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Articoli e note

 

PAOLO MADDALENA
(Procuratore della Corte dei Conti Regione Lazio)

La sistemazione dogmatica della responsabilità amministrativa

(Relazione alla giornata di studio sul tema: “La nuova conformazione della responsabilità amministrativa ed il problema della graduazione della condanna in base alla gravità della colpa”, Cagliari, 12 novembre 2001)

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Sommario:
1. Crisi dell’indirizzo giurisprudenziale tradizionale della Corte dei conti, a seguito delle leggi di riforma della giurisdizione contabile del 1994 e del 1996, e delle sentenze della Corte costituzionale del 1998, le quali hanno parlato di “una nuova conformazione della responsabilità amministrativa”. Accentuazione dei profili sanzionatori della responsabilità amministrativa, rispetto a quelli risarcitori. Il fine dell’efficienza. Necessità di una nuova sistemazione dogmatica dell’istituto. La dogmatica formalistica sganciata da valori etici. La concezione della dogmatica come “momento conoscitivo del fenomeno giuridico”. La realizzazione concreta dell’ordinamento. La nozione di giurisdizione. Unità di ordinamento, azione e giurisdizione. Validità della collocazione in Costituzione della giurisdizione contabile tra le giurisdizioni cosiddette speciali. Superamento del principio dell’unità della giurisdizione. Carattere magistratuale della funzione del controllo. La complementarietà delle funzioni di controllo e giurisdizione.

2. Necessità di considerare l’evoluzione della amministrazione pubblica. La realizzazione dello Stato-comunità e la crisi del dogma della Personalità dello Stato.

3. Le modifiche della struttura della pubblica amministrazione. I principi di economicità, efficacia ed efficienza. La privatizzazione in senso soggettivo.

4. La nozione oggettiva di attività amministrativa. Utilizzazione del diritto pubblico e del diritto privato. Collegamento con i principi di economicità, efficacia ed efficienza. Il contratto e l’assetto concreto degli interessi in gioco. La nozione di attività amministrativa disancorata dalla natura del soggetto che la pone in essere. La nozione oggettiva di pubblico servizio. Le posizioni del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione.

5. Gli effetti della mutata nozione in senso oggettivo dell’attività amministrativa: il criterio del riparto di giurisdizione.

6. L’atteggiamento contraddittorio della Corte di cassazione che fa riferimento al criterio oggettivo della materia, e cioè alla natura dell’attività svolta, quando si tratta di decidere del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, mentre fa riferimento al criterio soggettivo dell’appartenenza alla pubblica amministrazione quando si tratta del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice contabile. La sentenza della Corte costituzionale n. 340 del 2001. La legge n. 97, del 2001, che afferma la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità di dipendenti di enti pubblici economici e di SPA a prevalente capitale pubblico, a seguito di giudizio penale di condanna. La sentenza delle Sezioni Unite della cassazione n. 12367 del 2001.

7. La riforma della responsabilità amministrativa nel descritto quadro della riforma della pubblica amministrazione: dominano i principi di economicità, efficacia ed efficienza. La valutazione della responsabilità del dipendente pubblico nell’ambito del rapporto tra singolo e Amministrazione, tra singolo e collettività. Rapporto di uno contro tutti. Il pensiero di Cavour in proposito.

8. Necessità di porre a raffronto, negli elementi essenziali, la responsabilità civile e la responsabilità amministrativa. Primo punto: il fatto causativo della responsabilità. Illecito civile ed inadempimento dell’obbligazione nella responsabilità civile;”fatto dannoso” nella responsabilità amministrativa. Il fatto dannoso comprensivo delle le due ipotesi civilistiche ed inutilità di un discorso diretto a stabilire se si tratta di natura contrattuale o aquiliana.

9. Secondo punto: danno patrimoniale e danno non patrimoniale. Inaccettabilità della tesi che esclude, per la responsabilità amministrativa, la possibilità di perseguire il danno non patrimoniale. La giurisprudenza sul danno biologico. Il danno all’immagine. Il danno all’ambiente.

10. Terzo punto: un punto cruciale, quello della colpevolezza. Concezione psicologica e concezione normativa della colpevolezza. Il torto della concezione psicologica di seguire una nozione oggettiva di colpa, data dal modello del buon padre di famiglia, o della cosiddetta diligenza media. Ruolo centrale della colpa nella responsabilità amministrativa. La recente limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave. Impossibilità di considerare la limitazione alla colpa grave come una deroga al sistema. La limitazione al dolo o alla colpa grave in riferimento ai principi di efficienza. La diligenza valutata in concreto. Conoscibilità, prevedibilità ed evitabilità dell’evento. L’elevato grado di diligenza richiesto. Il problema centrale della graduazione della colpa ed il cosiddetto potere riduttivo. La giurisprudenza della Corte costituzionale.

11. Quarto punto: il nesso causale. La determinazione del danno risarcibile.

12. Quinto punto: significato dell’espressione “insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.

13. Sesto punto: la nozione di rapporto di servizio. Inutilità di questa nozione dopo che la legge n. 20, del 1994 ha sancito che l’impiegato e l’amministratore rispondono anche dei danni arrecati ad enti diversi da quello di appartenenza. La nozione evanescente alla quale è ancora legata la giurisprudenza. Rilevanza dell’attività svolta, indipendentemente da un inquadramento del soggetto agente nella pubblica amministrazione. La sentenza della Corte costituzionale n. 340 del 2001.

14. Settimo punto: natura personale della responsabilità. Intrasmissibilità agli eredi. Inapplicabilità della solidarietà passiva.

15. Conclusione: struttura, funzione e natura della responsabilità amministrativa. Sua “sistemazione dogmatica”.

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1. L’indirizzo giurisprudenziale della Corte dei conti, che considerava la responsabilità amministrativa alla stregua della comune azione civilistica di risarcimento del danno, attribuendole, nelle sue formulazioni più estremiste, la natura di responsabilità contrattuale, come è noto, è stato fortemente posto in crisi dalla riforma della giurisdizione contabile, attuata dalle leggi n. 19 e n. 20 del 1994 e soprattutto dalla legge n. 639 del 1996, nonché dalla giurisprudenza in materia della Corte costituzionale.

Questa, infatti, con sentenza n. 371, del 20 novembre 1998, relativa alla questione di legittimità costituzionale della norma che limita la responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave, ha parlato di “un processo di nuova conformazione dell’istituto”, che fa riscontro alla “revisione dell’ordinamento del pubblico impiego, attuata, in epoca di poco precedente, dal decreto legislativo n. 29, del 1993, cui ha fatto seguito il decreto legislativo n. 80, del 1998, attraverso la cosiddetta privatizzazione, in una prospettiva di maggiore valorizzazione dei risultati dell’azione amministrativa, alla luce degli obiettivi di efficienza e di rigore di gestione”.

Appare evidente, secondo la Corte costituzionale, che in questo processo di “nuova conformazione della responsabilità amministrativa e contabile” deve essere valutata positivamente la limitazione della responsabilità amministrativa ai soli casi di dolo o colpa grave, poiché essa risponde all’intento “di predisporre, nei confronti dei dipendenti e degli amministratori pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa”.

In altri termini, nella gestione della cosa pubblica, l’amministratore o il dipendente non deve sentirsi troppo con le mani legate, non deve esser frenato dall’ossessivo timore di sbagliare e pertanto non deve essere ritenuto responsabile di qualsiasi comportamento colposo, ed in particolare di quegli errori che, talvolta, come sottolinea un illustre civilista (il Rodotà), per legge statistica “debbono accadere”.

D’altro canto, si deve ritenere, come sottolinea ancora la Corte costituzionale, che “nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, che connotano l’istituto qui in esame, la disposizione in questione risponde alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”.

Con estrema acutezza, come si nota, la Corte costituzionale centra il punto cruciale della responsabilità amministrativa: quello della ripartizione del rischio. Troppo spesso nelle disamine della dottrina e della giurisprudenza è sfuggito questo dato essenziale, e troppo spesso si è guardato alla responsabilità di amministratori e dipendenti nell’ottica paritaria propria del diritto privato, dimenticando che l’esercizio di un’attività amministrativa comporta l’assunzione di rischi altissimi, che sono e restano rischi propri dell’Amministrazione. D’altro canto deve sottolinearsi che si è verificato anche l’eccesso opposto ed è accaduto che taluni Enti territoriali abbiano fatto gravare sui loro bilanci tutto o parte del rischio che avrebbe dovuto far carico agli Amministratori, sollevandoli in tutto o in parte dalle loro responsabilità. Fatto, questo, estremamente grave, che infrange il principio della responsabilità personale e, in aperto contrasto con l’art. 103 della Costituzione, vanifica la funzione recuperatoria e deterrente della responsabilità amministrativa, legittimando forme di irresponsabilità con evidente danno a carico dei contribuenti.

I principi che si sono sopra tratteggiati sono stati peraltro ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 453, del 30 dicembre 1998, la quale ha sancito la legittimità costituzionale dell’art. 1-quinquies della legge n. 20, del 1994, nella parte in cui limita, per le ipotesi di concorso, la responsabilità solidale ai soli soggetti che abbiano agito per dolo. Tale sentenza, dopo aver ribadito che detta norma “si colloca nell’ambito di una nuova conformazione dell’istituto della responsabilità amministrativa e contabile, secondo linee volte, fra l’altro, ad accentuarne i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori”, ha sottolineato che nell’ipotesi di concorso nello stesso evento di danno di soggetti che hanno agito con dolo e di soggetti che hanno agito solo per colpa grave, la limitazione del principio di solidarietà soltanto ai primi non viola il principio di uguaglianza, “giacché proprio il trasferimento del peso del risarcimento dal maggiore al minore colpevole rischierebbe di non essere consono a tale principio”.

Detta sentenza ha chiarito inoltre che la norma in questione non comporta, come sostenuto dal giudice remittente, la necessità di condannare i responsabili a titolo di dolo all’intero danno ed i responsabili a titolo di colpa grave ad un’ulteriore quota, poiché la disposizione di cui si tratta è da interpretare nel senso che questi ultimi “restano obbligati solo in via eventuale dopo l’infruttuosa escussione di coloro che abbiano agito con dolo”, come già sostenuto dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, con sentenza n. 29, del 25 febbraio 1997. Insomma, nelle ipotesi di concorso tra responsabili per dolo e responsabili per colpa grave, deve parlarsi di una responsabilità principale dei primi e di una responsabilità sussidiaria dei secondi.

Si tratta, come si nota, di una ulteriore importantissima precisazione che completa l’insegnamento della Corte costituzionale in materia. Infatti, soltanto se si perviene alla condanna dell’effettivo colpevole, si riesce a diffondere il convincimento della necessità di tenere sempre un comportamento responsabile, e si riesce a dare all’istituto della responsabilità amministrativa quella nuova conformazione, sulla quale si è tanto insistito.

In questo quadro, non si può non citare anche un’altra sentenza della Corte costituzionale, la n. 327, del 24 luglio 1998, la quale ha inciso anch’essa sul tema dell’efficienza dell’azione amministrativa, agendo, per così dire, su un versante diverso, quello dell’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Nel ritenere costituzionalmente legittima la norma della legge n. 639, del 1996, secondo la quale “l’azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi comunali”, la Corte costituzionale ha in realtà sottolineato il valore del principio dell’autonomia ed ha ribadito che il sindacato giurisdizionale della Corte dei conti, così come sancito in altra norma della stessa legge n. 639, del 1996, deve arrestarsi di fronte a scelte di carattere politico o che attengono al merito della scelta stessa. Si tratta di un’altra precisa affermazione che va nel senso di quella nuova conformazione della responsabilità amministrativa alla quale sopra si faceva cenno e che mira soprattutto a salvaguardare, come si diceva, l’efficienza dell’azione amministrativa.

Le innovazioni, come si nota, non sono di poco conto e richiedono che sia dato all’istituto della responsabilità amministrativa una nuova “sistemazione dogmatica”.

Ed a questo punto il primo problema diventa quello di stabilire cosa si voglia intendere con questa espressione. Si impone cioè innanzitutto una scelta: si vuole seguire la dogmatica formalistica, secondo la quale deve escludersi qualsiasi possibilità di giudizi di valore ed il fine della ricerca deve essere soltanto quello di far rientrare un certo istituto in schemi logici precostituiti, o si vuole piuttosto intendere la dogmatica come “il momento conoscitivo del fenomeno giuridico”, nella prospettiva all’attuazione pratica del diritto? [1]

In altri termini, la sistemazione dogmatica dell’istituto della responsabilità amministrativa impone semplicemente di stabilire se questo tipo di responsabilità rientra nello schema generale della responsabilità civile di natura contrattuale [2], ovvero si tratta di molto di più, si tratta cioè di precisare la finalità dell’istituto, la sua struttura e, quindi, le modalità del suo funzionamento, ed infine la sua natura giuridica? E’ evidente che, se per sistemazione dogmatica dell’istituto si intende, come sopra si accennava, non il far rientrare quest’ultimo in una categoria precostituita, ma il conoscerne nel modo migliore possibile la sua essenza di fenomeno giuridico, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che, ai fini di una ricostruzione scientificamente esatta, è alla seconda alternativa, e non alla prima, che occorre far riferimento.

Si vuol dire, insomma, che la natura giuridica della responsabilità amministrativa va definita non necessariamente in riferimento a concetti giuridici preesistenti, ma in maniera assolutamente libera e non preconcetta, con la conseguenza che la si potrebbe definire anche sui generis, e cioè come un istituto dotato di una caratterizzazione sua propria, ed in particolare di una struttura e di una funzione che lo rendono, per così dire, fisionomicamente diverso dal tradizionale istituto della responsabilità civile, ed in particolare dalla responsabilità civile di natura contrattuale.

E diciamo subito che, a nostro sommesso avviso, la responsabilità amministrativa presenta tali e tante peculiarità, è talmente diversa nella sua struttura e nella sua funzione dalla responsabilità civile, che per essa deve necessariamente parlarsi di una figura di questo tipo.

Sennonché questa affermazione richiede un’indagine, per così dire, a tutto campo, implica non solo l’analisi corretta della struttura e della funzione, ma anche e soprattutto un esame dei principi fondamentali che regolano attualmente l’azione della pubblica amministrazione, principi che sono profondamente diversi da quelli vigenti solo qualche anno fa e che hanno profondamente modificato lo stesso sistema del diritto amministrativo. Ed è da sottolineare a questo proposito che un’indagine siffatta, da noi già affrontata in un recente scritto, al quale si rinvia per i molti profili che vengono in evidenza nel presente lavoro [3], impedisce di poter ritenere che l’affermazione di una natura sui generis della responsabilità amministrativa implichi la considerazione di questo istituto come un istituto extra ordinem [4]. Anzi una ricostruzione che, a seguito di un’analisi sistematica, concluda che la responsabilità amministrativa non è inquadrabile in categorie giuridiche preesistenti ed ha una natura giuridica sua propria, lungi dall’estraniare questo istituto dal sistema, arricchisce, per così dire, il sistema stesso ed è di per sé idonea ad includere l’istituto di cui si tratta nell’ambito del ius ordinarium. D’altronde, il principio dell’unità dell’ordinamento giuridico impedisce di pensare che il fatto che esista una normativa di settore (dato che nessuno può negare per quanto riguarda la responsabilità amministrativa), e, di conseguenza, una natura sui generis di questo tipo di responsabilità, implichi che si tratti di “una natura extra ordinem”. La responsabilità amministrativa fa parte integrante dell’ordinamento generale e nessuno ha mai pensato [5]ad una sua collocazione al di fuori di questo.

Né si può affermare che non possano aver valore, in questo campo, i riferimenti a principi etici [6]. I principi dell’etica, come insegna la storia del costituzionalismo moderno, [7]sono in buona parte recepiti dall’ordinamento giuridico (si pensi al principio di uguaglianza, nel quale si concreta fondamentalmente il principio della giustizia, ai principi di libertà, dignità e sicurezza dell’uomo, ecc., profondamente radicati nelle Costituzioni moderne), costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico, e sarebbe assurdo pensare che non debbano trovare applicazione nella materia della responsabilità amministrativa.

Altro dato di particolare importanza da porre nel dovuto rilievo è il fatto che la responsabilità amministrativa deve essere riguardata non solo in astratto, e cioè come un complesso di norme organiche che delineano l’istituto, ma in concreto, e cioè nella sua attuazione reale attraverso il processo. Vogliamo dire che non si può parlare di responsabilità amministrativa senza pensare anche alla giurisdizione amministrativo contabile e, quindi, ai poteri ed all’attività del giudice contabile.

E qui occorre innanzitutto stabilire cosa si intende per giurisdizione. Di questa, come è noto, si sono date infinite definizioni, nel costante sforzo di distinguere la giurisdizione stessa dalla legislazione e dall’amministrazione. In generale si dice che con la legislazione lo Stato provvede alla posizione delle norme giuridiche, generali ed astratte, con l’amministrazione provvede, a mezzo di appositi organi, ai pubblici concreti interessi che normativamente sono loro affidati, con la giurisdizione all’attuazione del diritto nel caso concreto, intesa questa formula, secondo l’angolo di visuale, ora come attuazione del diritto oggettivo, ora come attuazione del diritto soggettivo. Sennonché, come acutamente osserva il Satta [8] “questo modo di vedere introduce un dualismo tra ordinamento e giurisdizione. Il suo essenziale difetto sta in questo: esso dimentica che l’ordinamento non vive in astratto, ma nel concreto, e questa concretezza trova ad ogni istante nell’azione umana che ad esso si adegua, ed in quanto si adegua. Di qui l’inscindibilità assoluta dell’ordinamento dall’azione, più semplicemente l’unità dell’ordinamento, poiché se è vero che l’ordinamento senza azione è mero flautus vocis, non è meno vero che l’azione senza l’ordinamento è puro fatto, privo di ogni rilevanza.

E’ in questa unità che deve essere intesa la giurisdizione. Poiché se è vero che l’ordinamento è giuridico, ciò significa che esso ha una esigenza assoluta di realizzazione, di essere nel concreto; e se questo non si raggiunge per la spontanea adeguazione di cui si è detto, occorre che qualcuno lo realizzi, cioè lo faccia essere, pena la sua fine. Il problema è allora di sapere chi è questo qualcuno e la risposta non può essere che una sola, evidentemente: l’ordinamento stesso. Ma poiché l’ordinamento non ha di per se stesso una voce, bisogna che esso esprima dal suo seno chi parli per lui, sia un altro da sé. Costui è il giudice, e nel suo giudizio l’ordinamento si risolve. La risoluzione dell’ordinamento nel giudizio è quella che noi chiamiamo, con termine etimologicamente perfetto, giurisdizione, ius dicere.

Ciò che effettivamente è rilevante è di stabilire quali sono gli interessi che la giurisdizione tutela, e non v’è dubbio, a questo proposito, che la giurisdizione contabile ha ad oggetto la tutela di interessi generali, anzi è l’unica giurisdizione (se si esclude quella penale, che, come è noto, è diretta a salvaguardare gli interessi fondamentali alla stessa conservazione della vita sociale) che tuteli l’interesse della collettività in materia patrimoniale ed, in genere, di beni pubblici e collettivi.

I grandi sforzi che sono stati fatti, specie negli anni settanta, per assicurare la tutela civile degli interessi collettivi hanno, infatti, raggiunto solo parzialmente i loro obiettivi, soprattutto perché è risultato difficoltoso ed aleatorio affidare a gruppi o associazioni private la tutela degli interessi di tutti. La tutela civile degli interessi collettivi, come l’esperienza dimostra, è forte quando ha ad oggetto la tutela degli interessi dei componenti del gruppo o dell’associazione legittimata ad agire, ma quando si affida a detti gruppi ed associazioni la tutela di interessi che non sono esclusivi del gruppo o dell’associazione stessa, ma appartengono alla generalità dei cittadini, quando cioè l’azione di cui si discute finisce per assumere una funzione puramente procuratoria, l’interesse che muove il gruppo o l’associazione diventa un interesse debole e difficilmente si ottengono risultati apprezzabili. Insomma, detto in estrema sintesi, è un fatto di comune esperienza constatare che l’interesse economico di categoria prevale normalmente sull’interesse della generalità dei cittadini.

Ne consegue che se davvero si vuole una tutela forte degli interessi generali, oltre a far leva sullo spirito altruistico di gruppi ed associazioni (si pensi alle benemerite azioni delle associazioni ambientaliste), occorre necessariamente affidare, quanto meno in via di principio, la legittimazione ad agire ad un organo del pubblico ministero, poiché soltanto questo è in grado di assicurare la necessarietà dell’azione ed il suo normale svolgimento fino al raggiungimento del risultato finale. In altri termini, si deve ragionevolmente considerare che, fatte le dovute eccezioni, la spinta altruistica del singolo individuo o del singolo gruppo normalmente non va oltre la semplice denuncia all’organo pubblico, mentre è piuttosto illusorio ritenere che il singolo o il gruppo possa farsi carico, nell’interesse generale, di un’azione normalmente onerosa anche da un punto di vista finanziario.

Ed a questo punto non è forse fuor di luogo fare, sia pur di scorcio, due osservazioni in ordine a questo compito fondamentale affidato alla Corte dei conti di tutelare gli interessi generali soprattutto sul piano patrimoniale e su quello della tutela dei beni pubblici e collettivi. Innanzitutto, sembra opportuno sottolineare che la specialità dei compiti affidati giustifica pienamente la collocazione che la vigente Costituzione dà a questo Istituto, collocazione che vede normativamente inserito l’Istituto stesso nel titolo IV, dedicato alla Magistratura, ma che considera la Corte dei conti come una Magistratura cosiddetta speciale, in quanto distinta dalla Magistratura ordinaria.

La suggestione esercitata sulla mente degli studiosi da uomini della levatura di Calamandrei certamente ha ispirato concezioni culturali orientate nel senso dell’unificazione di tutte le Magistrature nell’alveo della Magistratura ordinaria, ma bisogna ritenere che i motivi fondamentali per i quali quella soluzione appariva auspicabile, e cioè la previsione di maggiori garanzie di indipendenza previste per il giudice ordinario, sono oggi sostanzialmente venute meno, visto che anche la Corte dei conti ha il suo organo di autogoverno, mentre precise norme regolano la nomina del suo Presidente e del Procuratore Generale, nonché l’indipendenza dei singoli Magistrati.

D’altro canto, è da tener presente che oggi più che nel passato si avverte l’esigenza della specializzazione dei Magistrati, se è vero, com’è vero, che anche per la Magistratura del lavoro si auspica l’istutuzione di una Magistratura speciale [9]. Detto in una parola, il principio dell’unità della giurisdizione può dirsi oggi superato, mentre appare molto importante considerare i giudici speciali alla stessa stregua di quelli ordinari [10].

L’altra osservazione concerne l’attività di controllo della Corte dei conti. Tale attività appare infatti assolutamente complementare all’attività giurisdizionale, nel senso che completa, sia nella specie del controllo preventivo, sia nella specie del controllo successivo, quella tutela degli interessi generali alla quale sopra si faceva cenno. Ciò significa che è assolutamente necessaria la cointestazione alla Corte dei conti delle due funzioni, ed è assolutamente imprescindibile che l’esercizio di ambedue le funzioni siano riservati a soggetti che rivestano lo status di Magistrati.

E non è superfluo, a questo proposito, ricordare che la Corte di cassazione [11], con sentenza del 20 luglio 1968, n. 2616, ribadita con sentenza 5 febbraio 1969, n. 363, divenuta poi giurisprudenza costante, occupandosi delle giurisdizioni cosiddette speciali, ha sottolineato che “sembra superflua e soltanto nominalistica ogni questione circa la natura ordinaria o speciale di tali Magistrature, perché, essendo previste dalla Costituzione ed avendo una competenza generale in dati settori (per la Corte dei conti in materia di contabilità pubblica), esse possono a ragione considerarsi come ordinarie e, soltanto in quanto sono distinte dagli organi contemplati dall’ordinamento giudiziario, vengono tradizionalmente considerate come speciali, o così le ha ritenute il costituente, pur sottolineando il carattere puramente empirico adottato per la distinzione. Comunque nelle intenzioni del costituente, la Corte dei conti, insieme al Consiglio di Stato ed ai Tribunali militari, si pone accanto al Magistrato ordinario nell’esercizio normale della funzione giurisdizionale, e si contrappone a tutte le altre giurisdizioni speciali delle quali è invece prevista la trasformazione”.

Quanto poi alla predetta, sostanziale, equiparazione della funzione giurisdizionale della Corte dei conti a quella di controllo, è da ricordare, sia pure a distanza di tempo ed in un contesto generale oramai superato, che la stessa Corte di cassazione, con sentenza 23 novembre 1974, nel risolvere un conflitto di potestà tra Corte dei conti e Consiglio di Stato, in riferimento ad un atto di controllo riguardante la Regione Friuli Venezia Giulia, ebbe a sottolineare che il controllo della Corte dei conti “è esercitato in una posizione di assoluta imparzialità, con esclusivo riguardo alla rigida osservanza della legge…..e viene svolto sull’operato della P.A. dall’esterno”, precisando che “tanto il Consiglio di Stato, quanto qualsiasi altro giudice, difettano di giurisdizione rispetto a detti atti”. [12]

Ciò conferma, come si accennava, la necessità che anche la funzione del controllo sia esercitata da Magistrati ed implicitamente pone in evidenza, quanto meno, l’opportunità che sia il controllo e sia la giurisdizione contabile siano affidati allo stesso Istituto, in quanto specializzato nella materia di cui si tratta.

2. Sulla base di queste premesse, ed in particolare in relazione a quel nesso inscindibile al quale sopra si faceva riferimento tra ordinamento giuridico, azione e giurisdizione, appare evidente che uno studio che voglia porre in evidenza la “sistemazione dogmatica” dell’istituto della responsabilità amministrativa ed i suoi approdi più recenti debba necessariamente prender le mosse dall’individuazione precisa della collocazione che l’amministratore ed il dipendente pubblico occupano nell’ambito della pubblica amministrazione. Il che equivale a dire che propedeutico ad ogni discorso sulla responsabilità amministrativa è stabilire qual è stata l’evoluzione più recente dell’amministrazione pubblica e quali, di conseguenza, sono diventati le funzioni ed i compiti degli amministratori e dei dipendenti pubblici.

E si tratta di mutamenti che hanno investito, val la pena di sottolinearlo, non solo la pubblica amministrazione, ma la stessa struttura dello Stato e dell’ordinamento giuridico in generale.

E probabilmente il dato più importante che è opportuno a questo proposito innanzitutto sottolineare è il fatto, sul quale forse non ci si sofferma abbastanza, che la prima e più importante innovazione che si sta realizzando con le riforme in corso è la tanto auspicata identificazione dello Stato con la Società. Si sta in altri termini realizzando lo Stato-comunità, demolendosi il dogma tanto radicato della Personalità dello Stato.

In altri termini, si assiste oggi al dissolvimento di quell’idea, che è stata alla base della cultura giuridica moderna, secondo la quale la collettività, organizzandosi attraverso la posizione di un ordinamento giuridico, “si entifica” e dà luogo allo Stato persona, e cioè ad una entità puramente giuridica (e quindi, osserverebbe Jhering, soltanto pensata), che non ha più alcun legame con la realtà sociale che l’ha prodotta.

E’ questo un fatto di grande rilievo, poiché all’oscuro concetto di Stato persona va sostituendosi il concetto concreto e reale di Popolo, cui spetta la sovranità, ai sensi dell’art. 1 della Costituzione.

E si deve rilevare, a questo punto, che proprio l’affermazione della prospettiva dello Stato-comunità consente di dare concreta attuazione a quei principi fondamentali della nostra Costituzione, i quali pongono in primo piano “il pieno sviluppo della persona umana”, sottolineando la necessità di una “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (articolo 3), e stabilendo come dato imprescindibile il riconoscimento dei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (articolo 2).

Insomma, il pieno sviluppo della persona umana si realizza considerando l’individuo non solo isolatamente, e cioè in riferimento ai suoi primordiali bisogni di vita, come il buon selvaggio di Rousseau, ma nel rapporto con la comunità, nella partecipazione attiva, come si diceva, alla vita politica, economica e sociale.

Lo Stato-comunità è, per così dire, il luogo ideale nel quale lo sviluppo della persona umana può concretamente realizzarsi. Sennonché l’affermazione della persona umana, e cioè la realizzazione dei diritti dell’uomo, sia come singolo, sia come membro della comunità, presuppone, per così dire, un salto di qualità dell’ordinamento giuridico, presuppone che questo riconosca ad ognuno, non solo la protezione dei suoi interessi individuali, ma anche quella dei suoi interessi collettivi, di quegli interessi cioè che sono uguali per tutti ed appartengono nello stesso tempo al singolo ed alla comunità. E’ necessario, in altri termini, che accanto ai diritti soggettivi, che tutelano posizioni strettamente individuali, siano riconosciuti anche i diritti collettivi, che tutelano la posizione del cittadino in quanto membro della comunità, in quanto partecipe attivo della vita di quest’ultima.

3. Queste profonde modifiche, che, come si è visto, hanno posto in primo piano il cittadino e la comunità, fino al punto da far pensare ad una identificazione dello Stato con la società e, quindi, all’affermazione piena della prospettiva dello Stato comunità, hanno portato, come logica conseguenza, ad una profonda modifica della struttura della pubblica amministrazione.

E qui è necessario sottolineare che, posto a centro dell’ordinamento statale il cittadino e la comunità, l’amministrazione pubblica assume necessariamente una posizione servente, per cui si pone l’impellente problema della sua efficienza rispetto al soddisfacimento dei bisogni della collettività. E’ per questo che, a decorrere dagli anni novanta (si pensi innanzitutto alla legge n. 142, del 1990, ed alla legge n. 241, del 1990, ma soprattutto si pensi al decreto legislativo n. 29, del 1993), si sono affermati con forza i principi di economicità, efficacia ed efficienza, principi che, per quanto riguarda la pubblica amministrazione, vanno coniugati con quelli del buon andamento, dell’imparzialità, dell’autonomia e della sussidiarietà.

Si tratta di principi che stanno avendo la loro pratica attuazione mano a mano che, attraverso l’emanazione di decreti legislativi, vengono precisate ed eseguite le disposizioni di cui alla legge 15 marzo 1997, n. 59, contenente la delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa. [13]

Il primo passo verso una nuova struttura dell’amministrazione pubblica in termini di economicità, efficacia ed efficienza, è consistito, come ognuno può agevolmente constatare, nel togliere, alla pubblica amministrazione in senso tradizionale, per così dire, il monopolio della cura amministrativa degli interessi pubblici. A curare gli interessi pubblici provvedono oggi una pluralità indefinibile di soggetti, che possono essere indifferentemente pubblici o privati.

Si assiste anzi ad un vasto fenomeno, per così dire, di privatizzazione in senso soggettivo, che, per un verso vede l’irrompere di soggetti privati (attraverso la funzionalizzazione all’interesse pubblico della loro attività) sulla scena dell’azione amministrativa, e per altro verso registra la trasformazione in soggetti di diritto privato di soggetti tradizionalmente di natura pubblicistica e titolari di funzioni pubbliche. Si pensi alle note trasformazioni in SPA di numerosi enti pubblici economici, ma si pensi altresì alla trasformazione in enti di diritto privato degli stessi enti pubblici nazionali, escluso quelli previdenziali.

Si tratta, come si nota, di una novità di grandissimo rilievo, che cambia radicalmente l’immagine tradizionale della pubblica amministrazione, ponendo in primo piano l’esercizio da parte di soggetti privati di funzioni e servizi pubblici. Si deve rimarcare, tuttavia, che, se anche i soggetti diventano privati, i loro patrimoni sono comunque quelli dei preesistenti soggetti pubblici, derivano cioè dal patrimonio pubblico, che è stato formato attraverso gli apporti dei cittadini-contribuenti.

A questo punto, comunque, si può dire che l’amministrazione pubblica è davvero sulla strada della sua più completa privatizzazione e che di conseguenza il perseguimento dei fini di interesse pubblico non è più affidato esclusivamente ad un soggetto unitario, genericamente definito “Stato”, ma ad una miriade di soggetti, tutti più o meno autonomi e, per così dire, specializzati nel perseguimento di singoli, specifici interessi pubblici.

4. Se è vero, come si è detto, che l’attività amministrativa è posta in essere, non solo da organi della P.A. in senso tradizionale, ma anche da soggetti privati, diventa indispensabile accogliere una nozione oggettiva di attività amministrativa, occorre in altri termini ritenere che essa si qualifichi tale, in quanto consista nello svolgimento di una pubblica funzione o di un pubblico servizio.

D’altro canto, è da tener presente che oggi si è andata sempre più radicando la convinzione che la pubblica amministrazione possa utilizzare indifferentemente le norme del diritto pubblico o del diritto privato.

Del resto già lo Zanobini, parlando della divisione tra atti di imperio ed atti di gestione, ricordava che in realtà occorre tener presente che “i fini che lo Stato consegue con ogni sua attività sono tutti della stessa natura, sono cioè fini pubblici, e non può considerarsi privata un’attività diretta a conseguire fini siffatti, anche se consista in atti formalmente diversi dai comuni atti di diritto pubblico”. In altri termini, l’utilizzo del diritto pubblico o del diritto privato, secondo Zanobini, attiene soltanto alla scelta dei “mezzi di cui l’amministrazione si serve per il conseguimento di tali fini” ed è solo per questo che detta distinzione tra atti di diritto pubblico ed atti di diritto privato “non può essere eliminata”.

E si deve a questo proposito sottolineare che l’irrompere del diritto privato sul piano dell’attività posta in essere dall’amministrazione pubblica, è strettamente connesso, come si è già visto a proposito della privatizzazione dei soggetti agenti, all’affermazione dei su ripetuti principi di economicità, efficacia ed efficienza.

Al riguardo, tuttavia, è necessario rendersi conto che la convenienza del ricorso alle norme del diritto privato risiede in una ragione strettamente giuridica, risiede nel fatto che lo strumento di diritto privato, ed in particolare il contratto, consente una maggiore efficienza dell’azione che si pone in essere, in quanto si lascia alle parti di regolare autonomamente i propri interessi, si consente, in altri termini, proprio in virtù dell’autonomia privata, che gli effetti giuridici che si producono non sono quelli voluti astrattamente dalla legge, ma quelli voluti in concreto dagli agenti in riferimento ai casi concreti ed alle innumerevoli circostanze concrete in cui si versi. Autonomia ed aderenza alla realtà sono gli effettivi presupposti dell’efficienza. Si raggiunge l’efficienza proprio perché si lascia all’agente un’ampia possibilità di scelta in riferimento alla situazione concreta in cui si è chiamati ad operare.

Insomma, come sopra si diceva, la nozione di attività amministrativa non può essere ancorata alla natura pubblica del soggetto che la pone in essere, né, tanto meno, alla natura pubblica o privata delle norme alle quali sia stato conformato l’atto di cui si tratta.

E’ questo, in fondo, l’insegnamento più importante che si ricava da una approfondita lettura della decisione n. 4/99, in data 22 marzo 1999, emessa dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Nel rispondere al quesito in ordine all’applicabilità delle norme della legge n. 241, del 1990, sul diritto all’accesso ai documenti, anche nel caso di attività di natura privatistica svolta da un soggetto privato, come le Ferrovie S.P.A., l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha precisato che “le leggi più recenti hanno introdotto normative sostanziali la cui applicabilità prescinde dalla distinzione tra soggetti pubblici e privati e dalla natura dei loro atti” ed ha sottolineato che “le esigenze del buon andamento e della imparzialità dell’ “amministrazione” (come disciplinate dall’articolo 97 della Costituzione) riguardano allo stesso modo l’attività volta all’emanazione dei provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato”.

Ciò perché “ogni attività dell’amministrazione, anche quando le leggi amministrative consentono l’utilizzazione di istituti del diritto privato, è vincolata all’interesse collettivo, e deve tendere alla sua cura concreta, mediante atti e comportamenti comunque finalizzati al perseguimento dell’interesse generale”. Di conseguenza “l’attività amministrativa è configurabile non solo quando l’amministrazione eserciti pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa (nei limiti consentiti dall’ordinamento) persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività sottoposta, in tutto o in parte, alla disciplina prevista per i rapporti tra i soggetti privati”.

In sostanza, secondo il Consiglio di Stato, “le esigenze del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (come disciplinate dall’art. 97 della Costituzione) riguardano allo stesso modo l’attività volta all’emanazione dei provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato”. Ciò perché “ogni attività dell’amministrazione, anche quando le leggi amministrative consentono l’utilizzazione di istituti di diritto privato, è vincolata all’interesse collettivo, e deve tendere alla sua cura concreta, mediante atti e comportamenti comunque finalizzati al perseguimento dell’interesse generale”.

Insomma, si deve ritenere, è sempre il Consiglio di Stato che parla, che “la legge non ha introdotto alcuna deroga alla generale operatività dei principi della trasparenza e dell’imparzialità e non ha garantito alcuna “zona franca” nei confronti dell’attività disciplinata dal diritto privato”.

E’ evidente che, in questo quadro, non ha più molto senso parlare dei poteri di supremazia della pubblica amministrazione e, soprattutto, ritenere che quest’ultima sia una semplice esecutrice della volontà del legislatore. Alle amministrazioni oggi non si chiede di osservare regole, ma di perseguire politiche, ossia di raggiungere finalità, soddisfare bisogni collettivi, risolvere problemi della Collettività, dare risposte alle domande sociali.

Cadono, in sostanza, i tradizionali steccati tra pubblico e privato e si può in un certo senso parlare di funzionalizzazione dell’attività di impresa, per cui enti pubblici e privati cooperano sempre più per il perseguimento di interessi pubblici.

Siamo di fronte ad una sostanziale riforma della funzione amministrativa, la quale, come si è ripetuto, può essere esercitata da soggetti pubblici o privati, ed utilizzando gli schemi propri del diritto amministrativo, o facendo ricorso al diritto privato.

Un punto, però, deve esser chiaro ed è il fatto che la funzione amministrativa, in qualunque modo e da chiunque esercitata, “deve ascriversi come specie al genere delle potestà, o identificarsi comunque con una situazione che viene conferita perché si eserciti in considerazione di un interesse non proprio, ma altrui, o di natura puramente oggettiva” [14]. Si può anzi dire che si è consolidata, sul piano giurisprudenziale e dottrinale, una nozione oggettiva di attività amministrativa, una nozione che prescinde dal soggetto che pone in essere l’attività e si fonda sulla funzionalizzazione dell’attività stessa a fini di pubblico interesse.

Il nucleo centrale attorno al quale è andata consolidandosi questa nuova nozione di attività amministrativa è stata la nozione di pubblico servizio, i cui precedenti legislativi vanno ricercati nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, e nel recepimento che di questo stesso decreto ha effettuato la legge 21 luglio 2000, n. 205, riguardante la riforma della giustizia amministrativa. In queste disposizioni di legge, infatti, il servizio pubblico si qualifica tale, non perché gestito da una pubblica amministrazione o da un concessionario di questa, ma per le sue finalità di interesse pubblico. E non è privo di significato il fatto che l’art. 33, comma 2, lett. b) del decreto legislativo n. 80, del 1998, integralmente riportato dalla legge n. 205, del 2000, fa riferimento ai “gestori comunque denominati di pubblici servizi”, mentre la legge n. 205, del 2000, tra le poche modifiche che ha apportato al decreto legislativo n. 80, del 1998, ha significativamente indicato, a proposito della devoluzione al giudice amministrativo della materia urbanistica ed edilizia, accanto alle amministrazioni pubbliche, anche i “soggetti alle stesse equiparati”, e cioè i soggetti gestori dei servizi pubblici. Il che vuol dire che chiunque, e quindi anche privati ed imprese, possono gestire servizi pubblici e svolgere, di conseguenza, un’attività di carattere amministrativo.

D’altro canto, questa nozione oggettiva di pubblico servizio ha avuto un concorde avallo da parte della giurisprudenza, sia della Corte di cassazione, sia del Consiglio di Stato. Infatti la sentenza delle Sezioni Unite della cassazione 30 marzo 2000, n. 71, ribadita dalla sentenza 72/2000 delle stesse Sezioni Unite, ha affermato testualmente che “il servizio si qualifica come pubblico perché l’attività in cui esso consiste si indirizza istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività in coerenza con i compiti dell’amministrazione pubblica, che possono essere realizzati direttamente o indirettamente attraverso l’attività dei privati. Il servizio pubblico è cioè caratterizzato da un elemento funzionale, il soddisfacimento diretto di bisogni di interesse generale, che non si rinviene nell’attività privata imprenditoriale, anche se indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Alla nozione oggettiva di servizio pubblico fa poi riferimento, anche se con sfumature ed a fini diversi, l’ordinanza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 30 marzo 2000, n. 1, nella quale si legge che il legislatore ha richiamato “la nozione di servizio pubblico nel suo significato giuridico potenzialmente più vasto, quale attività, di qualsiasi natura, connessa alla cura di interessi collettivi, sia essa svolta da soggetti pubblici o privati”.

E si deve infine rammentare che è stato proprio il legislatore che, all’articolo 1, comma 3, della legge 10 marzo 2000, n. 62, contenente norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione, ha affermato che le “scuole paritarie private svolgono un servizio pubblico”. Si può dire, dunque, che la nozione oggettiva di servizio pubblico è stata oramai universalmente accolta.

5. Diventa molto interessante, alla luce del descritto quadro evolutivo, evidenziare taluni importanti effetti derivanti dalla mutata nozione in senso oggettivo dell’attività amministrativa. Ci si riferisce in particolare al criterio scriminante della giurisdizione ordinaria rispetto a quella amministrativa.

Una interessante sentenza delle Sezioni Unite della cassazione, che non risulta abbia suscitato la dovuta attenzione, ha per l’appunto mutato giurisprudenza sull’argomento ed ha affermato senza mezzi termini che il criterio scriminante della giurisdizione non è più quello che fa leva sulla natura pubblica o privata del soggetto agente, ma quello della materia oggetto di giurisdizione. Si tratta della sentenza 24 febbraio 2000, n. 40, nella quale si legge che “ai fini del riparto della giurisdizione, il criterio discriminante si trasferisce dal soggetto all’oggetto, intendendo con quest’ultimo termine la materia controversa e la disciplina applicabile. Così spostata la prospettiva, vengono meno gli affacciati dubbi di costituzionalità, tutti attinenti alla pretesa necessità che il giudice amministrativo sia competente soltanto per gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione. Mentre, d’altro canto, l’attribuzione di certe materie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non collide con quell’interpretazione dell’articolo 103 della Costituzione, non solo come deroga al precedente articolo 102, ma anche come norma legittimante l’espansione potenzialmente illimitata della giurisdizione amministrativa esclusiva”.

E’ da notare che in questa sentenza la Corte di cassazione ha precisato di non ignorare la sua precedente giurisprudenza che richiedeva, per il riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo, un atto di concessione, ma di esser cosciente che l’intero quadro normativo e giurisprudenziale deve oggi esser rivisitato alla luce delle novità introdotte dal decreto legislativo n. 80, del 1998, il cui articolo 33, secondo comma, devolve alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi ed in particolare quelle aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori...svolti da soggetti comunque tenuti all’applicazione delle norme comunitarie o della normativa nazionale o regionale.

 Insomma, secondo la Cassazione “il dato letterale della norma (soggetti comunque tenuti) e l’intenzione del legislatore (concentrare presso uno stesso giudice la cognizione di tutte le controversie relative ad una materia ritenuta unitaria) sembrano non dare adito a soverchi problemi interpretativi, nel senso che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si radica in ogni controversia attinente alla procedura di affidamento, quando il soggetto è tenuto all’osservanza della normativa comunitaria”.

Questa evoluzione concettuale, come dimostra la citata sentenza della Corte di cassazione, esplica il suo effetto pratico soprattutto in materia di appalti di lavori pubblici, materia in ordine alla quale è decisivo stabilire se la nozione di “amministrazione aggiudicatrice” vada riferita a qualsiasi soggetto, anche privato, che indica e si aggiudichi una gara di lavori pubblici ad evidenza pubblica. Ed il problema è stato risolto, non solo dal Consiglio di Stato, che da tempo si era espresso sulla materia, ma anche dalle Sezioni Unite della cassazione, le quali, come si è visto, nel decorso anno, hanno aderito anch’esse ad una nozione oggettiva del servizio pubblico ed hanno in particolare ritenuto che un soggetto privato, che indica e si aggiudichi una gara a rilevanza pubblica, svolga un’attività di carattere amministrativo.

Resta da vedere, se i soggetti privati che esercitano un servizio pubblico, ovvero indicano una gara di evidenza pubblica, restino tali o siano da inquadrare nel concetto di pubblica amministrazione in senso soggettivo. In questo secondo senso si è espresso da tempo il Consiglio di Stato [15], ed anche la Corte dei conti, la quale, con sentenza-ordinanza della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, 14 febbraio 2000, n. 236/2000-R, ha affermato che l’associazione privata che riceva contributi per svolgere, a seguito di convenzione, un’attività di interesse pubblico “entra in rapporto di servizio con la pubblica amministrazione....assume la funzione di vero e proprio organo pubblico....e si inserisce funzionalmente nell’apparato organizzativo dell’amministrazione”. Il problema, comunque, appare soltanto nominalistico, poiché, com’è evidente, il punto essenziale è stabilire che ciò che conta è la natura amministrativa dell’attività posta in essere, a fini di interessi pubblici, anche da parte di soggetti privati, e poco interessa stabilire se questi soggetti debbano essere considerati anche come parte della “pubblica amministrazione” in senso soggettivo.

6. Alla luce del descritto quadro legislativo e giurisprudenziale, diventa davvero inspiegabile quel persistente orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite della cassazione che nega alla Corte dei conti la giurisdizione in tema di enti pubblici economici e di SPA a prevalente capitale pubblico. [16] Come si è visto, gli argomenti a fondamento di questo orientamento giurisprudenziale sono caduti uno ad uno con l’evoluzione dell’ordinamento giuridico.

Non ha più rilevanza la distinzione tra attività di diritto pubblico ed attività di diritto privato. Non ha più rilevanza la natura pubblica o privata del soggetto agente. L’attività amministrativa non si qualifica più tale perché posta in essere da una pubblica amministrazione, ma può essere posta in essere anche da un soggetto privato. Dunque, proprio non si riesce più a capire come possa affermarsi che un ente pubblico economico o una SPA a totale o prevalente capitale pubblico che svolga un pubblico servizio ed in tale esercizio produca un danno all’erario non debba esser soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.

Se il problema è quello di far salve le scelte di carattere imprenditoriale, tale salvezza è già assicurata dalla norma della legge n. 639, del 1996, che sancisce l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. D’altro canto è da tener presente che la stessa Corte di cassazione, nella citata sentenza delle Sezioni Unite 27 gennaio 2000, n. 71, ha distinto, come si è visto, l’attività consistente nello svolgimento di un servizio pubblico, che è caratterizzata da un elemento funzionale, e cioè dal soddisfacimento diretto dei bisogni di interesse generale, dall’attività puramente imprenditoriale, caratterizzata unicamente dal perseguimento di fini di lucro. Ora, tale distinzione dovrebbe operarsi, non solo a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma anche a proposito del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e Corte dei conti. Non è infatti logicamente ammissibile, dopo tale precisazione, che si consideri attività imprenditoriale pura e semplice anche quella che consiste nell’espletamento di un pubblico servizio, soltanto ove si tratti della giurisdizione della Corte dei conti.

Ma c’è ancora un ultimo punto sul quale la Corte di cassazione non può smentire se stessa ed è il ricorso che essa fa, sempre a proposito della scriminante tra giudice ordinario e giudice amministrativo, al criterio della materia. Se il principio è che la giurisdizione si radica in base alla materia, non si capisce perché detto criterio non debba trovare applicazione anche nei confronti della Corte dei conti. La materia che la Costituzione, all’articolo 103, affida alla Corte dei conti è quella della contabilità pubblica, nella quale, per insegnamento delle stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione, va annoverata anche quella riguardante la responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici. D’altro canto anche la legge ordinaria, e cioè l’articolo 52 del t. u. delle leggi sulla Corte dei conti, non fa differenza tra soggetti pubblici e privati, e dichiara sottoposti alla giurisdizione della Corte “i funzionari, impiegati ed agenti”, mentre l’articolo 44 dello stesso t.u. precisa che la Corte dei conti giudica “sui conti dei tesorieri, dei ricevitori, dei cassieri e degli agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare danaro pubblico o di tenere in custodia valori o materie di proprietà dello Stato, e di coloro che si ingeriscono anche senza legale autorizzazione negli incarichi attribuiti a detti agenti”.

La Corte di cassazione, invece, per discriminare la giurisdizione del giudice ordinario da quella della Corte dei conti, continua a far riferimento, piuttosto che al criterio oggettivo della materia, a quello soggettivo dell’inserimento del soggetto agente nell’apparato della pubblica amministrazione, inserimento che può avvenire soltanto in base ad un atto di concessione o di un formale affidamento, anche mediante convenzione, di funzioni o servizi pubblici ad un soggetto privato. E’ quanto si legge nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 29 gennaio 2000, n. 19, la quale precisa che “l’affidamento da parte della regione Sicilia ad un ente privato della gestione di corsi di formazione professionale, disciplinati e finanziati dalla pubblica amministrazione, instaura un rapporto di servizio con detto ente e ne implica quindi l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti”. E’ evidente, invece, che dopo quanto si è detto a proposito di pubblico servizio ed a proposito del criterio scriminante tra giudice ordinario e giudice amministrativo (individuato nel criterio oggettivo della materia), anche per la giurisdizione della Corte dei conti si sarebbe dovuto ricorrere ad un criterio analogo, senza più riferirsi al criterio di carattere soggettivo dell’inserimento nell’apparato della pubblica amministrazione a seguito dell’instaurazione di un preteso rapporto di servizio.

Lo ha chiarito, in buona sostanza, la stessa Corte costituzionale, la quale, con la recentissima sentenza 24 ottobre 2001, n. 340, affermando che l’inserimento nell’apparato della Pubblica Amministrazione non ha più bisogno di un atto autoritativo della stessa Amministrazione, ha in realtà svuotato di significato proprio questo preteso inserimento nell’apparato amministrativo ed ha affermato che ciò che conta è l’esercizio di un’attività amministrativa.

La Corte costituzionale, in detta sentenza, ha testualmente affermato che “la responsabilità amministrativa non richiede necessariamente l’esistenza di un rapporto d’impiego o la qualità di dipendente, ma il semplice inserimento nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione con lo svolgimento di funzioni proprie della stessa Amministrazione (argomentando dagli artt. 28 e 97 della Costituzione). In realtà l’esercizio di pubbliche funzioni di una pubblica amministrazione non deve necessariamente avvenire utilizzando esclusivamente dipendenti legati da rapporto d’impiego, non coincidendo con l’apparato burocratico degli uffici caratterizzato da rapporto di lavoro dipendente. Il legislatore può prevedere l’esercizio di dette funzioni da parte di soggetti con un rapporto sottostante anche meramente onorario o di mero servizio o di obbligo (v. ordinanza n. 157 del 2001) : in questi casi il legislatore (anche quello regionale o provinciale) può assoggettarli alla disciplina sostanziale della responsabilità amministrativa propria dei dipendenti”. Il che significa, come si accennava, che, in ultima analisi, ciò che conta è “l’inserimento nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione attraverso lo svolgimento di funzioni proprie della stessa Amministrazione”, e cioè, in buona sostanza, ciò che conta è lo svolgimento di un’attività amministrativa, qualunque sia il titolo giuridico per cui questa venga esercitata da un singolo soggetto.

Ad ogni modo è certo che non c’è più nessun argomento che possa in qualche modo giustificare, come è stato detto dalle stesse Sezioni Unite della cassazione, una sorta di zona franca per gli amministratori degli enti pubblici economici e delle Spa a prevalente capitale pubblico. Ogni ente pubblico economico ed ogni SPA, ivi comprese quelle comunali, dovrebbero essere soggette alla giurisdizione della Corte dei conti almeno nei casi in cui essi siano esercenti di pubblici servizi.

Ciò non ostante, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con sentenza 22 giugno-21 novembre 2000, n. 1193, hanno ribadito detto orientamento anche a proposito della SACE (Sezione autonoma del credito all’esportazione), nata come Sezione dell’Inps e divenuta poi un vero e proprio organo erogatore di spesa del Ministero del tesoro, ed il cui organo di amministrazione è formato esclusivamente da funzionari pubblici nominati o designati da diversi Ministeri. [17] E’ da sottolineare che la Sace svolge un’attività soltanto passiva di erogazione di crediti all’esportazione, che grava direttamente sul bilancio dello Stato, e che non potrebbe esser svolta da nessuna impresa privata per il suo carattere di antieconomicità. Per essa, dunque, non può assolutamente parlarsi di attività di natura imprenditoriale. Inoltre, di recente la SACE, considerata da una discutibile giurisprudenza ente pubblico economico, è stata addirittura trasformata in Istituto di diritto pubblico, tant’ è che ha anche mutato la sua denominazione da SACE in ISACE. La sua sottrazione alla giurisdizione della Corte dei conti resta, dunque, davvero inspiegabile e sembra che abbia superato anche i limiti propri dell’orientamento giurisprudenziale in questione, considerato, come si è detto, che per la SACE non si può neppure parlare di attività imprenditoriale.

Si deve tuttavia porre in evidenza che questo radicato orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione potrebbe mutare per effetto di alcune disposizioni contenute nella recentissima legge 27 marzo 2001, n. 97, riguardante la materia del rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Infatti, l’art. 7 di tale legge prevede la comunicazione al competente procuratore regionale della Corte dei conti della “ sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’art. 3”, il quale fa riferimento, non solo ai “dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici”, ma anche ai dipendenti “di enti a prevalente partecipazione pubblica”. Se si pensa che la dizione “enti a prevalente partecipazione pubblica” comprende certamente gli enti pubblici economici e le SPA a prevalente capitale pubblico, se ne dovrebbe concludere che anche gli amministratori ed i dipendenti di questi ultimi, almeno limitatamente alle ipotesi di illecito amministrativo che costituiscano anche illecito penale, debbano essere sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti. [18] E’ certo, comunque, che la citata giurisprudenza della Corte di cassazione non poggia su nessuna specifica norma di legge e che oggi una disposizione di tal genere c’è ed è di segno chiaramente opposto all’interpretazione finora sostenuta da quell’indirizzo giurisprudenziale [19].

E’ d’altro canto da sottolineare che le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con sentenza 9 ottobre 2001, n. 12367, hanno affermato la giurisdizione della Corte dei conti su una società per azioni (la STA), a totale partecipazione del Comune di Roma, in riferimento all’obbligo alla stessa incombente di rendere il conto delle entrate per la sosta automobilistica, di pertinenza del comune, dalla stessa effettuate. La Cassazione ha in proposito sottolineato che non sussistono dubbi sulla “natura privatistica della Sta e sul fatto che, ricorrendo allo strumento previsto dall’art. 22 della legge n. 142 / 90, l’ente pubblico non abbia posto in essere un trasferimento alla società dell’esercizio di un’attività propria dell’ente territoriale, secondo lo schema della concessione”, ma che “il regime privatistico del soggetto non significa che lo stesso non possa essere considerato agente contabile, e quindi soggetto al giudizio per resa di conto. Infatti, secondo la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite (si vedano, tra l’altro, le sentenze n. 846 / 74 e n. 232 / 99) la qualità di agente contabile è assolutamente indipendente dal titolo giuridico in forza del quale il soggetto, pubblico o privato, ha il maneggio del pubblico danaro. Tale titolo può, infatti, consistere in un atto amministrativo, in un contratto, o addirittura mancare del tutto….

Pertanto, ove sia stabilita l’originaria pertinenza ai comuni delle entrate per la sosta, il ricorso del Comune di Roma allo strumento organizzatorio previsto dall’art. 22, lett. E, della legge n. 142 del 1990….non può sottrarre la STA all’obbligo della resa del conto”. Un principio, dunque, è assodato: chiunque ha il maneggio del pubblico danaro deve ritenersi soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti. A maggior ragione non si capisce perché debba essere invece sottratto a questa stessa giurisdizione “chiunque gestisca” il pubblico danaro. In altri termini, se la natura privata di una società non ha influenza quando si tratta di maneggio di danaro pubblico, non si vede perché debba affermarsi il contrario quanto si tratti della gestione di un capitale azionario, che resta pur sempre di pertinenza dell’ente pubblico.

Forse, come si accennava, la recente legge n. 97, del 2001 potrebbe far cadere questa antinomia, almeno limitatamente alle ipotesi di mala gestio.

7. L’excursus fin qui tracciato conferma in pieno la validità di quanto affermato dalle citate sentenze della Corte costituzionale: stiamo assistendo ad una radicale modifica dell’ordinamento giuridico, ed in particolare della struttura e delle funzioni della pubblica amministrazione (come si è visto, sempre più “privatizzata”), nonché della stessa nozione di azione amministrativa, mentre dominanti sono divenuti i principi di economicità, efficacia ed efficienza, che informano oramai del tutto l’attività amministrativa.

In questo quadro ordinamentale, come puntualmente ha sottolineato la Corte costituzionale nelle citate sentenze, anche la responsabilità amministrativa è stata disciplinata in conformità ai principi di efficienza ai quali poco sopra si è fatto riferimento. Si tengano presenti, in proposito, le già ricordate parole del Giudice delle leggi: ci troviamo di fronte ad “un processo di nuova conformazione dell’istituto”, che risponde all’intento “di predisporre, nei confronti dei dipendenti e degli amministratori pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa”, si tratta cioè di norme che mirano “alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività amministrativa debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”, con la conclusione che questa nuova conformazione della responsabilità amministrativa si è realizzata “secondo linee volte, fra l’altro, ad accentuarne i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori” [20].

Questo carattere sanzionatorio, strettamente legato al principio di efficienza dell’azione amministrativa, ha peraltro origini antiche, e deriva dalla regola generale che impone al giudice contabile di graduare la condanna in relazione alla gravità della colpa (comunemente si parla di graduazione della colpa), principio che non è stato correttamente recepito dalla giurisprudenza tradizionale della Corte dei conti, la quale, ispirandosi a concezioni civilistiche, ha finito per interpretare questo fondamentale potere del giudice come un marginale potere di riduzione dell’addebito, quasi un potere di grazia in relazione a particolari circostanze, ed ha parlato di un istituto eccezionale, il cosiddetto potere riduttivo.

Il problema fu posto in sede di approvazione della legge di contabilità generale dello Stato piemontese e fo lo stesso Cavour a porlo in evidenza. Questi, nella seduta del Parlamento subalpino del 19 novembre 1852 [21], nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ministro delle finanze, ebbe ad affermare: ”Il Ministero e la Commissione del pari hanno voluto stabilire che, ove risultasse perdita allo Stato per colpa di un verificatore o d’un agente delle finanze, questo venisse ad essere punito pecuniariamente. L’On. Deputato De Viry andrebbe più oltre e vorrebbe che questi fossero tenuti in solido con il contabile a carico del quale sarebbe costatata la deficienza, e che essi fossero stretti a pagare l’intero ammontare del deficit che risulterebbe….. 

Io credo che, per volere troppo, noi otterremo nulla, e che se noi stabiliamo che l’impiegato delle finanze, il quale per sua colpa avrà lasciato che si facesse un deficit abbia un castigo in danaro da determinarsi dalla Camera dei conti, la legge sarà applicata; ma se invece lo volete rendere garante e solidario di tutti i contabili da esso dipendenti, voi non troverete mai un Tribunale che dichiari che vi fu colpa reale, salvo che voi retribuiate così largamente i vostri impiegati da far sì che vi sia corrispettivo fra l’onorario che loro è dato e la pena che è comminata per una colpa in cui non vi sia dolo o complicità”.

Come si nota, Cavour fu il primo a constatare che l’applicazione dei principi civilistici in tema di responsabilità amministrativa sarebbe stata contraria, ai più elementari principi di giustizia, e, diremmo oggi, al principio di proporzionalità, in quanto appariva evidente che richiedere in ogni caso l’intero danno ad un funzionario che avesse sbagliato soltanto per colpa, e non per dolo, avrebbe significato trasferire su quest’ultimo un rischio proprio dell’Amministrazione, a meno che non lo si fosse pagato “così largamente” da giustificare l’irrogazione di una “pena” tanto rilevante.

Fu così che, per la prima volta, fu stabilita, nella legge di contabilità dello Stato piemontese, come si è accennato, il principio della graduazione della colpa, principio che fu poi chiaramente espresso con la regola: “la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno”, ma che fu interpretato, in modo non corretto, come una sorta di potere riduttivo rimesso alla valutazione prudente ed equitativa del giudice contabile. [22]

Cavour, in altri termini, intuì, prima di ogni altro, che il rapporto tra dipendente ed Amministrazione, è, in buona sostanza, un rapporto di uno contro tutti (non si dimentichi che l’Amministrazione rappresenta gli interessi dell’intera collettività) e che a questo tipo di rapporto non si può applicare, senza alcuna modifica, l’istituto civilistico del risarcimento del danno, pena l’inaccettabile trasferimento sul singolo impiegato del rischio d’impresa che è invece proprio della Pubblica Amministrazione. [23]

8. Diventa a questo punto necessario porre a raffronto, quanto meno negli elementi fondamentali, la responsabilità civile e la responsabilità amministrativa, al fine di porre in evidenza che i due istituti si differenziano profondamente nella loro struttura e nel loro, per così dire, funzionamento.

Il primo punto da esaminare è, evidentemente, il fatto causativo della responsabilità.

Come è noto, fatti causativi della responsabilità civile possono essere l’atto illecito o l’inadempimento di una preesistente obbligazione. Nel primo caso si parla di responsabilità aquiliana per violazione del generico obbligo del neminem laedere, nel secondo caso di responsabilità contrattuale, e tra le due forme di responsabilità ci sono alcune differenze principalmente in ordine agli effetti (nella responsabilità aquiliana si risponde dei danni prevedibili ed imprevedibili, mentre in quella contrattuale si risponde soltanto dei danni prevedibili) ed in ordine alla prescrizione (quinquennale nel primo caso e decennale nel secondo).

Nella responsabilità amministrativa, invece, la legge non distingue tra responsabilità aquiliana e responsabilità contrattuale, ma, come esattamente e lucidamente ha da tempo rilevato il Garri [24], pone in evidenza soltanto il “fatto dannoso”, cioè il fatto, puro e semplice, dell’essersi verificato un danno per lo Stato. Né il danno è condizionato dalla cosiddetta violazione degli obblighi di servizio, poiché quest’ultima “non può considerarsi fonte diretta della responsabilità, in quanto può aversi violazione degli obblighi di servizio senza responsabilità”, mentre “ è nella responsabilità disciplinare che la violazione degli obblighi di servizio viene in rilievo come fatto giuridico, il quale, in quanto vietato, è fonte diretta della responsabilità” [25]

Questo dato, di estrema importanza per l’esatta “sistemazione dogmatica” dell’istituto della responsabilità amministrativa, è peraltro confermato per tabulas dall’art. 52 del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti e dall’art. 83 della legge di contabilità generale dello Stato, il quali affermano all’unisono che “la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”.

Queste norme di legge, come si nota, non solo ribadiscono, come si è detto, il principio fondamentale della graduazione della colpa, ma, ponendo in evidenza, come sottolinea il Garri, il “fatto dannoso”, puntualizzano altresì che tale danno può derivare da un illecito di tipo aquiliano (il danno accertato), o da un inadempimento contrattuale (valore perduto).

Se ne deve dedurre che è assolutamente inutile discettare sulla presunta natura aquiliana o contrattuale della responsabilità amministrativa [26], poiché la legge, come si è visto, ha praticamente unificato le due ipotesi, né, d’altro canto, possono trarsi conseguenze sul piano degli effetti da tale asserita natura, visto che gli effetti peculiari della responsabilità amministrativa sono determinati dalle norme specifiche che la riguardano, e non risentono affatto di questa presunta natura aquiliana o contrattuale che le si vorrebbe attribuire.

D’altro canto è da ricordare, come magistralmente ha posto in evidenza il Garri, che “l’inconferenza di una costruzione della responsabilità amministrativa come responsabilità contrattuale è riconosciuta anche dai più avveduti studiosi che costruiscono la responsabilità amministrativa con caratteri propri della responsabilità contrattuale, ma la ritengono tale solo formalmente, in quanto svolgentesi nell’ambito del rapporto di pubblico servizio, mentre sostanzialmente, o meglio ontologicamente essa viene riconosciuta come responsabilità aquiliana, perché il danno non è dato dal valore patrimoniale dell’obbligazione inadempiuta, ma è un danno che viene imputato al responsabile in quanto collegato alla sua azione od omissione, in virtù di un nesso causale, ed è danno che sta al di fuori dell’obbligo di servizio violato” [27].

 Si può, dunque, concludere sul punto, affermando, come del resto si è già detto, che è del tutto inutile asserire la natura aquiliana o contrattuale della responsabilità amministrativa e che, se proprio si vuol fare riferimento a queste due categorie civilistiche, si deve allora sottolineare che, per la sua struttura (fatto dannoso) e per la sua funzione, la responsabilità amministrativa si avvicina più alla responsabilità aquiliana che a quella contrattuale. [28]

9. Altro punto sul quale conviene fermare un attimo l’attenzione è quello del carattere patrimoniale o non patrimoniale del danno oggetto dell’azione di responsabilità amministrativa, poiché alcuni autori [29]ed una certa giurisprudenza della Corte dei conti, invero minoritaria, considerano il danno in questione, sempre ed in ogni caso, un danno “patrimoniale”. Si arriva così all’assurdo che, mentre in sede civilistica si perseguono danni patrimoniali e non patrimoniali, in sede di giudizio di responsabilità amministrativa si dovrebbero perseguire soltanto danni patrimoniali.

Ciò deriva dalla superata interpretazione che fino agli anni settanta si è data dell’art. 2043 c.c., secondo la quale la patrimonialità è un carattere essenziale del danno risarcibile, mentre il danno non patrimoniale è considerato risarcibile soltanto se dipendente da reato (art. 185 c.c.). In questa prospettiva, il danno non patrimoniale coincide con il danno morale, cioè con le afflizioni che derivano dall’aver subito un illecito penale, il cui ristoro viene individuato dalla cosiddetta “pecunia doloris”.

D’altro canto il danno morale, in un primo momento, non era neppure considerato “danno non patrimoniale” e fu soltanto il codice civile del 1942 ad includerli in questa categoria, mentre, secondo la vecchia terminologia, essi davano luogo soltanto ad una “riparazione pecuniaria”, come si legge all’art. 7 del vecchio codice di procedura penale, secondo il quale”….i delitti contro la persona…., anche se non abbiano cagionato danno (cioè danno patrimoniale), possono produrre azione civile per riparazione pecuniaria”. Dunque, per il risarcimento di quelli che oggi definiamo danni non patrimoniali, e cioè per i danni morali, una volta non si parlava affatto di risarcimento del danno, ma solo di “riparazione pecuniaria”.

La giurisprudenza civile delle Corti di merito, durante gli anni settanta, e poi quella della Corte di cassazione e della Corte costituzionale [30], degli anni ottanta, distinguendo tra danno evento e danno conseguenza, hanno fortemente ampliato la categoria del danno non patrimoniale includendovi, ad esempio, il danno biologico, che, come è ovvio, non è un danno patrimoniale, ma personale. In altri termini, il vecchio danno morale (pecunia doloris) è rimasto nella categoria del danno non patrimoniale, ma accanto ad esso si sono aggiunte nuove forme di danno, che, stando all’attuale situazione, prevedono come danno non patrimoniale anche il danno biologico, o danno alla persona, che sopra abbiamo definito danno personale, ed il danno ambientale, inteso come danno a beni appartenenti alla collettività [31] .

Il tutto poggia su una nuova interpretazione dell’art. 2043 c.c., secondo la quale questo non richiede affatto per la risarcibilità del danno il carattere della patrimonialità, ma solo quello dell’ingiustizia [32] del danno, mentre deve ritenersi ingiusto qualsiasi fatto che danneggi beni socialmente e giuridicamente rilevanti, come per l’appunto, la persona e l’ambiente. In altri termini, occorre guardare al bene giuridico oggetto dell’aggressione ed il danno a questo bene costituisce, come si accennava, danno evento, mentre il conseguente danno al patrimonio o le afflizioni subite dalla persona offesa vengono definiti danni conseguenza. Alcuni autori, come si diceva, [33], considerano “patrimoniale” anche il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione con la conseguenza della sua risarcibilità solo se ed in quanto l’Amministrazione stessa abbia speso delle somme per il suo ripristino. Il che, evidentemente, svuota di significato lo stesso concetto di danno non patrimoniale all’immagine, in quanto, in ogni caso dovrebbe essere risarcita la spesa effettuata per ripristinare il danno (sia esso materiale, o immateriale, com’è il danno all’immagine) prodotto da un amministratore o da un impiegato.

D’altro canto, una simile interpretazione svuota di significato anche la sentenza delle Sezione Unite della Corte di cassazione n. 5668, del 1997, che ha riconosciuto alla Corte dei conti la giurisdizione in materia [34].

Si deve, dunque, ritenere che la limitazione della responsabilità amministrativa ai danni patrimoniali, detti anche danni erariali (la legge non parla di danni erariali, ma solo di danni allo Stato), è frutto di posizioni superate che non hanno più riscontro nell’attuale realtà giuridica, e che oggetto dell’azione di responsabilità amministrativa sono, non soltanto i beni patrimoniali dell’ente pubblico, ma anche il prestigio dell’Amministrazione (nella cui lesione si concreta il danno all’immagine) e soprattutto i beni della collettività (in quanto oggi deve intendersi per Stato lo Stato comunità, e lo Stato persona è soltanto ente esponenziale della collettività), tra i quali, ovviamente, predomina il bene ambiente, anche se una criticabilissima norma dell’art. 18, della legge n. 349, del 1986, ha sottratto alla Corte dei conti la giurisdizione in materia, affidandola al giudice ordinario [35].

10. Il punto cruciale del discorso, nel quale maggiormente si evidenziano le sostanziali differenze tra responsabilità civile e responsabilità amministrativa è quello della colpevolezza (e, quindi, della graduazione della condanna: il cosiddetto “potere riduttivo”). In questo campo, infatti, il sistema seguito dal codice civile e quello seguito dalle norme che regolano la responsabilità amministrativa sono fra loro fortemente differenziati, perché si ispirano, rispettivamente, a due diverse concezioni della colpevolezza: quella psicologica e quella normativa.

Come chiaramente insegna il Mantovani, [36]“per la concezione psicologica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, la colpevolezza consiste e si esurisce nel nesso psichico tra l’agente ed il fatto....La colpevolezza viene concepita come un nesso psichico astratto fisso ed uguale in tutti casi, perciò non graduabile, che fonda ed esclude, ma non gradua la responsabilità. Necessario per stabilire l’an, ma estraneo alla valutazione del quantum di essa, che doveva essere determinato solo in base agli elementi obiettivi o obiettivabili, non ai motivi e situazioni personali, appartenenti invece al giudizio morale. Merito della presente teoria è di avere posto in luce l’imprescindibile base naturalistico-psicologica della colpevolezza. Essa però presenta due limiti. Non solo è fallita nello sforzo dommatico di costruire la colpevolezza come concetto di genere, astraendo gli elementi comuni del dolo e della colpa, trattandosi, dal punto di vista psicologico, di due reltà irriducibili: il dolo è un’entità psicologica reale (coscienza e volontà) e la colpa un’entità psicologica potenziale (prevedibilità). Ma soprattutto tale teoria non ha mai consentito una reale graduazione della colpevolezza, imposta dall’insopprimibile esigenza di commisurare la responsabilità anche ai motivi dell’agire.

Per la concezione normativa, elaborata agli inizi del novecento, la colpevolezza è il giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere. Anzicchè una realtà psicologica, essa è un concetto normativo, che esprime il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e la norma: non dunque volontà di ciò che non doveva essere, ma volontà che non doveva essere, una volontà illecita.

Da modi di essere della colpevolezza, dolo e colpa ne diventano solo elementi, costituendo oggetto del rimprovero. Rinunciando a costruire la colpevolezza come il genus, astraendo gli elementi comuni del dolo e della colpa, la presente teoria si sforza di costruire un concetto unitario di colpevolezza, incentrato sulla comune essenza, cioè sull’atteggiamento antidoveroso della volontà che qualifica sia il dolo che la colpa. Il fatto doloso è un fatto volontario che non si doveva volere: si rimprovera alla volontà di averlo prodotto. Il fatto colposo è un fatto involontario che non si doveva produrre: si rimprovera alla volontà di non averlo impedito. In entrambi i casi il soggetto ha agito in modo difforme da come l’ordinamento voleva che agisse. Ma soprattutto tale teoria non solo fonda ed esclude la responsabilità, ma la gradua: vuole offrire un concetto graduabile di colpevolezza secondo criteri di valore, essendo la volontà diversamente rimproverabile in ragione della sua maggiore o minore antidoverosità. E ciò al fine di soddisfare quelle esigenze di individualizzare la colpevolezza, di rapportarla alla varietà delle situazioni umane attraverso la valutazione dei processi interni di motivazione, come del resto la prassi giudiziaria quotidianamente fa nella commisurazione concreta della pena”.

Il codice civile, come si accennava, segue la concezione psicologica della colpevolezza. Esso richiede che nell’agire umano si segua un canone medio di diligenza, la diligenza del buon padre di famiglia, per cui è in colpa chi si discosta da quel modello.

Ed è da precisare, a questo proposito, che quando si parla di colpa lieve o di colpa grave, non si intende affatto far riferimento ad una graduazione della colpa, e tanto meno ad una diversa qualificazione giuridica dei gradi di colpa, ma al grado di diligenza che, secondo determinate circostanze, può richiedersi ad un uomo medio. E se talvolta il codice civile limita la responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave, com’è nel caso della cosiddetta colpa professionale, prevista dall’art. 2236 c.c., secondo il quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”, ciò non significa che il codice disponga una diversa qualificazione della colpa, ma significa soltanto che, in determinate circostanze, come quella di chi svolge un’attività tecnicamente difficoltosa, la diligenza richiesta va valutata con minore severità, poichè, in quelle circostanze, la diligenza che si può richiedere è inferiore a quella che si può richiedere nei casi normali.

Come esattamente è stato osservato, “la teoria tradizionale dei gradi della colpa è errata, in quanto tende a portare sul piano giuridico diversità che non toccano il momento giuridico della colpa, bensì il momento di fatto della diligenza, della cui valutazione è questione....la gravità non è relativa ai pretesi diversi gradi della colpa, intesi quali figure (forme) di qualificazione giuridica, ma semplicemente alla valutazione della diligenza riferita alle circostanze.

Il giudice cioè potrà valutare una neligenza più grave o meno grave in relazione alle circostanze in cui il comportamento del soggetto siasi svolto, ma il momento di valutazione sarà sempre quello del buon padre di famiglia; e sarà pur sempre uno ed uno solo, chè altrimenti non avrebbe neppur senso di ricercare cosa voglia dire gravità maggiore o minore, o rigore di valutazione maggiore o minore....ciò che qui ci preme stabilire è che la colpa, come forma di qualificazione giuridica e come criterio di qualificazione e di imputazione causale, è pur sempre una” [37]. La verità è che, se si resta ancorati alle disposizioni del codice civile, non si esce fuori della concezione psicologica della colpa ed è impossibile pensare ad una sua graduazione cui corrisponda una graduazione della responsabilità: chi versa in colpa, si ripete, risponde dell’intero danno prodotto secondo i canoni della causalità diretta ed immediata, come dispone un altro articolo del codice civile,e precisamente l’art. 1223.

E’ per questo che, con termine forse improprio, si è affermato che la colpa civilistica è una colpa oggettiva. Infatti, come puntualmente è stato notato, la colpa civilistica consiste “in una nozione obiettiva che prescinde dalla cattiva volontà del soggetto e dalla sua attitudine ad emettere lo sforzo diligente dovuto”. In altri termini “il soggetto che tiene un comportamento non conforme ai canoni obiettivi della diligenza è in colpa anche se abbia fatto del suo meglio per evitare il danno, senza riuscirvi a causa della sua inettitudine personale (imperizia, mancanza del normale grado di diligenza, età avanzata, ecc.), od economica” [38]. E’ questo il punto in cui si coglie l’aspetto della responsabilità civile non propriamente conforme ai canoni di giustizia, cui sopra si faceva riferimento. E le critiche, sotto questo profilo, non sono certo mancate.

E’ stato infatti osservato che “quando valutiamo la condotta del soggetto secondo un modello astratto, così come diamo un certo vantaggio all’uomo particolarmente esperto e capace, nello stesso momento addossiamo invece al soggetto capace meno della media questo suo difetto, perchè lo valutiamo con la stessa severità con cui valutiamo l’uomo medio. In tal guisa riteniamo colpevole un soggetto anche se dal punto di vista soggettivo dovremmo concludere che in realtà da lui, date le sue modeste capacità e la sua modesta esperienza, noi più di tanto non potevamo umanamente pretendere” [39]. Ed altrettanto opportunamente si è sottolineato che occorre “contrapporre alla diffusa tradizione oggettivistica un grave argomento di natura sistematica, e precisamente quello che si può dedurre dal requisito dell’imputabilità dell’atto....Se colpevolezza equivale a volontà riprovevole, la logica del sistema esige che si tenga sempre conto del livello delle doti individuali, in quanto non si può certamente rimproverare al soggetto di non aver fatto quello che non poteva realizzare....E va rilevato che questa conclusione non porta in nessun caso a dimenticare lo scopo di un’equa distribuzione dei danni, poichè, fondando la responsabilità sulla colpa, si dice che giusta è quella ripartizione per cui un soggetto sopporta l’incidenza economica di quei soli danni che egli poteva e doveva evitare” [40].

Come si nota, la condanna della cosiddetta colpa oggettiva, sempre ed in ogni caso riferita all’unico modello del buon padre di famiglia, segna il passaggio, tra i civilisti, dalla concezione psicologica della colpa a quella normativa. Finchè la colpa è ravvisata in un nesso psichico tra l’agente ed il fatto, non c’è spazio per una graduazione della responsabilità, ma quando, come avverte il Cian, il fondamento della colpa è individuato in un giudizio di rimprovero, che scaturisce da una valutazione della conoscibilità ed evitabilità dell’evento da parte del soggetto agente, allora la mancata graduazione della responsabilità appare davvero ingiusta ed inaccetabile.

Come sopra si accennava, sfugge a questa intima disarmonia della responsabilità civile proprio la disciplina della responsabilità amministrativa, la quale, uniformandosi alla concezione normativa della colpevolezza, prescrive per l’appunto una graduazione della responsabilità in riferimento al grado di colpa dell’agente [41]. E le norme che disciplinano questo tipo di responsabilità sono di una chiarezza solare.

L’art. 52 del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con R.D. n. 1214, del 1934, al comma 2, dispone che “la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”. Analogamente, l’art. 83 della legge di contabilità generale dello Stato, emanata con R.D. n. 2440, del 1923, sancisce che “i funzionari di cui ai precedenti articoli 81 ed 82 sono sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la quale, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto”, mentre l’art. 19, comma secondo dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, emanato con D.P.R. n. 3, del 1957, dispone che “la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto il danno accertato o parte di esso”. Ed è da soggiungere che l’art. 82, comma secondo, della legge di contabilità generale dello Stato prevede che “quando l’azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del suo ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire”.

Tali norme, peraltro, hanno avuto una loro puntualizzazione proprio dalle riforme della giurisdizione amministrativo contabile realizzate dalle leggi nn. 19 e 20, del 1994 e dalla legge n. 639, del 1996. Ed è a questo proposito sono soprattutto da ricordare l’art. 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, secondo il quale “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale. Essa si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente illecito arricchimento degli eredi stessi”, nonchè l’art. 3, commi 1, 1-quater ed 1-quinqies della legge 20 dicembre 1996, n. 639, secondo i quali: “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi”; “se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso”; “nel caso di cui al comma 1-quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmemte” [42]

Come si nota, la disciplina della responsabilità amministativa, a differenza di quella civile, che pone in primo piano l’intesesse del danneggiato al risarcimento del danno, è tutta fondata sulla colpevolezza del danneggiante: la colpa, in altri termini svolge un ruolo centrale e dominante rispetto a tutti gli altri elementi costitutivi della responsabilità [43]. Posto in primo piano l’elemento della colpevolezza, si capisce perchè il nucleo centrale della disciplina della responsabilità amministrativa, come sopra si è accennato, ruota intorno al criterio della graduazione della responsabilità in relazione al grado di colpa dell’agente. E non sfugge, a questo proposito, che, nella delineata prospettiva, diviene presupposto logico della disciplina stessa la personalizzazione e l’individualizzazione della responsabilità. Se si vuole che la responsabilità sia commisurata alla colpa, cioè ad un fatto strettamente soggettivo, occorre innanzitutto che la responsabilità stessa sia personale [44]. Ciò è espressamente detto dalla legge del 1994 e da quella del 1996, le quali, come si è visto, non solo affermano che la responsabilità ha natura personale, ma escludono altresì, tranne limitate ipotesi, sia la solidarietà passiva, sia la trasmissibilità agli eredi, ed è desumibile peraltro anche dalle norme del 1923, le quali, come si è visto, sancivano che, nei casi di concorso di azioni colpose, “ciascuno risponde per la parte che vi ha preso”, cioè personalmente ed individualmente.

La disciplina della responsabilità amministrativa, come si nota, presuppone la determinazione del danno economico subito, determinazione che, ovviamente, viene effettuata sulla base delle conseguenze immediate e dirette dell’azione od omissione [45], e si incentra tutta sulla valutazione da parte del giudice della colpa dell’agente, in base alla quale si determina l’effettivo danno risarcibile. Ed è da precisare, a questo proposito, che lo stesso criterio viene seguito sia nel caso di un solo responsabile, come sopra si è detto, sia nel caso di più concorrenti nello stesso evento di danno. In quest’ultima ipotesi, infatti, “ciascuno risponde per la parte che vi ha preso”, nel senso che si stabilisce prima qual è il danno economico prodotto da ciascuno sulla base del principio delle conseguenze dirette ed immediate, e poi si determina il danno risarcibile, in base al criterio della gravità della colpa.

Si tratta di una norma che si rinviene anche nel codice civile, ad esempio, a proposito dell’azione di regresso fra condebitori solidali, laddove l’art. 2055 c.c. prescrive che “colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate”. Sennonché, in diritto civile, questo principio è stato oscurato, per un verso dalla dominante concezione della colpa oggettiva, e per altro verso dal principio della solidarietà, la cui vera essenza, raramente posta nel dovuto risalto, consiste nel fatto che “il debitore debba rispondere di un fatto colposo non proprio, ma considerato proprio rispetto al creditore” [46].

Tornando al tema de1la graduazione della colpa in sede di responsabilità amministrativa, è, d’altro canto, da porre in evidenza che la recente limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave, prevista in via generale per qualsiasi ipotesi di responsabilità, ha posto su più solide basi l’intera problematica della responsabilità amministrativa. La legge, infatti, non si limita, come di consueto, ad un generico riferimento alle azioni dolose o colpose, ma esige un accertamento sulla “gravità” della colpa, perfettamente in asse con il principio della graduazione della responsabilità sancito, come si è visto, dalle norme contabili.

Appare evidente, peraltro, che, se si considera come criterio generale di imputazione della responsabilità amministrativa quello della colpa grave, ritenendo che tale limitazione, riferita all’intera gamma delle ipotesi nelle quali trova applicazione l’istituto della responsabilità amministrativa, non sia più giustificabile come una deroga al principio della colpa lieve, e sia invece da ritenere legittima, come ha precisato la Corte costituzionale, in base al principio dell’efficienza dell’azione amministrativa, ci si sgancia anche dal modello della diligenza media, cioè dal modello astratto del buon padre di famiglia, con la conseguenza che non c’è più un unico modello cui riferirsi, ma esistono tanti modelli quanti sono i singoli casi di cui si tratta. Del resto, il principio della personalizzazione della responsabilità esige proprio una valutazione in concreto della responsabilità stessa, altrimenti si addiverrebbe ad un concetto di colpa oggettiva, come si è sopra visto, e quindi di una responsabilità certamente non più “personale”.

Accertare la “gravità” della colpa vuol dire, infatti, che la diligenza deve essere valutata, non in astratto, ma in concreto, in riferimento cioè a tutte le circostanze del caso. Ne consegue che occorre tener conto della conoscibilità, della prevedibilità e della evitabilità dell’evento, di modo che non può non qualificarsi “grave” il comportamento di chi, pur potendo, con le sue effettive possibilità ed in determinate circostanze, prevedere ed evitare l’evento dannoso, non lo fece. Si tratta, in sostanza, di un giudizio di rimproverabilità, che pone in evidenza l’atteggiamento antidoveroso della volontà e cioè il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e la norma.

Ed è da precisare a questo proposito che rispondere per dolo o colpa grave, proprio a causa del descritto sganciamento della responsabilità amministrativa dal canone del buon padre di famiglia, non significa richiedere un grado di diligenza inferiore alla media, ma significa richiedere una diligenza adeguata al caso di specie e riferita alle concrete possibilità dell’agente. E si tratterà sempre di un grado di diligenza elevato, che richiede cioè il massimo sforzo possibile da parte dell’agente, come del resto si legge all’art. 13, comma 1, dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, secondo il quale “l’impiegato deve prestare tutta la sua opera nel disimpegno delle mansioni che gli sono affidate, curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene” [47].

Si realizza così, come si accennava, una migliore ripartizione del carico sociale del danno, una ripartizione che, per esser fondata sull’elemento della colpa, appare certamente più consona ai criteri di giustizia che debbono regolare la materia [48]. Occorre, tuttavia, subito sottolineare, a questo proposito, che, non ostante la chiarezza delle norme in questione, la dottrina e la giurisprudenza dominanti, essendo convinte della natura patrimoniale e risarcitoria della responsabilità amministrativa, hanno scambiato il cennato potere del giudice contabile di graduare la responsabilità con un ipotetico ulteriore potere di riduzione dell’addebito, il cosiddetto potere riduttivo, che sarebbe stato aggiunto al potere di accertamento della responsabilità.

Si pensi che a questo proposito l’Alessi [49] affermava: “Invano si è discusso in dottrina per dare un soddisfacente fondamento a siffatta facoltà discrezionale della Corte, ignota al giudice ordinario; non rimane che considerarla come una potestà eccezionale, come una particolarità della giurisdizione civile spettante alla Corte dei conti, determinata da ragioni di equità, che alcune volte consigliano di attenuare gli effetti della responsabilità stessa, tenendo conto di tutte le circostanze, come l’entità del danno, il grado di responsabilità del funzionario, il fatto che i superiori non rilevarono l’errore, pur essendo in grado di farlo, e così via”.

La verità è che dottrina e giurisprudenza sono rimaste prigioniere della concezione psicologica e non sono riuscite a dare una soddisfacente interpretazione delle norme concernenti la responsabilità amministrativa, norme che divengono agevolmente comprensibili solo se si aderisce, come si è ripetuto, alla concezione normativa della colpevolezza.

Anche la Corte costituzionale, invero, ha, in un primo tempo, ritenuto che talune parziali limitazioni legislative della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di dolo e colpa grave potessero spiegarsi, nell’ambito della concezione psicologica della colpevolezza, come conseguenza dell’applicazione di un principio di ragionevolezza. Trattandosi di casi particolari, la Corte ha ritenuto che la limitazione della responsabilità riguardasse il dato di fatto della diligenza, la quale, come si legge nel citato art. 2236 c.c., deve essere valutata con minore severità in determinate circostanze particolarmente difficoltose.

In questo ordine di idee, la Corte costituzionale ha ritenuto che la limitazione della responsabilità alle sole ipotesi di dolo o colpa grave sancita dall’art. 11, comma 3, della legge 3 marzo 1965, n. 340, a favore degli ordinatori di spesa e agenti contabili interessati alle gestioni fuori bilancio non previste da legge di fatto tenute presso l’Amministrazione della pubblica istruzione (sentenza n. 54, del 1975), e dall’art. 52 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, a favore del presidente e dei componenti dei Consigli di amministrazione delle Università (sentenza n. 164, del 1982), doveva ritenersi giustificata quale “deroga” al principio generale che ritiene rilevante la colpa lieve, deroga ispirata ad un principio di ragionevolezza, che impone, proprio in attuazione del principio di eguaglianza, una disciplina differenziata per situazioni diverse da quelle che normalmente si verificano.

Ma un ordine di idee completamente diverso la Corte costituzionale ha seguito nella sentenza n. 1032, del 1988, relativa alla limitazione della responsabilità ai casi di dolo e colpa grave disposto dall’art. 52, comma 1, della legge della Regione Sicilia n. 7, del 23 marzo 1971, per tutti i pubblici dipendenti della Regione. In detta sentenza, la Corte ha affermato la legittimità costituzionale della norma in questione, non in in base alla necessità di una deroga per porre sullo stesso piano situazioni concrete diverse (era del resto impossibile parlare di deroga, visto che si trattava di una norma riguardante tutti i dipendenti regionali, estesa peraltro anche ai dipendenti statali operanti in Sicilia con sentenza additiva della Corte costituzionale n. 112, del 1973), ma in base alla “necessità di garantire un più sollecito ed efficiente svolgimento dell’azione amministrativa da parte degli uffici della Regione siciliana”, in base alla necessità cioè di rendere meglio attuabile il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 della Costituzione.

Non sfugge che, ponendosi in questo nuovo ordine di idee, la Corte costituzionale ha abbandonato, per quanto riguarda la colpevolezza nella responsabilità amministrativa, la concezione psicologica ed ha implicitamente aderito alla concezione normativa. Infatti, se essa ha ritenuto, come si è detto, che la limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave non dovesse esser più vista come una deroga al principio generale che richiede, per l’affermazione della responsabilità, la colpa lieve, al fine di valutare, in base ad un principio di ragionevolezza, con minore severità situazioni più difficoltose di quelle normali, ma potesse esser giustificata da motivi di efficienza dell’azione amministrativa, è evidente che essa ha disancorato la responsabilità amministrativa dal principio generale della colpa lieve, e dal collegato modello della diligenza media, su cui si fonda l’accertamento del nesso psichico tra l’agente ed il fatto dannoso, ed ha implicitamente affermato che ciò che conta è un giudizio sull’intensità della colpa dell’agente, e, quindi, un giudizio di rimproverabilità del comportamento dannoso rispetto alla previsione normativa, con la conseguenza che non si deve più far riferimento ad un unico modello, quello tradizionale del buon padre di famiglia, ma a tanti modelli quanti sono i casi che vengono all’esame del giudice.

La Corte costituzionale ha poi ribadito questi principi, con dovizia di particolari, nelle citate recenti sentenze, riguardanti, rispettivamente, le norme delle leggi di riforma in materia di limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave ed in materia di limitazione della solidarietà ai casi di illecita appropriazione o di dolo (sentenza n. 371, del 1998 e sentenza n. 453, del 1998).

Nel primo caso, come si è visto, la Corte costituzionale si è posta nello stesso ordine di idee già manifestato nella citata sentenza n. 164, del 1982 a proposito dell’analoga norma disposta dalla Regione Sicilia, ed ha giustificato questa nuova disciplina, non più come una deroga al principio generale della colpa lieve, ma come un nuovo modo di intendere la responsabilità amministrativa nel quadro del buon andamento e dell’efficienza dell’azione amministrativa. Implicitamente, come si affermava, ha aderito alla concezione normativa della colpevolezza.

Nel secondo caso, la Corte costituzionale ha sancito la legittimità costituzionale delle norme che, in via generale, bandiscono dalla responsabilità amministrativa la solidarietà passiva, ed ha affermato, quindi, l’opposto principio della personalizzazione ed individualizzazione della responsabilità, facendo intendere, anche sotto quest’altro profilo, di voler abbandonare la concezione psicologica della colpevolezza e di voler invece aderire alla concezione normativa.

E la conferma di questa adesione alla concezione normativa della colpevolezza è venuta dalla stessa Corte costituzionale con la citata, recentissima sentenza n. 340 del 2001, nella quale, pur usandosi ancora la superata espressione “potere riduttivo”, si afferma testualmente: “nel sistema l’attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, è rimessa al potere riduttivo sul quantum affidato al giudice, che può anche tener conto delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, al livello della responsabilità e del danno effettivamente cagionato”. Il che vuol dire che il “livello della responsabilità”, e cioè il grado di colpa viene valutato, e se del caso “attenuato”, in base a tutte le circostanze del caso, e cioè, come si diceva, in base alla concezione normativa della colpevolezza.  

11. Strettamente collegato al tema della colpevolezza, e molto rilevante, come quest’ultimo, per evidenziare le sostanziali differenze tra responsabilità civile e responsabilità amministrativa, è il tema del nesso di causalità. In diritto civile, il nesso di causalità serve per determinare il danno risarcibile. Recita, infatti, l’art. 1223 c.c., cui fa riferimento, per la responsabilità aquiliana, l’art, 2056 c.c., che “il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore, come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Resta, è vero, il dubbio sull’esatta portata dell’espressione “conseguenza immediata e diretta”, oscillandosi tra la teoria della condicio sine qua non e quella della causalità adeguata, ma comunque è certo che in diritto civile esiste un criterio obiettivo per la determinazione del danno: una volta che si sia accertato che un soggetto, come si è sopra visto, versi in stato di colpa, questi deve rispondere di tutti i danni che ha causato.

Profondamente diverso è il sistema predisposto dalle norme che regolano la responsabilità amministrativa. Queste, infatti, collegano, come si è visto, la risarcibilità del danno alla graduazione della colpa, sicchè è in ultima analisi il grado di antidoverosità del comportamento che determina la risarcibilità del danno. In altri termini, in principio civilistico delle conseguenze dirette ed immediate serve per determinare il danno economico che fa capo all’agente, mentre è la gravità della colpa il vero criterio per stabilire l’ammontare del risarcimento. Come si nota, la differenza tra il sistema seguito dal codice in caso di responsabilità civile e quello seguito dalle norme di contabilità pubblica é molto marcata: in sede civile si assicura alla vittima il risarcimento di tutti i danni subiti, in sede di responsabilità amministrativa si assicura invece alla Pubblica Amministrazione, come si è visto, anche una sola parte del danno. D’altro canto l’utilizzazione del criterio della gravità della colpa ai fini della determinazione del danno, sia pur entro limiti molto ristretti, non è estranea al diritto civile. Si ricorderà, infatti, che, allorché si verta in tema di azione di regresso nei confronti dei responsabili solidali (art. 2055 c.c.), ovvero si tratti di concorso del fatto colposo del creditore (art. 1227 c.c.), il danno risarcibile viene determinato secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Nel descritto ordine di idee, che si uniforma, come si è detto, alla concezione normativa della colpevolezza, emerge con evidente chiarezza la sostanziale differenza che esiste tra il giudizio civile di risarcimento del danno ed il giudizio di responsabilità amministrativa.

Infatti, mentre il giudice civile dovrà svolgere due operazioni, dovrà, cioè, separatamente giudicare sull’elemento della colpevolezza, per affermare la sua sussistenza o insussistenza, e sull’elemento del danno risarcibile, per determinarne l’ammontarne sulla base di un principio di causalità materiale; il giudice contabile dovrà effettuare invece una sola operazione: dovrà determinare quanta parte del danno economico prodotto dovrà ritenersi risarcibile in relazione all’intensità della colpa del responsabile, intensità della colpa, è bene ribadirlo, che dovrà essere individuata in riferimento a tutte le circostanze di fatto in cui si svolse l’azione produttiva del danno.

Ne consegue che il giudice contabile non accerta, come fa il giudice civile, una preesistente obbligazione, ma la determina con la sua sentenza, la quale ha perciò carattere costitutivo e determinativo. Insomma, per dirla con i giuristi romani, la sentenza del giudice civile sarà una sentenza “stricto iure”, mentre la sentenza del giudice contabile, il quale dispone senza dubbio di una discrezionalità che il giudice civile non ha, sarà una sentenza “bonae fidei”, come tale certamente più aderente alle esigenze di giustizia del caso concreto. [50]

12. Un altro punto sul quale conviene richiamare l’attenzione, sia pur fuggevolmente, è quello del principio dell’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, del quale parla l’art. 3, comma 1, della legge n. 639, del 1996. Che il merito sia insindacabile è fatto noto anche al giudice civile, ma ciò che è da precisare è che l’insindacabilità del merito della scelta non significa insindacabilità dell’attività discrezionale. Quest’ultima è certamente sindacabile, ma non al fine di valutare la maggiore o minore opportunità della scelta, bensì al fine di valutare se la scelta ha superato o non i limiti stessi della discrezionalità. In altri termini, il potere discrezionale implica che l’Amministrazione sia libera di scegliere tra molte possibilità, tutte legittime, tra le quali essa deve scegliere la più opportuna, ed il giudice deve fermarsi a valutare se la scelta è legittima, senza andare oltre, senza cioè valutare se la scelta è altresì la più opportuna. Peraltro, in sede di responsabilità amministrativa il giudice contabile deve accertare, non perché l’agente non ha effettuato la scelta più opportuna, ma perché l’agente stesso non ha posto in essere quello sforzo necessario per evitare il comportamento (o la scelta) che ha prodotto il danno. Insomma ciò che è determinante è l’ingiustizia del danno e, quindi, per restare nell’ambito della regola in questione, l’accertamento della contrarietà al diritto del comportamento (o della scelta).

13. Un altro aspetto che differenzia la responsabilità civile da quella amministrativa concerne la vexata quaestio del rapporto di servizio, che secondo la maggioranza degli autori e secondo l’attuale giurisprudenza della Corte di cassazione, sarebbe indispensabile per la stessa configurabilità della responsabilità amministrativa. Diciamo subito che il problema di fondo è quello di distinguere i “funzionari, impiegati ed agenti”, espressione adoperata dalla normativa contabile (art. 52 del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti) per individuare i soggetti sottoposti alla giurisdizione contabile, dagli altri soggetti che, anche nel caso in cui arrechino un danno allo Stato, sono invece sottoposti alla giurisdizione civile. Ed a questo proposito è immediatamente da chiarire che il rapporto di servizio, correttamente inteso come la relazione giuridica che intercorre tra l’ente pubblico e i soggetti assegnati agli uffici, non ha più rilevanza alcuna, visto che le leggi di riforma sulla Corte dei conti del 1994 e del 1996 hanno sancito il principio che si risponde per danni causati anche ad enti diversi da quello di appartenenza. D’altro canto, è da porre in evidenza che le profonde modifiche che si sono verificate in campo amministrativo e soprattutto la privatizzazione degli enti pubblici e la rilevanza amministrativa anche di talune attività poste in essere da soggetti privati hanno reso molto più difficile il problema interpretativo di cui si tratta.

La situazione che si è creata ha provocato, peraltro, uno spostamento dell’attenzione proprio sul significato da attribuire alla parola “agenti”, che ha perso, nella convinzione dei più, il significato originario di esercenti attività materiali, per assumere il significato di soggetti di natura privata che comunque si trovino a porre in essere un’attività di carattere amministrativo.

L’idea, radicata, che comunque dovesse individuarsi un rapporto di servizio ha tuttavia spinto gli interpreti verso nozioni più late e talvolta addirittura evanescenti di questo rapporto. Ed una giurisprudenza della Corte dei conti, che può dirsi pacifica, ha parlato di un semplice rapporto di servizio il quale ricorre quando un soggetto venga investito dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della Pubblica Amministrazione, con inserimento anche non volontario nell’organizzazione della medesima e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell’attività stessa alle esigenze generali cui è preordinata.

E’ stato giustamente osservato [51], che questo dato elaborato in sede giurisprudenziale introduce qualche elemento di incertezza con il riferirsi ad attività a favore della Pubblica Amministrazione, in quanto quelle adoperate sono espressioni generiche [52].

Secondo il Garri [53], “il rapporto di servizio ricorre quando un soggetto, anche persona giuridica pubblica o privata, venga investito sia autoritativamente che in via convenzionale, dello svolgimento in modo continuativo di un’attività retta da regole proprie, cioè regole intese a disciplinare l’attività degli apparati amministrativi”. La definizione è accettabile, ma, a nostro avviso, non spiega le ipotesi in cui, come ha chiarito il Consiglio di Stato e come hanno chiarito le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione [54], deve parlarsi di attività amministrativa anche al di fuori di una investitura, non solo autoritativa, ma anche convenzionale. [55] La verità è che l’evolversi del diritto amministrativo ha reso superflua la precisazione “sia autoritativamente, che in via convenzionale”, e resta valido soltanto il riferimento “all’attività retta da regole proprie delle azioni amministrative”, espressione che può ben essere sostituita da quella, più semplice, ma anche più incisiva dello “svolgimento di un’attività amministrativa”. A questo punto può dirsi che la parola “agenti” si riferisce a chiunque svolga attività amministrativa, utilizzando pubbliche risorse, e cioè anche a soggetti privati, e che è tale attività quella che decide sulla sottoposizione alla giurisdizione della Corte dei conti[56].

D’altronde, come si è già osservato, c’è da chiedersi se la ricerca a tutti i costi di questo cosiddetto rapporto di servizio non sia una ricerca vana, priva di significato. Se si accetta che rilevante è la natura dell’attività svolta, se si accetta cioè il criterio della materia, come del resto prescrive la Costituzione, per individuare le competenze degli organi giurisdizionali, probabilmente non c’è più bisogno neppure di parlare di rapporto di servizio. Sembra di questo avviso, come si è accennato anche la Corte costituzionale, la quale nella citata sentenza n. 340 del 2001 ha parlato di “un rapporto sottostante anche meramente onorario o di mero servizio o di obbligo”, sottolineando che ciò che veramente conta è “lo svolgimento di funzioni proprie dell’Amministrazione”, qualsiasi sia il soggetto agente legalmente investito della funzione stessa. Insomma ciò che è necessario fare non è verificare l’esistenza di un preteso “rapporto sottostante”, ma è verificare l’esistenza di una norma di legge che legittimi un dato soggetto allo svolgimento di un’attività amministrativa.

La tralaticia convinzione che l’attività del pubblico dipendente debba svolgersi nell’ambito di un rapporto preestente è, tuttavia, ancora persistente, se è vero che qualche autore, che nega l’esistenza del rapporto di servizio, sente tuttavia ancora il bisogno di sottolineare che l’attività dei pubblici dipendenti si svolge nell’ambito di un “rapporto fondamentale” (Grundlageverhaltnis), che ha come fonte un fatto organizzatorio [57].

14. Un ultimo punto su cui conviene richiamare l’attenzione è quello del carattere personale della responsabilità amministrativa, al quale peraltro si è già fuggevolmente accennato. Si è, in particolare, già avuto modo di osservare che questo carattere vuole sostanzialmente alludere a due aspetti peculiari della disciplina di questo tipo di responsabilità: quello della non applicabilità del principio della solidarietà passiva e quello della intrasmissibilità agli eredi (tranne eccezioni).

Quanto alla solidarietà passiva [58] è da dire che essa fu introdotta dalla giurisprudenza contabile a partire dagli anni cinquanta e non è mai stata sancita da nessuna norma di legge. Infatti, l’art. 82 della legge di contabilità pubblica del 1923 dispone che “quando l’azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha preso”. La regola, dunque, è sempre stata quella della responsabilità parziaria e l’analoga disposizione di legge, contenuta nell’art. 3, comma 1quater, della legge n. 639, del 1986, non può avere altro valore che quello di una interpretazione autentica, in costanza di una contraria giurisprudenza della Corte dei conti.

D’altro canto, occorre sottolineare che il giudizio di responsabilità amministrativa è un giudizio di ripartizione dell’addebito, tant’è vero che tutti i convenibili debbono essere chiamati nello stesso processo (principio del simultaneus processus), e che la ripartizione dell’addebito è logicamente inconciliabile con la solidarietà.. Inoltre, parlando in termini di giustizia, si deve osservare che la solidarietà in pratica trasferisce sul meno colpevole (si pensi al verificatore) la responsabilità del più colpevole (si pensi al speculatore), e questo è evidentemente inaccettabile. In una ipotesi di tal fatta, e cioè nel caso di concorso tra verificatore e peculatore (ed altri analoghi), si deve invece ritenere indispensabile ricorrere al principio di sussidiarietà, nel senso di riconoscere il peculatore come responsabile principale ed il verificatore come responsabile in via secondaria e limitatamente “alla parte che vi ha preso”. E’ quanto ha sancito, tra l’altro, la Corte costituzionale con la citata sentenza n. 453, del 1998, disponendo che i responsabili a titolo di colpa grave “restano obbligati solo in via eventuale, dopo l’infruttuosa escussione di coloro che abbiano agito con dolo”.

Anche a proposito dell’intrasmissibilità della responsabilità amministrativa agli eredi, è da ricordare che la legge non ha mai sancito che la qualità di erede di un dipendente o amministratore pubblico costituisse titolo di legittimazione passiva davanti alla Corte dei conti. [59] Ora, comunque, come già si è visto, la legge ha fatto giustizia di questa interpretazione giurisprudenziale e gli eredi non rispondono davanti alla Corte dei conti, escluso i casi di illecito arricchimento del loro dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi.

15. Emerge, alla fine di questo discorso, ci sembra con elementi di sufficiente chiarezza, la diversa struttura, e quindi il diverso funzionamento, della responsabilità civile e della responsabilità amministrativa.

Può dirsi, in estrema sintesi, che la responsabilità civile considera rilevanti, ai fini dell’affermazione della responsabilità, sia l’illecito civile, sia l’inadempimento di una preesistente obbligazione patrimoniale; fa scaturire dall’illecito o dall’inadempimento una obbligazione di risarcimento del danno; assegna al giudice civile il compito di accertare l’esistenza di questa obbligazione; impone a questi di individuare il danno risarcibile, considerato come contenuto di detta obbligazione, in base al criterio delle conseguenze dirette ed immediate di cui all’art. 1223 c. c.; prevede che lo stesso giudice civile, a seguito di tale accertamento, condanni il debitore all’intero danno accertato.

La responsabilità amministrativa, invece, considera rilevante ai fini dell’affermazione della responsabilità, il “fatto dannoso”, prescindendo dal suo manifestarsi come illecito o come inadempimento; considera il danno prodotto, ed accertato secondo il criterio delle conseguenze dirette ed immediate (tenuto, comunque, conto dei vantaggi conseguiti dall’Amministrazione o dalla comunità amministrata), semplicemente come danno economico, e quindi non ancora risarcibile; considera tale danno come presupposto per l’esercizio da parte del P.M. dell’azione di responsabilità amministrativa; esclude che tale danno costituisca il contenuto di un’obbligazione risarcitoria nascente da un illecito civile o dall’inadempimento di una preesistente obbligazione; fa dipendere la risarcibilità del danno dall’esercizio dei poteri discrezionali ed equitativi del giudice contabile, il quale gradua la condanna sulla base della gravità della colpa; conferisce alla sentenza del giudice contabile la natura di una sentenza determinativa con effetti costitutivi [60].

Ne consegue, come pura conseguenza logica, che la responsabilità civile mira ad attuare il diritto soggettivo, mentre la responsabilità amministrativa mira ad attuare il diritto oggettivo. Nel primo caso, infatti, il promuovimento del giudizio è rimesso alla volontà del soggetto interessato, nel secondo caso, invece, il giudizio è promosso necessariamente ed obbligatoriamente da un organo del pubblico ministero.

E’ un dato, questo, che peraltro è stato da tempo sottolineato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, con sentenza 2 marzo 1982, n. 1282, hanno sottolineato che il P.M. presso la Corte dei conti “promuove l’azione di responsabilità amministrativa nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale (e cioè di diritto obiettivo), rappresentando l’interesse generale al rispetto dell’ordinamento giuridico (e quindi, trattandosi di un ordinamento democratico, alla tutela degli interessi della collettività) e non tutela l’interesse particolare e concreto dello Stato in ciascuno dei settori dell’amministrazione in cui lo Stato si articola” [61].

Se tutto ciò è esatto, c’è davvero da chiedersi se hanno ancora senso tutte le discussioni sulla natura patrimoniale della (presunta) obbligazione risarcitoria del dipendente pubblico verso l’Amministrazione, o se non si debba piuttosto pensare ad una nuova conformazione della responsabilità amministrativa del tutto avulsa dalle connotazioni proprie della responsabilità civile.

Nel quadro che si è tentato di tracciare, infatti, i riferimenti, che pure si leggono ancora nelle leggi vigenti, al diritto dello Stato al risarcimento del danno appaiono più come il residuo di talune concezioni superate (aventi perciò un valore puramente descrittivo, se non soltanto storico), che dati normativi produttivi di reali effetti giuridici. Non sfugge infatti che gli effetti giuridici in questione sono quelli, ai quali sopra si è fatto riferimento, previsti appositamente da specifiche norme di diritto pubblico, e non sono affatto quelli che dovrebbero derivare dalla nozione propria del risarcimento del danno civile.

Questa dizione, peraltro, conserva un solo significato rilevante sul piano giuridico: quello di stabilire che la condanna discrezionale ed equitativa del giudice contabile non può superare il tetto massimo costituito dall’ammontare del danno economico, determinato secondo le modalità previste dal codice civile (criterio delle conseguenze dirette ed immediate), ma anche da una recente norma di diritto pubblico (tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’Amministrazione o dalla comunità amministrata).

Né deve trarre in inganno il fatto che il comma 1 dell’art. 3 della citata legge n. 639, del 1996 parli di “debito”, sancendo che “il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi” (laddove, molto più precisamente, l’art. 1, comma 1, della precedente legge n. 20, del 1994, parlava solo di “responsabilità……che si estende agli eredi”). La locuzione, infatti, come si accennava, ha un valore puramente descrittivo e sta a significare che nei casi di illecito arricchimento, e cioè di dolo, non è ammissibile alcuna graduazione della condanna, essendo massima la gravità della colpa, e che, di conseguenza, allorché vi sia anche una indebita locupletazione degli eredi, questi saranno anch’essi responsabili dell’intero importo del danno. In questo caso particolare, in altri termini, la disciplina propria della responsabilità amministrativa viene a coincidere con la disciplina propria della responsabilità civile, per cui, agli effetti pratici, può ben parlarsi di trasmissione del debito. Resta il fatto, comunque, che, laddove la colpa è graduabile, e cioè all’infuori delle ipotesi di dolo o illecito arricchimento, non ha alcun senso parlare di debito e tanto meno di obbligazione, poiché quest’ultima, come si è visto, può esser solo determinata dal giudice.

E, vale la pena di sottolinearlo, è sempre stato così., anche prima delle riforme del 1994 e del 1996 [62]. La responsabilità amministrativa, in altri termini, è tutta incentrata sulla responsabilità (Haftung) e non ha bisogno di riferimenti all’obbligazione di carattere patrimoniale (Schuld) [63].

In sostanza, il soggetto passivo dell’azione di responsabilità amministrativa non può essere considerato alla stregua di un comune debitore. Egli è semplicemente in uno stato di soggezione: l’aver prodotto un danno alla pubblica amministrazione, lo costringe cioè a subire il giudizio della Corte dei conti, e solo a seguito di una condanna di quest’ultima egli potrà assumere la qualifica di debitore. E’ per questo che la sua responsabilità, come si è visto, è personale, non soggiace al principio della solidarietà passiva, e non si trasmette agli eredi.

Si può, a questo punto, attraverso una valutazione complessiva del descritto quadro normativo, stabilire qual è la funzione della responsabilità amministrativa. E non è chi non veda, dopo quanto detto, come abbia pienamente ragione la Corte costituzionale quando afferma che la responsabilità amministrativa mira a fini di efficienza dell’azione amministrativa, e che è per questo che le ultime riforme che l’hanno riguardata ne hanno accentuato “i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori”.

La sua natura giuridica, dunque, non può essere né risarcitoria, né sanzionatoria, né, tanto meno, penale, o punitiva che dir si voglia.. Si tratta, come si diceva, di una natura sui generis, sicuramente di diritto pubblico.

Lo ha solennemente affermato la Corte di cassazione a Sezioni Unite [64], sottolineando che, “le novelle del 1994 e del 1996, insieme con riforme più generali maturate nell’ordinamento giuridico italiano, come ha affermato il Procuratore Generale controricorrente, hanno avuto il merito di delineare una forma di responsabilità sui generis affidata alla giurisdizione della Corte dei conti, in nessun modo ritagliabile a perfezione sull’uno o sull’altro modello teorico astratto, connotato da fondamenti ed elementi di oggettiva peculiarità, i cui prodromi sono rinvenibili in alcune significative sentenze della Corte costituzionale (la n. 371 del 1998, che sottolinea la “….combinazione di elementi restitutori e di deterrenza….” connotante, entro un più esteso quadro ordinamentale riformatore sviluppatosi nel corso degli anni novanta la responsabilità amministrativo contabile; e la n. 543, del 1998, che ribadisce come “….la responsabilità per danno ingiusto può essere oggetto….di discipline differenziate rispetto ai principi comuni in materia”), senza dimenticare che la concorrente duplicità di elementi (risarcitori ed afflittivi) contrassegna perfino la nascita della giurisdizione contabile (avendo il Cavour per primo nel lontano 1852 innanzi al Parlamento subalpino parlato di “….castigo in danaro da determinarsi dalla Camera dei conti….)” [65].

La tesi che sostiene la natura civilistica, ed ancor più quella che sostiene la natura contrattualistica debbono ritenersi, dunque, definitivamente superate.

Perseguire disegni di inquadramento in vecchie categorie giuridiche sembra proprio una fatica vana, che non serve affatto al fine di una “sistemazione dogmatica” dell’istituto, nel quadro dell’evoluzione attuale del diritto amministrativo, e nell’ambito di quella unità tra ordinamento, azione e giurisdizione alla quale si faceva cenno all’inizio di questo lavoro.

 

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[1]. E. Paresce, voce “Dogmatica giuridica”, in Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, 1964,pag. 708s.

[2] Come sostiene L. Schiavello, in La nuova conformazione della responsabilità amministrativa, Milano, 2001, pag. 125 ss.

[3]  P. Maddalena, Le nuove frontiere della responsabilità amministrativa, in “I Tribunali Amministrativi Regionali”, n. 4- Aprile 2001, pag.319 ss.;. e su Internet: WWW.amcorteconti.it

[4] Così  L. Schiavello, o.c.,pag. 59 e passim

[5] Tranne L. Schiavello, o.c., l.c.

[6] Come fa L. Schiavello, in o.c., pag. 17, 106 e passim.

[7] Vedi, in proposito: P. Maddalena, Azione dei pubblici poteri e costruzione di una società solidale: il problema della giurisdizionalizzazione dei valori etici nella prospettiva dei diritti fondamentali e della legalità costituzionale, in corso di pubblicazione sulla Rivista del  Consiglio di Stato ed in Internet: www.amcorteconti.it 

[8] S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1967, pag. 7 ss., e 107 ss.

[9] Vedi l’intervista al Prof. Gino Giugni, sul Corriere della sera del 3 settembre 2001.

[10] Per più approfondite considerazioni sull’argomento, rinvio al mio scritto “Le garanzie del Magistrato contabile”, in Il Foro Amministrativo, 1975, fasc. 11, pag. 637 ss., tuttora pienamente valide. Vedi anche: P. Maddalena, “Le proposte della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali in tema di giustizia amministrativa e l’azione del P.M. contabile”.

[11] In Foro it. , 1968, I, 2074ss. ed in Foro it., 1969, I, 1969, 2962 ss.

[12] Il Consiglio di Stato, con sentenza 27 giugno 2001, n. 3530, è tornato sull’argomento affermando la propria giurisdizione sugli atti di controllo della Corte dei conti. Sull’argomento si attende ora la decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di regolamento di giurisdizione.

[13] Sul tema dell’efficienza: Carabba, Il controllo di gestione; Scalia, La valutazione dei piani e dei programmi; De Franciscis, La nuova disciplina degli appalti di opere pubbliche; Galiani, Prime esperienze del controllo di gestione mediante contabilità economico-patrimoniale negli enti locali territoriali; Chiappinelli, Federalismo ed aziendalizzazione in sanità: una riflessione sul sistema dei controlli interni ed esterni; Cogliandro, I controlli sul personale pubblico, Pelino, Il principio di legalità ed i suoi controlli; Carabba, Programmazione di bilancio e controllo di gestione; De Girolamo, Riordino degli enti ed istituzioni di ricerca di cui ai decreti legislativi delegati della legge 15 marzo 1997, n. 59; Lazzaro, Comunicazione al Convegno s “I controlli delle gestioni pubbliche”, Perugia, 2-3 dicembre 1999; Manna, Evoluzione dei controlli, adattamento agli INTOSAI AUDITING STANDARDS; Manfredi Selvaggi, La nuova disciplina degli organi politici degli enti locali e riflessi in materia di controlli;Graffeo, La verifica del funzionamento dei controlli interni alle amministrazioni pubbliche; Tenore, Il procedimento di controllo ispettivo, tutti in sito INTERNET: WWW.amcorteconti.IT.

[14] Piras, voce “Discrezionalità amministrativa”, in Enciclopedia del diritto, vol.XIII, Milano, 1964, pag. 78.

[15] Vedi: Consiglio di stato, Sezione V, 20 dicembre 1996, n. 1577, secondo il quale i soggetti privati che si aggiudicano gare d’appalto di opere pubbliche sono pubbliche amministrazioni in senso soggettivo, come tali deputate all’esercizio di potestà pubbliche.

[16] Sull’argomento, vedi; Apicella, Responsabilità degli amministratori degli enti di gestione, in Il Foro amministrativo, 1980, I, pag. 1115 ss.; Martucci di Scarfizzi, Il danno alla finanza pubblica nell’ambito degli enti pubblici economici: profili giurisdizionali e responsabilità amministrativa, in Rivista della Corte dei conti, 1985, pag. 364 ss.; Giampaolino, Sui limiti della giurisdizione della Corte dei conti (a proposito della RAI-TV), in Il foro amministrativo, 1972, III, pag. 935 ss.; Arrigoni, Privatizzazione degli enti di gestione e controllo della Corte dei conti, in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 1993, I, pag. 447 ss.; Battini, Può un ente pubblico evitare il controllo della Corte dei conti?, in Giornale di diritto amministrativo, 1995, I, pag. 67 ss.; De Marco, Corte dei conti, in Il Foro amministrativo delle acque pubbliche, 1995, II, pag. 248 ss.; Di Salvo, Società per azioni in mano pubblica per la gestione di servizio pubblico, in Nuove autonomie, 1996, III, pag. 461 ss.; Sciascia, Il controllo della Corte dei conti sulle gestioni pubbliche in Italia e in Europa, Milano, 1997; Todaro Marescotti, Riforma della Corte dei conti, in Rassegna giuridica di energia elettrica, 1995, pag. 711 ss.

[17] Sull’argomento, vedi le convincenti osservazioni di G. Palumbi, Ancora sui limiti della giurisdizione della Corte dei conti, in Rassegna del Consiglio di Stato, 4, aprile 2001, pag. 745 ss.

[18] Si ricordi, a questo proposito, che un’altra recente legge, la n. 89, del 2001, ha previsto la giurisdizione della Corte dei conti anche in materia di responsabilità di magistrati e funzionari in caso di violazione del termine ragionevole per lo svolgimento del processo.

[19] Vedi in proposito, nel senso di un allargamento della giurisdizione della Corte dei conti in materia di società a prevalente capitale pubblico: Sezione giurisdizionale della corte dei conti per le regione Marche, ordinanza n. 28/01, del 4 luglio 2001, ancora inedita. 

[20] L. Schiavello, o.c., pag. 61, considera “soltanto nominalistiche le questioni intorno alla natura sanzionatoria della responsabilità amministrativa”, evidentemente sottovalutando l’insegnamento della Corte costituzionale.

[21] Atti del Parlamento subalpino, sessione 1852, vol. VI, pag. 1831.

[22] All’art. 47, del R.D. 3 novembre 1861, n. 302, relativo alla normativa sulla contabilità generale dello Stato, si legge: “Gli Ufficiali pubblici, stipendiati dallo Stato, e specialmente quelli ai quali è commessa l’ispezione e la verificazione delle casse e dei magazzini dovranno rispondere dei valori che fossero per colpa loro perduti dallo Stato. La Corte dei conti potrà, secondo le circostanze dei casi, temperare gli effetti della presente disposizione, ponendo a carico di questi Ufficiali una parte soltanto dei valori perduti”.

[23] Su questo importante e centrale profilo dissente L. Schiavello, o.c., pag. 20 e pag. 131 s., il quale considera un “sofisma” il rilievo che si può dare alla sproporzione tra il patrimonio del singolo impiegato ed il patrimonio dello Stato.

[24] F. Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, 1955, pag. 178 ss.

[25] F. Garri, o.c., pag. 180.

[26] Come fa L. Schiavello, o.c., pag. 115 e passim, il quale della presunta natura contrattuale della responsabilità amministrativa ha fatto il cavallo di battaglia del suo citato lavoro.

[27] F. Garri, o.c., pag. 114.

[28] Così: P.Maddalena, Responsabilità civile ed amministrativa: diversità e punti di convergenza dopo le leggi n. 19 e n. 20 del 14 gennaio 1994, in Rivista del Consiglio di Stato, n. 9, settembre 1994, pag. 1430.

[29] Vedi, L.Schiavello, o.c., pag. 124 e pag. 134, il quale sostiene, in anitesi con la giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, che il danno all’immagine è da considerarsi come un danno conseguenza e non come un danno evento.

[30] Corte costituzionale, sentenza 14 luglio 1986, n. 184, in Rassegna del Consiglio di Stato, 1986, II, pag. 920 ss.

[31] Per questo argomento, vedi: P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini, 1990.

[32] Sui rapporti tra illegittimità dell’atto e danno, vedi l’interessante lavoro di G.P. Cirillo, Il danno da illegittimità dell’azione amministrativa e il giudizio risarcitorio, Padova, 2001, pag 77 ss.

[33] L. Schiavello, o.c.,pag. 124.

[34] sul danno all’immagine: Arrigoni, Moralità pubblica e danno non patrimoniale dinanzi alla Corte dei conti: due sentenze a confronto, in Rivista Amministrativa della Repubblica Italiana, 1994, n. 10/11,III, pag. 1216 ss.; Lupi A., Osservazioni in tema di danno all’immagine dello Stato, in Rivista della Corte dei conti, 1998, 3, pag. 187 ss.; Tenore, Giurisdizione contabile sul danno non patrimoniale alla P.A., in Le responsabilità pubbliche, Padova, 1998, pag. 281 ss.

[35] sulla problematica generale della responsabilità amministrativa: Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, 2000, pag. 129 ss.; Staderini-Silveri, La responsabilità nella Pubblica Amministrazione, Padova 1998; Pilato, La responsabilità amministrativa, Padova, 2000; Oricchio, La giustizia contabile, Napoli, 1998; Sepe, La giurisdizione contabile, Padova, 1997; Tenore, L’ispezione amministrativa ed il suo procedimento, Milano, 1999; Auriemma, Responsabilità amministrativa o contabile: unicità del paradigma  giuridico, in sito INTERNET: WWW.amcorteconti,it; A.R. De Dominicis, Considerazioni introduttive sulla funzione di coordinamento del Procuratore Generale presso la Corte dei conti, inInformazione previdenziale, 1, gennaio-febbraio 2001; Pinotti C., Il giudizio innanzi alla Corte dei conti nel sistema complessivo dell’accertamento delle responsabilità, in sito INTERNET: WWW.amcorteconti.it; Ristuccia M., La responsabilità degli amministratori e dei dipendenti nei confronti della P.A. nell’esperienza della Corte dei conti, in Le responsabilità pubbliche, Padova, 1998, pag. 269 ss.; Vari, La responsabilità amministrativa e contabile nel nuovo assetto normativo, in Nuova rassegna, 1992, 19, pag. 2086 ss.; Condemi L., Temi di diritto amministrativo, Rimini, 1995; De Seta, Quali controlli, quale giurisdizione per la Corte dei conti del 2000, Istituto Editoriale Regioni Italiane, Roma, 1993; Speranza, Il nuovo giudizio di responsabilità amministrativa, Roma, 1997; Buscema S. e Buscema A., La responsabilità, in Contabilità di Stato e degli enti pubblici, Milano 1994, cap. IV, pag. 335 ss.; Giampaolino, Prime osservazioni sull’ultima riforma della giurisdizione della Corte dei conti: innovazioni in tema di responsabilità amministrativa, in Foro amministrativo, 1997, 11-12, pag. 3328 ss.; Todaro Marescotti, La responsabilità degli amministratori e dei dipendenti nei confronti della P.A.: quale modello giurisdizionale?, in Le responsabilità pubbliche, Padova, 1998, pag. 331 ss.; Martucci di Scarfizzi, La violazione delle posizioni soggettive pubbliche nella teoria del danno pubblico, contributo ad una ricostruzione dommatica, in Rivista del Consiglio di Stato, 1993, 2, pag. 1813 ss.; Minerva V., Natura della responsabilità amministrativa e poteri istruttori del giudice contabile, in Quaderni della Rivista della Corte dei conti, 1992, 1, pag. 153 ss.

[36] Mantovani, Padova, 1992, pag. 294 ss.,

[37] Maiorca, voce “Colpa civile (Teoria generale)”, in Enciclopedia del diritto, vol VII, Milano, 1960, pag. 568 ss.

[38]Bianca, Diritto civile, vol. V, “La responsabilità”, Milano, 1994, pag. 575 ss.

[39] Forchielli, Responsabilità civile. Lezioni, Padova, 1968, pag. 86 ss.

[40] Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, Padova, 1966, pag. 207 ss..

[41] Vedi in proposito il mio articolo “La colpa nella responsabilità amministrativa”, in Rivista della Corte dei conti, n. 2, marzo-aprile 1997, pag. 272 ss., cui ha fatto seguito in senso adesivo: Ciaramella, Spunti per una riflessione sulla colpa grave nella responsabilità amministrativa. Riferimenti anche alla dottrina e giurisprudenza civilistica e penalistica, in sito internet: www. AM Corte conti. It.; sulla problematica generale della responsabilità amministrativa: Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, 2000, pag. 129 ss.; Pilato, La responsabilità amministrativa, Padova, 2000.

[42] su questi temi: M.L. Maddalena., La natura della responsabilità amministrativa e la questione dell’intrasmissibilità agli eredi tra jus superveniens e interpretazione autentica, in Rivista Amministrativa della Repubblica Italiana, 1997, 2-3, pag. 232 ss.; Colabucci- De Seta, Ancora in tema di solidarietà e di ripartizione dell’addebito della responsabilità amministrativa, in Rivista della Corte dei conti, 1977, 3, pag. 895 ss.; Galtieri, Individuazione dei responsabili e chiamata in giudizio dei corresponsabili di danno, in Quaderni della Rivista della Corte dei conti, 1992, 1, pag. 69 ss.; Martucci di Scarfizzi, Solidarietà, sussidiarietà, parziarietà nell’obbligazione derivante da responsabilità amministrativa, in Foro amministrativo, 1990, pag. 193 ss.; Mazziotti-De Sanctis, Responsabilità solidale, parziaria, sussidiaria e trasmissibilità agli eredi della responsabilità amministrativa, in Quaderni della Rivista della Corte dei conti, 1992, 1, pag. 191 ss.; Pilato, Personalità della responsabilità amministrativa e parziarietà dell’obbligazione risarcitoria. Aspetti teorici e profili sistematici, in Rivista della Corte dei conti, 1996, 2, pag. 367 ss.).

[43] Per alcune mie più approfondite riflessioni in materia, rinvio allo scritto: “Responsabilità civile ed amministrativa: diversità e punti di convergenza dopo le leggi nn. 19 e 20 del 14 gennaio 1994”, in Il Consiglio di Stato, n. 9, settembre 1994, nonchè all’altro scritto dal titolo “La nuova conformazione della responsabilità amministrativa alla luce della recente giurisprudenza della Corte costituzionale”, in Amministrazione e contabilità, settembre-ottobre 1999, pag. 399 ss.

[44] L. Schiavello, o.c., pag. 121 ss. definisce un “pleonasma” la qualificazione giuridica della personalità, sottolineando che “la qualificazione normativa della responsabilità amministrativa come personale non significa in alcun modo che questa responsabilità sia affine alla responsabilità penale (e alle altre responsabilità punitive), perché in campo penale (e punitivo) il termine personale si riferisce alle individualità fisiche; mentre invece la responsabilità amministrativa può riguardare soggetti collettivi o società”. Sembra opportuno,a questo proposito, osservare che sostenere che nella responsabilità amministrativa si riscontrano taluni caratteri propri della responsabilità civile e taluni caratteri propri della responsabilità penale non significa affatto sostenerne il carattere penale di questo tipo di responsabilità (è cosa ben diversa affermarne la natura sui generis) e che comunque che detta qualificazione non è affatto pleonastica, poiché serve a ribadire i principi dell’intrasmissibilità agli eredi e dell’inapplicabilità della solidarietà passiva in tema di responsabilità amministrativa.

[45] Nella determinazione del danno economico deve tenersi conto, ai sensi  dell’art. 3, comma 1bis, della legge n. 369 del 1996, dei vantaggi comunque conseguiti dall’Amministrazione, o dalla comunità amministrata.

[46] Chironi, Colpa contrattuale, Torino 1897, pag. 327 s..

[47] A questo proposito L. Schiavello, o.c., pag. 101 s., afferma “…..con la limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave è venuto meno il rigoroso rapporto culpa-diligentia ai fini della responsabilità patrimoniale (Haftung); cioè fra la Schuld (la prestazione dovuta come obbligo di facere con diligenza e buona fede in senso positivo) e l’Haftung (la responsabilità patrimoniale) si è verificato uno scostamento a seguito della limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave, vale a dire che ai fini dell’imputazione della responsabilità si fa riferimento ad un modello di diligenza minore (rispetto al modello del buon funzionario), ma sempre diversificato secondo la diversità dei rapporti sottostanti”. Questa impostazione contrasta con al tesi civilistica, poiché i civilisti affermano un concetto unico di colpa e, valutando la diligenza come elemento di fatto, considerano i casi di limitazione al dolo o alla colpa grave come “deroghe” al principio generale della colpa lieve, giustificate da particolari circostanze, e mai come un fatto generalizzato, com’è nel caso della responsabilità amministrativa.  Per il civilista, insomma, la diligenza richiesta è sempre quella del buon padre di famiglia, al quale, ovviamente, in casi di particolare difficoltà, proprio per porre le varie situazioni sullo stesso piano,  deve necessariamente esser richiesta una diligenza inferiore rispetto a quella richiesta nei casi normali.

[48] Per una prima impostazione in questo senso, rinvio al mio scritto: “Per una nuova configurazione della responsabilità amministrativa”, in Il Consiglio di Stato, giugno-luglio 1976, pag. 831 ss.

[49] R. Alessi, voce “Responsabilità amministrativa patrimoniale”, in Novissimo Digesto, vol. XV, Torino, 1957, pag. 623.

[50] L. Schiavello, o.c., pag. 63 s., considera improprio e non calzante questo parallelismo. Egli, evidentemente, si rifiuta di ricordare che i “iudicia stricta” erano imperniati sulla enunciazione di un obbligo a contenuto certo e determinato, e non lasciavano quindi al iudex nessuna possibilità di valutazioni discrezionali, mentre i “iudicia bonae fidei attribuivano al giudice un ampio margine di valutazione discrezionale, e cioè il potere di stabilire “quidquid dare facere oportet ex fide bona”.  Se si pensa che il giudice contabile, a differenza di quello civile dispone normalmente di un ampio potere discrezionale (proprio in relazione al potere di graduazione della condanna), si deve necessariamente dedurre che il parallelismo con il diritto romano c’è, ed è calzante. Piuttosto è da osservare, in contrasto con quanto afferma L.Schiavello, che il “iudex” doveva semplicemente accertare “l’id quod interest” e non poteva, ovviamente, né ampliarlo, né restringerlo.

[51] F. Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti cit., pag., 191 ss.

[52] Sull’argomento, vedi: A. Martucci di Scarfizzi, Profili evolutivi giurisprudenziali della nozione di rapporto di servizio quale presupposto della giurisdizione contabile della Corte dei conti, in  Rivista dei Tar, 1993, II, pag. 189 ss.

[53] F. Garri, o. c., pag. 193.

[54] Vedi quanto si è detto in proposito al paragrafo9  del presente scritto.

[55] D’altronde, non risolve il problema il riferimento al rapporto organico, anzicché al rapporto di servizio, come propone L.Schiavello, o.c., pag. 116, in quanto, come insegna A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1969, pag. 179, il rapporto di servizio precede la instaurazione del rapporto organico e quest’ultimo ha luogo con l’assegnazione dell’impiegato all’ufficio. Inoltre, diversamente da quanto afferma L. Schiavello, o.c., l.c.,non è esatto che il rapporto di servizio difetta nell’ipotesi dell’Ufficio onorario. Precisa infatti ill Sandulli, o.c., pag. 160, che “varie sono le figure che il rapporto di servizio può assumere….esso può essere, di volta in volta, di diritto o di fatto….., volontario o coattivo….onorario o impiegatizio….di diritto pubblico o di diritto privato”. 

[56] Si  è già notato che in questo senso dovrebbe cambiare la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale, in tema di conflitto di giurisdizione, segue due criteri diversi secondo che si tratti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, facendo riferimento al criterio della natura amministrativa dell’attività posta in essere per attribuire la giurisdizione al giudice amministrativo, ed al criterio, oramai superato, del rapporto di servizio, per attribuire la giurisdizione alla Corte dei conti.

[57] Così L.Schiavello, o.c., pag. 13 s., al quale è agevole obiettare che, in questo modo, può parlarsi in ogni caso di un rapporto sottostante, visto che ognuno, ad esempio, è tenuto a comportarsi secondo lealtà e buona fede e deve cooperare col creditore per l’adempimento di un’obbligazione, mentre, come è noto, non deve arrecare danni ad altri.

[58] Richiamo in proposito il mio articolo “Solidarietà passiva e responsabilità amministrativa nella giurisprudenza antica e recente della Corte dei conti”, in Il Foro italiano, settembre, 1982, III, pag. 360 ss.

[59] Rammento di aver sostenuto questa tesi nel mio lavoro: “Per una nuova configurazione della responsabilità amministrativa”, in Rassegna del Consiglio di Stato, giugno-luglio 1976, pag. 831 ss.

[60] A. Rasella, Studi sul potere discrezionale del giudice, Milano, 1975, pag. 371 ss.

[61] Le parole tra parentesi sono state introdotte dal sottoscritto per la più chiara lettura del testo.

[62] Per la storia della giurisprudenza contabile in tema di solidarietà, rinvio al mio scritto “Responsabilità amministrativa, contabile e per fatti di gestione”, in La finanza locale, 1996, pag. 697 ss.

[63] Come invece ritiene L. Schiavello, o.c., l..c.

[64] Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 123/01, del 21 marzo 2001, ancora inedita, la quale ha fatto proprie le conclusioni del controricorso presentato dal Vice Procuratore Generale presso la Corte dei conti, Dott. Sergio Auriemma.

[65] Come si nota, la Cassazione concorda pienamente con  quanto da noi asserito nel citato articolo pubblicato nel 1994 sulla Rivista del  Consiglio di Stato, di cui alla precedente nota n. 19.


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