|
|
|
|
Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog |
PAOLO MADDALENA
(Procuratore della Corte dei Conti Regione Lazio)
Il potere-dovere di graduare la condanna come elemento fondante dell’unico "ius dicere" del giudice contabile e come garanzia di una giusta sentenza
![]()
Sommario:
1. La prospettiva del giusto processo e la funzione del cosiddetto potere riduttivo di rendere giusta la sentenza.
2. Il punto debole della responsabilità civile: il modello astratto del buon padre di famiglia e la cosiddetta "colpa oggettiva". Critica.
3. Il punto forte della responsabilità amministrativa: la graduazione della colpa. Il sistema normativo.
4. Le diversità tra il sistema della responsabilità civile e quello della responsabilità amministrativa in riferimento alle diverse concezioni della colpevolezza alle quali i due sistemi si ispirano: la concezione psicologica e quella normativa.
5. La ricostruzione dell’istituto della responsabilità amministrativa. Necessità di puntualizzare lo snodo tra responsabilità civile e responsabilità amministrativa: valutazione della colpa in astratto e valutazione della colpa in concreto. Lo sganciamento dalla regola astratta della diligenza dell’uomo medio. La richiesta di un’elevata diligenza nel caso concreto.
6. La giurisprudenza della Corte costituzionale.
7. Attualità e modernità della responsabilità amministrativa.
![]()
1. La nuova legge costituzionale sul giusto processo (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), che ovviamente ha l’obiettivo finale di una giusta sentenza, ripropone, tra l’altro, all’attenzione degli studiosi la necessità della rivisitazione di un istituto, strettamente collegato alle esigenze dell’equità, e che è rimasto finora, sul piano giuridico, sostanzialmente inspiegato: il cosiddetto potere riduttivo del giudice contabile.
Si pensi che a questo proposito l’Alessi (R. Alessi, voce "Responsabilità amministrativa patrimoniale", in Novissimo Digesto, vol. XV, Torino, 1957, pag. 623) affermava: "Invano si è discusso in dottrina per dare un soddisfacente fondamento a siffatta facoltà discrezionale della Corte, ignota al giudice ordinario; non rimane che considerarla come una potestà eccezionale, come una particolarità della giurisdizione civile spettante alla Corte dei conti, determinata da ragioni di equità, che alcune volte consigliano di attenuare gli effetti della responsabilità stessa, tenendo conto di tutte le circostanze, come l’entità del danno, il grado di responsabilità del funzionario, il fatto che i superiori non rilevarono l’errore, pur essendo in grado di farlo, e così via".
Secondo questa interpretazione, dunque, il cosiddetto potere riduttivo serve "per attenuare gli effetti della responsabilità civile, tenendo conto di tutte le circostanze", serve, in sostanza, per evitare che il pubblico dipendente, il quale presta semplicemente un servizio e non assume certamente su di sè il rischio dello Stato, come già nel 1852 ammoniva il Cavour, possa essere condannato a risarcire danni che vanno al di là dei limiti dell’equità, oltre che delle sue concrete capacità risarcitorie.
Senonchè si deve rilevare che le surriferite osservazioni dell’Alessi, pur individuando nella sostanza la finalità dell’istituto, non hanno tuttavia centrato il cuore del problema.
E’ sfuggito che qui non si tratta affatto di "una particolarità della giurisdizione civile appartenente alla Corte dei conti", ma del fondamento stesso del potere di decidere del giudice contabile, potere sostanzialmente diverso, come meglio si vedrà in seguito, da quello del giudice civile, e che vale a fondare un tipo di giurisdizione civile profondamente diversa da quella esercitata dal giudice ordinario.
E questa diversità dipende dal fatto, sul quale non si è mai meditato abbastanza, dei diversi campi di azione nei quali le due giurisdizioni operano. Infatti, mentre la giurisdizione civile pone un problema di rapporti tra privati, i cui patrimoni, almeno in linea di principio, si presumono equivalenti (per cui ha senso la garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 del codice civile), la giurisdizione contabile, invece, pone un problema di rapporti tra un singolo dipendente od amministratore e lo Stato o l’ente pubblico, e cioè, in linea di principio, pone un problema di rapporti tra un patrimonio individuale (che si presume normalmente di limitate dimensioni) ed un patrimonio pubblico di dimensioni notevolmente maggiori. Si tratta, in ultima analisi, del rapporto, per così dire, di uno contro tutti, e cioè del singolo nei confronti della Collettività.
Discende, già da queste prime battute, che la funzione della responsabilità amministrativa non può coincidere pienamente con quella della responsabilità civile. Mentre quest’ultima ha, e può in concreto avere, una funzione risarcitoria e ripristinatoria dello status quo ante, la responsabilità amministrativa, invece, proprio per l’accennato squilibrio tra i danni possibili e le limitate capacità risarcitorie dell’agente, normalmente non ha, o può avere soltanto in parte, una funzione di tal genere, ed è in grado di perseguire una funzione essenzialmente dissuasiva. Ne consegue, come meglio si vedrà in seguito, che l’essenza della responsabilità amministrativa, a differenza di quella civile, consiste nella graduazione della condanna sulla base del grado di colpa dell’agente, consiste nel perseguire una condanna, spesso anche solo ad una parte del danno, che sia commisurata alle effettive responsabilità del dipendente o amministratore pubblico.
2. Tuttavia, prima di procedere ad una ricostruzione della disciplina della responsabilità amministrativa, al cui interno si inquadra il cosiddetto potere riduttivo, è opportuno porre in risalto in che cosa si sostanzia questa necessità, alla quale, sia pur fugacemente, faceva cenno l’Alessi, di attenuare taluni effetti troppo rigidi della responsabilità civile.
A ben vedere, il punto cruciale sul quale conviene fermare l’attenzione consiste nel fatto che il sistema codicistico fonda la responsabilità per dolo o colpa sul modello astratto del buon padre di famiglia, di modo che colui che si discosta da questo modello versa in stato di colpa. Senonchè, così ragionando, si addossa al meno dotato personalmente, o anche soltanto socialmente, una colpa che obiettivamente egli non ha, visto che in base alle sue capacità, altro non poteva fare. Qui la responsabilità civile, come si nota, non appare pienamente conforme alle esigenze di equità e di giustizia alle quali sopra si faceva riferimento ed espone il fianco a facili critiche, come del resto hanno già sottolineato alcuni illuminati civilisti.
E’ stato infatti osservato che "quando valutiamo la condotta del soggetto secondo un modello astratto, così come diamo un certo vantaggio all’uomo particolarmente esperto e capace, nello stesso momento addossiamo invece al soggetto capace meno della media questo suo difetto, perchè lo valutiamo con la stessa severità con cui valutiamo l’uomo medio. In tal guisa riteniamo colpevole un soggetto anche se dal punto di vista soggettivo dovremmo concludere che in realtà da lui, date le sue modeste capacità e la sua modesta esperienza, noi più di tanto non potevamo umanamente pretendere" (Forchielli, Responsabilità civile. Lezioni, Padova, 1968, pag. 86 ss.).
Ed altrettanto opportunamente si è sottolineato che occorre "contrapporre alla diffusa tradizione oggettivistica un grave argomento di natura sistematica, e precisamente quello che si può dedurre dal requisito dell’imputabilità dell’atto....Se colpevolezza equivale a volontà riprovevole, la logica del sistema esige che si tenga sempre conto del livello delle doti individuali, in quanto non si può certamente rimproverare al soggetto di non aver fatto quello che non poteva realizzare....E va rilevato che questa conclusione non porta in nessun caso a dimenticare lo scopo di un’equa distribuzione dei danni, poichè, fondando la responsabilità sulla colpa, si dice che giusta è quella ripartizione per cui un soggetto sopporta l’incidenza economica di quei soli danni che egli poteva e doveva evitare" (Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, Padova, 1966, pag. 207 ss.).
D’altro canto, si è opportunamente rilevato che la colpa civilistica consiste "in una nozione obiettiva che prescinde dalla cattiva volontà del soggetto e dalla sua attitudine ad emettere lo sforzo diligente dovuto". In altri termini "il soggetto che tiene un comportamento non conforme ai canoni obiettivi della diligenza è in colpa anche se abbia fatto del suo meglio per evitare il danno, senza riuscirvi a causa della sua inettitudine personale (imperizia, mancanza del normale grado di diligenza, età avanzata, ecc.), od economica" (Bianca, Diritto civile, vol. V, "La responsabilità", Milano, 1994, pag. 575 ss.).
3. Sfugge a questa intima disarmonia della responsabilità civile proprio la disciplina della responsabilità amministrativa, la quale prescrive per l’appunto una graduazione della responsabilità in riferimento al grado di colpa dell’agente (vedi in proposito il mio articolo "La colpa nella responsabilità amministrativa", in Rivista della Corte dei conti, n. 2, marzo-aprile 1997, pag. 272 ss., cui ha fatto seguito in senso adesivo: Ciaramella, Spunti per una riflessione sulla colpa grave nella responsabilità amministrativa. Riferimenti anche alla dottrina e giurisprudenza civilistica e penalistica, in sito internet: WWW. AM Corte conti. It.; sulla problematica generale della responsabilità amministrativa: Staderini Silveri, La responsabilità nella pubblica amministrazione, Padova, 1998; Garri, I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, 2000, pag. 129 ss.; Pilato, La responsabilità amministrativa, Padova, 2000).
E le norme che disciplinano questo tipo di responsabilità sono di una chiarezza solare.
L’art. 52 del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con R.D. n. 1214, del 1934, al comma 2, dispone che "la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto". Analogamente, l’art. 83 della legge di contabilità generale dello Stato, emanata con R.D. n. 2440, del 1923, sancisce che "i funzionari di cui ai precedenti articoli 81 ed 82 sono sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, la quale, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto", mentre l’art. 19, comma secondo dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, emanato con D.P.R. n. 3, del 1957, dispone che "la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto il danno accertato o parte di esso". Ed è da soggiungere che l’art. 82, comma secondo, della legge di contabilità generale dello Stato prevede che "quando l’azione od omissione è dovuta al fatto di più impiegati, ciascuno risponde per la parte che vi ha presa, tenuto conto delle attribuzioni e dei doveri del suo ufficio, tranne che dimostri di aver agito per ordine superiore che era obbligato ad eseguire".
Tali norme, peraltro, hanno avuto una loro puntualizzazione proprio dalle riforme della giurisdizione amministrativo contabile realizzate dalle leggi nn. 19 e 20, del 1994 e dalla legge n. 639, del 1996. Ed è a questo proposito sono soprattutto da ricordare l’art. 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, secondo il quale "la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale. Essa si estende agli eredi nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente illecito arricchimento degli eredi stessi", nonchè l’art. 3, commi 1, 1-quater ed 1-quinqies della legge 20 dicembre 1996, n. 639, secondo i quali: "la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Il relativo debito si trasmette agli eredi secondo le leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi"; "se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso"; "nel caso di cui al comma 1-quater i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente".
Come si nota, la disciplina della responsabilità amministrativa, a differenza di quella civile, che pone in primo piano l’interesse del danneggiato al risarcimento del danno, è tutta fondata sulla colpevolezza del danneggiante: la colpa, in altri termini svolge un ruolo centrale e dominante rispetto a tutti gli altri elementi costitutivi della responsabilità (per alcune mie più approfondite riflessioni in materia, rinvio allo scritto: "Responsabilità civile ed amministrativa: diversità e punti di convergenza dopo le leggi nn. 19 e 20 del 14 gennaio 1994, in Il Consiglio di Stato, n. 9, settembre 1994, nonchè all’altro scritto dal titolo "La nuova conformazione della responsabilità amministrativa alla luce della recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Amministrazione e contabilità, settembre-ottobre 1999, pag. 399 ss.).
Posto in primo piano l’elemento della colpevolezza, si capisce perchè il nucleo centrale della disciplina della responsabilità amministrativa, come sopra si è accennato, ruota intorno al criterio della graduazione della responsabilità in relazione al grado di colpa dell’agente. E non sfugge, a questo proposito, che, nella delineata prospettiva, diviene presupposto logico della disciplina stessa la personalizzazione e l’individualizzazione della responsabilità. Se si vuole che la responsabilità sia commisurata alla colpa, cioè ad un fatto strettamente soggettivo, occorre innanzitutto che la responsabilità stessa sia personale. Ciò è espressamente detto dalla legge del 1994 e da quella del 1996, le quali, come si è visto, non solo affermano che la responsabilità ha natura personale, ma escludono altresì, tranne limitate ipotesi, sia la solidarietà passiva, sia la trasmissibilità agli eredi, ed è desumibile peraltro anche dalle norme del 1923, le quali, come si è visto, sancivano che, nei casi di concorso di azioni colpose, "ciascuno risponde per la parte che vi ha preso", cioè personalmente ed individualmente.
La disciplina della responsabilità amministrativa, come si nota, dà per scontata la determinazione del danno economico subito, determinazione che, ovviamente, viene effettuata sulla base delle conseguenze immediate e dirette dell’azione od omissione, e si incentra tutta sulla valutazione da parte del giudice della colpa dell’agente, in base alla quale si determina l’effettivo danno risarcibile. Ed è da precisare, a questo proposito, che lo stesso criterio viene seguito, sia nel caso di un solo responsabile, come sopra si è detto, sia nel caso di più concorrenti nello stesso evento di danno. In quest’ultima ipotesi, infatti, "ciascuno risponde per la parte che vi ha preso", nel senso che si stabilisce prima qual è il danno economico prodotto da ciascuno sulla base del principio delle conseguenze dirette ed immediate, e poi si determina il danno risarcibile, in base al criterio della gravità della colpa.
4. Per capire le sostanziali diversità che si sono tratteggiate tra la disciplina della responsabilità civile e quella della responsabilità amministrativa, occorre ricordare che i due sistemi si ispirano, rispettivamente, a due diverse concezioni della colpevolezza: quella psicologica e quella normativa.
Come chiaramente insegna il Mantovani, (Mantovani, Padova, 1992, pag. 294 ss.), "per la concezione psicologica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, la colpevolezza consiste e si esaurisce nel nesso psichico tra l’agente ed il fatto....La colpevolezza viene concepita come un nesso psichico astratto fisso ed uguale in tutti casi, perciò non graduabile, che fonda ed esclude, ma non gradua la responsabilità. Necessario per stabilire l’an, ma estraneo alla valutazione del quantum di essa, che doveva essere determinato solo in base agli elementi obiettivi o obiettivabili, non ai motivi e situazioni personali, appartenenti invece al giudizio morale. Merito della presente teoria è di avere posto in luce l’imprescindibile base naturalistico-psicologica della colpevolezza. Essa però presenta due limiti. Non solo è fallita nello sforzo dommatico di costruire la colpevolezza come concetto di genere, astraendo gli elementi comuni del dolo e della colpa, trattandosi, dal punto di vista psicologico, di due reltà irriducibili: il dolo è un’entità psicologica reale (coscienza e volontà) e la colpa un’entità psicologica potenziale (prevedibilità). Ma soprattutto tale teoria non ha mai consentito una reale graduazione della colpevolezza, imposta dall’insopprimibile esigenza di commisurare la responsabilità anche ai motivi dell’agire.
Per la concezione normativa, elaborata agli inizi del novecento, la colpevolezza è il giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere. Anzicchè una realtà psicologica, essa è un concetto normativo, che esprime il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e la norma: non dunque volontà di ciò che non doveva essere, ma volontà che non doveva essere, una volontà illecita. Da modi di essere della colpevolezza dolo e colpa ne diventano solo elementi, costituendo oggetto del rimprovero. Rinunciando a costruire la colpevolezza come il genus, astraendo gli elementi comuni del dolo e della colpa, la presente teoria si sforza di costruire un concetto unitario di colpevolezza, incentrato sulla comune essenza, cioè sull’atteggiamento antidoveroso della volontà che qualifica sia il dolo che la colpa. Il fatto doloso è un fatto volontario che non si doveva volere: si rimprovera alla volontà di averlo prodotto. Il fatto colposo è un fatto involontario che non si doveva produrre: si rimprovera alla volontà di non averlo impedito. In entrambi i casi il soggetto ha agito in modo difforme da come l’ordinamento voleva che agisse. Ma soprattutto tale teoria non solo fonda ed esclude la responsabilità, ma la gradua: vuole offrire un concetto graduabile di colpevolezza secondo criteri di valore, essendo la volontà diversamente rimproverabile in ragione della sua maggiore o minore antidoverosità. E ciò al fine di soddisfare quelle esigenze di individualizzare la colpevolezza, di rapportarla alla varietà delle situazioni umane attraverso la valutazione dei processi interni di motivazione, come del resto la prassi giudiziaria quotidianamente fa nella commisurazione concreta della pena".
Se si tengono presenti le considerazioni svolte dal Mantovani a proposito della concezione psicologica della colpa, si capisce ora agevolmente qual è il motivo fondamentale per il quale la responsabilità civile presta il fianco a critiche severe sul piano dei criteri di equità e di superiore giustizia e si capisce perchè, con termine forse improprio, come sopra si è ricordato, si è affermato che la colpa civilistica è una colpa oggettiva.
5. Tornando alla disciplina della responsabilità amministrativa, si deve rilevare che la costruzione che si è tentata di fare, in dottrina e giurisprudenza, in termini di una responsabilità di natura civilistica è stata foriera di equivoci e, soprattutto, ha fatto perdere una grande occasione: quella di costruire, nell’ambito di un giusto processo, anche una sentenza giusta, fondata, in ultima analisi, su principi di giustizia e di equità.
Occorre allora, come si diceva, un’opera di ricostruzione alla luce della concezione, non più psicologica della colpa, ma normativa, la quale, non solo appare del tutto coerente con il sistema delle norme di contabilità pubblica che sopra si è tentato di tratteggiare, ma soprattutto consente di perseguire quelle sostanziali finalità di coerenza e di equità alle quali si è fatto sopra riferimento.
Il primo errore da evitare è quello di ritenere che, in diritto civile, esistano tre gradi di colpa, grave, lieve e lievissima, corrispondenti a tre diverse qualificazioni della colpevolezza. Come esattamente è stato osservato, "la teoria tradizionale dei gradi della colpa è errata, in quanto tende a portare sul piano giuridico diversità che non toccano il momento giuridico della colpa, bensì il momento di fatto della diligenza, della cui valutazione è questione....la gravità non è relativa ai pretesi diversi gradi della colpa, intesi quali figure (forme) di qualificazione giuridica, ma semplicemente alla valutazione della diligenza riferita alle circostanze. Il giudice cioè potrà valutare una neligenza più grave o meno grave in relazione alle circostanze in cui il comportamento del soggetto siasi svolto, ma il momento di valutazione sarà sempre quello del buon padre di famiglia; e sarà pur sempre uno ed uno solo, chè altrimenti non avrebbe neppur senso di ricercare cosa voglia dire gravità maggiore o minore, o rigore di valutazione maggiore o minore....ciò che qui ci preme stabilire è che la colpa, come forma di qualificazione giuridica e come criterio di qualificazione e di imputazione causale, è pur sempre una" (Maiorca, voce "Colpa civile (Teoria generale)", in Enciclopedia del diritto, vol VII, Milano, 1960, pag. 568 ss.).
Ed occorre, in secondo luogo, tener presente che, in questa prospettiva, il riferimento che il codice civile fa ad alcune limitazioni al dolo o alla colpa grave può essere spiegato soltanto come "deroga" al principio generale, per motivi, come si dice, di ragionevolezza, al fine porre sullo stesso piano e giudicare con la medesima severità situazioni che si svolgono in situazioni di fatto rilevantemente diverse. E’ questo, ad esempio, il caso della cosiddetta colpa professionale, di cui all’art. 2236 del codice civile.
Ne consegue che quando, come nel caso della responsabilità amministrativa, la regola della limitazione al dolo o alla colpa grave è generalizzata, riguarda cioè tutte le ipotesi di responsabilità, non è certo più possibile parlare di deroga ad un principio generale per motivi di ragionevolezza, ed occorre necessariamente accogliere una diversa configurazione della colpevolezza stessa. Diversa configurazione che, nel caso in esame, è ispirata, come si è visto, a principi di equità, e tende ad una graduazione della condanna in proporzione, per così dire, con la graduazione dell’intensità della colpa.
Tornando al tema della graduazione della colpa in sede di responsabilità amministrativa, è, d’altro canto, da porre in evidenza che la recente limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave, prevista in via generale per qualsiasi ipotesi di responsabilità, ha posto su più solide basi l’intera problematica della responsabilità amministrativa. La legge, infatti, non si limita, come di consueto, ad un generico riferimento alle azioni dolose o colpose, ma esige un accertamento sulla "gravità" della colpa, perfettamente in asse con il principio della graduazione della responsabilità sancito, come si è visto, dalle norme contabili.
Appare evidente, peraltro, che, se si considera come criterio generale di imputazione della responsabilità amministrativa quello della colpa grave, ritenendo che tale limitazione, riferita all’intera gamma delle ipotesi nelle quali trova applicazione l’istituto della responsabilità amministrativa, non sia più giustificabile come una deroga al principio della colpa lieve, e sia invece da ritenere costituzionalmente legittima, come ha precisato la Corte costituzionale, in base al principio dell’efficienza dell’azione amministrativa, ci si sgancia anche dal modello della diligenza media, cioè dal modello astratto del buon padre di famiglia, con la conseguenza che non c’è più un unico modello cui riferirsi, ma esistono tanti modelli quanti sono i singoli casi di cui si tratta. Del resto, il principio della personalizzazione della responsabilità esige proprio una valutazione in concreto della responsabilità stessa, altrimenti si addiverrebbe ad un concetto di colpa oggettiva, come si è sopra visto, e quindi di una responsabilità certamente non più "personale".
Accertare la "gravità" della colpa vuol dire, infatti, che la diligenza deve essere valutata, non in astratto, ma in concreto, in riferimento cioè a tutte le circostanze del caso. Ne consegue che occorre tener conto della conoscibilità, della prevedibilità e della evitabilità dell’evento, di modo che non può non qualificarsi "grave" il comportamento di chi, pur potendo, con le sue effettive possibilità ed in determinate circostanze, prevedere ed evitare l’evento dannoso, non lo fece. Si tratta, in sostanza, di un giudizio di rimproverabilità, che pone in evidenza l’atteggiamento antidoveroso della volontà e cioè il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e la norma.
Ed è da precisare a questo proposito che rispondere per dolo o colpa grave, proprio a causa del descritto sganciamento della responsabilità amministrativa dal canone del buon padre di famiglia, non significa richiedere un grado di diligenza inferiore alla media, ma significa richiedere una diligenza adeguata al caso di specie e riferita alle concrete possibilità dell’agente. E si tratterà sempre di un grado di diligenza elevato, che richiede cioè il massimo sforzo possibile da parte dell’agente, come del resto si legge all’art. 13, comma 1, dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, secondo il quale "l’impiegato deve prestare tutta la sua opera nel disimpegno delle mansioni che gli sono affidate, curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene".
Nel descritto ordine di idee, che si uniforma, come si è detto, alla concezione normativa della colpevolezza, emerge con evidente chiarezza la sostanziale differenza che esiste tra il giudizio civile di risarcimento del danno ed il giudizio di responsabilità amministrativa.
Infatti, mentre il giudice civile dovrà svolgere due operazioni, dovrà, cioè, separatamente giudicare sull’elemento della colpevolezza, per affermare la sua sussistenza o insussistenza, e sull’elemento del danno risarcibile, per determinarne l’ammontarne sulla base di un principio di causalità materiale; il giudice contabile dovrà effettuare invece una sola operazione: dovrà determinare quanta parte del danno economico prodotto dovrà ritenersi risarcibile in relazione all’intensità della colpa del responsabile, intensità della colpa, è bene ribadirlo, che dovrà essere individuata in riferimento a tutte le circostanze di fatto in cui si svolse l’azione produttiva del danno.
Ne consegue che il giudice contabile non accerta, come fa il giudice civile, una preesistente obbligazione, ma la determina con la sua sentenza, la quale ha perciò carattere costitutivo e determinativo. Insomma, per dirla con i giuristi romani, la sentenza del giudice civile sarà una sentenza "stricto iure", mentre la sentenza del giudice contabile, il quale dispone senza dubbio di una discrezionalità che il giudice civile non ha, sarà una sentenza "bonae fidei", come tale certamente più aderente alle esigenze di giustizia del caso concreto.
Si realizza così, come si accennava, una migliore ripartizione del carico sociale del danno, una ripartizione che, per esser fondata sull’elemento della colpa, appare certamente più consona ai criteri di giustizia che debbono regolare la materia (per una prima impostazione in questo senso, rinvio al mio scritto: "Per una nuova configurazione della responsabilità amministrativa", in Il Consiglio di Stato, giugno-luglio 1976, pag. 831 ss.).
6. Anche la Corte costituzionale, invero, ha, in un primo tempo, ritenuto che talune parziali limitazioni legislative della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di dolo e colpa grave potessero spiegarsi, nell’ambito della concezione psicologica della colpevolezza, come conseguenza dell’applicazione di un principio di ragionevolezza. Trattandosi di casi particolari, la Corte ha ritenuto che la limitazione della responsabilità riguardasse il dato di fatto della diligenza, la quale, come si legge nel citato art. 2236 c.c., deve essere valutata con minore severità in determinate circostanze particolarmente difficoltose.
In questo ordine di idee, la Corte costituzionale ha ritenuto che la limitazione della responsabilità alle sole ipotesi di dolo o colpa grave sancita dall’art. 11, comma 3, della legge 3 marzo 1965, n. 340, a favore degli ordinatori di spesa e agenti contabili interessati alle gestioni fuori bilancio non previste da legge di fatto tenute presso l’Amministrazione della pubblica istruzione (sentenza n. 54, del 1975), e dall’art. 52 del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, a favore del presidente e dei componenti dei Consigli di amministrazione delle Università (sentenza n. 164, del 1982), doveva ritenersi giustificata quale "deroga" al principio generale che ritiene rilevante la colpa lieve, deroga ispirata ad un principio di ragionevolezza, che impone, proprio in attuazione del principio di eguaglianza, una disciplina differenziata per situazioni diverse da quelle che normalmente si verificano.
Ma un ordine di idee completamente diverso la Corte costituzionale ha seguito nella sentenza n. 1032, del 1988, relativa alla limitazione della responsabilità ai casi di dolo e colpa grave disposto dall’art. 52, comma 1, della legge della Regione Sicilia n. 7, del 23 marzo 1971, per tutti i pubblici dipendenti della Regione. In detta sentenza, la Corte ha affermato la legittimità costituzionale della norma in questione, non in in base alla necessità di una deroga per porre sullo stesso piano situazioni concrete diverse (era del resto impossibile parlare di deroga, visto che si trattava di una norma riguardante tutti i dipendenti regionali, estesa peraltro anche ai dipendenti statali operanti in Sicilia con sentenza additiva della Corte costituzionale n. 112, del 1973), ma in base alla "necessità di garantire un più sollecito ed efficiente svolgimento dell’azione amministrativa da parte degli uffici della Regione siciliana", in base alla necessità cioè di rendere meglio attuabile il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 della Costituzione.
Non sfugge che, ponendosi in questo nuovo ordine di idee, la Corte costituzionale ha abbandonato, per quanto riguarda la colpevolezza nella responsabilità amministrativa, la concezione psicologica ed ha implicitamente aderito alla concezione normativa. Infatti, se essa ha ritenuto, come si è detto, che la limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave non dovesse esser più vista come una deroga al principio generale che richiede, per l’affermazione della responsabilità, la colpa lieve, al fine di valutare, in base ad un principio di ragionevolezza, con minore severità situazioni più difficoltose di quelle normali, ma potesse esser giustificata da motivi di efficienza dell’azione amministrativa, è evidente che essa ha disancorato la responsabilità amministrativa dal principio generale della colpa lieve, e dal collegato modello della diligenza media, su cui si fonda l’accertamento del nesso psichico tra l’agente ed il fatto dannoso, ed ha implicitamente affermato che ciò che conta è un giudizio sull’intensità della colpa dell’agente, e, quindi, un giudizio di rimproverabilità del comportamento dannoso rispetto alla previsione normativa, con la conseguenza che non si deve più far riferimento ad un unico modello, quello tradizionale del buon padre di famiglia, ma a tanti modelli quanti sono i casi concreti che vengono all’esame del giudice.
La Corte costituzionale ha poi ribadito questi principi, con dovizia di particolari, in due recenti sentenze, riguardanti, rispettivamente, le norme delle leggi di riforma in materia di limitazione della responsabilità ai casi di dolo o colpa grave ed in materia di limitazione della solidarietà ai casi di illecita appropriazione o di dolo.
Nel primo caso, la Corte (sentenza n. 371, del 1998), dopo aver ribadito che ci troviamo di fronte ad "un processo di nuova conformazione della responsabilità amministrativa e contabile", ha affermato che deve essere valutata positivamente la limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, poichè essa risponde all’intento "di predisporre, nei confronti dei dipendenti e degli amministratori pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa". Come si nota, la Corte costituzionale si è posta nello stesso ordine di idee già manifestato nella citata sentenza n. 164, del 1982 a proposito dell’analoga norma disposta dalla Regione Sicilia, ed ha giustificato questa nuova disciplina, non più come una deroga al principio generale della colpa lieve, ma come un nuovo modo di intendere la responsabilità amministrativa nel quadro del buon andamento e dell’efficienza dell’azione amministrativa. Implicitamente, come si affermava, ha aderito alla concezione normativa della colpevolezza.
Nel secondo caso, la Corte costituzionale (sentenza n. 453, del 1998), dopo aver ancora ricordato che la norma che limita la solidarietà alle sole ipotesi di appropriazione illecita o di dolo "si colloca nell’ambito di una nuova conformazione dell’istituto della responsabilità amministrativa e contabile, secondo linee volte, fra l’altro, ad accentuarne i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori", ha sottolineato che, nell’ipotesi di concorso nello stesso evento di danno di soggetti che hanno agito solo per colpa grave, la limitazione del principio di solidarietà soltanto ai primi non viola il principio di eguaglianza, "giacchè proprio il trasferimento del peso del risarcimento dal maggiore al minor colpevole rischierebbe di non essere consono a tale principio". La Corte, in altri termini, ha sancito la legittimità costituzionale delle norme che, in via generale, bandiscono dalla responsabilità amministrativa la solidarietà passiva, ed ha affermato, quindi, l’opposto principio della personalizzazione ed individualizzazione della responsabilità, facendo intendere, anche sotto quest’altro profilo, di voler abbandonare la concezione psicologica della colpevolezza e di voler invece aderire alla concezione normativa.
7. Al termine di questo discorso emergono, dunque, sicuri profili di originalità e di modernità della disciplina della responsabilità amministrativa. Questa particolare materia, avendo come obiettivo una sentenza concretamente ed effettivamente giusta, certamente si inquadra, come si è avuto cura di ribadire, nell’ampia prospettiva del giusto processo. Essa, peraltro, si impone come un punto di riferimento anche per talune modifiche, che sono state reclamate, come si è visto, da parte di illustri civilisti. Quanto meno in talune materie, e specialmente laddove l’assunzione del rischio resta in capo ad uno solo dei soggetti in lite, sembra proprio che non si possa equamente giudicare secondo le caratteristiche paritetiche della responsabilità civile. Occorrono certamente altre deroghe, oltre quelle già previste, deroghe che dovrebbero configurarsi come vere e proprie eccezioni al sistema codicistico della cosiddetta colpa oggettiva.
E’, dunque, la responsabilità civile che deve guardare alla responsabilità amministrativa, ed appare davvero inspiegabile che in dottrina ed in giurisprudenza sia potuto accadere il contrario.
Paolo Maddalena