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SOMMARIO: 1. L’interferenza del processo penale sulla procedura disciplinare. Introduzione. - 2. Le ipotesi in cui si configura l’interferenza. Gli interventi del legislatore. - 3. Il primo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare. - 4. Il secondo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare. - 5. Il terzo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare. - 6. La consumazione della pregiudiziale penale e le fattispecie rilevanti. La riassunzione, i termini ed il completamento della procedura disciplinare. - 7. La sentenza assolutoria. - 8. La sentenza di condanna. Il divieto degli automatismi espulsivi. - 9. La sentenza di patteggiamento.
1.
L’interferenza del processo penale sulla procedura disciplinare. Introduzione.
L’interferenza
fra procedura disciplinare [1]
e processo penale è un’evenienza di sicura rilevanza che si configura, come
meglio sarà evidenziato nel prosieguo, in modo non semplice, ma almeno
triplice, e trova la propria scaturigine quando un medesimo fatto può essere
molteplicemente qualificato da norme poste a tutela di differenti interessi
entrambi giuridicamente rilevanti, e quindi, nel caso di specie, quando la
condotta del pubblico dipendente concretizza simultaneamente violazione sia di
doveri di servizio [2],
sia di specifici precetti penali [3].
Di qui la possibilità di specifiche relazioni fra responsabilità disciplinare
e responsabilità penale, e quindi fra procedure sanzionatorie differenti,
ancorché non irrelate.
La
presenza nell’ordinamento complessivamente inteso di una molteplicità di
forme di responsabilità può essere esemplificata in termini puramente
logico-formali mediante una precisa locuzione sintagmatica, la quale ha il
vantaggio di spiegare in termini assiomatici e quindi neutri l’intensione e
l’estensione della categoria giuridica della responsabilità tout court.
In
particolare, la categoria giuridica della responsabilità può essere utilmente
indagata rappresentandola nei termini di una relazione di implicazione
necessaria [4],
del tipo “{[-(Op)→□S) & -(Op)] → □S}”, laddove
“p” è l’azione che un dato soggetto agente deve tenere, “O” la sua
obbligatorietà, “-(Op)” rappresenta la violazione della norma “Op”,
“□” denota la necessarietà, “S” la sanzione prevista
dall’ordinamento, e “→” l’implicazione necessaria [5].
Il
sintagma “{[-(Op)→□S) & -(Op)] → □S}”, può
pertanto essere letto nei termini seguenti: se una data norma “Op” che
qualifica come obbligatoria una data azione viene violata, allora segue
necessariamente la sanzione S [6].
Dall’interpretazione
della formula si ricava agevolmente che le conseguenze in termini giuridici
della violazione di un obbligo che ha ad oggetto una medesima azione sono una
funzione, ossia una variabile dipendente, della tipologia della sanzione “S”
che l’ordinamento ad essa riconnette, e che quindi data la molteplicità delle
tipologie delle sanzioni ammesse in un dato ordinamento giuridico, una medesima
azione può simultaneamente costituire il presupposto logico della comminazione
di più sanzioni, il che, detto altrimenti, significa che una medesima condotta
può dare luogo a molteplici forme di responsabilità.
In
questo modo, se “S”, ossia la sanzione ordinamentalmente prevista, è una
sanzione penale, la violazione del precetto “Op” dà luogo a responsabilità
penale, mentre, in modo del tutto speculare, se la sanzione “S” è di natura
disciplinare, la violazione del precetto “Op” dà luogo a responsabilità
qualificata in tali termini, in quanto concretizza una violazione del codice
disciplinare [7]
[8].
Guardando
allo sviluppo storico delle relazioni fra responsabilità penale e responsabilità
disciplinare, e quindi in presenza della concomitante violazione di più
interessi violati definiti in tale modo, l’ordinamento da sempre ha optato per
la pregiudiziale penale, e quindi ha sempre inteso far dipendere, sia pure in
vario modo [9],
l’esito del procedimento o della procedura [10]
disciplinare dalla previa definizione del processo penale rispetto al quale il
primo o la prima sono connessi.
L’attuale
disciplina della pregiudizialità del processo penale rispetto alla procedura
disciplinare è molteplicemente articolata e variamente distribuita nell’ambito
di varie fonti di regolazione, delle quali solo talune sono vere e proprie
fonti-atto nel senso previsto dall’art. 1 delle disposizioni preliminari al
codice civile [11].
Di pregiudiziale penale, infatti, trattano sia norme di legge, sia norme della
contrattazione collettiva nazionale di comparto, le quali ultime, come è noto,
non sono fonti-atto dell’ordinamento, quantunque ad esse sia specificamente
commessa la regolamentazione di specifici rapporti giuridici [12].
La
sistematica attuale della pregiudiziale penale rispetto alla procedura
disciplinare non si discosta molto da quella normata dal D.P.R. 10/1/1957 n. 3,
prima vera e propria disciplina organica del rapporto di pubblico impiego [13],
dalla quale, per contro, ha mutuato peculiarità e caratteristiche salienti.
La
continuità sostanziale fra l’ordinamento previgente al D.Lgs. 3/2/1993 n. 29
e quello successivo alla depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego in
esso contenuta è dimostrabile osservando che l’art. 117 del D.P.R. 10/1/1957
n. 3 prevedeva in termini espliciti che qualora un medesimo comportamento tenuto
dal pubblico dipendente avesse contravvenuto simultaneamente sia a norme penali
e sia alle specifiche norme a tutela dei doveri di servizio, la prosecuzione o
l’avvio del procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere subordinata alla
previa definizione con sentenza passata in giudicato del relativo processo
penale comunque interconnesso [14].
Come si desume analizzando l’attuale
ordinamento disciplinare, la regola della pregiudizialità penale è stata
mantenuta anche dopo la depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, e
quindi anche dopo che le varie fattispecie in cui essa si articola sono state
enucleate e definite dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, in
applicazione dell’art. 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
Superato l’art. 117 del D.P.R.
10/1/1957 n. 3, la normativa rilevante in
subiecta materia è ora quella prevista nello specifico dai varî contratti
collettivi nazionali di comparto [15],
cui si affiancano gli artt. 9 e 10 della legge 17/1/1990 n. 19 e l’art. 5,
comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97.
2.
Le ipotesi in cui si configura l’interferenza. Gli interventi del legislatore.
Ferma restando la pregiudizialità del
processo penale sulla procedura disciplinare, le ipotesi in cui tale evenienza
può in concreto verificarsi, come cennato di passaggio, sono tre.
Il primo caso in cui la pregiudiziale in
esame sicuramente sussiste è disciplinato dalle fonti contrattuali [16],
e si configura ogni qualvolta la scaturigine della procedura disciplinare è un
fatto riconducibile in via immediata ad una fattispecie penalmente rilevante.
L’evenienza, per essere più precisi, si configura quando l’autorità
disciplinare ritiene che il fatto per il quale sta per attivare la misura
reattiva a presidio del corretto adempimento della prestazione lavorativa è in
contrasto anche con una norma penale, in quanto offende uno specifico interesse
tutelato in tale ambito.
La seconda ipotesi di interferenza è
parimenti disciplinata dalle fonti contrattuali collettive nazionali [17],
e si configura quando la commissione del reato si appalesa durante il corso di
una procedura disciplinare già regolarmente avviata dall’autorità
competente.
La terza ipotesi di interferenza si
configura quando la violazione dei doveri di servizio contenuti nel codice
disciplinare [18]
emerge dopo la formazione del giudicato sul processo penale che sia stato
autonomamente avviato e condotto a termine senza che la pubblica amministrazione
datrice di lavoro ne sia stata comunque interessata ed informata [19].
Accanto ai tre tipi di concomitanza
appena evidenziati, che afferiscono propriamente alle ragioni
dell’interferenza fra i due ambiti sanzionatorî, ne sussiste un quarto, il
quale riguarda il suo modo, ossia gli effetti della sentenza penale di
assoluzione e di condanna sulla procedura disciplinare, con particolare
riferimento all’automatico riversamento delle risultanze della prima sulla
seconda.
La materia dell’interferenza fra
processo penale e procedura disciplinare è stata fatta oggetto di molteplici
interventi legislativi, sia a carattere generale, sia di tipo settoriale, nonché
di pronunce della Corte costituzionale che sono intervenute in materia di
termini per la riassunzione del procedimento disciplinare [20]
ed in materia di divieto degli automatismi espulsivi e di conseguenziale
necessità di collocare la comminazione delle sanzioni disciplinari nel loro
luogo naturale: il procedimento disciplinare [21].
Cosí, in primo luogo, il legislatore è
intervenuto in modo non semplice, ma duplice con la legge 17/1/1990 n. 19, in
tema sia di riassunzione del procedimento disciplinare successivamente alla
formazione del giudicato penale di condanna, sia in materia di divieto degli
automatismi espulsivi.
In secondo luogo, il legislatore ha
normato parte della materia con la legge 27/3/2001 n. 97 in riferimento sia ai
termini per la riassunzione della procedura disciplinare in pendenza del
processo penale, sia in materia di vincolatività della sentenza penale nella
procedura disciplinare, sia, infine, in relazione alle ripercussioni del
patteggiamento della pena in sede penale sulla responsabilità disciplinare [22].
3.
Il primo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare.
La prima ipotesi di interferenza fra
processo penale e procedura disciplinare è disciplinata dalla contrattazione
collettiva nazionale di comparto, ed ha ad oggetto il caso in cui l’avvio
della procedura disciplinare trova il proprio fondamento in un fatto che
costituisce reato, talché la contestazione degli addebiti assolve alla duplice
funzione di avvio della procedura disciplinare e di momento di emergenza
dell’ipotesi di illecito penale mediante obbligo di denuncia [23]
e quindi di una vera e propria notizia
criminis.
In questo primo caso, l’ufficio di
disciplina deve procedere senza indugio alla contestazione degli addebiti,
disponendo, peraltro, subito sia la sospensione della procedura disciplinare,
sia l’immediata trasmissione della notizia
criminis al pubblico ministero territorialmente competente al fine di
rispettare la pregiudiziale penale, salvo riassume la prima entro il termine
previsto dalla normativa di settore una volta conclusa la relativa vicenda [24].
La riassunzione deve essere perfezionata mediante l’adozione di
una atto esplicito [25]
entro i termini perentorî previsti dalla disciplina di settore, la quale si
rinviene nella specifica normativa contrattale di comparto [26]
e negli artt. 9, comma 2 e 10, comma 3 della legge 7/2/1990 n. 19 in via
generale, salve le eccezioni previste dall’art. 5, comma 5 della legge
27/3/2001 n. 97, limitatamente ai reati indicati nel suo art. 3, comma 1 [27].
I termini, sulla conformità a
Costituzione dei quali ha avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale con
sentenza 28/5/1999 n. 197 [28],
sono quindi in via generale di 180 giorni per la riassunzione della procedura
disciplinare [29]
e di 90 giorni per la sua definizione; essi decorrono dalla data dall’avvenuta
piena conoscenza della sentenza da parte del responsabile dell’ufficio di
disciplina perché formalmente comunicata dalla cancelleria del giudice penale.
Ovviamente, la sentenza di cui è caso deve essere passata in giudicato e munita
della relativa clausola di esecutività.
Il dies
a quo decorre, più precisamente, dal momento in cui la sentenza passata in
giudicato e munita della relativa clausola di esecutività è formalmente
pervenuta al responsabile dell’ufficio di disciplina, ed è quindi nella sua
piena disponibilità [30].
La riattivazione si perfeziona con la
riassunzione della procedura, e quindi entro il relativo termine deve essere
adottato l’atto datoriale che la dispone, senza che nel medesimo termine debba
essere perfezionata anche la sua relativa consegna al dipendente.
La procedura disciplinare, una volta
effettuata la sua riassunzione nei termini appena visti, deve essere conclusa
entro il termine di 90 giorni, con l’adozione dello specifico atto di
comminazione della sanzione, eventualmente anche patteggiata ai sensi
dell’art. 55, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 [31]
I termini di riassunzione e di
conclusione della procedura disciplinare sono invertiti nel caso in cui i fatti
di reato rilevanti siano riconducibili ad una delle ipotesi previste dall’art.
3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97. La riassunzione della procedura
disciplinare, in questo caso, deve essere perfezionata entro 90 giorni, ed essa
deve essere conclusa entro 180 giorni. Anche in questo caso, i termini della
procedura decorrono dal concretizzarsi dei medesimi eventi precedentemente
illustrati.
I termini previsti dalle specifiche
normative di settore sono perentorî, come del resto ha più volte avuto modo di
pronunciarsi la giurisprudenza nella vigenza della legge 7/1/1990 n. 19 [32],
in quanto posti a tutela del principio di certezza della definizione di rapporti
giuridici sottostanti, la cui disciplina ed il cui governo costituiscono
specificazione di potestà rimesse in via esclusiva alla pubblica
amministrazione perché estrinsecazione della potestà di autoorganizzazione al
pari di qualunque datore di lavoro [33].
4.
Il secondo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare.
La seconda ipotesi di interferenza fra
processo penale e procedura disciplinare si configura quando la commissione del
reato interconnesso si appalesa durante il corso di una procedura disciplinare
già regolarmente avviata mediante specifica contestazione degli addebiti al
pubblico dipendente incolpato [34]
secondo la normativa contrattuale di comparto di volta in volta rilevante.
In questo caso, il responsabile
dell’ufficio di disciplina deve procedere all’immediata sospensione della
relativa procedura sanzionatoria, sempre al fine di rispettare la pregiudiziale
penale in subiecta materia, salvo
riassumerla entro il termine previsto dalla normativa di settore nei modi e nei
termini già evidenziati nella precedente partizione, alla quale si rimanda in
toto.
5.
Il terzo caso di interferenza fra processo penale e procedura disciplinare.
La
terza ipotesi di interferenza in subiecta
materia si configura quando la violazione dei doveri di servizio da parte
del pubblico dipendente emerge dopo la formazione del giudicato a conclusione
del processo penale che sia stato autonomamente avviato e condotto a compimento
definitivo senza che la pubblica amministrazione ne sia stata interessata o
comunque resa partecipe [35].
In questo caso, il responsabile
dell’ufficio di disciplina deve procedere a pena di decadenza all’avvio
della procedura disciplinare entro il termine previsto dalla relativa
contrattazione collettiva nazionale di comparto, ossia entro 20 giorni dalla
data della conoscenza della sentenza penale di condanna [36].
Anche in questo caso fa eccezione la
procedura di attivazione prevista dall’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001
n. 97, la quale, peraltro, come più volte evidenziato, opera solo per i reati
indicati al suo art. 3, comma 1. In questo caso, il termine di avvio della
procedura disciplinare è di 90 giorni dal perfezionamento della cognizione
della sentenza penale di condanna formalmente comunicata dalla cancelleria del
giudice a quo, fermo restando che essa
deve essere conclusa entro 180 giorni dalla data del perfezionamento degli
effetti recettizî della contestazione degli addebiti nei confronti del pubblico
dipendente incolpato.
In questa terza ipotesi di interferenza, l’avvio della procedura
disciplinare sulla base della sentenza penale soggiunta non si discosta
concettualmente da quanto previsto in via generale dalla normativa in materia di
contestazione di addebiti.
Qui la differenza specifica rispetto alla disciplina generale è
data dal fatto che la rappresentazione dei fatti e la loro riferibilità al
dipendente incolpato sono delineati in modo definitivo dalla sentenza penale
passata in giudicato, rispetto alla quale l’ufficio di disciplina è
vincolato, salvo sempre l’autonomo apprezzamento dello specifico disvalore
effettuato assumendo come paradigma di giudizio il codice disciplinare.
6. La consumazione della pregiudiziale penale
e le fattispecie rilevanti. La riassunzione, i termini ed il completamento della
procedura disciplinare.
Una
volta che il processo penale si è completato con il formarsi del giudicato
sulla relativa pronuncia definitiva, sia essa di assoluzione piuttosto che di
condanna, si consuma la pregiudiziale penale rispetto alla procedura
disciplinare.
In
relazione a tale evenienza si pone il problema della portata degli effetti
preclusivi che la sentenza penale definitiva ha rispetto alle procedure
sanzionatorie di tipo disciplinare, e quindi del margine di apprezzamento che
residua in capo alla pubblica amministrazione in subiecta materia.
Poiché
la logica del processo penale riferita giudizio in termini di illiceità di un
determinato fatto è binaria, e culmina in senso positivo o negativo per
l’imputato, a seconda che questi venga condannato o meno, un primo ordine di
problemi che si pone all’interprete è quello di stabilire quale sia
l’effettiva portata dell’effetto preclusivo che hanno le sentenze di
assoluzione fermo restando che l’assoluzione può intervenire sia sul fatto,
sia per effetto della qualificazione del fatto.
Un
secondo ordine di problemi è poi quello speculare della rilevanza delle
sentenze di condanna definitive e delle sentenze con pena patteggiata [37].
Strettamente
connesso a quest’ultima eventualità è la necessità che l’ufficio di
disciplina proceda alla riassunzione o all’attivazione con contestazione degli
addebiti entro i termini decadenziali previsti, a seconda dei casi, o dalla
specifica normativa desunta dalla contrattazione collettiva nazionale di
settore, ovvero dagli artt. 9, comma 2 e 10, comma 3 della legge 7/2/1990 n. 19
in via generale, salve le eccezioni previste dall’art. 5, comma 5 della legge
27/3/2001 n. 97, limitatamente ai reati indicati nel suo art. 3, comma 1.
Dal
punto di vista procedurale, la riassunzione della procedura disciplinare una
volta consumata la pregiudiziale penale è rigidamente normata dalle fonti
pattizie e da quelle legislative.
Così, in primo luogo, la procedura
disciplinare connessa con un procedimento penale comunque attivata ed
incidentalmente sospesa deve essere riassunta entro 180 giorni dalla data in cui
la pubblica amministrazione ha avuto conoscenza della sentenza definitiva [38].
L’ipotesi avuta presente dalla fonte di regolazione pattizia è chiaramente
riferita all’ipotesi in cui l’ufficio di disciplina abbia attivato la
relativa procedura a fronte di un fatto che costituisce ictu oculi violazione cumulativa sia di una norma penale, sia di una
norma del codice disciplinare, caso nel quale la contestazione degli addebiti
assolve al duplice scopo sia di attivazione della pretesa punitiva nel secondo
ambito, sia di momento di concretizzazione di una specifica notizia
criminis, nonché al caso in cui la procedura disciplinare sia stata sospesa
successivamente al suo avvio in quanto le ragioni dell’interferenza penale si
sono concretizzate in un momento successivo alla sua attivazione.
In secondo luogo, la procedura
disciplinare connessa ad un processo penale afferente ad uno dei reati previsti
dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97 deve essere riassunta, nel
caso della sua previa attivazione e successiva sospensione ovvero avviata ex
novo, entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione della sentenza
penale di condanna alla pubblica amministrazione e deve concludersi, salvi
differenti termini previsti in modo specifico ed esplicito dai contratti
collettivi nazionali, entro 180 giorni dal termine di inizio o di prosecuzione
del procedimento disciplinare stesso, secondo quanto prevede l’art. 5, comma 4
della legge 27/3/2001 n. 97.
In terzo luogo, la procedura disciplinare
connessa ad un processo penale del cui esito la pubblica amministrazione sia
venuta a conoscenza solo dopo la sua ultimazione deve essere attivata a pena di
decadenza entro 20 giorni dal momento in cui l’autorità disciplinare ha avuto
comunicazione della sentenza di condanna [39],
salvo il caso in cui il reato sia riconducibile ad una delle fattispecie di cui
all’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97.
Con riferimento alle varie scansioni
temporali che concorrono a definire il modo mediante il quale opera la
riassunzione, l’attivazione, ovvero la conclusione della procedura
disciplinare in subiecta materia
sorgono specifici problemi di ordine logico-giuridico, sui quali è
necessario soffermarsi.
Cosí, in primo luogo, di natura ambigua è il termine di
attivazione della procedura disciplinare entro 20 giorni dalla data di
conoscenza della sentenza penale definitiva quando essa sia l’elemento che ne
genera l’avvio nei termini da ultimo elucidati.
Per l’ipotesi de qua il momento del decorso del termine coincide con la conoscenza
della sentenza di condanna passata in giudicato. Per ragioni di tipo
sistematico, il termine de quo non può
che essere considerato perentorio, in quanto la comunicazione della sentenza di
condanna assolve alle medesime funzioni del rapporto amministrativo del capo
struttura [40]
al titolare dell’ufficio disciplinare, il quale ultimo deve procedere alla
relativa contestazione degli addebiti.
Il dies
a quo decorre piú precisamente dal momento in cui la sentenza passata in
giudicato e munita della relativa clausola di esecutività è formalmente
pervenuta al titolare dell’ufficio di disciplina.
L’attivazione si perfeziona con la
contestazione degli addebiti, e quindi entro il relativo termine deve essere
perfezionata la fase dell’adozione del relativo atto, senza che entro il
termine di 20 giorni debba essere altresì perfezionata anche la consegna al
dipendente dell’atto con cui essa è disposta, quantunque essa abbia natura
intrinsecamente recettizia [41].
Considerazioni del tutto analoghe valgono
sia per le ipotesi delineate dagli artt. 9, comma 2 e 10 comma 3 della legge
7/2/1990 n. 19, sia per quelle avute presenti dall’art.5, comma 4 della legge
27/3/2001 n. 97, indipendentemente dalla differente distribuzione dei termini di
90 e 180 giorni in esse prevista [42].
Anche in questo caso, pertanto, la
riassunzione o l’attivazione del procedimento disciplinare deve essere attuata
con un apposito atto di riattivazione ovvero con una contestazione degli
addebiti ex novo debitamente
perfezionata con la relativa consegna al dipendente ferma sempre la conclusione
della procedura disciplinare nei termini previsti dalla specifica disciplina di
settore.
Quanto ai termini di riassunzione o di attivazione, essi decorrono dall’avvenuta piena conoscenza da parte del responsabile dell’ufficio per le procedure disciplinari, perché formalmente comunicata dalla cancelleria del giudice penale la relativa sentenza passata in giudicato e munita della relativa clausola di esecutività.
Quanto ai termini di conclusione delle
procedure disciplinari riattivate o avviate ex
novo a séguito della consumazione della pregiudiziale penale, non può non
essere osservato che non sussiste piena sovrapposizione fra di essi e
l’ordinario temine di ultimazione fisiologico di 120 giorni previsto dalla
specifica normativa di settore a livello di contrattazione collettiva nazionale
di comparto [43].
Il
problema interpretativo appena adombrato può essere risolto osservando che la
normativa in materia di attivazione o riattivazione della procedura disciplinare
una volta consumata la pregiudiziale penale ha natura di lex specialis in relazione alla materia che ne costituisce oggetto,
talché prevale sui contenuti dalla normativa ordinaria, che, in aggiunta, non
è fonte di diritto in quanto avente natura contrattuale.
Così, in primo luogo, il termine di 90 giorni avuto presente dalla legge 7/2/1990 n. 19 per le ipotesi in cui sia caso di una sanzione disciplinare di tipo espulsivo è l’unico applicabile all’ipotesi in esame, senza che possa in alcun modo essere sostenuto che la definizione del relativo procedimento disciplinare può essere protratta fino allo spirare del termine di 120 giorni previsto dalla contrattazione collettiva nazionale in via generale [44].
Differente è il caso previsto
dall’art. 5, comma 4 della legge 27/3/2001 n. 97, il quale prevede che la
conclusione del procedimento disciplinare connesso a taluni dei reati previsti
dal suo art. 3, comma 1 debba essere ultimato entro 180 giorni dalla
riassunzione o dall’attivazione, salvo che un differente termine non sia
previsto dalla contrattazione collettiva nazionale. In questo caso, il
legislatore ha indebolito la cogenza della norma, prevenendo che un atto
pattizio possa individuare termini differenti da quello specifico di 180 giorni.
E’ pertanto onere specifico parti della suddetta contrattazione operare in
tale senso, osservando peraltro che l’intervento deve afferire strettamente
all’ipotesi in esame, in assenza di che si è in presenza di una chiara
violazione dell’art. 8 della legge 27/2/2001 n. 97 [45].
Da ciò si conclude che non costituisce affatto attuazione dell’art. 5, comma 4 della presente legge il richiamo al termine generale di 120 giorni previsto dalla disciplina normativa contrattuale nazionale di comparto per carenza del requisito della specificità.
7. La sentenza assolutoria
Come
si è avuto modo di evidenziare sia pure di passaggio, la sentenza assolutoria
può avere contenuto duplice. Essa, infatti, può riguardare sia il fatto, ossia
un accadimento collocato nel tempo e nello spazio, ed allora mette capo ad un
giudizio di tipo storico, sia la qualificazione del fatto, ed allora presuppone
un giudizio valutativo su di un fatto comunque accertato e quindi ascritto e
riferito all’imputato.
La
materia è ora normata dall’art. 653 c.p.p. nel testo modificato dall’art. 1
della legge 27/3/2001 n. 97, il quale prevede che la sentenza penale
irrevocabile ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità
disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il
fatto non sussiste, non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non
lo ha commesso.
Dall’analisi
della normativa appena richiamata è possibile trarre una prima conclusione,
ossia che non tutte le sentenze definitive assolutorie esplicano davvero effetti
preclusivi sulle procedura disciplinare proprio perché differente è
l’oggetto cui esse afferiscono. Detto altrimenti, la preclusività della
sentenza penale di assoluzione è una variabile dipendente, e quindi una
funzione, del suo contenuto in concreto, e quindi della sua motivazione.
Effetti
autenticamente preclusivi sono esplicati solo dalle sentenze sul fatto, ossia
quelle emesse perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso.
In questo caso è del tutto evidente che l’esito del processo penale mette
capo ad un giudizio storico in termini vero-funzionali sull’essere o meno
avvenuta una data azione o omissione originariamente ascritta al dipendente
pubblico, e che l’accertamento negativo di esso non può che riversarsi
automaticamente nella procedura disciplinare proprio per effetto della
pregiudiziale penale [46].
Del
pari è evidente che la sentenza assolutoria resa “perché il fatto non
costituisce reato” non ha effetti vincolanti sulla procedura disciplinare, se
non in relazione all’accertamento del fatto in quanto nulla toglie che il
medesimo fatto, il cui accadimento è stato comunque accertato dal punto di
vista storico, possa configurare violazione del codice disciplinare, con
conseguente obbligo di attivare o di riassumere la relativa procedura
sanzionatoria [47].
In
quest’ultimo caso, sulla pubblica amministrazione grava l’onere di
riassunzione o attivazione della procedura disciplinare, nonché quello del
tutto conseguenziale della sua definizione nel rispetto della normativa di
riferimento piú volte richiamata e quindi dei termini perentorî
ordinamentalmente previsti.
Dal
punto di vista procedurale, l’ufficio di disciplina, una volta acquisita la
sentenza penale di assoluzione con formula piena sul fatto, non può fare altro
che prendere atto degli effetti preclusivi proprî del provvedimento
giurisdizionale de quo, disponendo il
non luogo a procedere a séguito della formazione del giudicato sulla condotta
del pubblico dipendente cosí assolto, in quanto non a lui riferibile in un modo
purchessia.
Differente,
per contro, è il caso in cui la sentenza assolutoria ha a proprio fondamento
non un giudizio sul fatto, ma una valutazione in termini di non illiceità
penale del fatto stesso comunque oggetto di specifico accertamento in sede
penale.
In
questo caso, il fatto, ancorché non penalmente illecito, può essere ciò
nondimeno, rilevante ai fini disciplinari, il che significa che la relativa
procedura deve essere riassunta o attivata nei termini previsti dalla
contrattazione collettiva nazionale di settore o dalla normativa specifica di
riferimento a pena di decadenza e che il fatto accertato nei modi e nei termini
che sono scaturiti dal processo penale deve essere posto in relazione con il
codice disciplinare per essere valutato alla sua stregua.
Del
resto la rilevanza di giudicato perché il fatto non costituisce illecito penale
nei modi indicati dall’art. 653, comma 1 c.p.p. cosí come modificato
dall’art. 1, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97, significa che un
accertamento sul fatto è stato compiuto da parte del giudice penale, e che su
di esso si è formato il giudicato, evenienza della quale l’ufficio di
disciplina non può non tenere conto dal punto di vista storico proprio in
ragione della pregiudizialità penale operante in
subiecta materia [48].
Le
medesime conclusioni valgono quando l’imputato viene prosciolto per il
sopraggiungere di eventi che nulla hanno a che fare con l’accertamento in
concreto della responsabilità penale come accade quando il reato si prescrive o
l’imputato beneficia di provvedimenti clemenziali.
In
quest’ultimo caso, nel quale la sentenza del giudice penale ha ad oggetto piú
propriamente non il fatto, ma il processo, è di immediata evidenza che valgono
le medesime considerazione di tipo logico-giuridico prima esposte in relazione
alla formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” o “perché
il fatto non è previsto dalla legge come reato”, che, in questo caso, operano
a fortiori.
8. La sentenza di condanna. Il divieto degli
automatismi espulsivi
La
sentenza penale di condanna al pari della sentenza di assoluzione esplica
effetti immediati nell’ambito della procedura disciplinare pendente o da
attivare, e gli effetti che ad essa sono proprî sono quelli indicati
dall’art. 653, comma 1 bis c.p.p.
nel testo modificato dall’art. 1, comma 2 della legge 27/3/2001 n. 97.
Più
in dettaglio, secondo quanto stabilito dalla norma di riferimento, la sentenza
penale di condanna, una volta divenuta definitiva, ha efficacia di giudicato nel
giudizio disciplinare quanto alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità
penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
Una
volta sopravvenuta la sentenza penale di condanna, l’ufficio di disciplina
deve disporre la riassunzione o l’attivazione della relativa procedura nei
modi e nei termini previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di
riferimento o dalla normativa specifica di settore, nel rispetto dei relativi
termini perentorî a pena di estinzione.
La
sentenza penale di condanna, comunque, non può mai condurre all’automatica
attivazione di misure espulsive al di fuori di un procedura disciplinare
regolarmente incardinata, giacché la Corte costituzionale [49]
ha piú volte avuto modo di evidenziare che nessuna sanzione disciplinare può
essere irrogata al di fuori di un procedimento che costituisce cumulativamente
il luogo ed il modo dell’esercizio dei poteri disciplinari da parte della
pubblica amministrazione [50].
La
vicenda non era estranea all’ordinamento, e di essa si era già occupato il
legislatore, il quale con l’art. 22 della legge 29/3/1983 n. 93 aveva
introdotto nell’ordinamento disciplinare del pubblico impiego il principio di
tassatività ed il principio del necessario procedimento. Su di essa, peraltro,
il giudice delle leggi aveva avuto modo di pronunciarsi, dichiarando
inammissibili le relative questioni [51]
di costituzionalità, sostanzialmente facendo appello al noto paradigma della
discrezionalità delle scelte rimessa in via esclusiva al legislatore, la quale,
come noto, esclude in radice che la Corte Costituzionale possa sindacare il
merito della questione, salvo poi smentire il proprio precedente pronunciamento in
subiecta materia con le sentenze 14/10/1988 n. 971 e 27/04/1993 n. 197
In
sintesi, dalla sentenza penale di condanna non può mai scaturire l’adozione
di automatismi espulsivi di sorta, in quanto le condotte per le quali è
previsto il licenziamento con e senza preavviso previsto [53]
costituiscono solo e soltanto il presupposto per l’irrogazione della relativa
sanzione, talché essa non può derivare necessariamente ed automaticamente
dalla pura e semplice sopravvenienza della sentenza penale di condanna
regolarmente passata in giudicato.
A
ciò sembra fare eccezione quanto previsto dall’art. 5 della legge 27/3/2001
n. 97, il quale prevede una misura espulsiva automatica nel caso in cui
sopraggiunga la condanna penale definitiva a sanzione detentiva non inferiore a
tre anni per taluno dei delitti indicati dal suo art. 3, comma 1, ossia per i
reati di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319 ter, e 320 c.p..
Per
comprendere le ragioni della correttezza dell’intervento legislativo occorre
inserire il disposto dell’art. 5 della legge de qua nel testo e nel contesto dei richiami cui esso fa
riferimento.
Seguendo
quest’opzione interpretativa è agevole evidenziare che l’estinzione del
rapporto di impiego o di lavoro prevista dall’art. 5, comma 1 della legge
27/3/2001 n. 97 non è una misura espulsiva di natura disciplinare per la cui
adozione è sempre e comunque necessaria una procedura disciplinare, ma una
sanzione penale accessoria che si aggiunge a quelle già previste dall’art. 19
c.p., e che consegue di diritto alla condanna definitiva come effetto penale di
essa ai sensi dell’art. 20 c.p. [54]
cosí come previsto dalla normativa generale in
subiecta materia.
Seguendo
questa tesi, inoltre, diviene evidente che l’estinzione del rapporto di lavoro
o di impiego non è neppure l’unica misura epurativa disciplinata dalla
normativa penalistica, giacché l’art. 19, comma 1 c.p. prevede ed ha sempre
previsto quale pena accessoria proprio l’interdizione dai pubblici ufficî,
che può essere perpetua o temporanea, come si ricava dall’art. 28 c.p..
Dal
punto di vista sistematico, l’art. 5, comma 2 della legge 27/3/2001 n. 97
prevede, in modo del tutto conseguenziale, l’inserimento di un art. 32 quinquies
nel codice penale per descrivere il contenuto della nuova pena accessoria,
evidenziandone l’ambito di applicabilità.
La
pena accessoria dell’estinzione del rapporto lavoro o di servizio alle
dipendenze dell’ente pubblico, e quindi anche della pubblica amministrazione,
consegue de iure quando, salvo quanto
previsto dagli artt. 29 e 31 c.p. [55],
vi sia stata condanna alla reclusione per un periodo temporale non inferiore ai
tre anni a séguito dell’accertamento definitivo della responsabilità penale
per uno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97,
e quindi per i reati di cui agli artt. 314, comma 1 , 317, 318, 319, 319 ter,
e 320 c.p..
Ciò
detto, è ora utile delineare il quadro organico delle misure penali a carattere
espulsivo anche in considerazione della recente novella legislativa.
Dalla
comparazione fra le varie fattispecie in esame si ricava il seguente assetto
normativo, che costituisce l’ambito di riferimento in materia di sanzioni
penali accessorie che si riversano sul rapporto di lavoro del pubblico
dipendente condannato, a prescindere dal fatto che egli sia o meno assoggettato
a procedura disciplinare.
Così,
in primo luogo, quando la sanzione penale principale comporta l’applicazione
della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici ufficî, il
rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione si estingue
automaticamente per effetto della sentenza penale definitiva, indipendentemente
dalla tipologia del reato commesso dal pubblico dipendente, purché il fatto
commesso sia un delitto e la condanna alla reclusione non sia inferiore ai
cinque anni, e comunque quando il pubblico dipendente è condannato
all’ergastolo.
In
secondo luogo, quando la sanzione penale principale è stata comminata per
taluno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97 e
non è inferiore ai tre anni, il rapporto di lavoro si estingue per effetto
della sentenza penale di condanna, rendendo evidente il maggior rigore rispetto
all’ipotesi precedentemente illustrata, giacché in questo caso il limite
sanzionatorio minimo è di soli tre anni e non di cinque.
In
terzo luogo, quando la sanzione penale principale è stata comminata per altri
delitti comunque previsti dalla normativa vigente, e la pena non è inferiore ai
tre anni, o il reato è stato commesso con violazione dei doveri di ufficio
connessi all’esercizio di una pubblica funzione, il rapporto di lavoro è
sospeso per effetto dell’automatico operare dell’interdizione temporanea dai
pubblici ufficî.
Al
di fuori delle ipotesi evidenziate si colloca l’art. 5, comma 4 della legge
27/3/2001 n. 97, il quale prevede esplicitamente l’evenienza che la sentenza
penale definitiva di condanna per taluno dei reati previsti dal precedente art.
3, comma 1 alla reclusione inferiore ai tre anni possa condurre all’estinzione
dal rapporto di impiego.
In
questo caso, del tutto correttamente, la norma richiede l’attivazione o la
riassunzione dell’apposita procedura disciplinare, solo al termine della quale
può essere disposta la misura epurativa del licenziamento con o senza preavviso
ai sensi della specifica normativa di cui alla contrattazione collettiva
nazionale di comparto.
Ovviamente,
la procedura disciplinare deve essere avviata o riassunta entro 90 giorni dalla
piena conoscenza della sentenza definitiva di condanna comunicata da parte della
competente cancelleria del giudice che la ha emessa. La procedura disciplinare
deve essere poi conclusa entro i successivi 180 giorni a pena di estinzione,
così
come previsto dall’art. 5, comma 5 della legge 23/3/2001 n. 97 nei modi e nei
termini evidenziati nei precedenti paragrafi.
9. La sentenza di patteggiamento
Una specifica ipotesi di interferenza fra
processo penale e procedura disciplinare si verifica sicuramente quando il primo
viene definito mediante sentenza di condanna con sanzione a richiesta
dell’imputato, meglio nota come sentenza di patteggiamento della pena [56].
Questa tipologia di sentenza pone all’interprete non pochi
problemi di tipo sistematico, in quanto, nonostante l’apparenza, la sentenza
di patteggiamento in ambito penale presenta peculiarità che sono sintomatiche
del fatto che essa non ha la medesima connotazione di una comune sentenza di
condanna che sia sopraggiunta a conclusione di un processo pervenuto a
definizione a séguito di un’ordinaria istruttoria dibattimentale negli usuali
gradi del giudizio [57].
La sentenza penale di patteggiamento è
prevista dall’art. 444 c.p.p. ed è descritta nei suoi elementi essenziali nei
termini di un provvedimento giurisdizionale di applicazione della pena di minore
entità su richiesta di una della parti del processo alle condizioni
normativamente indicate e date.
La sentenza di patteggiamento può essere
adottata dal giudice penale se sussistono cumulativamente due ordini di
condizioni, l’uno positivo, l’altro negativo.
Cosí, dal primo punto di vista,
l’adozione della sentenza di patteggiamento da parte del giudice è
subordinata sia all’assenso della parte che non ha formulato la domanda, sia
all’evenienza che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento ai
sensi dell’art. 129 c.p.p., sia ancora alla circostanza che, sulla base degli
atti acquisiti al processo, sia stata considerata esatta la qualificazione
giuridica del fatto, nonché corretta l’applicazione e la comparazione delle
circostanze prospettate.
Dal secondo punto di vista, la sentenza
di patteggiamento non può essere adottata quando la sanzione detentiva che
dovrebbe essere irrogata eccede, da sola o congiunta all’eventuale sanzione
pecuniaria, in concreto i due anni di detenzione o di arresto.
La sentenza di patteggiamento della pena
in ambito penale, pertanto, incontra limitazioni di ordine sia quantitativo,
sia qualitativo.
La sentenza di patteggiamento prevista
dall’art. 444 c.p.p., in quanto conduce all’irrogazione di una sanzione
penale principale, sembra presupporre l’ammissione di responsabilità da parte
dell’imputato in ordine ai fatti ascritti ed assunti come rilevanti
nell’impianto accusatorio. In questo senso, non parrebbe concettualmente
scorretto ritenere che la sentenza de qua
abbia natura giuridica di sentenza di condanna, come del resto sembrerebbe
potersi desumere dalla lettura dell’art. 445, comma 1, ultima proposizione c.p..
Rispetto alle usuali sentenze penali di condanna, peraltro, la
pronuncia di patteggiamento non rende applicabili le sanzioni penali accessorie,
e comunque conduce all’estinzione del reato sempre che l’imputato non
commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, rispettivamente,
entro i cinque e i due anni dalla sua adozione [58].
La sentenza di patteggiamento, non
esplica effetti sui giudizî amministrativi che fossero pendenti perché fondati
sul medesimo fatto. Ciò non significa affatto che essa non esplichi effetti
sulla procedura disciplinare che fosse pendente o da attivare. Una simile
evenienza, infatti, si ricava a partire da quanto dispone l’art. 653, comma 1 bis
c.p.p., aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. c) della legge 27/3/2001 n. 97,
espressamente fatto salvo dall’art. 2 della medesima fonte.
Nonostante le facili suggestioni che
paiono essere desumibili dalla lettura dell’art. 445, comma 1, c.p.p. sulla
natura giuridica della sentenza di patteggiamento occorre rettamente intendersi,
giacché il legislatore ben lungi dall’averla definita in termini di sentenza
di condanna, si è limitato a porre un mero nesso di equiparazione fra le due
tipologie di provvedimenti giurisdizionali.
Come ha correttamente avuto modo di
evidenziare la Corte di Cassazione a sezioni unite [59],
il fatto che la sentenza di patteggiamento sia equiparata ad una comune sentenza
di condanna esclude proprio ciò che parrebbe argomentabile in modo frettoloso
dalla lettura della disposizione normativa che la prevede.
L’equiparazione legislativamente
disposta, infatti, esclude proprio che la sentenza di patteggiamento abbia
natura giuridica di sentenza di condanna. L’equiparazione disposta dal
legislatore, infatti, concerne esclusivamente “ l’applicazione di una pena
ad un soggetto per un determinato reato: il rapporto di affinità si dissolve e
la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. manifesta la sua
singolare tipicità rispetto ad ogni altra pronuncia di condanna proprio con
riferimento all’altra essenziale componente e cioè, l’accertamento della
responsabilità dell’accusato. Ed infatti anche sul piano formale della
estrinsecazione della decisione assunta dal giudice, l’applicazione della
pena, indicata dalla parte, si dissocia completamente dalla dichiarazione di
colpevolezza nei confronti del destinatario della sanzione, per l’assoluta
incompatibilità di una siffatta dichiarazione con i limiti genetici e
strutturali del procedimento al quale si ricollega” [60].
Ed infatti, “non potendo l’art. 445
c.p.p. occuparsi di effetti che da quella sentenza giammai avrebbero potuto
derivare per l’ovvia ragione che in essa era assente la componente capace di
produrli, e cioè il riconoscimento giudiziale completo della responsabilità
penale dell’accusato, una volta fatta salva la disciplina delle deroghe, ha
con una norma di chiusura, evidenziato che in relazione agli altri effetti si
applicava la disciplina generale, però pur sempre nell’ambito di quel
rapporto di equiparazione che tanto era giustificato in quanto poggiava su di
una componente costante della pronuncia di condanna, e cioè l’applicazione di
una sanzione penale” [61].
L’equiparazione della sentenza di
patteggiamento ad una sentenza penale di condanna ha immediate ripercussioni in
ámbito disciplinare quoad effectum,
con la conseguenza che l’autorità disciplinare della pubblica amministrazione
nella quale è incardinato il pubblico dipendente che ha patteggiato
l’applicazione della sanzione penale incontra gli stessi vincoli procedurali
di cui dovrebbe tenere conto in presenza di una comune sentenza penale di
condanna.
Detto altrimenti, l’autorità
disciplinare della pubblica amministrazione deve attivare o riassumere la
relativa procedura nei termini previsti dalla rispettiva normativa di settore
più
volte richiamata e disporre la comminazione della sanzione disciplinare ritenuta
applicabile in concreto, anche patteggiata ai sensi dell’art. 55, comma 6 del
D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
Dal punto di vista procedurale, pertanto,
il comportamento della sentenza penale di patteggiamento è del tutto identico a
quello dell’usuale sentenza penale conosciuta dal codice di rito, il che
significa che l’autorità disciplinare o riassume una procedura già avviata
nei modi e nei termini previsti dalla singola normativa contrattuale [62],
o attiva ex novo una procedura
disciplinare nel caso in cui il momento emergente della relativa responsabilità
sia costituito proprio dalla sentenza di patteggiamento della pena [63].
Se gli effetti procedurali proprî della
sentenza penale di patteggiamento sono identici a quelli generati da una comune
sentenza penale di condanna, differenti sono le conseguenze indotte sulla
procedura disciplinare dal punto di vista sostanziale.
Più in particolare, sugli effetti della
sentenza di patteggiamento nella procedura disciplinare occorre correttamente
intendersi, giacché se da un lato è fuor di dubbio che essa esplichi effetti
in tale sede, dall’altro non è immediatamente evidente individuare in ordine
a cosa ciò si verifichi.
A questo proposito, seguendo anche
l’orientamento della giurisprudenza dominante, utilmente corroborata dalla
giurisprudenza delle Corte costituzionale [64]
sembra utile distinguere fra affermazione della responsabilità e suo
accertamento, avendo cura di evidenziare che le due nozioni possono non essere
in concreto completamente coincidenti, anche se è indubitabile che esse siano
fra di loro in relazione logica [65].
Per rendersi conto di ciò è bene
iniziare l’indagine in subiecta materia
dalla constatazione che la sentenza di patteggiamento è una sentenza con la
quale viene comminata una sanzione penale, che presuppone che l’imputato non
sia proscioglibile per ragioni che riguardano il fatto commesso. In questo
senso, è di immediata evidenza che la sentenza di patteggiamento abbia delle
evidenti relazioni di presupposizione con i fatti commessi dall’imputato,
giacché è proprio in rapporto ad essi che trova fondamento il giudizio di
proscioglimento.
Di immediata evidenza, però, è che il
processo di accertamento dei fatti in concreto non interviene, né si consolida
con la precisione e l’approfondimento che sono tipici della sentenza di
condanna che definisce il dibattimento nella sua massima estensione e quindi
nell’ambito di un’istruttoria dibattimentale effettuata in pubblica
udienza.
Ovvio è pertanto che gli effetti
vincolanti della sentenza di patteggiamento sulla procedura disciplinare siano
una diretta funzione del momento nel quale la richiesta di patteggiamento viene
richiesta e conseguenzialmente accordata dal giudice. Ed a questo proposito deve
essere rammentato che la richiesta di patteggiamento può essere esperita nel
corso delle indagini preliminari, piuttosto che nella fase preliminare del
dibattimento prima della sua formale apertura. In questi momenti, il giudice
competente a decidere, che può essere sia il giudice per le indagini
preliminari, sia il giudice del dibattimento, fonda il proprio convincimento
sulla rappresentazione dei fatti desumibile dal fascicolo di causa nello stato
di fatto in cui si trova [66]
Da ciò si desume subito che la sentenza
di patteggiamento, pur presupponendo un accertamento di responsabilità, può,
in concreto, ed a seconda dei casi, fondarsi su un accertamento più o meno
completo dei fatti.
Se ciò è vero, come si ritiene che sia, allora non si può non
dedurre che l’utilizzazione della sentenza penale di patteggiamento nel corso
della procedura disciplinare non può essere decisa e risolta in modo apodittico
argomentando a partire puramente e semplicemente dalla sua equiparazione ad una
sentenza penale di condanna, ma deve essere decisa caso per caso, assumendo come
rilevante il contenuto motivazionale della pronuncia del giudice penale in
funzione del momento in cui essa sopraggiunge.
Di qui, come cennato di passaggio, l’utilità della distinzione
fra affermazione della responsabilità ed accertamento della responsabilità,
per osservare che la sentenza penale di patteggiamento presuppone sempre nella
sua massima estensione l’affermazione della responsabilità, rispetto alla
quale l’accertamento delle responsabilità è tanto piú approfondito quanto
piú avanzate sono le indagini del pubblico ministero nel corso del divenire del
processo penale, fermo restando che il completo accertamento della responsabilità
dell’imputato è logicamente incompatibile con il procedimento di cui
all’art. 444 c.p.p..
L’endiadi “affermazione della
responsabilità ed accertamento della responsabilità”, pertanto, ha il pregio
di rendere evidente il differente ambito nel quale i suoi due membri rilevano,
il che, a sua volta, contribuisce a corroborare l’utilità della distinzione e
le conseguenze che da essa derivano.
L’affermazione della responsabilità,
infatti, è l’esito di un tipico giudizio di valore, quale è quello che
conduce alla sentenza di condanna, ed ha ad oggetto una statuizione
giurisdizionale che investe il puro e semplice disvalore ordinamentale di una
data azione od omissione del reo.
L’accertamento della responsabilità,
per contro, mette capo ad un giudizio storico, definito all’interno del gioco
del processo e, pertanto, normato dalle sue regole, il quale produce una
“verità convenzionale”, accertata ed accettata dall’ordinamento giuridico
come tale [67]
nella sua massima estensione possibile.
Di qui la conseguenza che fra
accertamento della responsabilità ed affermazione della responsabilità
sussiste una mera relazione di presupposizione unidirezionale, nel senso che la
seconda presuppone la prima, senza che il modo in cui si concretizza tale nesso
di presupposizione possa essere dato aprioristicamente. Ciò, in buona sostanza,
significa che l’affermazione della responsabilità può essere fondata anche
su un suo accertamento parziale in relazione ai fatti sub iudice, il che accade tutte le volte in cui la prima non è
l’esito di un’istruttoria dibattimentale condotta nella sua massima
estensione possibile.
Quanto appena evidenziato deve indurre a
riflettere seriamente sulla rilevanza dei fatti accertati nel giudizio penale
definito con una sentenza di patteggiamento, proprio perché il modo
dell’accertamento della responsabilità esclude una piena cognizione dei fatti
e quindi la formazione di un giudizio storico completo sulla loro collocazione
nello spazio e nel tempo.
Alla sentenza di condanna a pena
patteggiata può essere pertanto fatto riferimento in ambito disciplinare per
ritenere accertati quei fatti che, essendo emersi dal giudizio in sede penale, o
non sono stati contestati all’imputato, ovvero appaiono fondatamente
attribuibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle
risultanze processuali [68].
Tutto ciò consente di enucleare una casistica sufficientemente
articolata nella quale a séguito della sopravvenienza della sentenza penale di
condanna a pena patteggiata non è necessario procedere ad autonoma
ricostruzione dei fatti in ambito disciplinare.
In primo luogo, si possono considerare
accertati in sede disciplinare i fatti non controversi in ambito penale, perché
ammessi dall’imputato, o perché a lui ascrivibili mediante procedimento di
carattere logico deduttivo o di presupposizione. In questo primo caso trovano
applicazione le usuali regole stabilite in materia di confessione, in base alle
quali si considera provato un fatto ogniqualvolta sfavorevole a colui che ne
dichiara l’avvenuto accadimento, nonché le usuali regole inferenziali che
consentono di addivenire alla prova di un fatto a partire da un’altra verità
certa già assunta come tale e quindi incontestata.
In secondo luogo, possono ritenersi
accertati tutti quei fatti che sono stati provati a seguito di regolare
istruttoria dibattimentale ogni qualvolta la relativa sentenza di patteggiamento
sia stata pronunciata in esito al dibattimento stesso nel giudizio di primo
grado ovvero in quello di impugnazione, secondo quanto previsto dall’art. 448,
comma 1 c.p.p..
In terzo luogo, si possono considerare
accertati i fatti presupposti dal capo di imputazione tutte le volte che la
richiesta di patteggiamento sia stata esperita prima delle formalità di
apertura del dibattimento, posto che per decidere sul patteggiamento il giudice
ha a propria disposizione l’intero fascicolo di causa e quindi la globalità
delle risultanze delle indagini disposte dal pubblico ministero.
In tutte queste circostanze, i fatti
posti a fondamento della sentenza penale di condanna previo patteggiamento
possono essere ritenuti provati anche in ambito disciplinare, senza che il
responsabile del relativo ufficio debba procedere a nuovi accertamenti o a nuove
ricostruzioni storiche dei relativi accadimenti.
In definitiva, si può concludere
osservando che la sentenza di patteggiamento esplica effetti vincolanti e
preclusivi in ambito disciplinare in diretta funzione del suo contenuto in
concreto, il che significa che tali effetti non possono essere aprioristicamente
predeterminati, ma sono una variabile dipendente della motivazione del
provvedimento giurisdizionale che la dispone in ogni singola e data evenienza.
Un ulteriore problema posto dalla
sentenza di patteggiamento emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. riguarda le
modalità alla stregua delle quali deve essere perfezionata la successiva fase
di riassunzione della procedura disciplinare.
La questione non è di poco conto, giacché,
come si è avuto modo di evidenziare in precedenza, la pronuncia della condanna
penale a pena patteggiata normalmente non presuppone, ma anzi concettualmente
esclude, la compiutezza della ricostruzione dei fatti posti a fondamento della
pronuncia. Tutto ciò rende inevitabile che l’autorità disciplinare della
pubblica amministrazione debba effettuare sovente un’autonoma ricostruzione
dei fatti.
Una tale evenienza rende fortemente
dubbia la possibilità di conclusione della procedura disciplinare nei termini
di 90 giorni assegnati dalla legge 7/1/1990 n. 19, termine più breve
dell’usuale termine di 120 giorni previsto dalla normativa contrattuale [69].
La questione è stata definitivamente
risolta dalla Corte costituzionale con sentenza 28/5/1999 n. 197 [70],
la quale ha avuto modo di evidenziare che la previsione di termini abbreviati
per addivenire alla definizione della procedura disciplinare in presenza di una
sentenza penale di condanna a pena patteggiata è giustificata solo in presenza
di una pronuncia giurisdizionale il cui accertamento in fatto sia di estensione
tale da esibire il carattere della compiutezza e della definitività.
Secondo il giudice delle leggi, una tale
eventualità è del tutto esclusa in caso di patteggiamento, evenienza in cui è
piú che normale che la relativa pronuncia possa essere richiamata solo e
soltanto per i fatti non controversi, ammessi dal dipendente o a questi
ascrivibili in base a processi logico-inferenziali, mentre per tutte le restanti
ipotesi l’autorità disciplinare non può fare altro che ricostruire i fatti
in modo autonomo.
Tutto ciò, allora, rende evidente
l’insufficienza dei termini abbreviati di 90 giorni, imponendo che il
responsabile della procedura possa disporre dell’ordinario termine fisiologico
di 120 giorni previsto dalla contrattazione collettiva nazionale di settore [71],
tesi oggi pacificamente ammessa dalla giurisprudenza più autorevole [72].
Anche in questo caso, i termini sono
invertiti quando il reato sub iudice
per il quale viene richiesta l’applicazione della pena a domanda
dell’imputato è riconducibile all’elencazione tassativa dell’art. 3,
comma 1 della legge 27/3/2001 n. 97. In quest’ipotesi, data la natura di lex specialis della normativa, la procedura disciplinare non potrà
che essere riassunta o attivata entro 90 giorni dalla formale comunicazione
della sentenza di patteggiamento, per essere definita a pena di estinzione entro
i successivi 180 giorni.
![]()
[1]
Sulla responsabilità disciplinare, da ultimo, Bronzetti, La
responsabilità nella pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1993,
11 e 47; Mor, Le sanzioni disciplinari
ed il principio del nullum crimen sine lege, Giuffrè, Milano, 1970;
Frascaroli, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego, in “Foro
Amm.”, 1976, I, 862.
[2]
Com’è noto, la responsabilità disciplinare è una particolare forma di
responsabilità che rinviene il proprio fondamento nella violazione di
specifici doveri di servizio, i quali devono essere previsti dal codice
disciplinare, debitamente affisso dalla pubblica amministrazione datrice di
lavoro, e normati, per effetto di quanto dispone l’art. 55, comma 3 del
D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, dai contratti collettivi nazionali di lavoro per
ciascun singolo comparto.
La
contrattualizzazione del diritto disciplinare, o meglio la sua
depubblicizzazione, è stata perfezionata per tutti i comparti di
contrattazione del pubblico impiego. A questo proposito, si vedano per il
comparto Regioni – Enti locali gli artt. 23, 24, 25, 26 e 27 del c.c.n.l.
del 6/7/1995; per il comparto Ministeri gli artt. 23, 24, 25, 26 e 27 del
c.c.n.l. del 16/5/1995.
[3]
Del resto, che un medesimo fatto possa dare luogo a molteplici
qualificazioni in termini giuridici, tutti egualmente rilevanti per
l’ordinamento, è un’evenienza tuttaltro che rara. Le ipotesi di
interferenza fra ámbiti differenti, infatti, è perfettamente coerente, e
rinviene il proprio presupposto logico nella molteplicità degli interessi
rilevanti tutti egualmente degni di tutela di volta in volta oggetto di
specifica protezione nelle singole e varie esperienze storiche.
L’eterogeneità degli interessi di volta in volta oggetto di specifica
tutela, pertanto, non configura casi di antinomia o contrasto e quindi di
incoerenza ordinamentale, ma risponde a specifiche esigenze di tutela
avvertite come rilevanti.
[4]
Sulla nozione di implicazione necessaria o di stretta implicazione si
possono utilmente consultare i più rinomati manuali di logica.
Per
tutti, Copi, Introducition to Locic,
The Macmillan Company, New York, 1961, trad. il. Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna, 1964, 283;
Strowson, Introduction
to Logical Theory, Methuen & Co Ltd, London, 1961, trad. it. Introduzione alla teoria logica, Einaudi, Torino, 1961, 32; Quine, Elementary
Logic, Harvard University Press, Harvard, 1965, trad. it.
Logica
elementare,
Ubaldini Editore, Roma, 1965, 11 e 135.
Sull’applicazione della nozione in termini di
modalità, von Wright, An Essay in
Modal Logic, Routledge and Kegan Paul, London, 1951, 9; Hughes e
Cresswell, An Introduction to Modal
Logic, North-Holland Publishing Company, Amsterdam 1951, 1968, trad. it.
Introduzione alla logica modale, Il Saggiatore, Milano, 1973, 23, 44 e 252.
[5]
In modo del tutto speculare può essere rappresentata la relazione di
responsabilità quando la norma violata è di divieto:
“{[-(O-p)→□S) & -(O-p)] → □S}”, locuzione
sintagmatica che può essere parafrasata nei termini che seguono: se una
data norma “O-p” che qualifica come obbligatoria l’omissione di una
data azione, e quindi vietata la sua commissione, viene violata, allora
segue necessariamente la sanzione S.
[6]
Tale evenienza è ben compendiata da Kelsen, Allgemeine
Teorie der Normen, Manesche Verlags und Universitatsbuchhandlung, Wien,
1979, trad. it. Teoria generale delle
norme, Einaudi, Torino, 1985, 209: “Si fa di solito una distinzione
tra norme giuridiche, che prescrivono un certo comportamento, e norme
giuridiche che collegano una sanzione al comportamento contrario a queste
norme, ricorrendo al concetto di norme primarie e norme secondarie; come ad
esempio “Non si deve rubare”; “Se qualcuno ruba, deve essere
punito”. Ma la formulazione della prima delle due norme è superflua, in
quanto il non-dover-rubare consiste giuridicamente nel dover-essere-punito
alla condizione del rubare”. In questo senso, l’affermazione della
responsabilità è condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione
della sanzione.
[7]
Il codice disciplinare è quella particolare fonte di regolazione che
individua quali sono i doveri di servizio del pubblico dipendente e quali
sono le sanzioni previste in caso di loro violazione. Il codice
disciplinare è oggetto di contrattualizzazione ed è enucleato dalla
contrattazione collettiva nazionale di comparto.
[8]
Il codice disciplinare non deve essere confuso con il codice di
comportamento ossia con il D.M. 28/11/2000, adottato dal Ministro per
la funzione pubblica, che è un mero atto amministrativo, la cui
cogenza per le pubbliche amministrazioni differenti da quelle statali è
fortemente dubbia.
Il
codice disciplinare è quella particolare fonte di regolamentazione che
disciplina, mediante la specifica previsione di una relazione normativa, il
rapporto che connette e lega la violazione di uno specifico obbligo di
servizio ad una altrettanto specifica sanzione. La relazione di cui è caso
è ascrivibile al novero delle relazioni diadiche, ossia a quelle che
possono essere rappresentate facendo riferimento al sintagma “-aRb”,
dove “-a” rappresenta il comportamento contrario ai doveri di servizio
contrattualmente individuati e normati, “b” la sanzione o per meglio
dire la conseguenza sanzionatoria, ed “R” la relazione che interconnette
i due membri, altrimenti definibile in termini di illiceità o contrarietà
al diritto. Da ciò emerge abbastanza chiaramente che, come precedentemente
evidenziato nel corpo del lavoro, la relazione normativa che interconnette
“-a” e “b” è a sua volta definibile in funzione della specificità
della sanzione prevista dall’ordinamento, il che vale a dire che la
responsabilità disciplinare è tale in quanto la sanzione ordinamentalmente
indicata è sanzione disciplinare, per l’appunto.
[9]
Il riferimento al modo dell’interferenza è una diretta funzione della
tipologia della sentenza penale che definisce con efficacia di cosa
giudicata la vicenda giurisdizionale del dipendete. Come sarà evidenziato
nel prosieguo del lavoro, infatti, non sempre il sopraggiungere di un
giudicato in sede penale esplica davvero effetti totalmente preclusivi in
sede disciplinare.
[10]
L’endiadi “procedimento disciplinare” – “procedura disciplinare”
non è né deve aprire vaga ed oziosa. A séguito della depubblicizzazione
del rapporto di pubblico impiego, infatti, l’adozione delle sanzioni
disciplinari avviene nell’esercizio di poteri privatistici, giacché il
rapporto di impiego del pubblico dipendente è gestito dalla pubblica
amministrazione con i poteri del privato datore di lavoro, come
esplicitamente dispone l’art. 5, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 in
generale e l’art.89, comma 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 per gli enti
locali territoriali. Ciò costituisce condizione necessaria e sufficiente
per rimarcare che l’esercizio dei poteri disciplinari
non avviene nell’ámbito di un procedimento amministrativo, ma
all’interno di una procedura che presuppone meri atti datoriali che sono
atti amministrativi solo dal punto i vista soggettivo e non oggettivo, e che
pertanto non hanno natura di provvedimenti amministrativi.
[11]
Di “fonti-atto” parla in termini “Crisafulli, Lezioni
di diritto costituzionale II, Cedam, Padova, 1978, 9. Sulle fonti del
diritto, si veda l’interessante lavoro di Guastini, Le
fonti del diritto e l’interpretazione, Giuffrè, Milano, 1993, nel
quale l’intera tematica è trattata mediante utilizzazione delle piú
moderne tecniche di analisi del linguaggio.
[12]
Nei confronti della materia disciplinare esiste nell’ordinamento una vera
e propria riserva a favore della contrattazione collettiva nazionale di
comparto ciò si ricava agevolmente dalla lettura dell’art. 55, comma 3
del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. Sulla vicenda, Miscione,
in Carinci e D’Antona (ed.), Il
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Giuffrè,
Milano, 2000, 1677.
[13]
Sulla pregiudiziale penale rispetto al procedimento disciplinare nella
vigenza del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, per tutti, Virga, Il
pubblico impiego, Giuffrè, Milano, 1964, 273, nonché del medesimo
autore, Diritto amministrativo. I principi. 1, Giuffrè, Milano, 1989, 228.
[14]
A questo proposito deve essere súbito osservato che se il diritto
disciplinare è animato, al pari di tutti i sistemi punitivi, dal principio
del nulla poena sine lege,
l’ordinamento delineato dal D.P.R. 10/1/1957 n. 3 non prevedeva in termini
tassativi né l’assetto delle infrazioni, né quello della sanzioni, né
ancóra la relazione sanzionatoria fra condotta e conseguenza punitiva.
L’estensione dei doveri di servizio, infatti, non era organicamente
normata, giacché il loro assetto si ricavava accostando le specifiche
disposizioni che li enunciavano alle disposizioni che enucleavano la formula
del giuramento, fermo restando che talune delle fattispecie esplicitamente
previste dalla norma erano talmente ampie da consentire di ricomprendervi
tutto ed il suo contrario. L’indeterminatezza dell’assetto disciplinare
e la faraginosità delle procedure previste per la sua gestione ne hanno
determinato il fallimento. Sul punto, Mor, op. cit, loc. cit..
[15]
Per il comparto Regioni – Enti locali, si veda l’art. 25, commi 8 e 9
del c.c.n.l. del 6/7/1995. Per il comparto Ministeri, l’art. 25, commi 6,
7 ed 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995.
[16]
La fattispecie è normata in modo sostanzialmente identico ancorché
formalmente dissimile nei varî comparti di contrattazione. Si vedano,
dall’art. 25, comma 8, prima proposizione
del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto Regioni – Enti locali;
l’art. 25, comma 6 del c.c.n.l del 16/5/1995 per il comparto Ministeri.
[17]
Anche per questa fattispecie valgono le medesime considerazioni già
espresse nella nota 12. Si vedano l’art. 25, comma 8, seconda proposizione
del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto di contrattazione Regioni – Enti
locali; l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto
Ministeri.
[18]
La fattispecie è normata dall’art. 25, comma 8, ultima proposizione del
c.c.n.l. del 6/7/1995. La presente ipotesi non è esplicitamente normata dal
c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto Ministeri.
[19]
A questo proposito deve essere rammentato che quando il processo penale
afferisce ad un pubblico dipendente, sulla cancelleria del giudice a
quo incombe l’obbligo di trasmettere la sentenza definitiva alla
pubblica amministrazione.
[20]
Corte Cost. 28/5/1999 n. 197, in
www.lexitalia.it.
[21]
La prima sentenza in subiecta materia
e la pronuncia di incostituzionalità dell’art. 85, comma
1, lett. a) del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, e quindi la sentenza della
Corte costituzionale 14/10/1988 n.
971, costantemente ribadita dal giudice delle leggi. Per tutte, si veda
Corte Cost. 27/4/1993 n. 197. L’intera vicenda è ben compendiata con
dovizia di particolari da Gulì, Destituzione
e patteggiamento, in
http://www.lexitalia.it.
[22]
Per il primo ordine di problemi, si veda l’art. 5, comma 4 della legge
23/3/2001 n. 97; per il secondo l’art.1; per il terzo, l’art. 2, comma
1.
[23]
Nella vigenza del precedente codice di rito, la vicenda era disciplinata
dall’art. 3 c.p.. Oggi la disposizione rilevante in
subiecta materia è l’art. 347 c.p.p..
[24]
La riassunzione è l’istituto giuridico previsto dall’ordinamento per
recuperare l’operatività della procedura disciplinare sospesa. Essa
risponde all’esigenza di dare termine certo alla riattivazione di una
procedura oggetto di sospensione al fine di addivenire alla definizione in
termini di certezza al relativo rapporto sottostante.
[25]
E’ di immediata evidenza che la riassunzione della procedura disciplinare
presuppone l’adozione di un atto datoriale esplicito, in quanto è da essa
che decorre il termine perentorio previsto dalla normativa di settore per
addivenire alla definizione della procedura disciplinare. E’ altresí
ovvio che la riassunzione deve essere comunicata al dipendente sub
iudice, ancorché non sia atto recettizio, ossia atto i cui effetti si
perfezionano al momento della sua avvenuta comunicazione al suo
destinatario.
[26]
Per gli enti del comparto i contrattazione Regioni – Enti locali, i
termini di riassunzione sono indicati dall’art. 25, comma 9 del c.c.n.l.
del 6/7/1995, Per il comparto Ministeri dall’art.25, comma 8 del c.c.n.l.
del16/5/1995; essi coincidono con 180 giorni computati dalla conoscenza
della sentenza penale di condanna definitiva.
[27]
I reati presi in considerazione dall’art. 3, comma 1 della legge 23/3/2001
n. 97 sono i tipici reati contro la pubblica amministrazione, e fra questi
quelli percepiti dalla coscienza sociale come particolarmente gravi. Piú in
dettaglio, essi sono quelli indicati dagli artt.
314, comma 1 , 317, 318, 319, 319 ter,
e 320 c.p..
[28]
Sulla durata dei termini ha avuto modo di pronunciarsi la Corte
costituzionale con la sentenza 28/5/1999 n. 197, in
www.lexitalia.it, la quale ha espressamente statuito che i termini de
quibus sono ragionevoli, e che non contrastano con i principî di buona
amministrazione previsti dall’art. 97 Cost..
[29]
I termini de quibus sono previsti
in via generale dalla normativa contrattuale, che li ha mutuati dalla legge
7/1/1990 n. 19. Per il comparto regioni – Enti locali, si vada l’art.
25, comma 9 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, l’art.
25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995.
[30]
Da ciò si desume che il puro e semplice pervenimento al protocollo generale
della pubblica amministrazione non costituisce valido momento per il computo
del termine in esame.
[31]
La procedura disciplinare a séguito della sua riattivazione presuppone,
come nella generalità dei casi, l’autonoma valutazione dei termini
dell’antigiuridicità del comportamento del dipendente sub
iudice in piena autonomia. Da ciò si desume l’evenienza descritta non
è affatto incompatibile con l’irrogazione di una sanzione disciplinare
patteggiata nei modi e nei termini indicati dall’art. 55, comma 6 del
D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
[32]
Sulla perentorietà dei termini de
quibus si veda Corte Cost. 28/5/1999 n. 197, in
www.lexitalia.it la quale ha avuto modo di evidenziare che i termini brevi previsti
dalla normativa di settore (allora dall’art. 9, comma 2 della legge
7/1/1990 n. 19) rinvengono il loro fondamento nell’esigenza di definire
con sollecitudine la procedura disciplinare, evitando “situazioni di
incertezza dannose per il buon andamento dell’amministrazione, e lesive
della posizione personale del dipendente condannato”.
La
tesi della perentorietà dei termini è sostenuta dalla giurisprudenza piú
autorevole. C.f.r. nota 40.
[33]
Questa affermazione presuppone una specifica presa di posizione in ordine
alla chiarificazione della natura giuridica della potestà disciplinare
della pubblica amministrazione. Per chi scrive, la potestà disciplinare
della pubblica amministrazione è una specificazione dei poteri di
organizzazione che l’ordinamento riconosce al datore di lavoro e non piú
mero riflesso della sua cosiddetta “supremazia speciale”. Su tutto ciò,
Nobile, Atti e procedure disciplinari
nei comuni e nelle province, di prossima pubblicazione per i tipi
I.C.A..
[34]
La fattispecie è disciplinata dall’art. 25, comma 8, seconda proposizione
del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto Regioni - Enti locali e
dall’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995 per il comparto
Ministeri.
[35]
La presente evenienza era di particolare rilevanza nella vigenza del D.P.R.
10/1/1957 n. 3, nel quale molto spesso la specifica normativa di settore
consentiva l’attivazione di procedimenti disciplinari in presenza della
condanna in sede penale per fatti di reato che nulla avevano a che fare con
la condotta lavorativa del pubblico dipendente.
La
fattispecie non è estranea all’ordinamento disciplinare oggi delineato
dalla contrattazione collettiva nazionale, ed in tale ámbito rileva solo
con riferimento al licenziamento con e senza preavviso, come nel caso in cui
si sia in presenza di “condanna passata in giudicato per un delitto che,
commesso fuori dal servizio e non attinente in via diretta al rapporto di
lavoro, non ne consente la sua prosecuzione per la sua specifica gravità”
(c.f.r. art. 25, comma 6, lett. f) del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il comparto
Regioni – Enti locali ed art. 25, comma 4, ultimo punto del c.c.n.l. del
16/5/1995 per il comparto Ministeri).
[36]
Il termine de quo è quello
indicato, per il comparto contrattuale Regioni – Enti locali dall’art.
25, comma 8 ultima proposizione del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto
Ministeri, la fattispecie non è oggetto di specifica normazione, ma lo si
desume in via interpretativa per intuitive ragioni di tipo sistematico.
[37]
La sentenza penale di condanna a pena patteggiata pone non pochi problemi di
tipo dogmatico in relazione alla rilevanza che gli accertamenti sui fatti
che la supportano hanno sulla procedura disciplinare. Un secondo ordine di
problemi è connesso all’estensione dei termini per la definizione delle
procedure disciplinari in presenza di patteggiamento della sanzione penale.
Su tutto ciò, si veda § 9.
[38]
Anche in questo caso, vale quanto evidenziato nella nota precedente. . A
questo proposito, si vedano, per il comparto Regioni – Enti locali,
l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri,
si veda l’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 16/5/1995.
[39]
Per il comparto di contrattazione Regioni – Enti locali, la fattispecie è
disciplinata dall’art. 25, comma 8 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il
comparto Ministeri, come piú volte segnalato, la fattispecie non è
espressamente normata.
[40]
In termini, Cons. stato sez. IV 27/3/2002 n. 1728, in “Cons. Stato”,
2002, I, 636, secondo cui il vizio della procedura in caso di mancato
rispetto del termine per la contestazione degli addebiti sussiste solo
“con riferimento alla particolare situazione accertata a alla peculiare
complessità di eventuali e successive acquisizioni istruttorie”; Cons.
stato sez. IV 22/2/2001 n. 696, in “Cons. Stato”, 2001, I, 381; di
particolare importanza è Cons. stato sez. IV 1/3/2001 n. 1132, in “Cons.
Stato”, 2001, I, 519, la quale tratta nello specifico del termine massimo
di 20 giorni previsto dalla contrattazione collettiva nazionale.
[41] Cons. stato sez. IV 26/9/2001 n. 5049, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2149; Cons. stato sez. IV 9/1/2001 n. 43, in “Cons. Stato”, 2001, I, 30; Cons. stato sez. VI 17/2/2000 n. 901, in “Cons. Stato”, 2000, I, 332.
[42]
Cons. stato sez. IV 20/6/2001 n. 3288, in “Cons. Stato”, 2001, I, 1382.
[43] Per il comparto Regioni Enti locali, si veda l’art. 24,
comma 6 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto Ministeri, si veda
l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 16/5/1995.
[44]
A questo proposito, oltre alla fondamentale Corte Cost. 28/5/1999 n. 197, in
http://www.lexitalia.it si vedano Cons. stato
sez. VI 22/3/2002 n. 1651, in “Cons. Stato”, 2002, I, 603; Cons. stato
sez. VI 18/4/2001 n. 2339, in “Cons. Stato”, 2001, I, 953; Cons. stato
sez. ad. Plen. 25/1/2000 n. 4, in “Cons. Stato”, 2000, I, 4; Cons. stato sez. VI 6/2/1999 n.
3288, in “Cons. Stato”, 1999, I, 220; Cons. stato comm. spec. pubbl.
imp. 5/2/2001 n. 482/2000, in “Cons. Stato”, 2000, I, 224, con specifico
riferimento alla sopravvenienza della normativa a livello di contrattazione
collettiva nazionale di comparto.
[45] Per ragioni di completezza, si riporta il testo dell’art. 8 della legge 27/3/2001 n. 97: “1. Le disposizioni della presente legge prevalgono sulle disposizioni di natura contrattuale regolanti la materia. 2. I contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dopo la data di entrata in vigore della presente legge non possono, in alcun caso, derogare alle disposizioni della presente legge”.
[46]
Cons. stato IV ord. 30/10/2001 n. 5868, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2395.
[47]
Quest’evenienza è una diretta conseguenza della relazione che intercede
fra medesimezza del fatto ed eterogeneità dei varî assetti sanzionatorî,
in base al quale un medesimo fatto può essere oggetto di molteplici
tipologie di responsabilità, senza che ciò configuri antinomia o
conflitto.
[48]
La disamina della rilevanza in sede disciplinare della formula assolutoria
“perché il fatto non costituisce reato è molto ben compendiata in Cons.
Stato sez. III del 16/4/2002, in
www.lexitalia.it in base al quale “secondo un’interpretazione logico sistematica
che risulti essere la piú coerente e compatibile con i principi generali
(…), l’elemento aggiuntivo (…) inserito nel nuovo testo dell’art.
653, comma 1, c.p.p. non è tale da paralizzare l’azione della pubblica
amministrazione, bensì ha il solo scopo e la funzione di obbligare a
ritenere avvenuti fatti e situazioni oggetto di accertamento da parte del
giudice penale anche nell’ipotesi in cui il procedimento penale sia
sfociato in una sentenza assolutoria “perché il fatto non costituisce
reato” o “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. In
altre parole, il legislatore si è limitato ad estendere dell’accertamento
eseguito in sede penale, notoriamente più ricco di strumenti d’indagine e
di mezzi probatori, anche ai fatti posti a fondamento di decisioni
assolutorie sfociate in formule differenti da quelle “perché il fatto non
sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”.
[49] Corte cost. 14/10/1988 n. 971, in
“Giur. cost.”, 1988, I, 2212; Corte cost. 27/4/1993 n. 197, in “Giur.
cost.”, 1993, I, 1341.
[50] In dottrina la sentenza 14/10/1988 n. 971 è stata oggetto di interessanti commenti ed annotazioni, tutti orientati a mettere in evidenza l’insensatezza della disposizione colpita dalla censura di incostituzionalità. Per tutti, Cacioppoli, Sulla destituzione di diritto. Riflessi della sentenza della Corte Costituzionale n. 971/88, in “Riv. Amm.” 1990, 63; Caiaffa, La Corte Costituzionale e la destituzione di diritto dei pubblici dipendenti in conseguenza della pronuncia di incostituzionalità, in “Nuova. Rass.” 1989, 2113; Caponi, Incapacità di accedere ai pubblici impieghi e destituzione a seguito di condanne penali, in “Foro Amm.”, 1988, 3477; id., Destituzione ipso iure e accesso agli impieghi pubblici dopo la sentenza Corte Cost. n. 971 del 1988, ivi, 1989, 1661; Di Giovanni., Note in margine alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 85 del D.P.R. 10/1/1975 n. 3, in “Riv. Giur. Scuola”,1991, I, 955; Nizza, Innovazioni nella disciplina della destituzione di diritto, in “Riv. Amm.”,1989, 215; Pollice, Sulla destituzione quale sanzione disciplinare non automatica, in “Comuni d’Italia”, 1989, 1589; Ronca, Dipendenti statali e degli enti locali: sanzione disciplinare della destituzione di diritto ed una pronuncia della Corte Costituzionale dichiarativa di inammissibilità della sollevata questione di illegittimità, in “Amm. It.”, 1989, 752; Scarabino, La destituzione dal pubblico impiego: la Corte Costituzionale ne dichiara inammissibili le questioni di illegittimità, ma la Corte Europea dei diritti dell’uomo è dietro l’angolo, in “Amm. It.”, 1987, 1712; Sciullo, Destituzione di diritto e Corte Costituzionale: a ciascuno - anche al legislatore - le sue responsabilità, in “Le Reg.”, 1989, 1808; Travi, Sospensione cautelare del pubblico impiegato per procedimento penale, e destituzione per condanna penale: problemi non risolti, in “Giur. Cost.”, 1989, I, 2730; id., Rilevanza della questione di legittimità costituzionale di disposizioni abrogate e destituzione di diritto del pubblico dipendente, in “Giur. Cost.”, 1992, 3482; Virga (Giov.), Revirements della Corte Costituzionale e conseguenze della pronuncia di incostituzionalità della destituzione di diritto nel campo del pubblico impiego, in “Foro. It.”, 1989, 24.
In modo analogo, la dottrina è intervenuta sulla successiva sentenza 27/4/1993 n. 197. per tutti, In dottrina: Marsili, La destituzione dei pubblici dipendenti in “Nuova Rass.”, 1991, 1818; Nobile, La destituzione del pubblico dipendente: spunti per una riflessione, in “Riv. Amm.”, 1991, 1490; Pone, La destituzione dei pubblici dipendenti dopo le modifiche introdotte dall’art. 9 della legge 7 febbraio 1990 n. 19 ed alla luce dei rapporti intercorrenti tra il procedimento disciplinare e la nuova disciplina del processo penale, in “Riv. Amm.”, 1991, 2194; Raimondi, Esiste ancora la destituzione di diritto?, in “Foro Amm.” 1992, 2088.
[51]
Corte Cost. 19/12/1986 n. 270, in “Giust. Cost.”, 1986, I, 2212; Corte Cost. 3/12/1987
n. 447, in “Giust. Cost.”, 1987, I, 2299.
[52]
C.f.r. nota 49.
[53]
Le ipotesi de quibus sono
rigidamente predeterminate dalla disciplina i comparto a livello di
contrattazione collettiva nazionale. Per il comparto regioni – Enti
locali, si vedano i commi 6 e 7 del c.c.n.l. del 6/7/1995; per il comparto
Ministeri, i commi 4 e 5 del c.c.n.l. del 16/5/1995.
[54]
Sulle sanzioni penali accessorie in ámbito disciplinare, per tutti, si
possono vedere Antolisei, Manuale di
diritto penale parte generale, Giuffrè, Milano, 1982, 625; Mantovani, Diritto
penale, Giuffrè, Milano, 1979, 699.
[55]
Il riferimento alle due disposizioni del codice penale non pone problemi
interpretativi di sorta, giacché riguardano l’ipotesi di interdizione
perpetua e temporanea dai pubblici ufficî.
[56]
Sulla sentenza di patteggiamento della pena in ámbito penale, com’è
facilmente intuibile, la letteratura è davvero sterminata. La stessa idea
di patteggiamento della pena ha la propria derivazione giuridico-sistematica
dal plea bargaining
previsto dall’ordinamento processuale penalistico statunitense,
come è efficacemente dimostrato da Gambini Musso, Il
“plea bargaining” tra common law e civil law, Giuffrè, Milano,
1985.
L’estraneità
dell’istituto alla tradizione è ben compendiato da Corte Cass. Sez. Un.
Pen. 18/04/1997, n. 3600, in “Foro It.” 1997, II, 457, con nota di Di
Ghiara ed in “Giust. Pen.” 1998, II, 13, la quale parla esplicitamente
di un provvedimento giurisdizionale conclusivo di “ Un procedimento che,
per poter avere concreta prospettiva applicativa in chiave deflattiva non
poteva non presentarsi con connotati di spiccata eccentricità rispetto al
sistema processuale, anche perché privo di concrete radici nella nostra
tradizione culturale e scientifica”.
[57]
Sulla natura della sentenza di patteggiamento si sono formati differenti
orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, sintomo della difficoltà
di inquadrarla in modo univoco nella sistematica processual-penalistica
enucleata dalla tradizione.
Sull’intera
vicenda è piú volte intervenuta la Corte Costituzionale, la quale ha
escluso che la sentenza con cui viene disposta l’applicazione della pena
su richiesta di una delle parti abbia natura di sentenza con la quale viene
accertata la responsabilità penale dell’imputato. Per tutte, si veda
Corte Cost. 8/9/1990 n. 66, in “Giur. Cost.”, 1990, I, 274; veda Corte
Cost. 3/7/1990 n. 313, in “Giur. Cost.”, 1990, I, 1981; Corte Cost. 6/6/1991 n. 251,
in “Giur. Cost.”, 1991, I, 2056; Corte Cost. 13/5/1995 n. 155, in
“Giur. Cost.”, 1996, I, 1464.
[58]
Di qui una prima notazione essenziale: la richiesta di patteggiamento della
pena in ambito penale consente all’imputato sicuro di essere condannato al
una sanzione principale di non incappare in sanzioni accessorie che sovente
sono maggiormente afflittive della sanzione cui accedono. Ciò è di
particolare importanza proprio in tema di relazioni fra procedura
disciplinare ed esito del processo penale, in quanto l’esito positivo
della richiesta di patteggiamento evita la possibilità di incorrere,
ricorrendone i presupposti, nella misura espulsiva dell’estinzione del
rapporto di impiego o di lavoro previa procedura disciplinare prevista
dall’art. 5 della legge 23/3/2001 n. 97. Il patteggiamento della pena,
poi, conduce all’estinzione del reato all’esito positivo di un periodo
di osservazione, in modo del tutto simile a quanto si verifica per la
sospensione condizionale della pena.
[59]
Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/4/1997 n. 3600, cit.
[60]
Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/4/1997 n. 3600, cit.
[61]
Corte Cass. Sez. Un. Pen. 18/4/1997 n. 3600, cit.
[62]
Le ipotesi, giova rammentarlo sono quelle in cui l’attivazione della
procedura disciplinare è anche momento di emergenza dell’illecito penale,
talché l’autorità disciplinare avvia la procedura, trasmette gli atti al
pubblico ministero e la sospende per effetto della pregiudiziale, ovvero la
responsabilità penale emerge nel corso di una procedura disciplinare già
avviata, talché l’autorità che la conduce procede alla sua sospensione
ed alla remissione degli atti al pubblico ministero.
[63]
Questo è il caso in cui la pubblica amministrazione in cui è strutturato
ed incardinato il pubblico dipendente non ha comunque ricevuto comunicazione
in merito alla pendenza di un processo penale, talché di esso viene a
conoscenza solo alla sua ultimazione. In questo caso, la comunicazione della
sentenza di condanna ha una funzione del tutto simile al rapporto del capo
struttura, il quale obbliga l’autorità disciplinare ad attivare la
relativa procedura nel termine perentorio di venti giorni dalla sua
ricezione.
[64] Corte cost. 28/5/1999 n. 197, loc. cit..
[65] La differenza fra le due evenienze è stata ben posta in luce dalla recente sentenza del T.A.R. Lazio, sez. I bis 8/4/2002 n. 2896, in www.lexitalia.it 4, la quale ha osservato che “nella sentenza di patteggiamento, occorre infatti distinguere i due diversi profili dell' «affermazione di responsabilità» (dispositivo) e dell' «accertamento di responsabilità» (motivazione): il secondo dei quali, al pari del primo, immancabile, ma in concreto più o meno esaustivo a seconda della maggiore o minore completezza delle indagini del Pubblico ministero.
Deve quindi ritenersi che, in sede di procedimento disciplinare a seguito di sentenza di patteggiamento, in nessun caso l'Amministrazione possa recepire acriticamente l'«affermazione di responsabilità» contenuta nella pronuncia penale, dovendo invece valutarne l'«accertamento di responsabilità», la cui utilizzabilità in quanto tale e come fonte esclusiva di convincimento transita, con ogni evidenza, attraverso la verifica della completezza di detto accertamento (in caso contrario, incombendo all'Amministrazione il compimento di tutti gli accertamenti che il caso richiede).
Non può quindi escludersi che, a seguito della sentenza di patteggiamento, l'Amministrazione abbia necessità, in sede disciplinare, di compiere autonomi accertamenti: con la conseguenza che, se la sentenza di patteggiamento non sempre e in ogni caso comporta la necessità di nuovi accertamenti in sede disciplinare, questi ultimi possono - o meno - essere necessari, a seconda del concreto atteggiarsi dell'accertamento penale posto a base della sentenza”.
[66] Tutto ciò rende evidente che la richiesta di applicazione della pena ad istanza dell’imputato sovente risponde non ad esigenze di giustizia, ma a motivazioni e finalità metagiuridiche, sovente non proprio commendevoli, quali il contenimento delle spese di giudizio.
[67] Il riferimento al “gioco del processo” non deve
stupire. Il processo altro non è che una procedura convenzionale, tale
stabilita in una data realtà storica, normata nel modo e per le stesse
finalità con le quali è disciplinata qualunque manifestazione ludica. Il
questo senso, “le regole definiscono il gioco”, il quale produce una
verità en e pour una convenzione.
In questo modo, ogni regola del processo assomiglia ad un pezzo del gioco
degli scacchi, mentre la sua utilizzazione assomiglia piú propriamente ad
una mossa in tale gioco. E volutamente non si è parlato di
"mossa" in prima battuta, giacché tale termine è propriamente
riferito a spostamenti spazio-temporali dei pezzi del gioco in conformità
alle regole del gioco stesso. Di conserva, è bene evidenziare che lo stesso
termine "pezzo" è plurivoco, in quanto ad esso è propria una
definizione in termini fattuali, e quindi neutra ed una definizione che a
buon diritto può dirsi "istituzionale".
Nel primo senso, esso è puramente e semplicemente un oggetto definito dai
suoi confini fisici. Nel secondo senso, esso è il luogo delle regole che ne
definiscono le potenzialità in e per il gioco. Su tutto ciò si veda
Mazzarese, Antinomie, paradossi,
logica deontica, in "Riv.Int.Fil.Dir.", 1987, 438; Conte
(A.G.), Konstitutive Regeln und Deontik, in Morsher e Stanzinger (ed.), Etik.
Akten des funfter internazionalen Wittgenstein-Symposium, Wien,
1981; Conte (A.G.), Paradigmi
d'analisi della regola in Wittgenstein, loc.cit.. A differenza delle entità ludiche, per il gioco del
processo non è rinvenibile alcuna definizione neutra. Per essa può solo
essere proposta una definizione in termini istituzionali, da regole
costitutive per l’appunto.
La tematica delle regole costitutive, della loro genesi, delle loro
differenze tipologiche, nonché delle loro strettissime relazioni con le
problematiche legati ai giochi sono magistralmente trattate da Conte (A.G.),
Codici deontici, in Intorno al codice, La Nuova Italia, Firenze,
1970, 13-25; Paradigmi dell'analisi della regola in Wittgenstein, in Egidi (ed.),
Wittgenstein. Momenti di una critica
del sapere, Guida, Napoli, 1982, 37-82; Regola costitutiva, condizione, antinomia, in Scarpelli (ed.), La
teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a
Norberto Bobbio., Milano, Comunità, 1983, 21-39; Conte (A.G.), Materiali
per una tipologia delle regole, in "Materiali
per una storia della cultura giuridica", 15, 1985, 345-368.
[68] In definitiva, come bene osserva T.A.R. Lazio, sez I bis 8/4/2002 n. 2896, loc. cit., al contenuto della sentenza di patteggiamento può essere fatto utile riferimento solo osservando che “se è vero che ai fini del giudizio disciplinare a carico del pubblico dipendente non è sufficiente, per affermarne la responsabilità, il solo fatto della condanna patteggiata (dovendo l'Amministrazione procedere ad un'autonoma valutazione della rilevanza dei fatti), è altrettanto vero che a tale pronunzia penale si può tuttavia fare riferimento per ritenere accertati quei fatti che, emersi nel giudizio penale, o non siano contestati, oppure, in base ad un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente”. In termini, si vedano Cons. Stato sez. V 28/12/2001 n. 6455, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2755; Cons. stato sez. IV 6/10/2001 n. 5284, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2274.
[69]
Il problema si poneva nei medesimi termini nella vigenza del D.P.R. 10/1/1977
n. 3, il quale prevede per il termine della definizione del procedimento
disciplinare in via generale un termine di piú ampio di quello di 90
giorni.
[70] Corte cost. 28/5/1999 n. 197, in www.lexitalia.it
[71]
In questo senso, l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 6/7/1995 per il
comparto Regioni – Enti locali; per il comparto Ministeri, si veda
l’art. 24, comma 6 del c.c.n.l. del 16/5/1995.
[72] Per tutti, Cons. Stato sez. VI 8/2/2001 n. 556, in “Cons. Stato”, 2001, I, 224; Cons. Stato sez. I parere 16/5/2001 n. 448/2001, in “Cons. Stato”, 2001, I, 2561.