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n. 2/2007 - © copyright

MAURIZIO LUCCA

La natura dell’atto di revoca dell’assessore comunale

(note a margine della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209)

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Premessa.

La revoca di un provvedimento di nomina ad una carica politica, com’è quella di assessore comunale, costituisce l’esercizio di un potere che determina il cessare anticipato di una funzione pubblica.

In effetti, a ben vedere, si tratta di un incarico a termine (incerto), il cui contenuto è - essenzialmente -collaborativo con il sindaco e il venir meno di questo legame partecipativo (e non necessariamente politico) autorizza il Capo dell’amministrazione a interrompere tali relazioni all’interno della giunta, sostituendo ipso iure un proprio membro.

Si tratta, certamente, di una facoltà concessa al sindaco, che identifica un forte potere decisionale in relazione alla diretta investitura da parte del corpo elettorale, il cui fine è quello di consentire il governo del territorio con soggetti in grado di rispondere alle esigenze amministrative più corrispondenti alle aspettative di successo del programma di mandato, sottoscritto dal sindaco in sede di presentazione della lista per la candidatura a primo cittadino.

Se, quindi, l’obiettivo primario è l’interesse al buon governo della città, è ammissibile ritenere che sussista un modo per rimuovere un assessore che non risponda più al percorso politico - amministrativo delineato dal sindaco, e questi, lecitamente, può revocare l’incarico con ampi margini di autorità, rectius autoritarismo (?).

Una recente sentenza della quinta sezione del Consiglio di Stato, la numero 209 del 23 gennaio 2007, ha stabilito il principio secondo il quale l’atto di revoca assume le connotazioni dell’ampia discrezionalità che rasenta, senza mai intaccarne, i margini della piena libertà; nel senso che tale scelta è - difficilmente – sindacabile, in sede di legittimità, se non sotto i profili formali e l’aspetto dell’evidente arbitrarietà (una pur minima motivazione è sempre possibile).

È noto che la discrezionalità amministrativa, che si differenzia dalla discrezionalità tecnica basata soltanto su aspetti di rigorosa valutazione fattuale, coinvolge scelte di opportunità amministrativa, e il concetto di opportunità attiene alla cura degli interessi pubblici coinvolti dall’azione amministrativa complessivamente intesa, con una primaria valenza sulla fase della scelta dell’interesse da perseguire, legato a canoni di mera opportunità politico amministrativa [1].

Ne consegue che in questo tipo di scelta discrezionale, attraverso l’acquisizione e la valutazione degli interessi coinvolti nel processo decisionale, si perviene ad una fase di giudizio positivo con il quale si giunge ad una scelta comparativa degli stessi (interessi), che presenta evidenti profili di volontà decidente, che si sostanziano, per queste ragioni, in scelte riservate all’Amministrazione e non sindacabili dal giudice amministrativo, attenendo al merito dell’azione amministrativa [2].

Viceversa, si tratterebbe di una discrezionalità tecnica che risulta priva di quest’ultimo elemento volitivo, dato che si risolve in un’attività di giudizio, condotta attraverso la sola acquisizione e valutazione di dati della realtà (vincolati a valutazioni tecniche) da contrapporsi alla manifestazione di volontà che, invece, contraddistingue la discrezionalità amministrativa che impinge, quindi, scelte di convenienza e opportunità.

In base a tali argomentazioni si potrebbe definire, in prima analisi, che l’atto di revoca rientra tra la discrezionalità pura caratterizzata dall’affidamento al suo titolare di un potere finalizzato al perseguimento del fine pubblico prefissato - la gestione del bene collettivo per la durata della legislatura -, attraverso la ponderazione degli interessi coinvolti alla realizzazione: pubblici e privati.

La sentenza in esame persegue tale prospettiva ermeneutica, e riforma la sentenza di primo grado, che censurava il vizio di mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca dell’incarico di assessore comunale, oltre che di assenza di motivazione.

L’oggetto di causa.

La difesa civica sosteneva in appello che il ricorso originario era inammissibile, essendo l’atto di revoca di un assessore comunale inquadrabile negli atti politici, di cui all’art.31 T.U. sul Consiglio di Stato, di cui al R. D. 26 giugno 1924, n.1054, in quanto, da una parte, proviene dal massimo organo di indirizzo e direzione politica dell’Amministrazione comunale e, dall’altra, è rivolto, nell’esercizio del potere dispositivo riconosciuto al Sindaco, alla tutela del regolare funzionamento dell’organo di governo, la Giunta comunale, aderendo alla tesi di un’ampia discrezionalità a garanzia della stabilità del potere esercitato.

Accanto a questi profili di diritto, si contestava l’obbligatorietà della comunicazione di avvio del procedimento, atteso che tale onere istruttorio trova applicazione solo nel caso in cui la partecipazione del soggetto inciso sia assolutamente funzionale e non formale, risolvendosi - altrimenti - nell’insussistenza di un effettivo interesse del ricorrente a censurare la violazione formale dell’obbligo di inviare la comunicazione di avvio del procedimento, ogniqualvolta il suo accoglimento non potesse ragionevolmente comportare una riedizione del potere con esiti diversi da quelli sfavorevoli già gravati [3].

Risulterebbe contrario ad ogni logica e alquanto contraddittorio consentire la reiezione di un provvedimento privo di tale onere partecipativo, quando nel nuovo agire post decisorio il sindaco invertisse il proprio dispositivo, negando la fondatezza del provvedimento di revoca sulla base dell’apporto partecipativo, diniego di apporto collaborativo con l’assessore che è il fine in radice perseguito dal provvedimento.

La revoca confligge con ogni diversa volontà partecipativa – collaborativa tra il sindaco e l’assessore, nell’esercizio dei poteri affidati alla giunta.

Inoltre, tra i motivi veniva espressamente annotato che “l’atto di revoca dell’incarico di assessore comunale si configura come atto della massima espressione della discrezionalità amministrativa, per la quale unico criterio di riferimento rimane il programma politico amministrativo a cui il sindaco eletto si è autovincolato nei confronti degli elettori e la cui attuazione è l’unico parametro cui deve uniformarsi l’azione del Capo dell’Amministrazione e dei suoi collaboratori”, rendendo del tutto superflua la sua partecipazione “dal momento che il provvedimento di revoca trova la sua motivazione in un palese contrasto politico amministrativo che aveva portato al venir meno del rapporto fiduciario, la cui valutazione è di competenza esclusiva del Sindaco che ne assume la responsabilità politica davanti al Consiglio comunale [4].

Motivazione, peraltro, contestate dall’assessore revocato adducendo “l’utilità della comunicazione di avvio del procedimento, essendogli stato imputato un comportamento scorretto per non essersi presentato ad una riunione di Giunta e per essersi autosospeso dall’incarico di assessore”, oltre a ribadire la censura di difetto di motivazione.

Il sindaco nella giunta trova il suo riferimento operativo, il suo nucleo decisionale per dar corso al programma di mandato, e gli assessori devono incentrare il proprio lavoro nel perseguire un progetto la cui regia e copione appartiene al Capo dell’amministrazione, la mancata produzione dei risultati, lo scostamento dalle linee programmatiche denotano lo scollamento dell’unitarietà d’intenti e autorizzano il sindaco a riequilibrare i pesi, estromettendo coloro che non si attengono a tali obiettivi politici, fonte diretta del consenso ricevuto e patto elettorale con le forze di coalizione (la maggioranza).

Natura dell’atto di revoca.

Il Tribunale analizza la natura dell’atto di revoca dell’incarico di assessore comunale, e verifica se tale atto acceda all’inquadramento degli atti politici e perciò non impugnabile davanti al giudice amministrativo alla stregua dell’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato, di cui al R.D. 26 giugno 1924, n.1054, in base al quale “il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.

Allo scopo, va premesso che per integrare la nozione legislativa di atto politico, debbano concorrere due requisiti, l’uno soggettivo e l’altro oggettivo: da un lato, deve trattarsi di atto o provvedimento emanato dal Governo, dall’altro, deve trattarsi di atto o provvedimento emanato nell’esercizio di potere politico, anziché di attività meramente amministrativa, con l’inevitabile soluzione che l’eccezione posta dal ricorrente, da subito, risulta inammissibile [5].

La dottrina classica considera gli atti “politici” o “di governo” quelli in cui si estrinsecano l’attività di direzione suprema della cosa pubblica, e l’attività di coordinamento e controllo delle singole manifestazioni in cui la direzione stessa si estrinseca, canonizzati nella Costituzione [6].

Infatti, i Giudici di Palazzo Spada ripercorrono l’esegesi della categoria degli atti politici che è stata individuata - sin dall’origine - con criteri rigorosi e tassativi, sia prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948, evidenziandosi “che essi debbono trovare causa obiettiva nella ragione di Stato indipendentemente dai motivi specifici che ne abbiano in concreto determinato l’emanazione[7], così come dopo il 1948 in aderenza con il principio della “indefettibilità della tutela giurisdizionale ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione, e sono stati inclusi in essa generalmente gli atti che attengono alla direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali [8].

Gli atti politici rappresentano l’espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti da garantire per la tutela di un primario interesse nazionale, e che essi sono liberi nella scelta dei fini attenendo ad obiettivi che qualificano la stessa dimensione dello Stato inteso come Ordinamento giuridico [9], mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge nel perseguimento di obiettivi di funzionalità, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa concretamente esercitabile [10].

Possiamo sostenere che se è la dimensione amministrativa che caratterizza gli atti, come evincibile nel ricercare il soggetto che più risponde all’esigenza di perseguire gli obiettivi politico – amministrativo del Comune, è allora da escludere, già sul piano oggettivo, la natura di atto politico perché la finalizzazione sottende che lo scopo è il buon andamento dell’azione amministrativa territorialmente intestata.

Questa sottolineatura induce a confermare che l’atto politico, nel paradigma interpretativo, deve essere caratterizzato dai due profili sopra richiamati: il primo di tipo soggettivo, “dovendo provenire l’atto da organo di pubblica amministrazione, seppure preposto in modo funzionale e, nella specifica vicenda, all’indirizzo e alla direzione al massimo livello della cosa pubblica”, e il secondo di tipo oggettivo, “dovendo riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione [11].

Nei termini sopra descritti si può argomentare che è un’ipotesi eccezionale la sottrazione al sindacato giurisdizionale di atti soggettivamente e formalmente amministrativi, nel presupposto che costituiscano espressione della fondamentale funzione di direzione ed indirizzo politico del Paese, per mantenere cioè l’unità di indirizzo politico e amministrativo assumendo tali atti una funzione preparatoria rispetto all’esercizio dei poteri amministrativi attribuiti alla competenza di ciascuna amministrazione destinataria.

Non può sfuggire che tale potere, esercitatile negli atti politici, manifesta la continuità stretta fra attività politica e attività amministrativa, dovuta all’esigenza di mantenere quest’ultima nell’alveo degli indirizzi politici “esigenza che appare propria degli Stati democratici, nei quali anzi più pienamente si presenta la necessità di mantenere la coerenza dell’azione amministrativa rispetto ai principi e ai fini che la comunità si è data e della cui osservanza gli organi più immediatamente rappresentativi debbono essere garanti” [12].

Il tema descritto può, invero, conciliarsi con la riforma del Titolo V della Costituzione che ridisegna lo Stato secondo un sistema policentrico ed equiordinato a tutela delle Autonomie, e può effettivamente svilupparsi in una autonomia “praticata”, “garantita” e “integrata”, e non solo rivendicata e sancita in mezzo a contraddizioni, ambiguità, reticenze o resistenze di tale portata, se si ammettesse che solo gli atti politici sono prerogativa degli organi dello Stato.

Per queste ed altre ragioni, la categoria degli atti politici è stata recentemente sottoposta a rivisitazione sulla base della riconosciuta presenza di “un sistema istituzionale costituito da una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, nel quale le esigenze unitarie si coordinano con il riconoscimento e la valorizzazione delle istituzioni locali [13].

Da queste considerazioni esegetiche, il Consiglio di Stato, assurge ad affermare che pur nella pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, vige il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti della Amministrazione pubblica (art. 113 Cost.) che ha portata generale e coinvolge, in linea di principio, tutte le Amministrazioni anche di rango elevato e di rilievo costituzionale, rilevando che le deroghe a simile principio debbono essere ancorate a norme a valenza costituzionale, e per tali principi di coesione del sistema anche gli atti del Parlamento Nazionale e delle Regioni sono soggetti al sindacato giurisdizionale riservato alla Corte Costituzionale nei termini stabiliti dalla legge, disponendo che solo un limitato numero di atti “in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico” sia sottratto al giudizio, “atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del Giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri [14].

Per altri versi e per ciò che qui interessa, è noto che nella ripartizione delle competenze legislative, ex art. 117 Cost., lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva nella materia della “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città metropolitane”, determinando inevitabilmente le sfere di competenza degli organi dell’Ente locale, delineando una riparto di competenze tra consiglio comunale e giunta “nel senso che l’organo elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali, ai sensi dell’art. 42 D. L.vo 18.8.2000 n. 267, mentre la giunta municipale, che è l’organo chiamato a collaborare con il sindaco nel governo del Comune, ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o di altri organi di decentramento [15].

Al cospetto di tali risultanze, il sindaco del comune non è un organo di rilievo costituzionale, e la giunta comunale non è di per sé abilitata alla direzione al massimo livello dell’Amministrazione comunale[16], con la successiva considerazione che “mentre l’atto sindacale di revoca di un assessore (o di più assessori) da un lato non è libero nella scelta dei fini, essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del sindaco nell’amministrazione del comune, e dall’altro è sottoposto alla valutazione del consiglio comunale ai sensi dell’art. 46, ultimo comma, D. L.vo n. 267/2000”, ritenendosi pienamente ammissibile, per ciò stesso, l’impugnativa del provvedimento davanti al giudice amministrativo “in quanto posto in essere da un’autorità amministrativa e nell’esercizio di un potere amministrativo, sia pure ampiamente discrezionale”.

Il merito del provvedimento revocatorio.

In relazione alla questione di merito, il Collegio giudicante si richiama integralmente al proprio precedente orientamento [17] evidenziando i seguenti aspetti essenziali:

a. il sindaco nell’evoluzione normativa, avvenuta con l’elezione diretta (ex lege n. 81/1993), trova la sua legittimazione nel mandato elettorale, è organo responsabile dell’amministrazione del comune, propone gli indirizzi generali di governo al consiglio, e a questi riferisce sulla nomina motivata degli assessori: “il sindaco e il presidente della provincia nominano i componenti della giunta (...). Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione”;

b. la lettura del T.U.E.L. in merito al potere di nomina, e il coordinamento in termini motivazionali del provvedimento con l’articolo 3 della legge sul procedimento amministrativo (la legge n.241 del 1990) ha evidenziato la distinzione tra il provvedimento di incarico e la sua comunicazione o notificazione, precisando l’irrilevanza, ai fini della validità del provvedimento stesso, della mancanza di motivazione nella comunicazione o notificazione [18], oppure della presenza di eventuali irregolarità intervenute in essa [19].

Ciò posto, la regola generale prevede una comunicazione motivata al Consiglio, nel senso di evidenziare le ragioni di una scelta di fronte all’organo di indirizzo e direzione, mentre nulla viene in rilievo formale, in termini motivazionali, da rendere al soggetto inciso nell’atto di revoca, né può essere compatibile con il sistema delineato dal T.U.E.L. uno specifico voto consigliare di ratifica dell’operato del sindaco da parte dell’assise consiliare.

Questa prospettazione enunciativa acclara che l’obiettivo del legislatore è quello di favorire la concreta gestione dell’amministrazione locale da parte del sindaco (o del presidente della provincia) in relazione all’investitura diretta, senza dare sufficiente importanza, anche a livello di sequenza procedimentale, dell’eventuale cessazione di singoli assessori nello svolgimento quinquennale del mandato, dovendo privilegiare (per motivi contingenti) il meccanismo della stabilità e il rapporto che lega il sindaco al consiglio comunale, in relazione ai compiti tassativamente affidati, purché ciò sia sostanzialmente condiviso dal consiglio, anche implicitamente, potendo, quest’ultimo, eventualmente dissociarsi con l’estremo rimedio della mozione di sfiducia motivata (art. 37 della legge n.142/1990, come sostituito dall’art.18 della legge n.81/1993 ed art.52 Dec. Lgs. n.267/2000), che però comporta, in caso di approvazione, lo scioglimento del consiglio stesso, e la cessazione di ogni controversia sul punto e sui rapporti.

La disposizione, dunque, mette in luce diretta che la revoca dell’incarico di assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco e che la comunicazione motivata è tendenzialmente diretta al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra sindaco - giunta e giunta - consiglio, il venir meno del quale autorizza il sindaco all’adozione di misure tese alla stabilizzazione del rapporto fiduciario ricompresso nella giunta, allorché sia venuto meno.

Il punto controverso si riflette su un giudizio di compatibilità delle qualità del nominato rispetto all’attitudine di perseguire gli obiettivi desiderati, giudizio che è anche espressione della volontà di aver effettuato una scelta suffragata dalla convinzione che tale soggetto possa garantire maggiore affidabilità rispetto all’indirizzo politico gestionale dell’amministrazione procedente[20], ed il venir meno di tale prospettazione, proprio perché adottato sulla base del vincolo fiduciario ed intuitu personae, legittima il titolare del potere a sostituire il prescelto, al fine di assicurare la permanenza del vincolo fiduciario, inteso nelle più late rappresentazioni [21].

Del resto, se così non fosse, se, cioè si ritenesse concedibile la presenza in giunta di un assessore che sconfessasse l’operato del sindaco si dimostrerebbe, senza errare, che il venir meno della condivisione dell’indirizzo politico del sindaco, inteso come perseguimento del programma di mandato, sarebbe indipendente dal rapporto di rappresentatività che, a suo tempo, ha permesso la nomina del componente della giunta, con il corollario che l’eventuale voto contrario alla proposta di bilancio, per esempio, non determinerebbe la rottura del rapporto di adesione alla linea politica - amministrativa del sindaco, che nel bilancio di previsione si compendia e si specifica nel concreto atteggiarsi delle scelte amministrative dell’ente [22].

Milita in tal senso, la tesi secondo la quale la rottura del rapporto di fiducia coincide con il rapporto di rappresentatività, quando si determina il venir meno della condivisione dell’indirizzo politico della maggioranza e tale fatto è rinvenibile quando un consigliere, uscito dal gruppo politico che lo aveva nominato in seno ad un organo, passa alla posizione di appoggio esterno, atteso che la posizione del c.d. appoggio esterno si caratterizza intrinsecamente con l’abbandono della condivisione delle responsabilità amministrative della coalizione, per perseguire un proprio disegno politico che, se anche, a volte, può coincidere con le scelte della maggioranza, non intende tuttavia deliberatamente, assicurare alla maggioranza stessa quell’adesione e quella solidarietà che consentono alla coalizione di governare, privandone la certezza del voto, e questa incertezza legittima i soggetti a rimuovere il consigliere comunale che non offre adeguate garanzie di rappresentatività [23].

Giova segnalare a questo punto, che è legittimo il provvedimento con cui il presidente della provincia revoca l’incarico ad un assessore motivato con riferimento a dati di fatto – specificamente esplicitati nella motivazione dell’atto di revoca - necessariamente implicanti e/o comunque idonei ad affievolire, ovverosia a far venir meno, in radice, il rapporto fiduciario tra il Capo dell’amministrazione ed il singolo assessore [24].

Emerge evidente che è necessaria la sussistenza di un incondizionato e completo rapporto di fiducia tra il sindaco e i componenti della giunta comunale, il venir meno del quale legittima la revoca dell’incarico.

In dipendenza di ciò, l’interpretazione corrente delle disposizioni - sotto il profilo motivazionale - è quella che assegna alla motivazione il compito di enunciare le ragioni dell’atto di revoca da valutarsi in termini di opportunità discrezionale, ben potendosi basare “sulle più ampie valutazioni di opportunità politico - amministrative, rimesse in via esclusiva al sindaco o al presidente della provincia, tenendo conto sia di esigenze di carattere generale, quali ad es. rapporti con l’opposizione o rapporti interni alla maggioranza consiliare, sia di particolari esigenze di maggiore operosità ed efficienza di specifici settori dell’amministrazione locale o per l’affievolirsi del rapporto fiduciario tra il capo dell’amministrazione e singolo assessore; tenendo presente che trattasi non di un tipico procedimento sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non sotto i profili formali e l’aspetto dell’evidente arbitrarietà, in relazione all’ampia discrezionalità spettante al capo dell’amministrazione locale [25].

Nel dibattito processuale si perviene a dire che l’apporto motivazionale, seppure non dichiarato nell’atto di revoca, può rinvenirsi anche nella lettera di accompagnamento del provvedimento “da ritenersi che essa faccia parte integrante del procedimento sotto il profilo motivazionale”, che nel suo complesso risponde all’esigenza giustificativa della revoca dell’assessore, al punto da rinvenirsi aliunde anche in dichiarazioni ascrivibili al mondo esterno dell’interessato, quali, per esempio, in dichiarazione apparse sulla stampa o ad altri fatti concludenti.

La comunicazione di avvio del procedimento

Sulla necessità della comunicazione di avvio del procedimento di revoca dell’incarico di assessore, il Tribunale, prima di assumere una chiara posizione, rammenta che la giurisprudenza è alquanto incerta, ritenendosi in alcune sentenze la normale applicabilità degli artt.7 e 8 della legge n.241/1990 e successive modificazioni[26], mentre, in altre occasioni, o si è escluso del tutto l’obbligo della comunicazione di avvio del relativo procedimento per la particolarità della fattispecie [27], o sono stati prospettati dubbi al riguardo [28].

Fatte queste premesse, il Giudice di seconde cure perviene a stabilire che per la revoca dell’incarico di assessore comunale non sia necessario la previa comunicazione dell’avvio del procedimento, in considerazione della specifica disciplina normativa vigente in materia, posto che “le prerogative della partecipazione possono essere invocate quando l’ordinamento prende in qualche modo in considerazione gli interessi privati in quanto ritenuti idonei ad incidere sull’esito finale per il migliore perseguimento dell’interesse pubblico, mentre tale partecipazione diventa indifferente in un contesto normativo nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’amministrazione del Comune nell’interesse della comunità locale, con sottopozione del merito del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale”.

Ed in questo senso, l’apporto partecipativo perde di ogni interesse collaborativo o strumentale, non essendo funzionale ad alcuna esigenza amministrativa che possa ostacolare l’esercizio della funzione istituzionalmente attribuita al sindaco, né in termini attivi, eventualmente opzionabili al consiglio comunale, né in termini passivi, funzionali al miglior esercizio dell’azione amministrativa intestata alla giunta, di cui l’assessore è membro.

Dovendosi, invece, considerare solo l’oggettiva incidenza che il venir meno di un rapporto collaborativo fra assessore e sindaco, anche solo a livello potenziale, mina l’equilibrio delle relazioni con effetti negativi per la stabilità dell’organo in relazione al suo operare al servizio del sindaco, è per tali ragioni che il procedimento di repressione o di soluzione del conflitto deve essere celere, semplificato, immediato.

Si spiega in tali specificità il relativo iter per concludere la sostituzione e risolvere, senza aggravamento o arresto, la crisi intervenuta o in itinere del governo locale, “articolandosi nei seguenti passaggi: valutazione della situazione da parte del sindaco, scelta sindacale di modificare la composizione della giunta nell’interesse della comunità locale e comunicazione motivata di ciò al consiglio comunale, senza l’interposizione della comunicazione dell’avvio del procedimento all’assessore assoggettato alla revoca, la cui opinione è irrilevante per la normativa attuale salvo che non venga fatta propria dal consiglio comunale”.

Le conclusioni ritraibili sono coerenti con l’impianto complessivo sia delle norme del T.U.E.L. che quelle del procedimento amministrativo (ex lege n. 241 del 1990) ma, più in generale, con l’esigenza di garantire la stabilità del governo locale, espressione democratica di partecipazione interposta dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, a fronte di comportamenti irresponsabili di singoli componenti della giunta che, isolatamente (e senza alcuna legittimazione popolare), prendono le distanze dal sindaco, magari adducendo profili di natura amministrativa per nascondere motivazioni di natura squisitamente politica ed allora l’Ordinamento, (ergo il legislatore), misura il peso dei poteri degli organi locali, (sindaco, giunta e consiglio), e i meccanismi di equilibrio del consenso, (realizzazione del programma di mandato), consentendo al sindaco di uscire dalle pastoie della crisi (e dei tecnicismi), e provvedere ad una decisione con la revoca dell’assessore non allineato, per il bene del Comune: quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? [29].

 

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[1] T.A.R. Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 19 aprile 2006, n.465.

[2] Cons. Stato, sez.V, 29 agosto 2005, n.4406.

[3] Cons. Stato, sez.V, 10 gennaio 2007, n.36 e sez.VI, 7 novembre 2006, n.6555; T.A.R. Lazio – Roma, sez. II ter, 4 dicembre 2006, n.3652.

[4] Sul punto, cfr. T.A.R. Sicilia, sez. I, 5 marzo 2004, n.146.

[5] Cons. Stato, sez.IV, 29 febbraio 1996, n.217.

[6] SANDULLI A.M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, pag.16.

[7] Cons. Stato, sez.IV, 20 dicembre 1946, n.351.

[8] Corte Cost., 19 marzo 1993, n.103.

[9] Cons. Stato, sez.IV, 14 aprile 2001, n.340.

[10] Cass. Sez. Un., 13 novembre 2000, n.1170.

[11] Cons. Stato, sez.IV, 12 marzo 2001, n.1397.

[12] NIGRO, Lineamenti generali, in Manuale di diritto pubblico, a cura di AMATO – BARBERA, Bologna, 1994, pag.704.

[13] Cass. Sez., Un., 16 giugno 2005, n.12868.

[14] Cass. Sez. Un. 16 maggio 2006, n.11623.

[15] Cons. Stato, sez.III, 3 marzo 2005, n.832.

[16] Vedi, Parere Cons. Stato, sez.I, n.4391/2005 del 12 aprile 2006.

[17] Cons. Stato, sez.V, 8 marzo 2005, n.944.

[18] Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 1974, n.99; sez.VI, 30 novembre 1976, n.428 e 7 aprile 1978, n.470.

[19] Cons. Stato, sez. IV, 1° luglio 1980, n.740.

[20] T.A.R. Puglia – Bari, sez.II, 15 maggio 2006, n.1759.

[21] La fiducia va parametrata con il giudizio di affidabilità espresso, attraverso la nomina, sulle qualità e le capacità del nominato di rappresentare gli indirizzi di chi l’ha designato, orientando l’azione dell’organismo nel quale si trova ad operare in senso quanto più possibile conforme agli interessi di chi gli ha conferito l’incarico, T.A.R. Marche, sez.I, 3 aprile 2006, n.118, idem Cons. Stato, sez. V, 12 agosto 2004, n.5552.

[22] Cons. Stato, sez.V, 23 gennaio 2007, n.199.

[23] Cons. Stato, sez.V, 27 aprile 2006, n.2367 e 29 novembre 2005, n.6751.

[24] Cons. Stato, sez.V, 6 marzo 2006, n.1052.

[25] Cfr. Cons. Stato, sez.V., 3 aprile 2004, n.1042 e n.5864 del 7 settembre 2004.

[26] T.A.R. Puglia, Lecce, sez.II 14 luglio 2003, n.4740; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 28 maggio 2005, n.478; T.A.R. Molise, 28 marzo 2006, n.235.

[27] T.A.R. Sicilia, Palermo, sez.I, 5 marzo 2004, n.466, ed il Parere Cons. Stato, n.4391/2005 del 12 aprile 2006.

[28] Ordinanza Cons. Stato, sez.V, 8 giugno 2004, n.2639.

[29] CICERONE, Oratio in catiliam prima, pronunciata in Senato, nel tempio di Giove Statore sul Palatino, l’8 novembre 63.


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