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n. 2/2005 - ©
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LORENZO IEVA*
Sull’illegittimità costituzionale della incompatibilità
tra lavoro pubblico e professione forense
prevista dalla legge n. 339 del 2003.
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Sommario: 1. Premessa: lavoro pubblico ed esercizio di libere professioni nell’ordinamento. 2. L’analisi della legge 25 novembre 2003 n. 339. 3. L’illegittimità costituzionale della legge n. 339. 4. Lavoro pubblico ed attività professionale: quale futuro?
1. Premessa: lavoro pubblico ed esercizio di libere professioni nell’ordinamento.
L’esercizio delle più importanti attività professionali sul piano economico-sociale, nell’ordinamento giuridico italiano, è subordinato alla verifica del possesso di particolari requisiti stabiliti dalla legge documentanti una specifica idoneità tecnico-professionale [1].
L’accertamento delle qualità e delle capacità necessarie e sufficienti per il proficuo svolgimento della professione nell’interesse dei cittadini avviene, per disposto costituzionale, attraverso il superamento di apposito esame di Stato [2]. Segnatamente, ai sensi dell’art. 33, comma 5°, Cost., “E’ prescritto un esame di Stato […] per l’ammissione all’esercizio professionale”. La Costituzione tratta dell’accesso all’attività professionale nell’ambito più generale della libertà di scienza proprio a voler sottolineare il contenuto intrinseco dell’attività professionale quale esplicazione di una peculiare forma di arte o di scienza [3], per definizione, riconducibile alla manifestazione di una libertà umana [4]. Nello stesso tempo, a riprova, nessuna norma costituzionale impone l’appartenenza ad un ente corporativo [5] come presupposto essenziale per l’esercizio della professione, bensì è prevista la sola condizione del superamento di un esame abilitativo (art. 33, 5° co., Cost.).
Non va poi dimenticato che l’esercizio di una professione intellettuale [6] comporta l’assolvimento di una vera e propria “attività lavorativa”, che deve ritenersi, in via di principio, aperta a tutti, ai sensi dell’art. 4 Cost. [7], purché nel rispetto dei precipui limiti pubblicistici derivanti dal necessario possesso dei prescritti titoli di studio e di abilitazione, se non anche nell’osservanza dell’obbligo di iscrizione ad apposito albo (art. 2229 cod. civ.) [8], tenuto da un ordine o collegio professionale [9].
In tale quadro, si inseriscono una serie di disposizioni normative che consentono l’accesso a talune professioni a tutti coloro che ne siano abilitati, anche in costanza di un rapporto di lavoro pubblico. Difatti, l’art. 4, comma 7, terzo periodo, della legge 30 dicembre 1991 n. 412 prevede che l’attività libero-professionale dei medici sia compatibile col rapporto unico d’impiego, purché espletato fuori dell’orario di lavoro [10]. Inoltre, l’art. 11, co. 4, del d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382 consente ai docenti universitari, a tempo definito, di poter esercitare la libera professione [11]. Mentre, l’art. 508, co. 15, del d.lgs 16 aprile 1994 n. 287 [12] analogamente attribuisce la possibilità ai docenti della scuola pubblica (anche a tempo pieno) di poter svolgere, previa autorizzazione del capo d’istituto, lavoro professionale [13].
Dunque, può dirsi che l’ordinamento giuridico conosca casi di piena compatibilità tra lo status di pubblico dipendente e quello di soggetto esercente attività libero-professionale. Né mai si è dubitato, in dottrina, della necessità o della opportunità di precludere alla classe medica ed a quella dei docenti la facoltà di dedicarsi all’attività professionale privata, oltre all’adempimento dell’attività di servizio alle dipendenze di una amministrazione od ente pubblico. Con particolare riferimento alla prestazione della professione medica, va osservato che, nonostante i rischi di forte “commistione di interessi” a danno dei cittadini tra lavoro alle dipendenze del servizio sanitario nazionale ed attività libero professionale, mai nessuna obiezione è stata mossa, sotto il profilo costituzionale per violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) [14], alla possibilità per il medico di ricoprire entrambi i ruoli di pubblico dipendente e di privato libero professionista [15].
Ciò detto, va osservato che il legislatore – con la riforma di cui alla l. n. 421 del 1992 ed al d.lgs n. 29 del 1993 succ. mod. – ha inteso, all’interno di un più ampio disegno di rinnovamento degli apparati pubblici e delle forme di regolamentazione della attività lavorativa del personale pubblico [16], “attenuare” il principio della esclusività del rapporto di impiego (art. 98, co. 1°, Cost.; artt. 60 ss t. u. n. 3 del 1957; art. 53, co. 1, d.lgs n. 165 del 2001), a certe condizioni, per tutte le categorie di pubblico impiego c. d. contrattualizzato.
In particolare, l’art. 1, commi 56 e 57, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 (c. d. legge finanziaria 1997) [17] ha previsto, con specifico riferimento ai rapporti di lavoro pubblico disciplinati dal testo unico d.lgs n. 165 del 2001, la possibilità per il pubblico dipendente part time (rectius: con regime di orario a tempo parziale ridotto a non meno del cinquanta per cento) di richiedere ed ottenere la iscrizione nell’albo professionale, onde svolgere l’attività libero-professionale, ovviamente al di fuori dell’orario di lavoro [18].
L’art. 6 del d.l. n. 79 del 1997 convertito nella legge n. 140 del 1997 ha inserito all’art. 1 della l. n. 662 del 1996 il comma 56 bis, in base al quale vengono espressamente abrogate tutte le disposizioni di legge che vietano l’iscrizione ad albi e lo svolgimento della libera professione per i pubblici dipendenti contrattualizzati in regime di part time. La medesima disposizione precisa ulteriormente che restano ferme le discipline di settore, che stabiliscono requisiti e modalità per ottenere l’iscrizione all’albo ove previsto o, comunque, condizioni per l’esercizio della professione.
In sostanza, il pubblico dipendente – in un’ottica di innovazione profonda della normativa che regola il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, contrassegnato da un’accentuazione della disciplina in senso privatistico-aziendale, piuttosto che rigidamente osservante dei crismi pubblicistico-funzionali – non è più tenuto al rispetto di un dovere assoluto di esclusività, potendo optare, nel rispetto di un prefissato limite di contingente di personale calcolato sulla totalità dei dipendenti della amministrazione, per un’articolazione dell’orario di lavoro a tempo parziale. Correlativamente, esso, può svolgere altra attività di lavoro privato (autonomo, parasubordinato o dipendente), anche a carattere professionale, in quanto esplicazione della propria libertà di lavoro (art. 4 Cost.) e di scienza (art. 33 Cost.), sempreché sia in possesso di tutti i titoli di studio ed abilitativi fissati dalla legge [19].
Il disegno normativo appare in toto coerente ad una logica di flessibilità ed assimilazione del lavoro pubblico a quello privato, cui consegue, a discapito delle garanzie e delle rigidità del pubblico impiego tradizionale, l’attribuzione di altre facoltà e, soprattutto, la chance di maturare diverse e parallele esperienze professionali nel mondo produttivo privato e professionale, secondo le capacità e le opportunità dei singoli dipendenti.
Tale essendo la impostazione di politica del diritto voluta nel campo della organizzazione della pubblica amministrazione – a prescindere dai soggettivi giudizi di merito – appare del tutto naturale la cancellazione degli antichi vincoli all’espletamento di altre attività lavorative e professionali coevemente alla instaurazione di un rapporto di lavoro pubblico, essendo, fin troppo evidente, che la riduzione dell’orario di lavoro, implicante una corrispondente riduzione della retribuzione, abbisogna di trovare un riequilibrio nella intrapresa di altre attività; diversamente opinando, a nulla varrebbero, nella maggioranza dei casi, le disposizioni in materia di lavoro flessibile nella pubblica amministrazione.
La compatibilità tra libera professione ed attività lavorativa pubblica a tempo parziale è stata giudicata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 183 del 1999[20] e n. 189 del 2001 [21].
Rebus sic stantibus, la legge 25 novembre 2003 n. 339 [22] – accolta con pareri discordi da parte degli operatori[23] – ha reintrodotto ex abrupto il principio di incompatibilità tra lavoro pubblico e professione forense, infliggendo un poco comprensibile vulnus al “sistema organico” del pubblico impiego c. d. contrattualizzato, per una pluralità di ragioni (che si illustreranno di seguito), le quali rivelano numerosi profili di incostituzionalità.
2. L’analisi della legge 25 novembre 2003 n. 339.
La lettura della legge n. 339 del 2003 dimostra – piuttosto chiaramente – come essa sia stata il frutto della, alquanto frettolosa, intenzione di reintrodurre “baluardi” all’ingresso nell’albo degli avvocati di ulteriori soggetti, oltre a quelli già numerosi iscritti,[24] in quanto è stata formulata con un lessico normativo impreciso e contraddittorio.
Infatti, sul versante della disciplina della professione di avvocato [25], sono stati del tutto tralasciati altri aspetti della riforma della attività forense, che al contrario suggerirebbero una maggiore riflessione e ponderazione, ogni qual volta si voglia procedere ad interventi normativi sull’accesso alle professioni giuridiche.
Sul versante della disciplina del lavoro pubblico, invece, viene introdotta una forte distonia all’interno dell’attuale assetto organico improntato alla valorizzazione della flessibilità ed efficienza gestionale, anche attraverso l’utilizzo di tipologie di contratto di lavoro come quello a tempo parziale, che consente al pubblico dipendente di poter conseguire un arricchimento professionale eseguendo altre attività lavorative.
I punti di criticità della legge n. 339 sono numerosi.
Innanzi tutto, la reintrodotta incompatibilità tra lavoro dipendente pubblico (anche a tempo parziale) ed attività professionale riguarda esclusivamente la professione forense e non le altre professioni regolamentate. Essa ha creato un notevole fattore di discriminazione tra i dipendenti pubblici, in quanto attualmente possono contare sulla opportunità di svolgere la libera professione tutti i lavoratori pubblici, tranne gli abilitati alla professione di avvocato.
Non si riesce a comprendere perché debbano essere incompatibili tra loro il lavoro pubblico e l’attività di avvocato e non, ad esempio, il lavoro pubblico e l’attività di dottore commercialista.
Basti pensare che, nell’esempio appena fatto, fermo restando il conseguimento della abilitazione professionale, un pubblico dipendente laureato in giurisprudenza non può accedere alla professione legale, mentre un laureato in economia e commercio potrebbe svolgere tranquillamente l’attività di dottore commercialista. Eppure entrambe le ricordate professioni sono svolte in campi di notevole rilievo sociale ed economico e si intersecano con primari interessi pubblici. Sul punto, va anche ricordato che il dottore commercialista, in base all’art. 12, co. 2, del d.lgs n. 546 del 1992, può difendere il contribuente davanti alle commissioni tributarie (organi giurisdizionali).[26] Risulta inspiegabile il motivo per cui nel processo tributario non debba valere l’assunto, propugnato dai fautori della incompatibilità, della necessità di salvaguardare il diritto alla difesa costituzionalmente garantito (art. 23 Cost.), che imporrebbe una astratta indipendenza ed autonomia del difensore, svincolato da quelli che sembrerebbero troppo stringenti obblighi pubblici di appartenenza alla P. A.
Allo stesso tempo, le altre categorie professionali (es.: dottori commercialisti, ingegneri, architetti, etc.) sono fatte salve dalla mannaia della incompatibilità, anche se per tutte le professioni [27], mutatis mutandis, possono valere, a buona ragione, le stesse argomentazioni addotte contro la compatibilità tra il pubblico impiego e la professione di avvocato, che peraltro sono state in toto sconfessate – giova ripeterlo – dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare, con la sentenza dell’11 giugno 2001 n. 189, che ha respinto le censure proposte dal Consiglio nazionale forense,[28] in riferimento agli articoli 3, 4, 24, 97 e 98 Cost.
In ogni caso, preme ribadire che l’aver sancito nuovamente una incompatibilità assoluta solo per la professione forense genera una lapalissiana discriminazione tra i dipendenti pubblici, essendo l’attività professionale, dopo la legge n. 339 del 2003, aperta a tutti tranne che agli abilitati forensi.
Sul piano testuale, poi, la legge n. 339 cit. desta non poche perplessità interpretative [29].
Più specificamente, l’art. 1 della l. n. 339 del 2003 ha previsto che i commi 56, 56 bis e 57 dell’art. 1 della l. n. 662 del 1996 non si applichino alla iscrizione all’albo degli avvocati, per il quale restano validi i divieti stabiliti dall’art. 3 della legge professionale 22 gennaio 1934 n. 36. Ma una formulazione della disposizione di tal genere appare incomprensibile.
In primo luogo, va osservato che il comma 56 cit. [30] riguarda, propriamente, il regime delle incompatibilità previsto nel pubblico impiego (e non già quello stabilito nella legge professionale forense), per cui nessun significato pregnante ed univoco assume la disposizione nel momento in cui dice che: “Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56 […], non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati”.
In secundis, il comma 57 cit. [31] concerne la facoltà generale dei dipendenti pubblici, a regime contrattualizzato, di richiedere la costituzione di un rapporto a tempo parziale e, quindi, non ha sicuramente alcun senso logico-giuridico richiamarlo, in funzione della limitazione all’accesso all’albo degli avvocati.
Infine, il comma 56 bis cit.,[32] avendo disposto la abrogazione di tutte le disposizioni che vietano la iscrizione ad albi professionali per i pubblici dipendenti part time, non può essere affatto giuridicamente “disapplicato”, come postulato dall’art. 1 della l. n. 339 del 2003, in quanto una norma (l’art. 1, co. 56 bis, l. n. 662/’96) che ha abrogato altre norme (nella specie in parte qua l’art. 3 l. n. 36/’34) ha espletato la propria efficacia abrogativa nel momento in cui è entrata in vigore ed ha quindi esaurito la sua funzione, per l’appunto, abrogando le norme contrastanti contemplate per relationem. Sul piano della tecnica normativa, va detto che il legislatore, per poter far rivivere precetti abrogati, deve necessariamente dettare una nuova disciplina positiva della materia di analogo contenuto, oppure può anche abrogare la norma abrogante (l’art. 1, co. 56 bis,l. n. 662/’96), con riviviscenza delle precedenti disposizioni abrogate. Mentre, non sembra ammissibile, in diritto, stabilire, con disposizioni di legge successive nel tempo (dal 1997 al 2003 sono oramai trascorsi circa sei anni), che disposizioni abrogatici contenute in un testo di legge antecedente siano semplicemente da considerare inapplicabili, in qualche modo, a talune fattispecie pure contemplate dalla stessa norma.
Privo di coerenza sistematica è anche l’art. 2 della l. n. 339 del 2003, il quale ha previsto, letteralmente, che i pubblici dipendenti “possono optare” e non già che essi “devono optare” (oppure “optano”) tra il mantenimento del rapporto di impiego a tempo pieno e l’iscrizione nell’albo degli avvocati. Data la particolare equivocità del senso semantico dell’articolo 1 della legge n. 339 (che vorrebbe ex post rendere non applicabili norme abrogatici, che ormai hanno già abrogato ciò che dovevano abrogare), sembrerebbe che l’articolo 2 conferisca una facoltà di scelta pacifica e non imponga, come forse supposto dal legislatore, una scelta alternativa tra i due status di pubblico dipendente ed avvocato.
3. L’illegittimità costituzionale della legge n. 339.
L’analisi della legge n. 339 del 2003 appalesa numerosi profili di illegittimità costituzionale, qualora il senso della legge – a parte le sopra ricordate difficoltà ermeneutiche – sia in effetti quello di voler impedire ai pubblici dipendenti part time di poter richiedere l’iscrizione all’albo degli avvocati.
Preliminarmente, va ricordato che il Consiglio Nazionale Forense, con alcune ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, tra cui quella del 23 settembre 1999 n. 348,[33] ha sollevato la questione di illegittimità costituzionale dei commi 56 e 56 bis dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996, in riferimento alla presunta violazione degli artt. 3, 4, 24, 97 e 98 Cost.[34]
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 189 del 2001,[35] ha respinto tutte le censure di costituzionalità mosse dal C. N. F., chiarendo che non sussistono ragioni di ordine costituzionale che impediscano ai pubblici dipendenti part time l’accesso all’albo e che l’attuale configurazione del pubblico impiego consente (anzi incoraggia) la instaurazione di rapporti di lavoro flessibili, tra cui spicca proprio il c. d. part time (cfr. l’art. 36 d.lgs n. 165 del 2001 succ. mod.).
In particolare, il Giudice delle leggi ha affermato che la disciplina sulla compatibilità tra lavoro pubblico e lavoro professionale elabora un giusto punto di equilibrio e non risulta ledere né gli interessi alla efficiente organizzazione della amministrazione pubblica, né gli interessi della categoria professionale degli avvocati.
Innanzi tutto, la Corte costituzionale ha ritenuto che, sotto il profilo dell’osservanza dell’art. 24 (diritto alla difesa), dell’art. 97 (principi di legalità, imparzialità e buon andamento della p. a.)[36] e dell’art. 98 (fedeltà alla Nazione), gli strumenti gestionali di flessibilità del lavoro pubblico – in linea generale – mirano a conseguire una maggiore efficienza della organizzazione amministrativa, anche per lo sviluppo di diverse esperienze di lavoro da parte dei dipendenti.[37] Per altro verso, non sussiste affatto il pericolo di una commistione di interessi inconciliabili, in quanto i commi 58 e 58 bis dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 (nonché l’art. 18, co. 2 ter, l. 109 del 1994) predispongono precise regole per impedire “conflitti di interesse” tra la professione libera ed il lavoro pubblico, non solo in astratto, stabilendo la preclusione assoluta per il dipendente di patrocinare cause contro la pubblica amministrazione in generale;[38] ma anche in concreto, poiché le singole amministrazioni vengono abilitate a prevedere ulteriori specifiche ipotesi di limitazione all’esercizio dell’attività professionale, che possano nuocere agli interessi pubblici curati dall’amministrazione di appartenenza del dipendente.
In seconda battuta, la Corte costituzionale ha chiarito che, sotto il profilo della ragionevolezza (art. 3 Cost.),[39] giuridicamente irrilevante è l’argomento addotto dal C. N. F. secondo cui il pubblico dipendente potrebbe risultare avvantaggiato dalle peculiari conoscenze e professionalità maturate al servizio dell’amministrazione, in quanto trattasi di questione di mero fatto. In realtà, i soli criteri validi per apprezzare il valore di un giurista sono quelli basati sulla formazione teorica acquisita e sulla abilità professionale rivelata, null’altro.
D’altro canto, può osservarsi che l’ordinamento giudiziario [40] consente lo svolgimento della professione di avvocato unitamente all’espletamento dell’incarico di magistrato onorario (G. O. T., V. P. O. [41], G. O. A. [42], Giudice di Pace[43]), con una potenzialità di sussistenza, in concreto, di “conflitti di interessi”, ben superiore[44], com’è intuitivo, rispetto a quella ipotizzabile tra l’esercizio della professione forense e lo svolgimento dell’attività lavorativa di pubblico dipendente, magari in un campo di attività completamente avulso rispetto a quello forense.
Per converso, l’appartenenza ai ruoli della amministrazione pubblica è compatibile ed anzi costituisce titolo preferenziale per l’accesso alle funzioni onorarie sia nell’ambito della magistratura ordinaria (artt. 42 ter e 71 del r. d. n. 12 del 1941, come modificato dal d.lgs n. 51 del 1998 [45]), sia nell’alveo della magistratura tributaria (art. 4 del d.lgs n. 545 del 1992 [46]).
Pertanto, non è pertinente il richiamo – che pure è stato fatto da una parte della dottrina [47] – ad una assunta esigenza di decoro della professione libera, che non potrebbe dirsi salvaguardato da avvocati “mezzotempisti”, dato che l’ordinamento giudiziario consente addirittura che la stessa funzione giudiziaria [48], che in astratto esigerebbe un grado di indipendenza e di professionalità ancora superiore rispetto a quella dell’avvocato[49], possa essere svolta da “soggetti non togati”, ossia dediti ad altro impiego principale (libero professionale o di lavoro pubblico dipendente) e solo, parzialmente, incaricati dell’assolvimento delle funzioni di magistrato.
Infine, la Corte costituzionale ha statuito che, sotto il profilo dell’art. 4 (diritto al lavoro) Cost., la legge 662 del 1996 favorisce e non ostacola l’accesso al lavoro in un regime di libera concorrenza, anche sulla scorta dei principi comunitari. Per cui il richiamo ad una lesione di tale principio costituzionale da parte del C. N. F. non è affatto appropriato alla fattispecie.
In ultima analisi, la giurisprudenza della Corte costituzionale non attribuisce alla professione di avvocato una qualche valenza differenziale rispetto alle altre professioni, non ravvisandosi, in realtà, alcuna peculiarità legata all’esercizio della relativa attività all’interno della esplicazione della funzione giurisdizionale.
Appare allora evidente che consentire o meno lo svolgimento ai pubblici dipendenti dell’attività professionale è assegnato alla discrezionalità del legislatore. Tuttavia, attesa la equivalenza della professione forense a qualsiasi altra libera professione, non appare possibile discriminare tra tipologie di attività professionali.
In poche parole, non sembra costituzionalmente legittimo, per violazione dell’art. 3 Cost. (principio di egualianza e ragionevolezza), consentire (in base al combinato disposto di cui all’art. 1, co. 56 e 56 bis, della legge n. 662 del 1996 ed alla legge n. 339 del 2003), che i lavoratori pubblici possano attendere soltanto ad attività professionali diverse da quella forense, perché ciò pregiudica tutto il personale pubblico laureato in giurisprudenza ed abilitato alla professione. Così come appare parimenti costituzionalmente illegittimo, sempre per violazione dell’art. 3 Cost., rendere compatibile la professione forense per talune tipologie di pubblici dipendenti (docenti universitari a tempo definito e docenti della scuola a tempo pieno) ed impedirne l’esercizio ad altre categorie di lavoratori pubblici (pure altamente qualificati per il possesso di titoli post lauream e per l’appartenenza alla ex carriera direttiva), senza che possa evincersi alcuna giustificazione logica [50].
Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale è quello relativo alla violazione dell’art. 33 Cost., riguardante la libertà di scienza e di esercizio della professione intellettuale.
Non a caso, la libertà di esercizio della attività professionale, pure riconducibile alla più generale libertà di lavoro (art. 4 Cost.), viene ripresa nello stesso articolo della Costituzione dedicato alla liberà di scienza e di insegnamento, al fine di imporre l’esame di Stato per il conseguimento della abilitazione (art. 33, commi 1° e 5°, Cost.). Seppure in un contesto prettamente lavorativo e remunerato, l’esercizio di una professione liberale costituisce una particolare forma di espressione della scienza, poiché le componenti della conoscenza teorica di nozioni, della cultura e del sapere umano sono prevalenti rispetto alla prestazione tecnico-pratica dell’attività richiesta al professionista [51].
Infine, la normativa vincolistica a senso unico di cui alla legge n. 339 del 2003 pare contrastare anche con l’art. 4 della Cost. [52], nella misura in cui prevede una immotivata preclusione all’accesso alla “attività lavorativa professionale forense” esclusivamente per talune tipologie di soggetti abilitati (pubblici dipendenti part time). Non vigendo analogo divieto per le altre professioni. Pertanto, sussiste una evidente compressione delle opportunità di lavoro, anche sotto il profilo peculiare di cui al 2° comma dell’art. 4 Cost. (diritto-dovere di svolgere una attività lavorativa, che concorra al progresso materiale o spirituale della società, secondo la propria possibilità e scelta), per il pubblico dipendente, con orario di lavoro part time (ossia in una condizione di lavoro, ex se, non incompatibile con altre attività lavorative) e regolarmente abilitato alla professione di avvocato.
Rebus sic stantibus, può sostenersi che tutti i soggetti, una volta abilitati, debbono poter esercitare la professione, qualora intendano farlo in concreto [53], salvo i prescritti limiti imposti dalla legge per garantirne la indispensabile qualità a tutela degli utenti. Orbene, la limitazione della compatibilità con lo svolgimento contemporaneo di un lavoro pubblico, attraverso l’adozione di un regime di orario a tempo parziale non superiore al cinquanta percento, sembra costituire un accettabile punto di equilibrio.
Infine, va detto che la legge n. 339 del 2003 risulta alquanto antistorica, poiché in un contesto di apertura alla concorrenza (per diversi aspetti ancora de jure condendo) [54] ed al mercato comunitario (d.lgs 2 febbraio 2001 n. 96)[55] della professione di avvocato (con i conseguenti nuovi ingressi nell’albo professionale), la reintroduzione della incompatibilità per i pubblici dipendenti (che, comunque, hanno conseguito una regolare abilitazione) risulta costituire un “rimedio peggiore del male”, essendo, invece, l’eccessivo numero di abilitati alla professione forense e, soprattutto, la scarsa selettività dell’esame di Stato a rappresentare i veri nodi da sciogliere [56].
Non vanno trascurate neanche le questioni più generali attinenti alla riforma degli studi giuridici (universitari e post-universitari)[57] e dei canali di accesso alle professioni giuridiche ed all’impiego pubblico,[58] nella direzione di un maggiore approfondimento delle materie riguardanti la disciplina (pubblica e privata) del mercato e del diritto comparato-internazionale, nonché di quelle tecnico-professionali (es.: deontologia, teoria e tecnica della prova nel processo), che potrebbero forse avviare una più proficua analisi e discussione complessiva tra gli addetti ai lavori.
4. Lavoro pubblico ed attività professionale: quale futuro ?
La legge n. 339 del 2003 rappresenta un passo indietro sia per la pubblica amministrazione, che per la professione di avvocato.
Da un lato, lede fortemente le aspettative dei pubblici dipendenti, introducendo una normativa discriminatoria rispetto alla possibilità di esercitare altre professioni; dall’altro lato, non riesce affatto a risolvere i problemi autentici della attività forense (ancorata a schemi obsoleti), trattandosi di una semplice “legge tampone”.
Il risultato conseguito è quello di aver generato una alquanto evidente discriminazione tra categorie di pubblici dipendenti e tipologie di professioni.
Non pare possibile penalizzare i pubblici dipendenti part time per il titolo di laurea posseduto oppure a causa della capacità di “fare resistenza” dell’ordine professionale di riferimento relativo agli studi universitari compiuti. La regola non può che essere unica: pubblico impiego (con orario a tempo definito o parziale) e professione libera devono poter essere compatibili o incompatibili per tutti e non solo per alcuni.
In parole diverse, va garantita o preclusa la opportunità di accedere alla professione a tutti i pubblici dipendenti e per tutte le categorie professionali.
L’eccessivo numero di iscritti negli albi professionali riguarda anche altre professioni regolamentate come quelle, ad esempio, dei dottori e dei ragionieri commercialisti. Eppure, non per questo, si sono levate richieste di tenore analogo rispetto a quelle provenienti dal mondo forense.
A questo punto, non resta che prendere atto che la riforma delle professioni deve poter assumere posizione, con metodo rigoroso, su tutte le questioni aperte relative alla innovazione della prestazione qualitativa dell’attività professionale, tra cui rientra il tema di discussione sulla compatibilità (ed entro quali limiti) tra lavoro pubblico e lavoro professionale [59]. In via di principio, non sembra che possano trovare approvazione arbitrarie forme di limitazione, dettate per lo più da contingenti esigenze, sulle quali peraltro si indulge nel non voler approntare le soluzioni opportune, che con buon senso possono essere individuate e sperimentate con profitto.
In tale quadro, è sufficiente dire che è ex se l’eccessivo numero di abilitati in raffronto alle concrete opportunità di impiego a rappresentare il problema di fondo.
L’attività forense, ancora nel XXI secolo, non è affatto di esclusiva pertinenza degli avvocati, basti pensare che – nel campo della organizzazione della pubblica amministrazione – esistono numerose disposizioni che consentono, in deroga all’art. 82 c. p. c., a funzionari pubblici non necessariamente abilitati alla professione forense (seppure detto requisito debba ritenersi a ratione di carattere preferenziale nel rispetto dei principi di cui all’art. 1 del d.lgs n. 165 del 2001) di poter svolgere la difesa tecnica in giudizio dell’amministrazione di appartenenza (es.: art. 22 l. n. 689 del 1981[60]; art. 417 bis c.p.c. [61]; art. 11, co. 2, d.lgs n. 546 del 1992 [62]; art. 2 del r. d. n. 1611 del 1933[63]; art. 3 r. d. n. 1611 del 1933 [64]; art. 6, co. 4, l. n. 19 del 1994 [65]; art. 21 d.lgs n. 251 del 2004 [66]), a sicuro detrimento del corretto esercizio della funzione giurisdizionale, oltreché della qualità della prestazione professionale.
Una prima parziale soluzione, per impedire l’eccessivo numero di presenze nell’albo degli avvocati, potrebbe essere rappresentata, allora, dall’affermazione normativa tassativa del possesso del requisito della abilitazione professionale per l’esercizio delle funzioni di rappresentanza e di difesa in giudizio, in tutte le ipotesi in cui l’Amministrazione statale può fare a meno dello jus postulandi della Avvocatura di Stato, in modo tale che, a poter “calcare” le aule di un tribunale, siano esclusivamente soggetti abilitati alla professione di avvocato [67].
Le pubbliche amministrazioni, soprattutto statali, prive di un ruolo interno costituito da funzionari legali potranno essere così costrette a creare uffici legali interni maggiormente professionali, ai quali possano essere assegnati dipendenti reclutati tra soggetti in possesso di apposita abilitazione. Così facendo, un cospicuo numero di soggetti muniti di abilitazione forense e non iscritto od iscritto in modo precario, per così dire, nell’albo degli avvocati liberi professionisti, potrebbe trovare una opportunità di diverso impiego; al contempo, i tribunali potranno essere “affollati”, perlomeno, da soli avvocati e non come oggi avviene, sul versante del personale pubblico delle amministrazioni statali, da personale “improvvisato” [68]. Invero, viene a realizzarsi una forma di “concorrenza sleale”, poiché la difesa tecnica risulta obbligatoria per taluni (i cittadini), ma non per altri (i soggetti pubblici); in tal modo ingenerando una eclatante “situazione di fatto” svantaggiosa per i pubblici poteri.
Nello stesso tempo, appaiono destare non pochi dubbi di legittimità costituzionale le disposizioni di cui all’art. 12 del d.lgs n. 546 del 1992, che consentono a categorie professionali diverse da quella giuridica stricto sensu dell’avvocato di poter patrocinare in giudizio davanti alle commissioni tributarie [69].
Ugualmente, nel settore del lavoro privato, l’attività di consulenza legale, interna al complesso aziendale, anche correlata a funzioni propedeutiche o successive a quelle giudiziali (es.: contrattualistica, composizione stragiudiziale di controversie, recupero crediti, etc.), sono talora svolte da soggetti non dotati di specifica professionalità giuridica (cioè non laureati in giurisprudenza) e spesso non abilitati alla professione forense. Anche in questi casi, potrebbe essere imposto, in qualche modo, un vincolo di legge, onde imporre che soltanto soggetti abilitati alla professione di avvocato possano occuparsi di simili attività di natura prettamente legale [70].
Un quadro di tal genere mostra quanto sia disorganica la normativa sull’obbligo della difesa legale davanti agli organi giurisdizionali, per cui il pensiero prevalente della classe forense dovrebbe essere, per l’appunto, quello di approntare una riforma complessiva della materia, evitando di privare i pubblici dipendenti abilitati della possibilità di esercitare la libera professione, al contrario dei colleghi abilitati in altre discipline professionali.
La preoccupazione di fondo degli avvocati a tempo pieno dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di conseguire il funzionamento ottimale della giurisdizione statuale; finalità questa che, invero, è conseguibile – nell’ambito di un più ampio disegno di riforma – anche attraverso la previsione di misure che consentano di elevare il livello professionale degli addetti, tra cui andrebbe annoverato a ratione l’obbligo di patrocinio delle parti nel processo (compresa quella pubblica), senza deroghe, ad opera di soggetti muniti di idonea qualificazione professionale, ossia quantomeno abilitati alla professione forense.
Nello stesso tempo, pare necessario estendere l’obbligo del patrocinio anche per quelle tipologie di controversie (a partire però da un certo ammontare di valore della causa), nelle quali attualmente non è previsto. Si pensi ai giudizi in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione applicativa di sanzioni amministrative (art. 23, co. 4°, l. n. 689 del 1981) [71] ed al giudizio pensionistico davanti alla Corte dei Conti (art. 6, co. 5, l. n. 19 del 1994), nei quali talvolta vengono in gioco notevoli interessi economico-finanziari.
A questo punto, non resta che attendere lo sviluppo del contenzioso che porterà, inevitabilmente, nuovamente al vaglio della Corte costituzionale la questione della compatibilità tra lavoro pubblico e professione forense, con una prevedibile declaratoria di illegittimità costituzionale, per quanto detto finora (violazione degli artt. 3, 4, 33 e 97 Cost.), della intera legge n. 339 del 25 novembre 2003.
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(*) Dottore di ricerca e funzionario della p.a.
[1] Sulle professioni, cfr. G. Della Cananea, L’ordinamento delle professioni, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Dir. amm. spec., tomo II, Milano, II ed., 2003, p. 1139 ss. Inoltre, vedi: P. Piscione, (voce) Professioni (disciplina delle), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, p. 1040 ss; P. Tacchi, (voce) Professioni. I) Professioni, arti e mestieri – Dir. amm., vol. XXXIV, Roma, 1991; F. Teresi, (voce) Professioni, in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1997, p. 1 ss.
[2] Sul punto, cfr. N. Saitta, Esame di Stato e titoli di studio e di cultura, in Riv. trim. dir. pubbl., 1968, p. 167 ss.
[3] Sul tema generale della libertà di arte, scienza ed insegnamento, amplius, cfr. S. Cassese – A. Mura, Commenti agli artt. 33 e 34 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. art. 29 – 34, Bologna-Roma, 1976, p. 210 ss. Con riguardo alla tutela della cultura e della ricerca, cfr. F. Merusi, Commento all’art. 9 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. art. 1-12, Bologna-Roma, 1975, p. 434 ss.
[4] Sulle libertà costituzionali, cfr. P. Barile, Diritti dell’uomo. Libertà fondamentali, Bologna, 1984. Inoltre, vedi: G. Amato, (voce) Libertà (diritto costituzionale), in Enc. dir., vol. XXIV, Milano, 1974, p. 272 ss; A. Baldassarre, (voce) Libertà. I) Problemi generali, in Enc. giur., vol. XIX, Roma, 1990.
[5] Sul punto, va ricordato che, secondo la dottrina di A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, vol. I, Napoli, XV ed., 1989, p. 546, gli ordini ed i collegi professionali rappresentano: “enti associativi (esponenziali della rispettiva categoria) composti di tutti gli esercenti le rispettive professioni […]. Essi esercitano l’autogoverno della rispettiva classe”.
[6] Per la nozione di “professione intellettuale”, cfr. G. Giacobbe, (voce) Professioni intellettuali, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, p. 1065 ss.
[7] Cfr.: M. Mazziotti, (voce) Lavoro (diritto costituzionale), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 338 ss, G. Pera, (voce) Professione e lavoro (libertà di), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, p. 1033 ss; R. Scongnamiglio, (voce) Lavoro. I) Disciplina costituzionale, in Enc. giur., vol. XVIII, Roma, 1990. Inoltre, vedi S. Cadeddu – E. Midena, Il mercato del lavoro, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Dir. amm. spec., tomo II, Milano, II ed., 2003, p. 979 ss; nonché G. Ghezzi, Il lavoro, in G. Amato – A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, IV ed., 1994, p. 857 ss.
[8] Cfr. C. Gessa – P. Tacchi, (voce) Albi di esercenti professioni ed attività economiche, in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988. Si noti che, per l’esercizio di talune professioni, l’ordinamento non prevede la necessità di iscrizione ad un albo od elenco. Su tali ultimi rilievi, vedi M. S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, II ed., 1993, in part. p. 646, il quale, dopo aver ricordato come la necessità del possesso di un specifica abilitazione per l’esercizio di talune professioni costituisca un’eccezione, afferma con riguardo alle previsioni normative che stabiliscono anche la necessità della iscrizione ad un apposito albo, che: “Le attività lavorative professionali che, oltre ad un’abilitazione richiedono l’iscrizione ad un albo, sono ancora un’ulteriore eccezione nell’eccezione”.
[9] Cfr. F. Teresi, (voce) Ordini e collegi professionali, in Dig. disc. pubbl., vol. X, Torino, 1995, p. 449 ss; nonché A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, vol. I, Napoli, XV ed., 1989, p. 546 ss.
[10] Sull’organizzazione amministrativa sanitaria, per linee generali, cfr. R. Iannotta, (voce) Sanità pubblica, in Enc. giur., vol. XXVII, Roma, 1991. Vedi anche G. De Cesare, (voce) Professioni sanitarie e arti ausiliarie, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, p. 1089 ss; nonché R. Iannotta, (voce) Professioni. V) Professioni ed arti sanitarie, in Enc. giur., vol. XXXIV, Roma, 1991.
[11] L’art. 11, comma 4°, d. P. R. 11 luglio 1980 n. 382, così dispone: “Il regime d’impiego a tempo definito: […] b) è compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di attività di consulenza anche continuativa esterne e con l’assunzione di incarichi retribuiti ma è incompatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria”.
[12] L’art. 508, comma 15, d.lgs 16 aprile 1994 n. 297, così recita: “Al personale docente è consentito, previa autorizzazione del direttore didattico o del preside, l’esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’orario di insegnamento e di servizio”.
[13] La Corte cost., con sentenza 23 dicembre 1986 n. 284, in Foro it., 1988, I, p. 3563 ss ha giudicato costituzionalmente legittima la disposizione di cui all’art. 508 del d.lgs n. 287 del 1994, sul presupposto che l’attività professionale produce beneficio all’attività didattica per l’intuibile arricchimento teorico-professionale che il docente acquisisce nello svolgimento di entrambe le attività.
[14] Cfr.: G. Alpa, (voce) Salute (Diritto alla), in Nss. Dig. it., App. VI, Torino, 1986, p. 913 ss; M. Luciani, (voce) Salute. I) Diritto alla salute – dir. cost., in Enc. giur., vol. XXVII, Roma, 1991.
[15] In effetti, semplici “rischi” di commistione di interessi non possono giustificare limitazioni arbitrarie all’esercizio della libera professione da parte di soggetti qualificati ed appositamente abilitati. In argomento, vedi: M. Pascale, La libera professione del medico dipendente dal servizio sanitario nazionale, in Ragiusan, 1994, fasc. 126, p. 200 ss; I. Traldi – C. Pavarini, Libera professione dei medici e rapporto di pubblico impiego, in Ragiusan, 1994, fasc. 127, p. 220 ss; F. Sacco, Libera professione e incompatibilità del personale sanitario dirigente del servizio sanitario nazionale, in Sanità pubbl., 1998, p. 1183 ss.
[16] Sul pubblico impiego, cfr. P. Virga, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Milano, 2000. Inoltre, vedi: F. Carinci – M. D’Antona (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Milano, II ed., 2000; M. Clarich – D. Iaria, La riforma del pubblico impiego, Rimini, 2000; M. Dell’Olio – B. Sassani (a cura di), Amministrazione pubblica, lavoro, processo, Milano, 2000; S. Battini, Il personale, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Dir. amm. gen., tomo I, Milano, II ed. 2003, p. 373 ss; F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, tomo I, Milano, III ed., 2004, p. 1037 ss.
[17] In precedenza la materia era disciplinata dalla l. 29 dicembre 1988 n. 554 e dal d.P.C.M. 17 marzo 1989 n. 117. Sul rapporto di lavoro part-time, in particolare, cfr. M. Tatarelli, "Part time" e tempo determinato nel lavoro privato e pubblico, Padova, 1999 e D. Lupi – G. Ravaioli, Il part-time, Milano, 2000. Inoltre, con specifico riguardo al settore pubblico, vedi: A. Falcone, Il part-time nel pubblico impiego (tra incompatibilità e controlli), in Lav. nella p. a., 1999, p. 527 ss; E. Menegatti., Compatibilità tra l'esercizio della professione forense ed il rapporto di lavoro part-time alle dipendenze della p. a., in Lav. giur., 2001, p. 739 ss.
[18] L’iscrizione all’albo professionale costituisce un diritto per tutti coloro che siano in possesso dei prescritti requisiti. L’amministrazione è tenuta ad adottare un atto vincolato. Sul punto, cfr. P. Virga, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, VI ed., 2001, p. 21, il quale annovera i provvedimenti amministrativi consistenti in “iscrizione agli albi” tra gli accertamenti costitutivi (atti vincolati) caratterizzati per il fatto che la P. A. è tenuta ad adottarli, senza l’esercizio di poteri discrezionali (ponderazione di interessi), qualora risultino accertati i requisiti ed i presupposti previsti dalla legge. In senso sostanzialmente analogo, pur con diversità di impostazione, è M. S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, III ed., 1993, p. 641 ss, secondo il quale le c. d. abilitazioni rientrano nella categoria delle autorizzazioni ricognitive, consistendo in procedimenti dichiarativi funzionali alla verifica delle “idoneità tecniche di persone o di cose a svolgere un’attività o ad avere una certa utilizzazione”, in sostanza trattasi di “controllo di idoneità da parte di un pubblico potere”, consistenti nel contenuto minimo in “un accertamento mediante esame”; ricorda ancora l’illustre autore che (p. 646): “Dall’accertamento sorge, come situazione procedimentale, un diritto all’iscrizione (onde se questa è illegittimamente rifiutata, la controversia spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, salvo deroghe particolari per taluni ordini); dall’iscrizione sorge l’attribuzione della qualità di professionista, che comporta la possibilità di svolgere l’attività lavorativa professionale, e l’appartenenza necessaria all’ordine (o al collegio), con tutti i doveri e i diritti inerenti ad esso […]. L’ “iscrizione” non è quindi un’ammissione, ma un’autorizzazione iscritta su un registro (che è l’albo)”. Pertanto, secondo M. S. Giannini, Diritto amministrativo, cit., p. 516, gli albi professionali svolgono una funzione di: “partecipazione permanente al pubblico di accertamenti abilitanti all’esercizio professionale” e, in base ad una classificazione generale delle tipologie di attività dei pubblici uffici, sempre per M. S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995, p. 47 ss, essi rientrano tra gli strumenti pubblici che permettono lo svolgimento delle c. d. attività ordinative della P. A., le quali costituiscono la base della “certezza dei traffici”; in particolare, i registri di persone, meglio definiti come albi, conferiscono la “legittimazione a svolgere un’attività determinata”. In giurisprudenza, cfr. Cass. 20 marzo 1991 n. 2994, in Foro it., 1991, I, p. 1086: “Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la cognizione della domanda con la quale l’aspirante all’iscrizione all’albo degli psicologi, dopo la reiezione della sua richiesta disposta dal commissario, in sede di prima applicazione della l. 18 febbraio 1989, n. 56, per asserita mancanza dei requisiti previsti dall’art. 32 della stessa, chiede al tribunale di ordinare l’iscrizione negata «previo annullamento e/o disapplicazione dell’impugnato provvedimento commissariale»”. Pertanto, l’illegittimo rifiuto intenzionale della iscrizione ad un albo, cui si ha diritto, in base alla legge vigente, sembra che costituisca comportamento rientrante nella fattispecie di reato dell’abuso d’ufficio, ai sensi dell’art. 323 cod. pen., in quanto il responsabile dell’organo amministrativo deputato a procedere alla iscrizione nell’albo agisce in palese violazione di legge a danno del soggetto istante la iscrizione, che sia in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla normativa. Sull’abuso d’ufficio, per linee generali, cfr. D. Manzione, (voce) Abuso d’ufficio, in Dig. disc. pen., vol. I agg., 2000, Torino, p. 1 ss; nonché I. A. Santangelo, L’abuso d’ufficio, in Giur. merito, n. 5, 2003, IV, p. 1021 ss.
[19] Per altro verso, il pubblico dipendente, ai sensi dell’art. 52, co. 5 e 7, del d.lgs n. 165 del 2001, previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, può svolgere altri incarichi e consulenze retribuite. Mentre, non sono soggette ad alcuna autorizzazione incarichi ed attività a titolo gratuito, né sono soggette ad autorizzazione talune attività scientifiche o di rilievo sociale (art. 52, co. 6, d.lgs n. 165 del 2001).
[20] Cfr. C. Cost. ord. 20 maggio 1999 n. 183, in Foro it., n. 9, 1999, I, p. 2444 ss.
[21] Cfr. C. Cost. sent. 11 giugno 2001 n. 189, in Foro it., n. 7-8, 2001, I, p. 2121 ss, nonché in www.lexitalia.it. Sul punto, vedi: G. Cassano, Se l'impiegato pubblico part time possa esercitare la professione forense, in Giust. civ., 2001, I, p. 2030 ss; E. Cassese, Pubblici dipendenti, part-time ed esercizio della professione di avvocato, in Giorn. dir. amm., 2001, p. 1009 ss; M. Montini, Il part-time dei dipendenti pubblici ed i limiti allo svolgimento della libera professione, in Il lavoro nelle p. a., 2001, p. 654 ss; F. M. Tosti Arcangeli, Pubblici dipendenti part-time ed esercizio della professione forense, in Corr. giur., 2001, p. 100 ss.
[22] La legge 25 novembre 2003 n. 339, pubblicata in Gazz. Uff. 1 dicembre 2003 n. 279, consultabile, altresì, in Guida al dir., n. 48, 2003, p. 127 ss, con il commento di E. Sacchettini, nonché in www.lexitalia.it.
[23] In senso favorevole alla incompatibilità tra lavoro pubblico e professione forense, si è pronunciato R. Villani, Stop ai pubblici dipendenti part-time iscritti agli albi degli avvocati: ripristinata la piena incompatibilità tra l’esercizio della professione forense ed il pubblico impiego, in Studium iuris, n. 6, 2004, p. 715 ss. Di contrario avviso è altra opinione, che parla di legge “decisamente contro tendenza”, A. Mari, Dipendenti pubblici e professione forense, in Giorn. dir. amm., n. 5, 2004, p. 519 ss.
[24] In tal senso, cfr. E. Cassese, Pubblici dipendenti part-time ed esercizio della professione di avvocato, in Giorn. dir. amm., n. 10, 2001, p. 1009 ss e, in part., p. 1014, la quale – a proposito delle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale disposte dal C. N. F. e delle argomentazioni ivi sviluppate – ha parlato espressamente di: “un tentativo di difesa dei meccanismi di controllo dell’accesso alla professione da parte dell’ordine professionale e, quindi, di quello più facilmente tacciabile di tentata difesa di interessi corporativi”.
[25] In tema, vedi: C. Lega, (voce) Avvocati e procuratori (diritto moderno), in Nss. Dig. it., vol. I, 2, Torino, 1958, p. 1666 ss, S. Satta, (voce) Avvocato (ordinamento), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 653 ss; S. Raimondi, (voce) Avvocato e procuratore legale, in Dig. disc. pubbl., vol. II, Torino, 1987, p. 86 ss; A. Casalinuovo, (voce) Avvocato e procuratore. I) Ordinamento, in Enc. giur., vol. IV, Roma, 1988.
[26] In tema, essenzialmente, vedi: C. Magnani, (voce) Commissioni tributarie, in Enc. giur., vol. VII, Roma, 1988; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, vol. I, Torino, VI ed., 1999, p. 316 ss; R. Lupi, Diritto tributario. Parte generale, Milano, VII ed., 2000, p. 259 ss.
[27] Significativo è pure il fatto che quasi tutti gli albi siano tenuti dal Ministero della Giustizia.
[28] Cfr. Consiglio nazionale forense, ordinanza 23 settembre 1999 n. 348, in www.lexitalia.it
[29] Si riporta il testo dei primi due articoli della legge n. 339 del 2003. Articolo 1: “1. Le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56 -bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni”; Articolo 2: “1. I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d'impiego, dandone comunicazione al consiglio dell'ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell'iscritto al proprio albo. 2. Il pubblico dipendente, nell'ipotesi di cui al comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno. 3. Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l'iscrizione all'albo degli avvocati. 4. Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l'opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso l'Amministrazione di appartenenza. In tal caso l'anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione”.
[30] L’art. 1, co. 56, l. n. 662 del 1996, così recita: “Le disposizioni di cui all'articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno”.
[31] L’art. 1, co. 57, l. n. 662 del 1996, prevede: “Il rapporto di lavoro a tempo parziale può essere costituito relativamente a tutti i profili professionali appartenenti alle varie qualifiche o livelli dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ad esclusione del personale militare, di quello delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco”.
[32] L’art. 1, co. 56 bis, l. n. 662 del 1996, così dispone: “Sono abrogate le disposizioni che vietano l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attività professionali per i soggetti di cui al comma 56. Restano ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio delle relative attività. Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione”.
[33] Pubblicata in G. U. 21 giugno 2000 n. 26 e in www.lexitalia.it
[34] Cfr. Consiglio Nazionale Forense, ordinanza 23 settembre 1999 n. 348, in Gazz. Uff. 21 giugno 2000 n. 26.
[35] Pubblicata in Foro it., n. 7-8, 2001, I, p. 2121 ss e in www.lexitalia.it
[36] Sul principio di legalità, cfr. L. Carlassare, (voce) Legalità (principio di), in Enc. giur., vol. XVIII, Roma, 1990. Sui principi di imparzialità e buon andamento, vedi: P. Calandra, (voce) Efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione, in Enc. giur., vol. XII, Roma, 1989; F. Satta, (voce) Imparzialità della pubblica amministrazione, in Enc. giur., vol. XV, Roma, 1989; U. Allegretti, (voce) Imparzialità e buon andamento, in Dig. disc. pubbl., vol. VIII, Torino, 1993, p. 131 ss; G. Arena, (voce) Trasparenza amministrativa, in Enc. giur., vol. XXXI, Roma, 1995.
[37] In merito, va ricordato che l’art. 7 della legge 15 luglio 2002 n. 145 ha previsto disposizioni in materia di mobilità tra pubblico e privato, consentendo a dirigenti, funzionari e dipendenti della pubblica amministrazione di poter maturare esperienze lavorative temporanee nel settore produttivo privato.
[38] Invero, sarebbe più che sufficiente che fosse precluso al pubblico dipendente di patrocinare cause contro l’Amministrazione pubblica di appartenenza nell’interesse altrui (per il rispetto dell’obbligo di fedeltà), ma il legislatore della l. n. 140 del 1997, con forse eccessiva “prudenza”, era giunto ad estendere il divieto di intentare cause contro tutte indiscriminatamente le pubbliche amministrazioni; circostanza questa che poneva seri dubbi di incostituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza di un simile divieto (art. 3 Cost.).
[39] Cfr. L. Paladin, (voce) Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., vol I agg., Milano, 1997, p. 899 ss.
[40] In particolare, cfr. M. Devoto, (voce) Ordinamento giudiziario, in Enc. giur., Roma, vol. XXI, 2000.
[41] Gli incarichi di G. O. T. e di V. P. O., in base all’art. 42 ter ed all’art. 71 del r. d. 30 gennaio 1941 n. 12, come modificati dal d.lgs 19 febbraio 1998 n. 51, sono compatibili con lo svolgimento della professione di avvocato, purché fuori circondario del Tribunale presso viene svolta la funzione di magistrato onorario.
[42] La nomina a Giudice onorario aggregato (G. O. A.), ai sensi della legge 22 luglio 1997 n. 276, è compatibile con lo svolgimento della professione di avvocato, purché fuori del distretto della Corte d’Appello presso cui viene svolta la funzione di magistrato onorario addetto alla c. d. sezione stralcio.
[43] L’art. 8 della l. 21 novembre 1991 n. 374 succ. mod. consente lo svolgimento delle funzioni onorarie di Giudice di Pace, agli avvocati, purché fuori circondario del Tribunale presso viene svolta la funzione di magistrato onorario.
[44] A nulla vale, in realtà, la previsione di incompatibilità solo territoriali (all’interno dello stesso circondario di Tribunale o distretto di Corte d’Appello, a seconda dei casi) tra esercizio della professione di avvocato ed espletamento delle funzioni di magistrato onorario.
[45] La nomina a Giudice onorario di tribunale (G. O. T.) ed a Vice procuratore onorario (V. P. O.), in base all’art. 42 ter ed all’art. 71 del r. d. 30 gennaio 1941 n. 12, come modificati dal d.lgs 19 febbraio 1998 n. 51, è compatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa pubblica, anzi lo svolgimento delle funzioni di dirigente o di funzionario appartenente alla ex carriera direttiva presso la pubblica amministrazione costituisce titolo di preferenza per la nomina a magistrato onorario.
[46] I giudici delle commissioni tributarie provinciali, ai sensi dell’art. 4, co. 1, d.lgs 31 dicembre 1992 n. 545, sono nominati tra: “b) i dipendenti civili dello Stato, o di altre amministrazioni pubbliche in servizio o a riposo che hanno prestato servizio per almeno dieci anni, di cui almeno due in una qualifica alla quale si accede con la laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o altra equivalente”.
[47] In al senso, cfr. E. Sacchettini, Con l’ingresso di agguerrite schiere di concorrenti a rischio l’indipendenza e la dignità dell’avvocato, in Guida al dir., n. 24, 2001, p. 46 ss.
[48] Il novellato art. 111 Cost. ha previsto che ogni processo debba svolgersi, nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Sul principio costituzionale del “giusto processo”, cfr. M. Ceccheti, (voce) Giusto processo a) Diritto costituzionale, in Enc. dir., vol. V agg., Milano, 2001, p. 595 ss. Con riferimento al processo amministrativo, vedi: S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo, Milano, 2004; E. Picozza, Il “giusto” processo amministrativo, in Cons. St., 2000, II, p. 1061 ss; L. Ieva, Riflessioni sul principio costituzionale del “giusto processo” applicato al giudizio amministrativo, in Riv. amm., n. 4, 2002, I, p. 311 ss, nonché in www.lexitalia.it
[49] Sulla funzione autonoma della rappresentanza e difesa del difensore nel processo, cfr. F. Mazzarella, (voce) Avvocato e procuratore. II) Diritto processuale, in Enc. giur., vol. IV, Roma, 1998.
[50] Non sembra possibile dubitare, in dottrina, che la professione libera possa essere esercitata quantomeno da parte di funzionari pubblici part time appartenenti alla ex carriera direttiva ed anche in possesso di una solida preparazione derivante del conseguimento di qualificanti titoli post lauream, poiché anche per costoro possono sicuramente valere le argomentazioni utilizzate dalla Corte costituzionale (sent. n. 284 del 1986) sulla compatibilità della funzione docente (universitaria e scolastica) con quella della professione libera.
[51] Ricorda P. Tacchi, (voce) Professioni. I) Professioni, arti e mestieri – Dir. amm., cit., p. 1, che la etimologia della parola latina professio sta a significare: “esercizio di un’attività dove la componente intellettuale prevale su quella materiale ed è condizionata al possesso da parte del professionista di particolari requisiti”.
[52] Sul punto, cfr. M. Mazziotti, (voce) Lavoro (diritto costituzionale), cit., 339-340, il quale ricorda come per lavoro, ai fini dell’art. 4 Cost., debba intendersi lo svolgimento di qualsiasi attività socialmente utile e, quindi, non soltanto lo svolgimento di attività lavorativa subordinata, ma anche autonoma e professionale. Secondo l’autore: “Concepito come libertà, il diritto al lavoro deve […] garantire tutte le attività […] tanto quelle del lavoro subordinato, come quelle del lavoro autonomo, professionale, artigiano, o dell’attività imprenditoriale”. Sempre per detto autore (p. 341) va, inoltre, considerato che il diritto al lavoro si interseca anche con la libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost. Sul tema, amplius, vedi: A. Baldassarre, (voce) Iniziativa economica privata, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, p. 582 ss; C. M. Mazzoni, (voce) Iniziativa economica privata, in Nss Dig. it., App. IV, Torino, 1983, p. 270 ss; G. Morbidelli, (voce) Iniziativa economica privata, in Enc. giur., vol. XVII, Roma, 1989.
[53] Osserva P. Tacchi, (voce) Professioni. I) Professioni, arti e mestieri – Dir. amm., cit., p. 3, che l’art. 4 Cost. sancisce al secondo comma: “il dovere di svolgere un’attività socialmente utile secondo le proprie possibilità, da intendersi come competenza, attitudini, qualità individuali, e la propria scelta”.
[54] Sulla “liberalizzazione” ed “apertura alla concorrenza” nelle libere professioni, cfr. l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Indagine conoscitiva nel settore degli ordini e dei collegi professionali (IC15) – Provvedimento di chiusura del 9 ottobre 1997 n. 5400, in Boll., n. 42, 1997, secondo cui: “L’indagine […] si è posta l’obiettivo di verificare fino a che punto la vigente regolamentazione del settore, in parte risalente alla prima metà del secolo, risulti oggi effettivamente funzionale allo sviluppo delle attività professionali, in considerazione anche dell’evoluzione del contesto economico e normativo, in parte, peraltro, riconducibile a fenomeni di carattere sopranazionale”. Assunto, quindi, un tale obiettivo di indagine, l’AGCM osserva, ulteriormente, che: “E’ indubbio che nel controllo dell’esercizio della professione si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli ordini, e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato”. Dunque, diventa: “evidente […] come un ripensamento complessivo e profondo dell’istituzione “ordine” risulti oggi improcrastinabile, soprattutto in considerazione delle mutate condizioni dei mercati e della crescente importanza attribuita ai principi della libertà di iniziativa economica e della concorrenza, nella consapevolezza che il mancato rispetto delle regole concorrenziali, di norma, limita l’efficiente svolgimento delle attività economiche”. Ancora rileva la AGCM che: “con riguardo alla proporzionalità dell’attuale assetto regolamentativo rispetto alla necessità di colmare eventuali imperfezioni che ostacolano il corretto funzionamento dei mercati, dall’analisi svolta nel corso dell’indagine conoscitiva è emerso che gli strumenti di regolamentazione delle professioni protette sono molteplici e suddivisibili sostanzialmente in due categorie, quelli attinenti ai requisiti necessari per lo svolgimento delle professioni (tirocinio, esame di abilitazione, concorso) e quelli relativi alle modalità di svolgimento della professione (standard di qualità, tariffe, divieto di pubblicità, limiti territoriali, incompatibilità)”. In conclusione, l’AGCM ha ritenuto che: “La revisione delle norme che disciplinano l’esercizio dell’attività professionale porterà a dei risultati positivi se farà suo il principio che il conseguimento delle finalità pubbliche non è affatto incompatibile con la sottoposizione delle attività dei professionisti alle regole del mercato e della concorrenza, ed anzi quest’ultima può solo contribuire a rendere più efficiente il sistema. Peraltro, anche laddove la regolamentazione è necessaria essa va in ogni caso collegata in modo diretto e chiaro con l’unico principio che la giustifica, ovvero il raggiungimento di un maggiore benessere per la collettività”. Inoltre, cfr. Commissione Europea, Rapporto sulla concorrenza nel settore delle professioni legali, Bruxelles 9 febbraio 2004, in Guida al dir., n. 8, 2004, p. 15 ss. Su tale ultimo documento, cfr. l’editoriale di M. Clarich, Rapporto Monti: l’arma della persuasione per chiedere un cambiamento agli ordini, in Guida al dir., n. 8, 2004, p. 8 ss.
[55] Cfr. S. Cassese (a cura di), Professioni ed ordini professionali in Europa, Milano, 1999; nonché V. Varano, (voce) Avvocato e procuratore. III) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur., vol. IV, Roma, 1988. Sul principio della libertà di stabilimento (artt. 43-48 del tratt. C. E.), cfr. G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova, II ed., 2001, p. 446 ss e, in part., p. 453 sulla disapplicazione necessaria delle norme nazionali contrastanti il diritto comunitario. Sulla prevalenza del diritto comunitario nella gerarchia delle fonti, vedi: F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, vol. I, Milano, III ed., 2004, p. 35 ss e M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, II ed., 2004, p. 161 ss. Per un quadro sintetico sulla responsabilità dello Stato e delle Regioni per violazione del diritto comunitario, cfr. D. Ielo, La responsabilità civile dello Stato (e delle Regioni) per violazione del diritto comunitario, in Dir. & formazione, n. 6, 2002, p. 897 ss. Inoltre, cfr. F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, vol. I, cit., p. 71 ss.
[56] Ovviamente, il problema pratico che ha condotto la classe forense a schierarsi contro la possibilità per il pubblico dipendente di esercitare la professione di avvocato deriva essenzialmente dall’elevato numero dei soggetti laureati in giurisprudenza ed abilitati alla professione di avvocato. Una situazione questa che si è generata a causa di anni di lassismo e di ritrosia a qualsiasi disegno riformatore della professione. Da troppo tempo si è rinunciato a meglio qualificare l’esame di Stato per l’accesso alla professione di avvocato, magari prevedendo un ampliamento delle materie oggetto di prove scritte e di prova orale, come anche l’eliminazione della possibilità di consultare codici anche commentati con la sola giurisprudenza (facoltà non prevista nei concorsi pubblici). Mai affrontati con proficuità sono i temi della istituzione di albi di avvocati specialisti, come anche l’incoraggiamento della istituzione di società professionali. Nulla si è mai detto in ordine alla riforma del ruolo della Avvocatura di Stato (che dovrebbe occuparsi soltanto di processi amministrativi e di processi davanti alla Corte dei Conti) ed alla istituzione di Avvocature Ministeriali, in luogo degli attuali Uffici legali e contenzioso che si occupano di processi davanti al giudice ordinario in materia di sanzioni amministrative e nei casi di attività delegata dall’Avvocatura di Stato, nonché, per il Ministero delle Finanze, di sanzioni amministrative tributarie e recupero delle imposte evase. In verità, l’attività defensionale dello Stato è consegnata troppo spesso a funzionari, talora neanche laureati in una qualche disciplina, piuttosto che riservata a funzionari legali (non iscritti nell’elenco speciale dei dipendenti professionisti) od a funzionari avvocati (iscritti all’elenco speciale dei dipendenti professionisti).
[57] In tema, particolarmente illuminanti, sono le riflessioni di S. Cassese, La cultura giuridica dagli anni sessanta ad oggi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., n. 2, 2004, p. 371 ss e di N. Irti, La formazione del giurista, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 3, 2004, p. 647 ss. Con riferimento al diritto amministrativo, cfr. E. Follieri, L’insegnamento globale del diritto amministrativo (jus et remedium), in Studium iuris, n. 6, 2004, p. 709 ss; G. Rossi, Metodo giuridico e diritto amministrativo: alla ricerca di concetti giuridici elementari, in Dir. pubbl., n. 1, 2004, p. 1 ss.
[58] In particolare, è possibile ritenere che l’accesso agli impieghi pubblici che implichino la padronanza della conoscenza del diritto e che, in qualche modo, ruotino attorno al “mondo giustizia” debba essere esclusivamente riservato ai laureati in giurisprudenza (magistrati, funzionari delle forze di polizia, funzionari dei ruoli dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, funzionari degli uffici di conciliazione addetti al tentativo di conciliazione nelle cause di lavoro, funzionari delle amministrazioni e degli enti che possono rappresentare l’ufficio in giudizio, in deroga allo jus postulandi dell’Avvocatura di Stato, etc.). A tal proposito, è possibile ricordare che l’ordinamento giuridico tedesco prevede una formazione post-laurea unitaria per giudici, avvocati, notai e funzionari dell’amministrazione, che consiste in un tirocinio di ventiquattro mesi da svolgersi presso organi giudiziari, uffici della pubblica amministrazione e studi professionali di avvocati e notai. Al termine del tirocinio è necessario sostenere un esame che conferisce una sorta di “abilitazione forense generale”, cui seguiranno distinti percorsi professionalizzanti a seconda dell’attività che si intende intraprendere in concreto. Su tali rilievi, cfr. V. Varano, (voce) Avvocato e procuratore. III) Diritto comparato e straniero, in Enc. giur., vol. IV, Roma, 1988, in part. p. 3. A sommesso avviso di chi scrive, il sistema tedesco sembra poter costituire un modello da prendere in seria considerazione nelle prospettive di riforma del “sistema Giustizia” in Italia (separazione o meno delle carriere di P. M. e di Giudice, ruolo del difensore), anche al fine di “risolvere” la problematica dei numerosi soggetti abilitati alla professione di avvocato esistenti nel nostro Paese. Piuttosto che “dividere”, potrebbe essere maggiormente proficuo “unificare”, allo stadio iniziale, i percorsi formativi di magistrato, avvocato, notaio e funzionario della p. a. addetto a servizi legali (uffici di polizia, cancellerie, uffici legali, etc.), onde creare un humus culturale comune ed una preparazione giuridica di base più solida.
[59] Sul punto, vale la pena ricordare che, secondo la dottrina più recente, non sussiste affatto una questione di incompatibilità ontologica tra lavoro subordinato e lavoro professionale. In tali termini si esprime A. Anastasi, (voce) Professioni. IV) Professioni intellettuali e subordinazione – Dir. lav., in Enc. giur., vol. XXXIV, Roma, 1991, il quale ritiene che costituisca “una vera e propria petizione di principio” ritenere – come ha fatto autorevole ed antica dottrina (così S. Satta, (voce) Avvocato (ordinamento), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 653) – che l’opera intellettuale sia ex se incompatibile con il lavoro subordinato. Si deve ritenere (p. 4) che: “ogni professione intellettuale […] può essere oggetto di un rapporto di lavoro subordinato” Attualmente, l’ordinamento positivo contempla ipotesi di attività professionale svolta da dipendenti di enti pubblici (cfr. art 15 l. n. 70 del 1975 sul c. d. parastato; art. 36 d.P.R. n. 411 del 1976 e art. 35 d.P.R. n. 761 del 1979).
[60] In base all’art. 23, co. 4, l. n. 689 del 1981, l’autorità che ha emesso il provvedimento sanzionatorio applicativo delle sanzioni amministrative può stare in giudizio avvalendosi di funzionari appositamente delegati. Non è prescritto espressamente per il funzionario delegato in giudizio il possesso della laurea in giurisprudenza e dell’abilitazione forense.
[61] Ai sensi dell’art. 417 bis c. p. c., in primo grado nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti della p. a., le amministrazioni possono stare in giudizio avvalendosi di propri dipendenti. Non è prescritto espressamente per il funzionario delegato in giudizio il possesso della laurea in giurisprudenza e dell’abilitazione forense. L’art. 12 del d.lgs n. 165 del 2001 prevede la istituzione di appositi uffici per la gestione del contenzioso del lavoro. Sul punto, cfr. le osservazioni di F. Caringella, Giustizia amministrativa. Corso completo, Napoli, III ed., 2003, in part. p. 288, alla nota n. 3, il quale, con riferimento al contenzioso lavoristico, ben osserva che: “il personale amministrativo chiamato a rappresentare la P. A. dovrà essere dotato delle conoscenze giuridiche e delle capacità tecniche per stare in giudizio. Il processo giuslavoristico contempla una serie molto ampia di strumenti probatori ed è segnato dal continuo susseguirsi di decadenze e preclusioni. Per gestire una materia così delicata sarà necessario procedere all’interno dell’amministrazione ad una accurata selezione del personale. Certo i soggetti meglio indicati per tale attività resterebbero i laureati in giurisprudenza con esperienza forense”.
[62] In virtù dell’art. 11, co. 2, d.lgs n. 546 del 1992, l’ufficio del Ministero delle finanze nei cui confronti è proposto il ricorso sta in giudizio direttamente o mediante l’ufficio contenzioso della direzione regionale o compartimentale ad esso sovraordinato. Non è prescritto espressamente per il funzionario delegato in giudizio il possesso della laurea in giurisprudenza e dell’abilitazione forense.
[63] Ai sensi dell’art. 2 del r. d. 30 ottobre 1933 n. 1611, l’Avvocatura di Stato può delegare, per la rappresentanza delle amministrazioni dello Stato, per i giudizi che si svolgono fuori dalla sede degli uffici dell’Avvocatura erariale, funzionari dell’amministrazione interessata. Non è prescritto espressamente per il funzionario delegato in giudizio il possesso della laurea in giurisprudenza e dell’abilitazione forense.
[64] L’art. 3 del r. d. n. 1611 del 1933 stabilisce che innanzi alle Preture (ora Tribunali monocratici, ex d.lgs. n. 51 del 1998) ed agli uffici di conciliazione (ora Giudici di Pace, ex l. n. 374 del 1991) le Amministrazioni dello Stato possano, d’intesa dell’Avvocatura di Stato, essere rappresentate dai propri funzionari. Ulteriori ipotesi sono previste dall’art. 13 della legge di riforma dell’Avvocatura di Stato l. n. 103 del 1979. Anche in questi casi, non è prescritto espressamente per il funzionario delegato in giudizio il possesso della laurea in giurisprudenza e dell’abilitazione forense.
[65] Secondo l’art. 6, co. 4, del d.l. 15 novembre 1993 n. 453 convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994 n. 19, l’amministrazione interessata, ove non intenda avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura di Stato: “può farsi rappresentare in giudizio da un proprio dirigente o da un funzionario appositamente delegato”. Non è prescritto espressamente per il funzionario delegato in giudizio il possesso della laurea in giurisprudenza e dell’abilitazione forense.
[66] L’art. 21 del d.lgs 6 ottobre 2004 n. 251 così dispone: “I dirigenti, o i funzionari da essi delegati, delle Direzioni provinciali del lavoro, incaricati della rappresentanza nei giudizi di opposizione ai sensi degli articoli 22 e 23 della legge 24 novembre 1981 n. 689, rappresentano e difendono, nell’ambito delle attività istituzionali dell’Amministrazione e senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali nei giudizi di cui all’articolo 80 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
[67] Non necessariamente i funzionari della amministrazione pubblica dovranno poi essere iscritti nell’elenco speciale degli avvocati, con conseguente riconoscimento pieno dello status. Si vuole semplicemente dire che dovrebbe essere stabilito per legge che possano essere delegati a rappresentare l’amministrazione in giudizio esclusivamente funzionari abilitati (in possesso cioè della qualifica di funzionario legale, se non quella di funzionario avvocato) e non come oggi accade qualsiasi soggetto ad libitum scelto, anche privo di laurea. Sulla problematica, amplius, cfr. L. Ieva, L’attività ispettiva del Ministero del lavoro. L’Ufficio legale e contenzioso: profili de jure condendo, in Dir. & pratica del lavoro, n. 31, 2003, p. 2074 ss.
[68] Naturalmente, per ragioni di equità, in sede di prima applicazione, è necessario prevedere un regime transitorio che consenta ai funzionari laureati in giurisprudenza assegnati ad uffici legali e contenzioso delle amministrazioni dello Stato, da almeno dieci anni, di poter accedere all’esame di Stato abilitante, anche senza aver svolto la prescritta pratica legale.
[69] In base all’art. 12 (L’assistenza tecnica) del d.lgs 31 dicembre 1992 n. 546, sono abilitati all’assistenza tecnica, in via generale, davanti alle commissioni tributarie, oltreché gli avvocati, anche i dottori commercialisti, i ragionieri e i periti commerciali. Per alcune tipologie di controversie, sono addirittura abilitati alla assistenza tecnica: consulenti del lavoro, ingegneri, architetti, geometri, perirti edili, dottori in agraria, agronomi, periti agrari, etc.
[71] L’illecito amministrativo (-depenalizzato) non costituisce più una figura minore rispetto all’illecito penale. Più recentemente, al fine di dissuadere i contravventori dal commettere illeciti amministrativi, il legislatore prevede sanzioni pecuniarie di elevato ammontare, nella convinzione che l’imposizione del pagamento di somme di denaro di congrua entità svolga una efficacia sanzionatoria e general-preventiva maggiore di una sanzione detentiva, magari soggetta a sospensione condizionale. Vedi: C. E. Paliero – A. Travi, (voce) Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, p. 345 ss; M. Siniscalco, (voce) Depenalizzazione, in Enc. giur., vol. X, Roma, 1989; M. A. Sandulli, (voce) Sanzione. IV) Sanzioni amministrative, in Enc. giur., vol. XXVIII, Roma, 1992; E. Casetta, (voce) Illecito amministrativo, in Dig. disc. pubbl., vol. VIII, Torino 1993, p. 89 ss; P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, in S. Cassese (diretto da), Trattato di diritto amministrativo. Dir. amm. spec., tomo I, Milano, II ed., 2003, p. 579 ss.