destituzione a seguito di condanne penali, in “Foro Amm.”, 1988, 3477; id., Destituzione ipso iure e accesso agli impieghi pubblici dopo la sentenza Corte Cost. n. 971 del 1988, ivi, 1989, 1661; Di Giovanni., Note in margine alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 85 del D.P.R. 10/1/1975 n. 3, in “Riv. Giur. Scuola”,1991, I,  955; Nizza, Innovazioni nella disciplina della destituzione di diritto, in “Riv. Amm.”,1989, 215; Pollice, Sulla destituzione quale sanzione disciplinare non automatica, in “Comuni d’Italia”, 1989,  1589; Ronca, Dipendenti statali e degli enti locali: sanzione disciplinare della destituzione di diritto ed una pronuncia della Corte Costituzionale dichiarativa di inammissibilità della sollevata questione di illegittimità, in “Amm. It.”, 1989, 752; Scarabino, La destituzione dal pubblico impiego: la Corte Costituzionale ne dichiara inammissibili le questioni di illegittimità, ma la Corte Europea dei diritti dell’uomo è dietro l’angolo, in “Amm. It.”, 1987, 1712; Sciullo, Destituzione di diritto e Corte Costituzionale: a ciascuno - anche al legislatore - le sue responsabilità, in “Le Reg.”, 1989, 1808; Travi, Sospensione cautelare del pubblico impiegato per procedimento penale, e destituzione per condanna penale: problemi non risolti, in “Giur. Cost.”, 1989, I, 2730; id., Rilevanza della questione di legittimità costituzionale di disposizioni abrogate e destituzione di diritto del pubblico dipendente, in “Giur. Cost.”, 1992, 3482; Virga (Giov.), Revirements della Corte Costituzionale e conseguenze della pronuncia di incostituzionalità della destituzione di diritto nel campo del pubblico impiego, in “Foro. It.”, 1989, 24.

In modo analogo, la dottrina è intervenuta sulla successiva sentenza 27/4/1993 n. 197. per tutti, In dottrina: Marsili, La destituzione dei pubblici dipendenti in “Nuova Rass.”, 1991,  1818; Nobile, La destituzione del pubblico dipendente: spunti per una riflessione, in “Riv. Amm.”, 1991, 1490; Pone, La destituzione dei pubblici dipendenti dopo le modifiche introdotte dall’art. 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19 ed alla luce dei rapporti intercorrenti tra il procedimento disciplinare e la nuova disciplina del processo penale, in “Riv. Amm.”, 1991, 2194; Raimondi, Esiste ancora la destituzione di diritto?, in “Foro Amm.” 1992, 2088.

[51] Corte Cost. 19/12/1986 n. 270, in “Giust. Cost.”, 1986, I, 2212; Corte Cost. 3/12/1987 n. 447, in “Giust. Cost.”, 1987, I, 2299.

[52] C.f.r. nota 49.

[53] Le ipotesi de quibus sono rigidamente predeterminate dalla disciplina i comparto a livello di contrattazione collettiva nazionale. Per il comparto regioni – Enti locali, si vedano i commi 6 e 7 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, i commi 4 e 5 del c.c.n.l. del 16/5/1995.

[54] Sulle sanzioni penali accessorie in ámbito disciplinare, per tutti, si possono vedere Antolisei, Manuale di diritto penale parte generale, Giuffrè, Milano, 1982, 625; Mantovani, Diritto penale, Giuffrè, Milano, 1979, 699.

[55] Il riferimento alle due disposizioni del codice penale non pone problemi interpretativi di sorta, giacché riguardano l’ipotesi di interdizione perpetua e temporanea dai pubblici ufficî.

[56] Sulla sentenza di patteggiamento della pena in ámbito penale, com’è facilmente intuibile, la letteratura è davvero sterminata. La stessa idea di patteggiamento della pena ha la propria derivazione giuridico-sistematica dal plea bargaining  previsto dall’ordinamento processuale penalistico statunitense, come è efficacemente dimostrato da Gambini Musso, Il “plea bargaining” tra common law e civil law, Giuffrè, Milano, 1985. 

L’estraneità dell’istituto alla tradizione è ben compendiato da Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/04/1997, n. 3600, in “Foro It.” 1997, II, 457, con nota di Di Ghiara ed in “Giust. Pen.” 1998, II, 13, la quale parla esplicitamente di un provvedimento giurisdizionale conclusivo di “ Un procedimento che, per poter avere concreta prospettiva applicativa in chiave deflattiva non poteva non presentarsi con connotati di spiccata eccentricità rispetto al sistema processuale, anche perché privo di concrete radici nella nostra tradizione culturale e scientifica”.  

[57] Sulla natura della sentenza di patteggiamento si sono formati differenti orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, sintomo della difficoltà di inquadrarla in modo univoco nella sistematica processual-penalistica enucleata dalla tradizione.

Sull’intera vicenda è piú volte intervenuta la Corte Costituzionale, la quale ha escluso che la sentenza con cui viene disposta l’applicazione della pena su richiesta di una delle parti abbia natura di sentenza con la quale viene accertata la responsabilità penale dell’imputato. Per tutte, si veda Corte Cost. 8/9/1990 n. 66, in “Giur. Cost.”, 1990, I, 274; veda Corte Cost. 3/7/1990 n. 313, in “Giur. Cost.”, 1990, I, 1981; Corte Cost. 6/6/1991 n. 251, in “Giur. Cost.”, 1991, I, 2056; Corte Cost. 13/5/1995 n. 155, in “Giur. Cost.”, 1996, I, 1464.

[58] Di qui una prima notazione essenziale: la richiesta di patteggiamento della pena in ambito penale consente all’imputato sicuro di essere condannato al una sanzione principale di non incappare in sanzioni accessorie che sovente sono maggiormente afflittive della sanzione cui accedono. Ciò è di particolare importanza proprio in tema di relazioni fra procedura disciplinare ed esito del processo penale, in quanto l’esito positivo della richiesta di patteggiamento evita la possibilità di incorrere, ricorrendone i presupposti, nella misura espulsiva dell’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro previa procedura disciplinare prevista dall’art. 5 della legge 23/3/2001 n. 97. Il patteggiamento della pena, poi, conduce all’estinzione del reato all’esito positivo di un periodo di osservazione, in modo del tutto simile a quanto si verifica per la sospensione condizionale della pena.

[59] Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/4/1997 n. 3600, cit.

[60] Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/4/1997 n. 3600, cit.

[61] Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/4/1997 n. 3600, cit.

[62] Le ipotesi, giova rammentarlo sono quelle in cui l’attivazione della procedura disciplinare è anche momento di emergenza dell’illecito penale, talché l’autorità disciplinare avvia la procedura, trasmette gli atti al pubblico ministero e la sospende per effetto della pregiudiziale, ovvero la responsabilità penale emerge nel corso di una procedura disciplinare già avviata, talché l’autorità che la conduce procede alla sua sospensione ed alla remissione degli atti al pubblico ministero.

[63] Questo è il caso in cui la pubblica amministrazione in cui è strutturato ed incardinato il pubblico dipendente non ha comunque ricevuto comunicazione in merito alla pendenza di un processo penale, talché di esso viene a conoscenza solo alla sua ultimazione. In questo caso, la comunicazione della sentenza di condanna ha una funzione del tutto simile al rapporto del capo struttura, il quale obbliga l’autorità disciplinare ad attivare la relativa procedura nel termine perentorio di venti giorni dalla sua ricezione.

[64] Corte cost. 28/5/1999 n. 197, loc. cit..

[65] La differenza fra le due evenienze è stata ben posta in luce dalla recente sentenza del T.A.R. Lazio, sez. I bis 8/4/2002 n. 2896, in www.lexitalia.it 4, la quale ha osservato che “nella sentenza di patteggiamento, occorre infatti distinguere i due diversi profili dell' «affermazione di responsabilità» (dispositivo) e dell' «accertamento di responsabilità» (motivazione): il secondo dei quali, al pari del primo, immancabile, ma in concreto più o meno esaustivo a seconda della maggiore o minore completezza delle indagini del Pubblico ministero.

Deve quindi ritenersi che, in sede di procedimento disciplinare a seguito di sentenza di patteggiamento, in nessun caso l'Amministrazione possa recepire acriticamente l'«affermazione di responsabilità» contenuta nella pronuncia penale, dovendo invece valutarne l'«accertamento di responsabilità», la cui utilizzabilità in quanto tale e come fonte esclusiva di convincimento transita, con ogni evidenza, attraverso la verifica della completezza di detto accertamento (in caso contrario, incombendo all'Amministrazione il compimento di tutti gli accertamenti che il caso richiede).

Non può quindi escludersi che, a seguito della sentenza di patteggiamento, l'Amministrazione abbia necessità, in sede disciplinare, di compiere autonomi accertamenti: con la conseguenza che, se la sentenza di patteggiamento non sempre e in ogni caso comporta la necessità di nuovi accertamenti in sede disciplinare, questi ultimi possono - o meno - essere necessari, a seconda del concreto atteggiarsi dell'accertamento penale posto a base della sentenza”.

[66] Tutto ciò rende evidente che la richiesta di applicazione della pena ad istanza dell’imputato sovente risponde non ad esigenze di giustizia, ma a motivazioni e finalità metagiuridiche, sovente non proprio commendevoli, quali il contenimento delle spese di giudizio.

[67] Il riferimento al “gioco del processo” non deve stupire. Il processo altro non è che una procedura convenzionale, tale stabilita in una data realtà storica, normata nel modo e per le stesse finalità con le quali è disciplinata qualunque manifestazione ludica. Il questo senso, “le regole definiscono il gioco”, il quale produce una verità en e pour una convenzione. In questo modo, ogni regola del processo assomiglia ad un pezzo del gioco degli scacchi, mentre la sua utilizzazione assomiglia piú propriamente ad una mossa in tale gioco. E volutamente non si è parlato di "mossa" in prima battuta, giacché tale termine è propriamente riferito a spostamenti spazio-temporali dei pezzi del gioco in conformità alle regole del gioco stesso. Di conserva, è bene evidenziare che lo stesso termine "pezzo" è plurivoco, in quanto ad esso è propria una definizione in termini fattuali, e quindi neutra ed una definizione che a buon diritto può dirsi "istituzionale".

Nel primo senso, esso è puramente e semplicemente un oggetto definito dai suoi confini fisici. Nel secondo senso, esso è il luogo delle regole che ne definiscono le potenzialità in e per il gioco. Su tutto ciò si veda Mazzarese, Antinomie, paradossi, logica deontica, in "Riv.Int.Fil.Dir.", 1987, 438; Conte (A.G.), Konstitutive Regeln und Deontik, in Morsher e Stanzinger (ed.), Etik. Akten des funfter internazionalen Wittgenstein-Symposium, Wien, 1981; Conte (A.G.), Paradigmi d'analisi della regola in Wittgenstein, loc.cit.. A differenza delle entità ludiche, per il gioco del processo non è rinvenibile alcuna definizione neutra. Per essa può solo essere proposta una definizione in termini istituzionali, da regole costitutive per l’appunto.

La tematica delle regole costitutive, della loro genesi, delle loro differenze tipologiche, nonché delle loro strettissime relazioni con le problematiche legati ai giochi sono magistralmente trattate da Conte (A.G.), Codici deontici, in Intorno al codice, La Nuova Italia, Firenze,  1970, 13-25; Paradigmi dell'analisi della regola in Wittgenstein, in Egidi (ed.), Wittgenstein. Momenti di una critica del sapere, Guida, Napoli, 1982, 37-82; Regola costitutiva, condizione, antinomia, in Scarpelli (ed.), La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio., Milano, Comunità, 1983, 21-39; Conte (A.G.), Materiali per una tipologia delle regole, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", 15, 1985, 345-368.

[68] In definitiva, come bene osserva T.A.R. Lazio, sez I bis 8/4/2002 n. 2896, loc. cit., al contenuto della sentenza di patteggiamento può essere fatto utile riferimento solo osservando che “se è vero che ai fini del giudizio disciplinare a carico del pubblico dipendente non è sufficiente, per affermarne la responsabilità, il solo fatto della condanna patteggiata (dovendo l'Amministrazione procedere ad un'autonoma valutazione della rilevanza dei fatti), è altrettanto vero che a tale pronunzia penale si può tuttavia fare riferimento per ritenere accertati quei fatti che, emersi nel giudizio penale, o non siano contestati, oppure, in base ad un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente”. In termini, si vedano Cons. Stato  sez. V 28/12/2001 n. 6455, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2755; Cons. stato sez. IV 6/10/2001 n. 5284, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2274.

[69] Il problema si poneva nei medesimi termini nella vigenza del D.P.R. 10/1/1977 n. 3, il quale prevede per il termine della definizione del procedimento disciplinare in via generale un termine di piú ampio di quello di 90 giorni.

[70] Corte cost. 28/5/1999 n. 197, in www.lexitalia.it

[71] In questo senso, l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto Regioni – Enti locali; per il comparto Ministeri, si veda l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 16/5/1995.

[72] Per tutti, Cons. Stato sez. VI 8/2/2001 n. 556, in “Cons. Stato”, 2001, I, 224; Cons. Stato sez. I parere 16/5/2001 n. 448/2001, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2561.


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