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GIOVANNI IUDICA
La Cassazione ancora in tema di “pregiudiziale amministrativa” ed (eventuale) contrasto tra giudicati.
(commento a Corte di Cassazione, Sez. II civ., sentenza 27 marzo 2003 n. 4538*)
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SOMMARIO: 1. La fattispecie affrontata in sentenza e principi in essa affermati. 2. Tecniche di tutela eventualmente utilizzabili dal giudice ordinario. 3. Ulteriori aspetti problematici: a) introduzione dell’annullamento dell’atto quale presupposto della tutela risarcitoria; 4. segue: b) rapporti tra giudicato amministrativo di rigetto e processo civile per il risarcimento del danno. 5. Considerazioni conclusive.
1. Nella decisione che qui si annota la fattispecie considerata era la seguente. Con delibera del Consiglio d’amministrazione una Cooperativa edilizia disponeva l’esclusione di un socio per morosità. La delibera veniva annullata dalla Commissione di vigilanza su ricorso del socio escluso.
Successivamente, a seguito di ricorso presentato dalla Cooperativa, il Consiglio di Stato annullava la decisione della Commissione sotto il profilo che il ricorso presentato a suo tempo dal socio era tardivo [1]. Il socio escluso decideva a questo punto di percorrere la via della giurisdizione ordinaria e, con atto notificato in data 29.12.1993, conveniva in giudizio la Cooperativa, oltre che gli amministratori, per sentirli condannare al pagamento degli interessi, sulle somme versate alla Cooperativa dalla data dell’esclusione a quella della restituzione, nonché per ottenere, previo accertamento della legittimità dell’esclusione, la condanna al risarcimento dei danni conseguenti.
Il giudice di 1° grado rigettava la domanda inerente agli interessi, mentre dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario circa la domanda di accertamento d’illegittimità dell’esclusione del socio e quindi concludeva per l’inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni.
Il giudice d’appello accoglieva la domanda concernente gli interessi, mentre rigettava la domanda di risarcimento del danno. Considerava in particolare che l’attore aveva proposto due domande: 1) richiesta d’accertamento d’illegittimità dell’esclusione. Su questa domanda, bene il giudice di 1° grado aveva pronunciato il difetto di giurisdizione, trattandosi di una questione concernente la qualità di socio di cooperativa edilizia attribuita alla competenza della Commissione di vigilanza e poi devoluta alla giurisdizione del Consiglio di Stato in sede di impugnativa delle deliberazioni di dette Commissioni. 2) Richiesta di risarcimento danni. Su questa domanda sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario; tale domanda era ammissibile ma doveva essere rigettata in quanto infondata: infatti il Consiglio di Stato aveva accertato con forza di giudicato la decadenza del diritto del socio di impugnare la delibera di esclusione per cui era vietato al socio escluso di chiedere il risarcimento del danno connesso all’esclusione presupponendo il relativo diritto la tempestività dell’impugnazione.
Il socio escluso proponeva ricorso in Cassazione che veniva respinto con la sentenza in epigrafe indicata per i motivi che si cercheranno di esporre in sintesi.
Preliminarmente, la Corte osserva che “La controversia in esame è relativa ad una domanda risarcitoria ex articolo 2043 c.c.- proposta nei confronti di una Cooperativa edilizia, operante con il contributo dello Stato, oltre che degli amministratori di tale Cooperativa- ed è anteriore alla innovazione del sistema di riparto della giurisdizione introdotta con il d.lgs. n. 80 del 1998 e con la legge 205 del 2000” [2]. Ciò posto, la Corte ritiene che, nel caso in esame, il giudice ordinario non aveva il potere di disapplicare il provvedimento amministrativo sotto un duplice profilo: a) perché l’oggetto della controversia deve essere un diritto soggettivo perfetto [3]; b) perché la valutazione della legittimità del provvedimento deve avvenire solo in via incidentale, configurandosi l’atto amministrativo come questione pregiudiziale in senso tecnico. In sostanza, per procedere alla disapplicazione, la Corte ritiene che l’atto amministrativo non debba assumere rilievo come causa del diritto del privato ma come mero antecedente. Si può pensare ad un’ipotesi classica: un privato esegue una costruzione in violazione delle distanze tra le costruzioni ed essendo convenuto in giudizio adduce a giustificazione che è stato a ciò abilitato da una concessione edilizia [4]. Nel caso in esame, invece, l’illegittimità dell’atto amministrativo non costituisce pregiudiziale in senso tecnico ma un elemento essenziale del thema decidendum: in sostanza fa parte (integrante) dell’oggetto del giudizio.
La Corte richiama a conforto di queste affermazioni la sent. delle S.U. n. 500/99 la quale non avrebbe affatto richiamato il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi “ma si è basata sull’autonomo potere del giudice del risarcimento del danno di accertare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.” [5].
Rispetto però alla sent. 500/99, la sentenza che si annota non ha accolto il principio del venir meno della pregiudiziale d’annullamento, cioè del criterio secondo cui si può azionare la pretesa risarcitoria anche senza il previo intervento “demolitorio” del giudice amministrativo o della stessa amministrazione [6]. Ci sembra che a questa conclusione si perviene sotto un duplice versante: 1) accoglimento, da parte della Corte di Cassazione, dei principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in tema di pregiudiziale d’annullamento [7]; 2) influenza sulla questione della L. 205/2000, che attribuendo al giudice amministrativo la competenza, nell’ambito della sua giurisdizione, delle “questioni patrimoniali conseguenziali”, tra le quali quelle inerenti al risarcimento del danno avrebbe escluso l’autonomia tra azione di annullamento ed azione di risarcimento.
Rispetto al punto 1), i principi posti dalla giurisprudenza amministrativa [8] cui la Cassazione presta ossequio sarebbero in sostanza i seguenti.
Il venir meno della pregiudiziale d’annullamento affermata dalla sent. 500/99 non sarebbe condivisibile, in quanto in assenza della rimozione dell’atto il permanere della produzione degli effetti sarebbe conforme alla volontà di legge e quindi tali effetti non potrebbero essere valutati in termini di danno ingiusto [9]. Per l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici in tema di diritto pubblico l’amministrato deve richiedere tutela nei termini di decadenza non potendo egli rinunciare alla tutela in forma specifica per optare per una tutela risarcitoria. Diversamente opinando, la p.a. sarebbe posta nell’alternativa o di annullare l’atto d’ufficio, con evidente pregiudizio delle ragioni di eventuali controinteressati [10], o mantenere fermo l’assetto d’interessi pur in presenza di una condanna fondata sull’accertamento dell’illegittimità dell’atto, in contrasto con il principio di sistema che i fatti illeciti devono essere comunque repressi [11].
Rispetto al punto 2) la Corte, come già accennato, ritiene assente l’autonomia dell’azione risarcitoria e quella d’annullamento in relazione all’art. 7 comma 3° L. 1034/71, come sostituito dalla L. 205/2000. Sembra peraltro andare oltre questa norma: ritiene in sostanza che il principio di certezza delle situazioni giuridiche vada applicato anche nei rapporti tra privati laddove si debbano contestare, entro certi termini, determinati atti. In particolare, si fa riferimento alla necessità di tempestiva impugnativa di delibere condominiali e societarie rispetto alle quali si voglia chiedere il risarcimento del danno [12].
2. Le conclusioni cui la sentenza in questione perviene non ci sembrano condivisibili per le ragioni che seguono.
Considerando preliminarmente l’ammissibilità del potere di disapplicazione nella fattispecie che ci occupa, la prima obiezione che la Corte sembra muovere all’utilizzo di quest’istituto è che la fattispecie sottoposta al suo esame non concerneva diritti soggettivi perfetti: alla base dell’illecito, secondo le argomentazioni della Corte, verrebbe a configurarsi la lesione di un interesse rilevante e meritevole di tutela che “non è definibile a priori, stante l’atipicità dell’illecito civile delineato dall’art. 2043 c.c., per cui compete al giudice, di volta in volta, selezionare gli interessi meritevoli di tutela valutandoli e comparandoli con altri, contrapposti, al fine di verificare se vi sia stata rottura del “giusto” equilibrio” [13].
In effetti, a rigor di termini, l’art. 4 L. abol. cont. si riferisce ad una contestazione che “...cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa...”. Sembrerebbe piuttosto evidente che anche l’art. 5, norma connessa all’art. 4, presupponga una controversia che verta su diritti soggettivi [14].
Da tale impasse si può uscire se la tecnica di tutela prescelta si vuole che sia la disapplicazione, percorrendo due differenti direzioni.
Si può aderire alla tesi, sostenuta da autorevole dottrina, per cui l’art. 4 deve essere interpretato in senso evolutivo: l’espressione “quando la contestazione cade sopra un diritto” deve oggi essere riferita anche ad un interesse giuridicamente rilevante, secondo l’ampliamento della nozione di danno ingiusto, ampliamento dovuto alla sent. 500/99, per cui è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia in quanto lesiva di interessi ai quali l’ordinamento presta rilevanza [15].
Oppure, si può considerare in relazione alla sent. 500/99, che la risarcibilità non si riferisce all’interesse legittimo o comunque ad un interesse giuridicamente rilevante, ma propriamente ad un diritto e segnatamente ad un diritto all’integrità patrimoniale. Si può far leva sul punto della motivazione della sent. 500/99 in cui si afferma che l’azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. per illegittimo esercizio della funzione pubblica bene è proposta dinanzi al giudice ordinario, in quanto questi conosce questioni di diritto soggettivo nell’ambito delle quali si inquadra il diritto al risarcimento del danno, che dalla Corte viene nettamente distinto dalla posizione giuridica lesa che può avere natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo, o d’interesse comunque rilevante per il sistema. Questo punto richiede peraltro una disamina della meccanica della lesione prevista dalla sent. 500/99 e per questo ci si permette di rinviare ad un nostro precedente scritto [16]. In questa sede, ci preme solo rilevare che se la lesione riguarda il diritto all’integrità patrimoniale, essa potrebbe a rigore rientrare nel “diritto leso” richiamato dall’art. 4 senza dover fare ricorso necessariamente ad un’interpretazione evolutiva di questa norma.
L’ulteriore obiezione sviluppata dalla Corte è l’ambito di applicazione dell’art. 5 L. abol.cont.: questa norma, come già accennato, dovrebbe essere applicata solo quando l’atto amministrativo entri nel giudizio come pregiudiziale in senso tecnico, mentre l’oggetto principale deve riguardare altro. Ora, bisogna considerare che in dottrina, in epoca ormai risalente, si considerò l’esistenza di una disapplicazione c.d. indiretta. Sarebbe in sostanza quella prevista dall’art. 4 L. abol. cont.: l’atto amministrativo non è un antecedente logico-giuridico rispetto alla controversia principale, bensì è proprio la causa del pregiudizio, essendo l’atto amministrativo elemento costitutivo dell’illecito [17]. In questa direzione, “La condanna al risarcimento per equivalente monetario si propone come disapplicazione indiretta dell’atto amministrativo. E’ il segno, la conseguenza dell’avvenuta disapplicazione” [18]. Il ricorso a tale tecnica di tutela non sarebbe priva di effetti per l’amministrato: in forza infatti dell’art. 4 comma 2°, il privato che abbia ottenuto una pronuncia favorevole potrebbe rivolgersi all’amministrazione onde ottenere la rimozione dell’atto [19].
In alternativa, se si considera il rilievo, condiviso dalla sentenza che qui si annota, che la sent. 500/99 non ha fatto riferimento alla disapplicazione, le tecniche di tutela possibili potrebbero essere le seguenti.
a) Se si considera che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto sia una pregiudiziale in senso logico rispetto alla questione del diritto al risarcimento del danno, il giudice verrebbe a compiere un accertamento in via principale dell’illegittimità dell’atto [20]. Ciò verrebbe a desumersi dalla motivazione della sent. 500/99 che si riferisce ad un “accertamento diretto, da parte del giudice ordinario, dell’illegittimità dell’atto amministrativo quale elemento costitutivo della fattispecie dell’illecito civile” [21].
Questo “schema” di tutela potrebbe a nostro giudizio presentare delle differenze notevoli rispetto alla disapplicazione “indiretta” sul piano della tutela effettiva dell’amministrato. La disapplicazione indiretta sarebbe in sostanza soggetta al criterio di cui all’art. 4 comma 2° L. abol.cont., essendo necessaria un’istanza dell’interessato alla p.a. onde ottenere la rimozione dell’atto. Nell’ipotesi invece di accertamento in via principale della legittimità dell’atto discendente dal modello di tutela della sent. 500/99 verrebbe effettivamente a realizzarsi un’ipotesi di autoannullamento doveroso, derivante non da una norma di legge (l’art. 4 comma 2°) ma dal contenuto del giudicato. La p.a. dovrebbe disporre la rimozione dell’atto a seguito del giudicato civile, configurandosi l’eventuale proposizione dell’istanza del privato, onde ottenere l’annullamento, non correlata al dovere d’annullare (che già sussiste in capo alla p.a. a seguito del giudicato), ma alla sua osservanza da parte della p.a [22].
La differenza inoltre dell’ipotesi qui illustrata sarebbe notevole anche rispetto alla formulazione dell’art. 4 comma 2°. Questa norma infatti, com’è noto [23], prevede un divieto di “revoca e modifica” dell’atto amministrativo da parte del giudice [24], mentre l’atto potrà essere revocato o modificato a seguito di ricorso alle autorità amministrative competenti “le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso”.
Ora, ci sembra nel contesto di sistema degli artt. 4 e 5 che il “revocato” non significa, in relazione all’eventuale ricorso all’autorità amministrativa, che la p.a. avrebbe un obbligo di annullare l’atto[25], bensì che revochi gli effetti di esso o, per dir così, l’applicazione dell’atto stesso, in relazione al caso deciso e in rapporto al soggetto che è stato parte in causa [26]. Ciò verrebbe in particolare a desumersi dalla tenore della norma dell’art. 4, 2° comma, che prevede un obbligo di conformazione della p.a. in relazione al caso deciso. In sostanza la p.a. investita del ricorso dell’amministrato revocherà l’atto, nel senso che disconoscerà gli effetti di esso in relazione al soggetto che ha agito in giudizio e limitatamente alla fattispecie sottoposta al suo esame. Il che significa che l’atto potrà dispiegare effetti nei confronti di altri soggetti nell’atto previsti che non abbiano azionato il rimedio giurisdizionale (sia cointeressati, sia controinteressati). Se invece, come già accennato, si segue il modello di tutela della sent. 500/99, interpretato nel senso che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto sia una pregiudiziale in senso logico, deriverà un obbligo d’annullamento direttamente dal contenuto del giudicato, non soggiacendo ai limiti posti dall’art. 4, 2° comma, e quindi ad un potere di revoca o di modifica in relazione all’applicazione dell’atto rispetto ad un determinato soggetto [27]. L’amministrazione in sostanza avrà un obbligo di eliminare l’atto con efficacia erga omnes con effetti quindi per tutti i soggetti interessati a vario titolo all’atto stesso.
b) Altra tecnica di tutela sarebbe considerare che il giudice ordinario non effettua un sindacato sull’illegittimità dell’atto, ma sul comportamento (illecito) della p.a. Comportamento in forza del quale la p.a. tiene in vita un atto che, essendo illegittimo, dovrebbe essere annullato in sede di autotutela. In questa direzione nel testo della sent. 500/99 vi è qualche spunto esegetico, ove la Cassazione configura la responsabilità della p.a. come apparato quando “l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole d’imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”[28]. L’imparzialità amministrativa verrebbe vista non rispetto ad un’attività provvedimentale, bensì riguardo ad un comportamento di fatto consistente nell’adozione e nell’esecuzione di un atto. In questa visione l’atto amministrativo si potrebbe configurare come presupposto dell’illecito della p.a. Le conseguenze peraltro sul piano della tutela sono le stesse rispetto ad una disapplicazione in via incidentale: si ottiene una condanna al pagamento di una somma di denaro, senza incidere sull’illegittimità dell’azione della p.a.[29]. In quest’ipotesi in sostanza la controversia viene composta con la condanna ai danni e quindi, non incidendosi sul regime dell’atto, la posizione di eventuali terzi non verrebbe ad essere scalfita.
Non si condivide altresì il ragionamento espresso dalla Cassazione che ritiene inammissibile la domanda risarcitoria, venendo in sostanza a recepire i principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, che in motivazione, come in precedenza accennato, sono stati richiamati. Ciò in quanto i principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa non sembrano trasponibili automaticamente nel giudizio ordinario, proprio perché si inseriscono nel contesto del processo amministrativo, rispetto al quale indubbiamente pesa, ed in modo notevole, il significato da attribuire all’art. 7 comma 4° L. 205/2000. In effetti, si tratta di considerare se in forza di questa norma, si debba, onde ottenere il risarcimento del danno, impugnare tempestivamente il provvedimento[30]. Ma, appunto, questa problematica è propria del processo amministrativo che si pone, almeno tendenzialmente, come processo d’impugnazione.
In sostanza, ritenuto da parte della Corte che la domanda risarcitoria rientrava nell’ambito della sua giurisdizione[31], in quanto anteriore - perché proposta prima del 1° luglio 1998 - all’innovazione del sistema di riparto di giurisdizione introdotto con il d.lgs. n. 80 del 1998 e con la legge 205 del 2000 si doveva considerare la fondatezza della domanda risarcitoria, dovendo individuare, nel caso di risposta positiva a tale fondatezza, le tecniche di tutela eventualmente utilizzabili, cioè la disapplicazione “indiretta” oppure il modello di tutela indicato dalla sent. 500/99 che sembra prescindere dal meccanismo disapplicativo. Diversamente opinando, la disposizione dell’art. 7 comma 4° sembrerebbe avere un ambito di applicabilità che va oltre i “confini” del giudizio amministrativo: sarebbe una norma di diritto sostanziale generale e nello stesso tempo “speciale” rispetto al 2043 c.c. Per meglio dire, rispetto alle azioni di risarcimento danni proposte nei confronti delle pubbliche amministrazioni, sia quelle proposte dinanzi al giudice amministrativo sia quelle dinanzi al giudice ordinario, per il particolare regime transitorio previsto dalla sent. 500/99 [32], sarebbe comunque necessario il presupposto dell’annullamento dell’atto. Per cui prima di adire il giudice ordinario per il risarcimento bisogna ottenere dal giudice amministrativo l’annullamento dell’atto, tornandosi al sistema “binario” previsto prima della sent. 500/99 [33], sistema che aveva una giustificazione connessa all’irrisarcibilità dell’interesse legittimo. Era necessario l’annullamento del provvedimento perché vi fosse la riespansione del diritto soggettivo, in precedenza affievolito ad interesse legittimo e quindi la sua risarcibilità. Nella costruzione della giurisprudenza amministrativa, recepita dalla Cassazione, l’annullamento del provvedimento sarebbe necessario per non eludere il termine di decadenza e quindi la certezza dei rapporti giuridici amministrativi, tesi che però non convince, ove si ritenga che la sent. 500/99 quanto alla risarcibilità si riferisca, come già accennato, ad un diritto al risarcimento del danno e non all’interesse legittimo. Del resto, anche l’art. 7 comma 4° non riguarda affatto la risarcibilità degli interessi legittimi ma gli “altri diritti patrimoniali conseguenziali” in cui sembra rientrare il diritto al risarcimento del danno [34].
In sostanza, ci sembra che il giudice ordinario avrebbe dovuto conoscere della domanda risarcitoria, dovendola rigettare solo ove ritenuta infondata [35]. Ha invece rigettato in definitiva tale domanda per mancanza di un presupposto necessario quale l’annullamento dell’atto che sarebbe necessario in forza del diritto positivo in relazione all’art. 7 L. 205/2000.
3. Oltre agli aspetti finora considerati, si vogliono sottolineare due ulteriori profili problematici che possono desumersi dalla decisione in questione.
a) Il primo profilo, come già accennato, è che la giurisprudenza ordinaria, in ossequio alla regola posta dall’art. 7 comma 4°, introduce un presupposto ulteriore per la tutela risarcitoria nei confronti della p.a. rispetto alla formulazione dell’art. 2043 c.c., cioè quello dell’annullamento dell’atto [36]. Qui si vuole soprattutto rilevare che questo presupposto potrebbe essere inserito nel novero dei c.d. presupposti processuali ed in particolare nell’ambito dei presupposti di validità o di procedibilità del processo venendosi ad aggiungere alla competenza del giudice ed alla legittimazione processuale [37]. L’annullamento dell’atto (compiuto dalla p.a. in sede di autotutela ed in sede di ricorso straordinario, oppure dal giudice amministrativo con sentenza passata in giudicato) configurandosi come presupposto processuale sarebbe un requisito che deve in sostanza esistere prima della domanda affinchè il giudice pervenga alla pronuncia sul merito [38]. In assenza di esso il giudice (nel caso che ci occupa quello ordinario) dovrebbe respingere la domanda sotto il profilo dell’inammissibilità per difetto di presupposto. Si tratta quindi di una pronuncia di rito.
A ciò potrebbe peraltro obiettarsi che la necessità di tale presupposto si configurava già nel sistema antecedente alla sent. 500/99, essendo necessaria la previa caducazione dell’atto onde ottenere il risarcimento. Ma ci sembra che, rispetto a quel sistema, la pronuncia di rigetto non veniva motivata sotto il profilo del difetto di un presupposto di rito: si rigettava la domanda, come già in precedenza accennato, perché non essendo stato annullato l’atto, non era avvenuta la riespansione del diritto soggettivo, unica situazione risarcibile in forza dell’art. 2043 e quindi può considerarsi che si poneva in essere una pronuncia di merito [39]. Ciò ancor se si può considerare che per una parte della giurisprudenza della Cassazione si rigettava la domanda risarcitoria per difetto di giurisdizione, sotto il profilo che il giudice ordinario non poteva conoscere di interessi legittimi e men che mai risarcirli [40]. Nel sistema attuale, invece, è ammesso il risarcimento del danno derivante dai provvedimenti della p.a. sia che la lesione si riporti agli interessi legittimi sia che la si riporti - secondo una lettura che sembra preferibile della sent. 500/99 - ad un diritto all’integrità patrimoniale, ma è richiesto un presupposto di carattere processuale quale è l’annullamento dell’atto, stante che, come già osservato, non si è voluto aderire alla caduta della pregiudiziale d’annullamento, quantomeno per i giudizi risarcitori proposti dinanzi al giudice ordinario entro il 30.6.1998.
4. b) Il secondo profilo problematico, che può scaturire dalla sentenza commentata, è se, formatosi un giudicato amministrativo di rigetto, esso possa fare stato nel giudizio dinanzi al giudice civile in cui si proponga un’azione di danni sulla scorta dell’illegittimità dell’atto. Per il vero, nella fattispecie considerata in sentenza, questo problema non viene a porsi, perché la sentenza del Consiglio di Stato non ha accertato la legittimità del provvedimento amministrativo, stante che ha rigettato il gravame sul rilievo che il ricorso alla Commissione di vigilanza era stato proposto tardivamente.
Più in generale tale questione verrebbe a configurarsi ove si consideri la seguente ipotesi. Si propone dinanzi al giudice amministrativo una impugnazione avverso un provvedimento e si forma un giudicato di rigetto, sulla scorta del rilievo che il provvedimento sia legittimo. Si ipotizza altresì che il giudicato di rigetto si formi prima dell’entrata in vigore della L. 205/2000, diversamente potrebbe porsi il problema della proposizione di una domanda risarcitoria in memoria difensiva, sulla scorta dell’ius superveniens, già nel giudizio di 1° grado dinanzi al TAR. La domanda risarcitoria invece viene proposta dinanzi al giudice ordinario, in forza del modello di tutela previsto dalla sent. 500/99[41]. A ciò potrebbe obiettarsi che la domanda risarcitoria dinanzi all’AGO dovrebbe essere respinta per difetto di giurisdizione perché, secondo una communis opinio, intervenuta la disposizione dell’art. 7 comma 4° L. 205/2000, la tutela risarcitoria verrebbe affidata, nell’interezza della sua giurisdizione, al giudice amministrativo, mentre semmai al giudice ordinario verrebbero affidate le controversie per le questioni risarcitorie inerenti a danni cagionati da un mero comportamento della p.a. [42].
Se si interpreta la norma in questione come norma di carattere propriamente “processuale” [43] l’obiezione in oggetto potrebbe essere superata. Si tratta della tesi -che in un nostro precedente scritto è stata esposta più diffusamente ed a cui ci si permette di fare rinvio [44]- secondo cui al giudice amministrativo spettano le questioni risarcitorie effettivamente “conseguenziali” all’annullamento del provvedimento amministrativo impugnato dinanzi a tale giudice, mentre al giudice ordinario resterebbe la cognizione delle questioni risarcitorie che non abbiano un legame di conseguenzialità con la pronuncia “cassatoria”. In sostanza, la questione risarcitoria effettivamente conseguenziale all’annullamento sarebbe la reintegra in forma specifica [45], mentre al giudice ordinario spetterebbe la cognizione delle questioni risarcitorie attinenti al risarcimento monetario o per equivalente.
In questa direzione, l’azione risarcitoria dinanzi all’AGO sarebbe ammissibile sul piano del riparto [46], ponendosi però il problema se faccia stato nel giudizio civile il giudicato amministrativo di rigetto.
Scendendo ancor più al caso concreto, si pensi all’ipotesi in cui Tizio, proprietario di un fondo vicino a quello di Caio, impugni la concessione edilizia rilasciata a quest’ultimo, assumendo come unico motivo di ricorso l’illegittimità dell’atto in quanto in contrasto con il P.R.G. Se formatosi il giudicato amministrativo di rigetto voglia adire le vie ordinarie per il risarcimento per equivalente assumendo l’illegittimità dell’atto, si pone il problema se il giudicato in questione faccia stato nel giudizio civile.
Tendenzialmente, la domanda risarcitoria dinanzi al giudice ordinario dovrebbe essere rigettata, sotto il profilo che il giudice amministrativo ha accertato, e definitivamente, la legittimità del provvedimento. Se, in forza del modello della sent. 500/99, l’AGO accerta l’illegittimità del provvedimento e, come già accennato, la p.a. avesse l’obbligo di annullare, sorgerebbe un problema di giudicati contrastanti: il giudice dell’ottemperanza non potrebbe, in caso d’inerzia della p.a., annullare l’atto che il giudice amministrativo abbia ritenuto legittimo. Una “via di fuga”, rispetto all’efficacia del giudicato amministrativo nel processo civile, sarebbe una completa rimeditazione del criterio di riparto, facendosi ricorso ad un criterio, abbandonato nell’evoluzione del sistema di giustizia amministrativa, cioè quello del petitum [47]: la competenza sarebbe del giudice amministrativo ove si chiedesse l’eliminazione del provvedimento, mentre sarebbe del giudice ordinario ove si chiedesse il risarcimento del danno provocato dall’atto illegittimo [48]. L’adesione a tale criterio verrebbe a comportare la diversità radicale di oggetto tra processo amministrativo e civile e, quindi, una conseguenziale diversità rispetto al contenuto del giudicato. Il giudicato civile tenderebbe ad una pronuncia risarcitoria, valutando il giudice ordinario il comportamento (illecito) della p.a. e non l’atto atomisticamente.
Per il vero, l’adesione al criterio del petitum sembra impraticabile in quanto nella sent. 500/99 ci si riferisce in modo chiaro alla situazione soggettiva lesa, che si relaziona al diritto al risarcimento del danno e quindi al diritto all’integrità patrimoniale. Sotto altro profilo, secondo la motivazione delle S.U., l’accertamento dell’illegittimità dell’atto è un elemento costitutivo dell’illecito e quindi non si può negare che il giudice dovrebbe fare un’indagine su tale illegittimità, ma essa sarebbe radicalmente preclusa ove sussistesse già un giudicato amministrativo di rigetto. Anche a considerare un sindacato sul comportamento della p.a., è indubbio che non si tratta di un “mero comportamento”, cioè di un comportamento materiale in senso stretto (l’incidente stradale causato da un automezzo della p.a., la cattiva manutenzione di una strada), ma di un comportamento consistente nell’adozione di un atto ritenuto illegittimo, nel mantenimento in vita di esso e nella produzione dei suoi effetti. Quindi il contrasto di giudicati sarebbe difficilmente superabile [49].
Peraltro, il criterio del petitum potrebbe essere meglio specificato, nel senso che non solo si chiede al giudice amministrativo l’eliminazione dell’atto, ma lo si chiede in relazione ai motivi dedotti in ricorso. Se si ammette che il giudicato (di rigetto) viene a formarsi non sulla complessiva pretesa del ricorrente, ma sui motivi, si può ritenere che il provvedimento è sì legittimo ma rispetto alle censure mosse dal ricorrente, non escludendosi che possa essere illegittimo sotto altri profili e non potendosi nemmeno escludere che la p.a. possa annullare l’atto in autotutela per motivi diversi [50]. Di conseguenza, si potrebbe proporre la domanda risarcitoria dinanzi all’AGO ove si prospetti l’illegittimità dell’atto per motivi diversi da quelli dedotti in sede di giurisdizione amministrativa. Il giudice civile dovrebbe certo valutare il contenuto del giudicato amministrativo, ponendosi comunque un eventuale problema di contrasto di giudicati, ancor se, mantenendo fermo il criterio del petitum, il privato tenda ad una pronuncia risarcitoria e non all’eliminazione dell’atto.
Anche con questo “correttivo (petitum in relazione alle censure dedotte) rimangono le riserve derivanti dalla circostanza che la sent. 500/99 fa riferimento alle situazioni giuridiche soggettive in relazione alla loro risarcibilità, non tendendo affatto nemmeno ad una loro “semplificazione” [51].
Ci sembra invece che a diverse conclusioni si dovrebbe pervenire ove si prospettasse la seguente ipotesi.
Come nel caso individuato in precedenza, Tizio impugna la concessione edilizia rilasciata a Caio per contrasto con il P.R.G. Formatosi il giudicato di rigetto, propone azione dinanzi al giudice civile, ma in questo caso assume che la costruzione realizzata da Caio non rispetta la distanza dal confine e le altezze regolamentari e contestualmente chiede il risarcimento del danno derivante da tale comportamento. Caio in giudizio eccepisce che la costruzione è stata realizzata in forza della concessione edilizia, e produce in giudizio il giudicato amministrativo. In tal caso non sembra che al giudice ordinario sarebbe precluso disapplicare la concessione [52], in quanto quest’ultima non si pone come oggetto principale del processo, che a ben vedere è costituito dal comportamento del convenuto che ha realizzato la costruzione a distanza non regolamentare, comportamento da cui sono derivati i danni per il vicino confinante. In tal caso si tratterebbe di una disapplicazione in via incidentale che non si porrebbe in contrasto con il giudicato amministrativo, in quanto in sede esecutiva la p.a. non avrebbe l’obbligo di annullare l’atto, ma ciò avviene, come già considerato, perché l’oggetto del processo non riguarda la questione di legittimità del provvedimento amministrativo.
Infine, ulteriore ipotesi potrebbe essere quella già formulata in dottrina, per cui “Caduta la pregiudizialità del giudizio amministrativo, si poteva ipotizzare che il danneggiato promuovesse il giudizio amministrativo senza attenderne l’esito per rivolgersi al giudice ordinario e che il giudizio ordinario si concludesse con la reiezione della domanda di risarcimento sulla base del riconoscimento della legittimità dell’atto, mentre, successivamente, quello amministrativo si concludesse con l’accoglimento del ricorso, ossia con l’accertamento della lesione dell’interesse legittimo, o viceversa” [53]. Per ovviare in tal caso al contrasto tra giudicati bisogna considerare preliminarmente che non sembra applicabile come criterio risolutivo l’art. 39 c.p.c., che prevede la litispendenza rispetto a cause proposte dinanzi a diversi giudici ed aventi lo stesso oggetto. Ciò in quanto la norma in questione sembra riferirsi alla pendenza di giudizi dinanzi alla stessa giurisdizione e non dinanzi a giurisdizioni differenti com’è invece per l’ipotesi surrichiamata [54].
Una soluzione, recentemente proposta, sarebbe quella dell’utilizzazione dell’art. 295 c.p.c.: ove fossero adite entrambe le giurisdizioni, il giudice ordinario dovrebbe sospendere il giudizio in forza della norma del codice di rito, in attesa che si formi il giudicato amministrativo in ordine all’accertamento della legittimità dell’atto ed eventuale suo annullamento [55]. Purtuttavia, la formulazione attuale dell’art. 295 c.p.c. in relazione alla novella introdotta con l’art. 35 della L. 26.11.1990 n. 353 fa sorgere qualche perplessità sulla sospensione necessaria del giudizio civile quando sia pendente un giudizio amministrativo avente il medesimo petitum,. Ciò in quanto non ci si riferisce più, a differenza del testo previgente, ad una pregiudiziale “controversia amministrativa” dalla cui definizione dipende la decisione della causa civile. Ciò potrebbe portare alla conclusione che in pendenza della controversia amministrativa il giudice civile potrebbe sospendere il giudizio, configurandosi semmai una sospensione discrezionale [56].
Certo, se si accogliesse, come già dedotto, il criterio del petitum onde attuare il riparto di giurisdizione, il giudice civile non dovrebbe mai sospendere il giudizio, perché le due pronunce tendono a finalità differenti [57].
Ma, se comunque si considera che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto si configura come pregiudiziale in senso logico dinanzi al giudice ordinario, qualche riserva potrebbe sorgere rispetto ad una completa diversità del petitum, perché sia il giudice amministrativo sia il giudice ordinario devono accertare pregiudizialmente la legittimità dell’atto, ancor se arrivino a conclusioni diverse: l’annullamento il primo il risarcimento il secondo.
Quantomeno, se si vuole considerare la diversità del petitum, non si può non considerare l’identità di presupposto (la valutazione della legittimità dell’atto) da cui la pronuncia annullatoria o risarcitoria prende le mosse, in rapporto a concezioni per cui l’annullamento è conseguenziale all’illegittimità dell’atto mentre il risarcimento si riporta ad un comportamento (solitamente materiale) [58].
Sembra quindi difficile ammettere una completa diversità di petitum, tranne a considerare che il sindacato del giudice ordinario si svolga sul complessivo esercizio della funzione, prescindendo da censure sul singolo atto, anche se è indubbio che la sent. 500/99 considera l’accertamento dell’illegittimità dell’atto, quantomeno come condizione necessaria sia pure non sufficiente [59].
Per ammettere una sospensione discrezionale si dovrebbe considerare che, se il giudicato amministrativo si forma sulla legittimità-illegittimità dell’atto in relazione ai motivi proposti in ricorso, il giudice civile potrebbe non sospendere, in relazione al rilievo che la valutazione di legittimità dell’atto che egli deve compiere si svolge su profili diversi rispetto a quelli che considera il giudice amministrativo. Il petitum in questo caso sarebbe differente sia rispetto alla pronuncia che viene richiesta, sia rispetto al suo presupposto-questione pregiudiziale perché verte sull’illegittimità dell’atto (o della funzione) ma per aspetti diversi.
5. Cercando di tirare le fila delle problematiche fin qui trattate, si formulano alcuni rilievi conclusivi.
In ordine alle tecniche di tutela utilizzabili dall’AGO ed in precedenza illustrate riteniamo preferibile, perché a nostro avviso maggiormente conforme al modello della sent. 500/99, che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto amministrativo sia una pregiudiziale in senso logico rispetto alla questione del diritto al risarcimento del danno e quindi che il giudice venga a compiere un accertamento in via principale di tale illegittimità. Sviluppando le conseguenze di tale modello, come già detto, dal giudicato (civile) deriverebbe un obbligo per la p.a. di rimuovere l’atto illegittimo, senza l’applicazione dei limiti, già considerati, dell’art. 4 2° comma L. abol.cont. Le conseguenze dell’adesione a questa tesi non sarebbero peraltro “indolori” rispetto ad eventuali terzi interessati alla conservazione degli effetti del provvedimento, stante che l’atto in sede esecutiva verrebbe ad essere caducato [60].
Rispetto al problema della pregiudiziale amministrativa e quindi alla questione della necessità dell’annullamento dell’atto che la giurisprudenza amministrativa e da ultimo l’Adunanza Plenaria ritiene estremamente necessario [61], sembra preliminare la questione del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo che, a nostro sommesso avviso, non è stata definitivamente chiusa con la L. 205/2000.
Accettando la tesi secondo cui la disposizione dell’art. 7 comma 4° L. 205/2000 è norma di carattere “processuale”, il problema della pregiudiziale d’annullamento nel giudizio amministrativo verrebbe a cadere, in quanto il giudice amministrativo conoscerebbe solo della domanda risarcitoria in forma specifica, per la quale è pacifico che debba essere previamente richiesto l’annullamento. Purtuttavia, non si può non considerare che questa tesi si espone ad un’obiezione piuttosto “pesante” sul piano del testo normativo. Infatti il comma 4° dell’art. 7 attribuisce alla cognizione del giudice amministrativo “tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica”. La norma in questione sembra attribuire una discrezionalità al giudice amministrativo rispetto alla misura risarcitoria da concedere, che non si allontana dall’art. 2058 c.c. [62]. Tale “aporia” certo è difficilmente superabile se non nei limiti (piuttosto ristretti) di una lettura della consequenzialità della misura risarcitoria rispetto all’annullamento dell’atto che venga ad identificarsi esclusivamente con la reintegra in forma specifica.
Se non si accetti la tesi della spettanza delle questioni risarcitorie per equivalente al giudice ordinario, sul versante “interno” della giurisdizione amministrativa si pone il problema della pregiudiziale d’annullamento. In questa sede non si ha alcuna pretesa di soluzione definitiva. Ciò che qui si può considerare è che anche all’interno della giurisdizione amministrativa se si considera che la consequenzialità non è connessa con l’annullamento del provvedimento ma soltanto con l’accertamento della sua legittimità [63], può pervenirsi alla conclusione che l’azione risarcitoria è sganciata dall’azione d’annullamento. Se si seguisse questa tesi, l’azione risarcitoria potrebbe essere proposta dinanzi al giudice amministrativo anche in mancanza di tempestiva impugnazione in un termine prescrizionale [64].
Sotto un certo profilo, poi, quest’opzione ermeneutica potrebbe essere supportata da una norma costituzionale e segnatamente dall’art. 113 Cost. comma 3°, il quale prevede un annullamento dell’atto da parte degli organi di giurisdizione “nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa” [65]. Sembra che dalla norma in questione possa desumersi un regime di consequenzialità espressa: nel senso che la legge deve attribuire espressamente all’organo giurisdizionale il potere d’annullamento nonché di fissare i suoi “effetti”, che, secondo una certa lettura[66], possono essere misure ulteriori quali il risarcimento per equivalente oppure la reintegra in forma specifica. Nell’art. 7 comma 4° tale consequenzialità delle misure risarcitorie non è espressamente connessa al potere d’annullamento e quindi può essere ricollegata ad un astratto accertamento dell’invalidità dell’atto, configurandosi quindi una piena autonomia dell’azione d’annullamento rispetto a quella di risarcimento.
Un’ulteriore ed ultima riflessione. Si è già considerato che la sentenza qui commentata si è discostata dal modello della sent. 500/99. Indubbiamente se si aderisse a questo nuovo orientamento si dovrebbe pervenire alla conclusione che la previa domanda d’annullamento, onde ottenere il risarcimento [67], sia necessaria anche dinanzi alla giurisdizione ordinaria, nelle ipotesi in cui l’AGO possa annullare l’atto [68]. Anche qui però ponendo mente all’art. 113 comma 3° sempre nei limiti di una espressa consequenzialità, cioè di una eventuale norma che preveda espressamente non solo il potere d’annullamento dell’AGO rispetto all’atto amministrativo, ma il potere di adottare misure ulteriori ed espressamente connesse dalla legge alla misura “cassatoria”.
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[1] In forza degli artt. 121 e 133 t.u. ed art. 19 d.p.r. 23.5.1964 n. 655 il ricorso alla Commissione regionale di vigilanza è proponibile entro trenta giorni per le controversie attinenti alla posizione e qualità di socio (oltre che rispetto a quelle inerenti alla prenotazione ed assegnazione degli alloggi). A loro volta le deliberazioni delle Commissioni regionali sono impugnabili con ricorso alla Commissione centrale che ha sede presso il Ministero dei lavori pubblici; contro la decisione di quest’ultima Commissione è ammesso ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo. V. sul punto Virga P., Diritto amministrativo, I principi, Milano 2001, 448. In relazione al problema del riparto di giurisdizione, le controversie in tema di rapporti tra soci e cooperativa insorte prima della stipula del mutuo individuale sono di competenza del giudice amministrativo, previo ricorso alla commissione di vigilanza. Rientrano invece nella competenza del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto la proprietà degli alloggi e le pretese nei confronti delle cooperative e dei loro amministratori successive alla stipula del mutuo individuale. Virga P., op. cit., 449.
[2] V. Guida al diritto, cit., 47.
[3] Implicitamente la Corte sembra affermare che l’oggetto della controversia non era tale perché si disputava sulla legittimità dell’esercizio del potere della Cooperativa e quindi non su un diritto soggettivo perfetto.
[4] Quest’ipotesi si trova in Virga P., Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, 2 1997, 223. Come si desume dall’ipotesi prospettata l’esercizio del potere da parte della p.a. non è oggetto principale del giudizio dinanzi all’AGO, essendo l’oggetto della controversia invece il comportamento del privato che esegue la costruzione in violazione delle distanze. Se la concessione edilizia è illegittima il giudice dovrà disapplicarla, cioè non tenerne conto in relazione al giudizio sottoposto al suo esame.
[5] V. Guida al diritto, cit., 49. Sul punto concernente il mancato richiamo della sent. 500/99 al potere di disapplicazione, v. Cugurra, Risarcimento dell’interesse legittimo e riparto di giurisdizione, in Dir. proc. amm.,, 2000, 1 ss.; e se si vuole, v. il nostro Spunti problematici in tema di poteri del giudice del risarcimento da lesione di interessi legittimi e di tutela dei terzi, Parte I, in I TAR , 2002, 545 ss., ed in part., 560. In generale, per la letteratura relativa alla sent. 500/99 v., se si vuole, v op.ult. cit., 545, nota 1.
[6] La decisione che si annota ritiene di potersi discostare dai principi espressi dalla sent. 500/99 in quanto quest’ultima sentenza considera una questione di giurisdizione e quindi le affermazioni concernenti gli elementi costitutivi di cui all’art. 2043 c.c. assumono la portata di obiter dictum, oltre che in ogni caso la decisione delle S.U. non riveste l’autorità delle pronunce emesse a norma dell’art. 374 comma 2° c.p.c. che riguardano questioni di merito. Che la pronuncia resa in sede di regolamento di giurisdizione dalla sent. 500/99 sia vincolante soltanto per l’attribuzione della giurisdizione e non sulla qualificazione della posizione giuridica di cui si lamenti la lesione, è stato affermato pure da Cass. Sez I 10.1.2003 n. 157, in Foro It., 2003, I, 93, con nota di Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione: la Cassazione effettua un’ulteriore (ultima) puntualizzazione, ivi, 79. Qualche perplessità su questa giurisprudenza potrebbe sorgere ove si aderisse alla tesi che in sede di regolamento di giurisdizione la Corte deve qualificare quale sia la posizione soggettiva fatta valere con la domanda, esulando semmai dall’oggetto del regolamento la fondatezza della domanda stessa e ciò in conformità all’art. 386 c.p.c. in forza del quale “La decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda, e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda”. V. in questa direzione Flore, Regolamento di giurisdizione (diritto processuale civile), in Enc. del dir., XIX, Milano 1970, 324 ss. Seguendo questa tesi la pronuncia di regolamento di giurisdizione sarebbe vincolante non solo sulla spettanza della giurisdizione ma sulla qualificazione delle situazioni soggettive, operazione tramite la quale si perviene alla spettanza della giurisdizione stessa.
[7] V. sul punto Oberdan Forlenza, cit., 52 ss, il quale ritiene che la Cassazione perviene a conclusioni in sostanza non dissimili dalla giurisprudenza amministrativa.
[8] La giurisprudenza amministrativa sulla necessità della pregiudiziale d’annullamento è costante: v. tra le tante TAR Lazio, III Sez. 16.12.1999 n. 3925; TAR Toscana, III Sez. 27.10.2000 n. 2212; TAR Campania Napoli I Sez. 8.2.2001 n. 603, quest’ultima con nota di Interlandi, Azione d’annullamento ed azione risarcitoria: la regola della pregiudizialità esiste ancora? Alcune riflessioni su una sentenza <<a passo di gambero>>, in Dir. proc. amm., 1/2002, 128 ss.; TAR Campania, Napoli I Sez. 4.10.2001 n. 4485; Cons. St. IV Sez. 15.2.2002 n. 952; Cons. St. VI Sez. 18.6.2002 n. 3338 in www.lexitalia.it, 6/2002; Cons St. Ad. Plen. 26.3.2003 n. 4, in www.lexitalia.it., 3/2003, con commento di Bacosi, Per l’Adunanza, ormai è chiaro: il G.A. non “risarcisce disapplicando” ma “demolisce risarcendo”; v. la stessa sentenza in Guida al diritto, 14/2003, 94 ss, con commento di Oberdan Forlenza, La verifica dell’illegittimità del provvedimento spetta al giudice che si esprime sull’indennizzo, 103 ss; Cirillo, L’annullamento dell’atto amministrativo e il giudizio sull’antigiuridicità ingiusta dell’illecito derivante dall’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa, cit., 885 ss. Isolata ci sembra la decisione del Tar Lombardia-Brescia 25.2.2003 n. 283, la cui massima è stata pubblicata in Foro Amm. TAR, cit., 1517 ss., con nota di Scicolone, La pregiudiziale amministrativa cit., ivi, (il testo della decisione è in www. giuffrè.it/riviste/foro, 2003, fasc. 2). Nella specie, la ricorrente impugnava il provvedimento di aggiudicazione a favore del controinteressato e il bando di gara per la locazione quinquennale di un sistema per l’acquisizione, gestione e stampa di immagini radiologiche e per la fornitura del relativo materiale di consumo deducendo l’illegittimità della procedura di gara esperita dalla p.a. e chiedeva altresì di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno ingiusto mediante reintegra in forma specifica oppure, in via subordinata, per equivalente per la perdita di chance subita. Il giudice amministrativo dichiarava l’irricevibilità dell’impugnazione per tardività, ma riteneva ammissibile l’istanza risarcitoria, precisando che “ nel giudizio sull’istanza risarcitoria svincolata dalla tempestiva impugnazione dell’atto amministrativo il giudice si limiterà ad esperire un mero sindacato incidentale sull’esplicazione dell’attività amministrativa che ha causato la lesione della posizione soggettiva del privato, sindacato che, per questo, resterà al di fuori dell’oggetto del giudizio, essendo teso, esclusivamente all’accertamento della sussistenza dei presupposti per la configurazione del diritto al risarcimento del danno subito dal ricorrente”.
Quest’ultima sentenza presenta dei profili di parallelismo con la sentenza che qui si annota: in entrambe le fattispecie l’impugnazione dell’atto è tardiva (nel caso contemplato dalla Cassazione era tardivo il ricorso alla Commissione di vigilanza), le conclusioni però sono diverse, ammettendo il giudice amministrativo un sindacato incidentale sull’attività amministrativa che la Cassazione invece non ritiene possibile. Si consideri altresì che il giudice amministrativo non si riferisce alla disapplicazione (ex art. 5 L. abol.cont.) ma ad un accertamento incidentale: estrapola in sostanza dall’oggetto del giudizio l’attività amministrativa, in quanto il giudizio è teso “esclusivamente all’accertamento dei presupposti per la configurazione del diritto al risarcimento del danno”. Tale operazione peraltro è discutibile perché essendo l’attività illegittima della p.a. un elemento costitutivo della fattispecie dell’illecito civile (come ha ritenuto la sent. 500/99) sembra improbabile che si ponga al di fuori dell’oggetto del processo.
[9] Ammette peraltro la Corte che l’inoppugnabilità dell’atto è una nozione esclusivamente processuale, in quanto esclude l’annullamento giurisdizionale, ma non preclude l’annullamento dell’atto da parte della p.a. in sede di autotutela decisoria, né la disapplicazione da parte dell’Ago con effetti però limitati al caso deciso. Certo, in entrambe le due ipotesi vi sono dei “contrappesi”: rispetto all’ ipotesi dell’annullamento d’ufficio la p.a., com’è noto, deve valutare l’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale per l’annullamento, non essendo sufficiente la mera illegittimità dell’atto; rispetto alla disapplicazione il giudice in realtà pronuncia una sorta d’annullamento per il caso deciso, senza efficacia di giudicato.
[10] Nel caso peraltro della sentenza che qui si annota potrebbe essere controinteressato l’eventuale socio che segua il socio escluso nell’ordine degli aspiranti e che sia subentrato nell’assegnazione dell’alloggio a seguito della sua esclusione: ciò ancor se non si tratta di un controinteressato “formale”, in quanto non individuato dal provvedimento d’esclusione o di radiazione. Sembra invece trovarsi nella posizione di cointeressato la Commissione di vigilanza che ha interesse alla conservazione del provvedimento d’annullamento di esclusione da parte della Cooperativa edilizia.
[11] Rispetto a questi ultimi rilievi la Corte ci sembra che riprenda in modo particolare le argomentazioni di Cons. St. VI Sez. 18.6.2002 n. 3338, in www.lexitalia.it, cit. Ripugnerebbe una pronuncia risarcitoria senza che si incida sul regime dell’atto: ciò sembra evocare qualcosa ed segnatamente il ritorno di vecchi “fantasmi” della giurisdizione amministrativa come giurisdizione oggettiva. In sostanza la pronuncia di reintegra in forma specifica ripristinando un diverso assetto d’interessi non verrebbe a riguardare solo il singolo danneggiato ma la società nel suo complesso.
[12] La sentenza fa anche riferimento ad ipotesi proprie del diritto pubblico, quali ad. es. la L. 689/81 che prevede l’opposizione alle ordinanze-ingiunzioni dinanzi all’AGO: non sarebbe consentito domandare il risarcimento del danno per essere stati assoggettati illegittimamente a sanzione amministrativa, che però non venga impugnata ai sensi della predetta legge.
[13] Guida al diritto, cit., 48.
[14] Su queste due norme la letteratura è sterminata e quindi ci si limita ad indicare le opere principali: Guicciardi, La giustizia amministrativa, Padova 1942, 267 ss.; Cannada Bartoli E., L’inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano 1950; Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna 1983, 183 ss.; Romano A., La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Dir. proc. amm., 1983, 1, 22 ss.; Sambataro, L’abolizione del contenzioso nel sistema di giustizia amministrativa, Milano 1977; Sandulli A.M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli 1989, 1308 ss.; Verbari, Principi di diritto processuale amministrativo, Milano 2000, 51 ss.; Domenichelli, La giurisdizione ordinaria: il giudice ordinario e l’amministrazione pubblica, in Diritto amministrativo (a cura di Mazzarolli- Pericu- Romano A.- Roversi Monaco- Scoca), II, 2191 ss., Bologna, 2001; Virga P., Diritto amministrativo 2, Atti e ricorsi, Milano 2001, 215 ss.
[15] In questa direzione v. Cannada Bartoli E., Relazione al convegno: La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della recente sentenza della Cassazione SS. UU. n. 500 del 1999. Università di Roma Tre, 16 novembre 1999, in Riv. giur. quadr. dei pubblici servizi, 2000, 22.
[16] V. Spunti problematici, Parte I, cit., 562.
[17] La tesi è stata sostenuta dal Cannada Bartoli E., L’inapplicabilità degli atti amministrativi, cit., 157 ss.; il concetto di “disapplicazione indiretta” è stato ripreso recentemente dal Francario, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo ed azione risarcitoria, in Dir. proc. amm., 1/2002, 48.
[18] Francario, op. cit., ib.
[19] Infatti l’art. 4 comma 2° prevede che “L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso”. Sul punto v. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2001, 635, il quale considera che nell’ipotesi dell’art. 4 è previsto l’obbligo di conformarsi al giudicato per quanto concerne l’accertamento dell’illegittimità dell’atto; non così nel giudizio in via incidentale, in cui l’accertamento dell’illegittimità non è coperto dal giudicato. Per Sandulli, Manuale, cit., 730, se l’invalidità sia dichiarata dal giudice ordinario in una sentenza passata in giudicato si realizza una ipotesi di autoannullamento doveroso in cui la p.a. deve annullare indipendentemente da qualsiasi istanza degli interessati. Per il vero, a stare al dato letterale dell’art. 4 2° comma l’indicazione sarebbe diversa, perché il ricorso dell’interessato (probabilmente nella forma della messa in mora) sembra necessario onde ottenere la rimozione dell’atto.
[20] Questa tecnica di tutela la si è già considerata nel nostro Spunti problematici, cit., 565, in cui viene considerata più approfonditamente.
[21] Come si riscontra da tale punto della sentenza, di disapplicazione, e quindi delle norme degli artt. 4 e 5 non si fa alcun cenno.
[22] Peraltro bisogna registrare che già rispetto all’art. 4, 2° comma, in dottrina si era ritenuto che accertato in via principale l’illegittimità dell’atto amministrativo, la p.a. ha il dovere di annullarlo, ciò considerando che l’istanza di messa in mora ex art. 91 R.D. 17 agosto 1907 n. 642 non ha come correlato il dovere di annullare, ma la sua osservanza. V. in questa direzione, Alì, Osservazioni sull’annullamento d’ufficio degli atti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 566.
[23] V. nota 20.
[24] Sul significato del divieto di revoca e di modifica da parte del giudice ordinario rispetto all’art. 4 2° comma, v. per tutti Giannini-Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. del dir., XIX, Milano, 1970, 289 ss. Per gli AA. il termine “revocato” non può significare altro che annullato; mentre il “modificato” o significa “annullato parzialmente”, oppure “riformato” esprimendo il divieto di riforma da parte del giudice, il che per gli AA. sarebbe logico, perché il giudice non conosce dell’opportunità dell’atto, ma solo della sua invalidità.
[25] Come invece ritengono Giannini-Piras, op.cit., 290.
[26] Così anche la modifica dell’atto nel contesto dell’art. 4, 2° comma, non significa una riforma dello stesso ma che la p.a. debba modificarne gli effetti, cioè disconosce gli effetti dell’atto nel caso deciso applicando un diverso assetto d’interessi, sia pure in senso negativo. Certo, una distinzione in sede esecutiva tra annullamento dell’atto e revoca della sua applicazione, nei casi concreti non è semplice, in particolare in riferimento ad ipotesi in cui le posizioni dei soggetti contemplati dall’atto sono necessariamente collegate. Si pensi al caso di un soggetto che sia escluso da una procedura concorsuale per la copertura di un posto alle dipendenze di una amministrazione pubblica. Se agisce in giudizio non proponendo l’impugnativa dell’atto ma una azione di risarcimento danni (si deve considerare che giudice competente sia il giudice amministrativo cui spetta la giurisdizione in relazione alle procedure concorsuali) e il giudice proceda alla disapplicazione (in via principale) dell’atto, a rigore la p.a. non deve rimuovere l’atto d’ufficio, ma in forza dell’art. 4, 2° comma, l’amministrato potrà proporre il ricorso per la revoca o la modifica dell’atto. Se la p.a., come si è considerato, revoca l’applicazione dell’atto per il caso deciso ed a rigore non lo annulla, non potrà però non rimuovere la graduatoria con la nomina dell’eventuale vincitore, diversamente la revoca dell’applicazione del provvedimento di esclusione non avrà alcuna effettiva portata sul piano della tutela. Diversa sarebbe una ipotesi, ad esempio, di un ordine di demolizione comunicato a più comproprietari: se la p.a. revoca gli effetti dell’atto in relazione al giudicato l’ordine sarà ineseguibile nei confronti di uno di questi soggetti e quindi il sistema dell’art. 4 2° comma avrà un migliore funzionamento, pur considerando che è sempre un “bizantinismo” considerare che un atto può avere effetti per alcuni soggetti e non per uno: ma questo è il meccanismo in definitiva voluto dalla L. abol cont. Sugli effetti aberranti dell’art. 4 2° comma considerando però l’utilizzazione del meccanismo disapplicativo nel giudizio amministrativo, v. Delfino, Ma è davvero divisa la giurisprudenza sulla necessaria pregiudizialità dell’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo rispetto all’ammissibilità dell’azione di risarcimento danni contro la p.a.? (nota a Tar Sicilia Sez. I 22.11.2002 n. 3967) in Foro Amm. Tar, 2000, 3800 ss. L’A. formula l’ipotesi cui abbiamo accennato nella presente nota, op. cit., 3804, che pone a suo giudizio un problema (in relazione al rinnovo della procedura concorsuale) di aggravio dell’azione amministrativa e di sacrificio di certezza delle situazioni giuridiche
[27] E’ piuttosto noto che il criterio dell’art. 4, 2° comma, viene ad essere completato dal rimedio dell’art. 27 n. 4 t.u. C.d.S. , per cui “Se l’autorità amministrativa rifiuta la rimozione o resta inerte, il giudice amministrativo adito ex art. 27 n. 4 provvede esso a soddisfare il diritto della parte privata, ordinando all’amministrazione i comportamenti attraverso i quali l’obbligo va adempiuto e sostituendosi eventualmente anche ad essa”. Così Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 245. L’A. manifesta peraltro qualche riserva circa il contenuto dell’obbligo di conformazione della p.a al giudicato., considerando ad es. la tesi (Guicciardi) secondo cui la p.a. avrebbe ampi margini di discrezionalità nel senso che non avrebbe un obbligo di rimuovere l’atto, quanto invece di esaminarne la legittimità. A noi sembra che il limite di conformazione della p.a. statuito dall’art. 4, 2° comma, sia quello di revocare (nel senso di disconoscere) gli effetti dell’atto in relazione al caso deciso: a questo comportamento il giudice amministrativo in sede di ottemperanza può costringere l’amministrazione, non ad una rimozione dell’atto con efficacia erga omnes. Ciò quantomeno se si rimane nei limiti dell’art. 4 2° comma.
[28] Si è considerato questo punto della sentenza 500/99 nella direzione sviluppata nel testo nel nostro Spunti problematici, Parte II, cit., 22. Questa parte della motivazione è stata peraltro considerata sotto un angolatura differente e cioè quella dell’elemento soggettivo, in cui il riferimento all’amministrazione come “apparato” verrebbe a delineare una “colpa d’organizzazione”, per il carattere propriamente impersonale dell’organizzazione amministrativa, irriducibile all’operato delle persone fisiche che se ne fanno tramite. In questa direzione v. Romano Tassone, Risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, in Enc. del dir. Aggiornamento, VI, Milano 2002, 1002.
[29] Bisogna peraltro registrare che considerare l’adozione dell’atto ed il mancato intervento in via di autotutela come comportamento non è stato accettato dalla giurisprudenza amministrativa, considerandosi che in tal modo il concetto stesso di comportamento, che non può consistere in un provvedimento, verrebbe ad essere negato, perché verrebbe a configurarsi come comportamento qualsiasi attività amministrativa concretatasi nell’adozione di atti illegittimi. V. in questa direzione Ad. Plen. 26.3.2003 n. 4 in Guida al diritto, cit., 99. Rispetto invece ai provvedimenti rilasciati in ritardo non si è dubitato da parte della giurisprudenza ordinaria che venga in considerazione un comportamento, più che un atto. V. ad. es. Giudice di Pace di Roma 28.9.2001, in Foro It. 2002, 1211 ss., con nota di Gili, L’illecito per lesione di interessi legittimi delineato da Cass. 500/SU/99 alla (ulteriore) prova di applicazione concreta,1212 ss. Peraltro rispetto a questi provvedimenti un problema di pregiudiziale amministrativa non si pone, perché chi agisce in giudizio in tal caso non contesta l’assetto d’interessi fissato dall’atto, ma chiede il risarcimento per il pregiudizio causato dal ritardo. Sul punto v. Romano Tassone, Sul problema della “pregiudiziale amministrativa”, in La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento, 2001, 283 secondo cui “… in tale ipotesi non si può in alcun modo prospettare la concorrenza di azione d’annullamento ed azione risarcitoria…” trattandosi di una ipotesi di carenza interesse all’impugnazione del provvedimento, op.cit., 282.
[30] Non ci si sofferma in questa sede sulle differenti interpretazioni della norma per cui si rinvia a Romano Tassone, Risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, cit., 985, ss., e se si vuole al nostro Spunti problematici, cit., 545 ss.
[31] Ciò considerando che come la stessa giurisprudenza della Cassazione ha chiarito, l’art. 7 L. 205/2000 non ha efficacia retroattiva “non essendovi alcuna disposizione che ne sancisca la retroattività, e si è di conseguenza escluso che esso possa trovare applicazione nella cause già pendenti davanti al giudice ordinario; vige ancora, al riguardo, l’art. 5 c.p.c. secondo cui la giurisdizione si determina avuto riguardo alla proposizione della domanda”, v. Cass. S.U. 21.10.2002 n. 14870 in Giur. It, 2002., Le ultimissime della Cassazione Civile, 321. Nella specie, si poneva un problema di giurisdizione rispetto ad una controversia derivante da occupazione acquisitiva sostenendo la p.a. la devoluzione della controversia al giudice amministrativo in applicazione dell’art. 34 d.lgs 80/98, sostituito dall’art. 7 L. 205/2000.
[32] Per incidens, prevedendo questo regime transitorio la sent. 500/99 si è comportata da legislatore più che da giudice, volendo regolare il regime dei giudizi pendenti.
[33] Sulla disciplina precedente la sent. 500/99 ed il relativo contesto problematico v. Romano Tassone, op.cit., 983 ss.
[34] Peraltro, per qualche impostazione la L. 205/2000 avrebbe svincolato le aspettative di tutela del cittadino dal problema della loro qualificazione come diritti o come interessi, v. Romano Tassone, Sul problema della “pregiudiziale amministrativa”, cit., 284.
[35] Non ci sembra peraltro pertinente il richiamo alla L. 689/81. Nella legge in questione si configura indubbiamente un giudizio impugnatorio rispetto alle c.d. ordinanze ingiunzioni, quindi per sostenere la proponibilità di una azione di danni in relazione all’ordinanza sganciata dalla previa impugnazione, si dovrebbe dare una interpretazione della norma che possa ammettere l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella d’annullamento. Così pure rispetto ai rapporti privati in relazione all’adozione di delibere condominiali e societarie che possano arrecare danni. Nella sentenza della Cassazione invece si richiama una norma (l’art.7) propria di un altro processo per pervenire in sostanza all’inammissibilità dell’azione per la mancanza di un presupposto quale l’annullamento dell’atto. Segnatamente, rispetto alle delibere di s.p.a. in ordine alla necessità di una tempestiva impugnazione onde ottenere il risarcimento del danno v. Moscarini, Risarcibilità degli interessi legittimi, cit., 2144, in part. nota 17, che richiama quest’ipotesi come fattispecie di interesse legittimo di diritto privato. Per incidens, il 2377 c.c., così come modificato dal d.lg 17.1.2003 n. 6, in vigore dal 1° gennaio 2004, prevede in sostanza che il socio il quale non raggiunga una soglia minima di partecipazione al capitale (soglia che varia a seconda che si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio –uno per mille del capitale- o meno –cinque per cento del capitale-) non può esperire l’azione di annullamento della delibera, ma può proporre l’azione di risarcimento in un termine di decadenza (novanta giorni dalla data della deliberazione). La ratio della disposizione in questione viene intesa nel senso che l’annullamento della deliberazione sarebbe eccessiva rispetto all’interesse leso quando l’impugnativa sia avanzata da possessori di partecipazioni modeste, v. sul punto Codice civile a cura di Pietro Rescigno, 2003, sub. art. 2377 c.c., 2963. La particolarità della previsione consiste nel rilievo che il giudice verrebbe a dichiarare in astratto l’invalidità della deliberazione, che di per sé continua a spiegare i suoi effetti, sostituendosi alla tutela in forma specifica quella per equivalente. Problema semmai potrebbe essere se i soci che raggiungano la soglia prevista dal codice per l’impugnazione possano optare per una tutela esclusivamente risarcitoria (nel termine di decadenza di 90 gg. dalla data della deliberazione, o se essa è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese dall’iscrizione, o ancora se è soggetta solo a deposito presso l’ufficio registro, da tale incombente). Recisamente nella direzione della tempestiva impugnazione si pone Moscarini, op. cit., 2144, nota 17.
[36] Peraltro per una decisione che già avevamo richiamato in precedenza e che sembra piuttosto isolata (Tar Lombardia - Brescia 25.2.2003 n. 283 in Foro Amm. TAR, cit., 1517), anche alla luce dell’art. 7 comma 4° L. 205/2000 tale presupposto non è affatto necessario, in quanto l’argomento letterale della norma in esame “non è decisivo, potendosi la conseguenzialità del danno patrimoniale intendersi non tanto rispetto all’annullamento del provvedimento, bensì rispetto ad un riscontrato vizio della funzione esercitata dalla P.A., anche se non sanzionato con una pronuncia caducatoria”. Considerare quindi se la misura d’annullamento sia necessaria o meno per l’ammissibilità dell’azione di risarcitoria dipende dal concetto di conseguenzialità del danno patrimoniale.
[37] Per la categoria dei presupposti di validità o di procedibilità del processo civile v. per tutti Mandrioli, Presupposti processuali, in NNDI, XIII, Torino 1966, 784 ss.
[38] Per qualche recente pronuncia della Cassazione la questione dell’ammissibilità dell’azione risarcitoria derivante da atti amministrativi prima dell’annullamento da parte del giudice amministrativo è una questione di proponibilità della domanda, v. Cass. S.U. 10.12.2002 n. 17554, in Giur. It., 2003, 1481 ss., con nota redazionale, ivi. Segnatamente per la Suprema Corte non si tratta di una questione di giurisdizione, ma di merito.
[39] Ciò in relazione ad una tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c. che prevedeva la risarcibilità dei soli diritti soggettivi. V. sul punto Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano 2001, 630, il quale osserva che quantomeno secondo parte della giurisprudenza della Cassazione, se il privato chiedeva il risarcimento del danno nei confronti della p.a. deducendo la lesione dell’interesse legittimo, la domanda era improponibile non per difetto di giurisdizione, ma sotto il profilo del merito per difetto di un diritto soggettivo, unica situazione risarcibile. V. anche Romano Tassone, Risarcimento del danno, cit., 984.
[40] Sul punto v. Satta F., Responsabilità della pubblica amministrazione, in Enc. del dir., XXXIX, Milano, 1988, 1379, il quale richiama una giurisprudenza della Cassazione della metà degli anni ’80 per cui era improponibile la domanda dinanzi al giudice ordinario di risarcimento di interessi legittimi per difetto assoluto di giurisdizione.
[41] Si tratta in questo caso di una questione risarcitoria proposta dopo il 30.6.1998, diversamente spetterebbe sicuramente al giudice ordinario in forza del regime “transitorio” introdotto dalla sent. 500/99.
[42] Si tratta della lettura “sostanzialistica” dell’art. 7 comma 4° richiamata, in un “ventaglio” di possibili ipotesi interpretative, da Romano Tassone, Risarcimento del danno, cit., 986. Peraltro bisogna registrare che per la giurisprudenza amministrativa con la L. 205/2000 la domanda di risarcimento per equivalente deve essere proposta dinanzi al giudice amministrativo, venendo meno l’ipotesi di contrasto tra giudicato amministrativo ed ordinario. V. tra le tante, Tar Lombardia-Brescia 25.2.2003 n. 283.
[43] E’ la tesi formulata da Romano Tassone, op.ult. cit., ib.
[44] Spunti problematici, cit., 551.
[45] Su questo rimedio da ultimo v. Satta F., Giustizia amministrativa, in Enc. del dir., Aggiornamento, VI, cit., 434. L’A. rileva che con questo strumento si riporta nell’alveo del giudizio di cognizione e non di esecuzione la decisione su come riparare le conseguenze del provvedimento ritenuto illegittimo: in sostanza il giudice dispone come si deve “reintegrare in forma specifica” il ricorrente e quindi, quali provvedimenti la p.a. deve adottare per dare attuazione al giudicato.
[46] Nel caso prospettato nel testo sarebbe peraltro conveniente per il ricorrente considerare la norma dell’art. 7 comma 4° come norma di diritto processuale. Ciò in quanto non può proporre l’azione di risarcimento per equivalente dinanzi al giudice amministrativo per difetto di un presupposto processuale, cioè l’annullamento dell’atto, mentre seguendo il modello della sent. 500/99 può chiedere il risarcimento per equivalente per la caduta della pregiudiziale d’annullamento.
[47] Su questo criterio, e sulle ragioni che portarono al suo superamento, v. per tutti Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna 1983, 174 ss. Rispetto alla sent. 500/99 si è ritenuto che se si introduce, alla luce di questa sentenza, un accertamento in via principale da parte dell’AGO, laddove la questione di correttezza dell’esercizio del potere rivesta la posizione di pregiudiziale in senso logico e non meramente tecnico, si deve concludere che venga adottato un criterio di riparto di giurisdizione fondato sul petitum: al giudice amministrativo viene chiesta l’eliminazione dell’atto lesivo della posizione del privato, mentre al giudice ordinario la condanna al risarcimento del danno provocato dall’atto illegittimo. In questa direzione, v. Scoditti, L’interesse legittimo e il costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria, in Foro It., 1999, 3227.
[48] Op. ult. cit., 174.
[49] Ci sembra peraltro che alla p.a. non sarebbe precluso annullare l’atto in sede di autotutela per motivi diversi da quelli dedotti nel giudizio dinanzi al TAR. In questo senso se il privato, pur dopo la formazione del giudicato amministrativo di rigetto, propone azione risarcitoria dinanzi al giudice civile, la p.a. potrebbe essere indotta ad annullare l’atto in sede di autotutela, per evitare una condanna ai danni. Ma certo è ben più probabile che eccepisca la formazione del giudicato amministrativo per paralizzare la pretesa attorea.
[50] Nella direzione che il giudicato amministrativo di rigetto sia ristretto ai motivi dedotti in ricorso v. Marino, Giudici ordinari e poteri locali, in Annuario 1988 delle autonomie locali, diretto da Sabino Cassese, 242. L’A. ritiene che pur formatosi il giudicato di rigetto la p.a. possa caducare l’atto per motivi diversi, oltre che il giudice ordinario possa disapplicare l’atto ritenuto legittimo (in relazione a determinate censure) dal giudice amministrativo.
[51] Secondo recente dottrina infatti “...tutto l’impianto della sentenza n. 500 del 1999 si fonda su una ricostruzione della responsabilità da fatto illecito che vede sorgere un diritto soggettivo al risarcimento, in capo al soggetto danneggiato, ogni qual volta si verifichi la lesione di un interesse legittimo (come di qualsiasi altro interesse giuridicamente protetto)”. In terminis, Romano Tassone, Risarcimento del danno, cit., 990. Per le difficoltà di vedere quantomeno una “unificazione” delle situazioni giuridiche soggettive rispetto alla sent. 500/99 ci si permette di rinviare al nostro Spunti problematici, cit., II, 13 ss.
[52] In questa direzione e rispetto alla stessa ipotesi, v. Marino, Giudici ordinari e poteri locali,cit., 242. L’A. ritiene che a differenza del giudicato d’annullamento, il giudicato di rigetto “non sembra idoneo a dare una patente assoluta di legittimità al provvedimento e quindi a far stato nel processo civile in cui se ne eccepisca la disapplicazione”. A questa conclusione perviene, a ben vedere, in relazione ai motivi del ricorso, perché ancor se l’oggetto del giudizio possa essere esteso alla pretesa del ricorrente, il thema decidendum rimane circoscritto ai motivi di gravame. La conclusione è che il giudice ordinario può disapplicare il provvedimento amministrativo, nonostante il giudicato di rigetto, così come la p.a. potrebbe caducare l’atto per motivi diversi da quelli dedotti in ricorso.
[53] Così Casetta, Manuale, cit., 565. La concorrenza tra le due giurisdizioni si potrebbe profilare, realizzandosi il caso prospettato nel testo, in una prima ipotesi quando si accolga la tesi da noi seguita (tesi c.d. processualistica), in forza della quale il privato potrebbe adire il giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto ed il risarcimento ad esso <<conseguenziale>> (reintegra in forma specifica) ed il giudice ordinario onde ottenere il risarcimento del danno per equivalente. In una seconda ipotesi, ove si ammetta la possibilità che il privato possa adire il giudice ordinario per il risarcimento decorso il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto. Quest’ultima ipotesi peraltro è stata sottoposta a critica sotto il profilo che in tal modo l’interessato potrebbe scegliere, lasciando decorrere il termine, sia il giudice, sia il tipo di tutela. Inoltre non sembra affatto logico che si consenta al privato di lasciare che il provvedimento dannoso abbia una completa esecuzione, consolidandosi nei suoi effetti pratici e giuridici per poi chiedere a cose fatte il risarcimento dei danni subiti, i quali forse la p.a. avrebbe evitato di produrre ove l’illegittimità fosse stata subito e debitamente contestata. V. in questa direzione, Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in Dir. proc. amm., 2/2001 312 ss. Invece per Consolo, Il riparto di giurisidizione dopo la legge n. 205 del 2000, in La tutela dell’interesse al provvedimento, cit., 321 ss., sarebbe possibile esperire l’azione risarcitoria nel termine prescrizionale, decorso il termine di decadenza per impugnare il provvedimento amministrativo.
[54] Abbiamo già svolto questi rilievi nel nostro Spunti problematici, cit., II, 23, individuando nel contrasto tra giudicati una possibile “diseconomia” del modello di tutela della sent. 500/99.
[55] Propone questa soluzione Preden, Le ragioni di una decisione, in Atti del Convegno <<La tutela risarcitoria delle situazioni soggettive alla luce della sentenza della Cassazione SS.UU. n. 500 del 1999>>. Università di Roma Tre, 16 novembre 1999, in Riv. giur. quadr. pubblici servizi, 2000, 41.
[56] Si è già considerata questa tematica nel nostro Spunti problematici, II, cit., 24, in part. nota 211. In tema di sospensione necessaria del processo civile in relazione ad una controversia amministrativa, la giurisprudenza della Cassazione ammette la pregiudizialità della controversia amministrativa solo quando quest’ultima verta su un diritto soggettivo e la pronuncia sia destinata a fare stato in altri giudizi, mentre se il giudice amministrativo è chiamato a decidere su interessi legittimi, non sussiste la necessità di sospendere il giudizio civile. V. le pronunce richiamate da Stella Richter G.-Stella Richter P., Rassegna di giurisprudenza del codice di procedura civile, Libro II, a cura di AA. VV., Tomo I (artt. 163-310), Milano 2002, 443. In particolare, ci sembra significativa tra le pronunce richiamate quella della Cass. Civ. II Sez. 17.3.1999 n. 2398, in Giur. It., 2000, 496 ss, con nota redazionale, ivi. Nella fattispecie, veniva stipulato un contratto preliminare di compravendita avente ad oggetto un terreno edificabile. Successivamente, dopo la stipula del preliminare, ma prima del definitivo, un provvedimento comunale dichiarava che il terreno era inedificabile. I promittenti acquirenti si rivolgevano al giudice civile onde ottenere la declaratoria di recesso dal contratto preliminare, stipulato nella prospettiva dell’edificazione, mentre i promittenti venditori impugnavano il provvedimento del Comune dinanzi al TAR. I promittenti venditori chiedevano, inoltre, che il processo civile fosse sospeso in forza dell’art. 295 c.p.c., perché dall’esito del processo amministrativo dipendeva il processo civile. La Corte di Cassazione, investita della questione con regolamento di competenza, ha cassato l’ordinanza di sospensione necessaria resa dalla Corte d’Appello, ritenendo non sussistente un rapporto di pregiudizialità necessaria perché dinanzi al giudice amministrativo non si faceva questione in ordine a diritti soggettivi (come nel caso della giurisdizione esclusiva) ma in relazione ad interessi legittimi. Nella nota redazionale, si ipotizza che il giudice civile ben potrebbe, nonostante la pendenza del giudizio amministrativo, disapplicare il provvedimento amministrativo. Si ipotizza altresì che se il promittente venditore soccombe nel giudizio civile, perché il giudice dichiara il recesso, non gli sarebbe precluso “chiedere ed ottenere dalla Pubblica Amministrazione il risarcimento del danno conseguente alla declaratoria di recesso dal contratto preliminare di compravendita” prescindendo dal giudizio amministrativo pendente. Francamente però quest’ ultima ipotesi non ci convince. Ciò in quanto, se il giudice civile dichiara legittimo il recesso, e quindi ritiene che l’atto di revoca dell’edificabilità non sia illegittimo, ancor se in via incidentale, non sembra che sia proponibile un risarcimento conseguente alla declaratoria di recesso, il quale proprio perché legittimo non configura alcun comportamento illecito. Sotto questo profilo, non si comprende il riferimento del redattore della nota alla sent. 500/99, visto che il danno non deriva dal provvedimento, quanto dall’atto (privatistico) di recesso, rispetto al quale il provvedimento si pone semmai come presupposto. Altra invece sarebbe l’ipotesi che si formi un giudicato amministrativo sull’annullamento del provvedimento di revoca dell’edificabilità: in tal caso il promittente venditore potrebbe proporre una azione di danni nei confronti del Comune (dinanzi al giudice ordinario o amministrativo a seconda del criterio di riparto che si voglia adottare), ma si rimane nell’ambito della pregiudiziale amministrativa che invece la sent. 500/99 ha cercato di superare.
[57] Infatti la giurisprudenza della Cassazione esclude la pregiudizialità e quindi la necessità della sospensione, quando tra giudizio civile ed amministrativo sussista diversità di petitum. V. Stella Richter G.- Stella Richter P. ,cit., ib.
[58] Si consideri che autorevole dottrina ha rilevato che l’interesse legittimo e il risarcimento del danno sembrano elementi incompatibili su un piano addirittura ontologico. Ciò in quanto la lesione dell’interesse legittimo viene provocata da un provvedimento (in quanto esso sia illegittimo), mentre il danno può essere provocato solo da un comportamento di fatto o anche da un provvedimento che rilevi però come fatto della sua emanazione e non nei suoi effetti tipici. V.in questa direzione, Romano A., Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi?, in Foro It., 1999, I, 3223. In sostanza ci sembra che lo strumento di tutela connaturale all’interesse legittimo è l’annullamento, che è connesso alla valutazione di legittimità del provvedimento, mentre il danno che presuppone la lesione all’integrità patrimoniale in genere è connesso ad un comportamento. La sent. 500/99 però sembra stravolgere questi schemi distintivi, perché presupposto (o questione pregiudiziale) della lesione del diritto all’integrità patrimoniale è la valutazione di legittimità dell’atto. Anche a non volere considerare l’atto atomisticamente inteso e fissare l’attenzione sull’esercizio della funzione non si tratta di un comportamento in senso stretto (materiale).
[59] Già peraltro la dottrina anteriore alla sent. 500/99 aveva avvertito che di per sé l’illegittimità dell’atto non è ex se sufficiente per giustificare una azione di risarcimento danni nei confronti della p.a., in quanto occorre che l’illegittimità sia scaturita da un esercizio della funzione che abbia violato le regole sue proprie. V. in questa direzione Satta F., Responsabilità della pubblica amministrazione, cit., 1377 ss. Di recente peraltro si ritiene che la violazione di determinati obblighi di comportamento da parte della p.a. scaturenti dal procedimento (obbligo di motivazione, d’avvio del procedimento ecc.) darebbe luogo ad una forma di responsabilità contrattuale o anche definita “da contatto”. V. da ultimo Cass. Sez I 10.1.2003 n. 157 in Foro. It., cit., 94 ss., che adombra tale forma di responsabilità, ancor se conclude in relazione alla fattispecie sottoposta al suo esame per l’inquadramento di essa nella responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e v. sul punto i rilievi di Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione, cit., 81, il quale pur riconoscendo grande rilevanza alla L. 241/90 rispetto al processo di trasformazione della p.a., purtuttavia opina che, in occasione dell’esercizio di un potere, la soddisfazione dell’interesse del cittadino dipende dalle scelte amministrative, e tale situazione si concilia male con la prospettiva di una perfetta parità tra soggetto pubblico e privato.
[60] Circa la problematica di questi terzi ed i mezzi di tutela esperibili nel giudizio ordinario ci si permette di rinviare ad un nostro scritto precedente, Spunti problematici,II, cit., 1 ss. In ordine alla posizione dei controinteressati nel giudizio risarcitorio, v. da ultimo Moscarini, op. cit., 2151 ss. L’A., che peraltro afferma la necessità, nel giudizio amministrativo, della previa impugnazione del provvedimento per la domanda risarcitoria, ritiene che per. es., nell’ipotesi di annullamento di un provvedimento d’aggiudicazione illegittimamente disposta a favore di un controinteressato possa essere rivolta la pretesa risarcitoria da parte del ricorrente non solo all’amministrazione, ma anche al controinteressato, sia pure nei limiti che si riesca a dimostrare in giudizio la partecipazione di quest’ultimo all’illecito secondo il metro del dolo e della colpa grave. Responsabilità che si configurerebbe come solidale rispetto alla p.a.
[61] V. nota 9.
[62] Nella direzione di una discrezionalità del giudice amministrativo non più ampia dell’art. 2058 c.c. in relazione alle misure risarcitorie, v. Moscarini, op.cit., 2152.
[63] Come una isolata decisione della giurisprudenza amministrativa ha ritenuto (v. nota 9).
[64] Naturalmente se si “sposa” la tesi per cui anche per il risarcimento per equivalente sia competente il giudice ordinario, il problema del contrasto tra giudicato ordinario e amministrativo, cui abbiamo accennato in precedenza viene del tutto a cadere.
[65] Si tratta del profilo “oggettivo” della norma richiamata che abbiamo già considerato in Spunti problematici, cit., I, 566. In sostanza sotto il profilo “soggettivo” la legge dovrebbe stabilire quali organi giurisdizionali possano annullare gli atti amministrativi, mentre sotto un profilo “oggettivo” la legge dovrebbe stabilire quali “effetti” l’annullamento possa avere e cioè, secondo l’interpretazione seguita nel testo, quali misure ulteriori e “consequenziali” all’annullamento il giudice possa adottare.
[66] Una lettura ulteriore potrebbe essere quella, che ho cercato già di delineare in Spunti problematici, I, cit., 567, secondo cui “la legge potrebbe stabilire quali siano gli effetti dell’annullamento (se erga omnes o limitato al caso deciso)”. In sostanza, la legge verrebbe a stabilire se il giudice possa disapplicare l’atto, cioè annullarlo con effetto solo per la controversia in corso oppure eliminarlo con effetti per il sistema nel suo complesso.
[67] Risarcimento che a questo punto potrebbe essere per equivalente o in forma specifica visto che il giudice ordinario, avendo un potere d’annullamento, non sarebbe più soggetto ai limiti della legge abolitiva del contenzioso amministrativo.
[68] V. in questa direzione, Oberdan Forlenza, Via libera al riconoscimento di un ristoro solo dopo l’eliminazione del provvedimento, cit., 55. L’A. in particolare si riferisce all’ipotesi prevista dall’art. 63 dlgs 165/2001 dei provvedimenti di conferimento e di revoca degli incarichi dirigenziali, le controversie in ordine alle quali sono attribuite al giudice ordinario che ha un potere d’annullamento. V. sul potere d’annullamento di questi atti, Corte Cost. 23.7.2001 n. 275, con nota di Pirrone, Giurisdizione del giudice ordinario su conferimento e revoca di incarichi dirigenziali: una certezza poco convincente, in Nuove Autonomie, 2002, 416 ss.