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PASQUALE GIAMPIETRO
*
L’interpretazione “autentica” della nozione di
rifiuto
1. Le
ragioni di un’attesa.
La
rilevanza e l’attesa della pronuncia del giudice comunitario sulla conformità
dell’art. 14, della legge 178/2002 (di “interpretazione autentica della
definizione di rifiuto”), alla direttiva 75/442 Cee, come modificata dalla
direttiva 91/156, era avvertita, con molta trepidazione, non solo dagli
operatori del mercato del riutilizzo (dei residui produttivi e di consumo), ma
anche dal complesso delle amministrazioni centrali e locali, deputate a
“governare” il settore, e, più in generale, dagli studiosi della materia, tanto
intense e diffuse erano risultate le perplessità (quando non i sospetti) che
quel disposto aveva suscitato, fin dal suo primo apparire
[1].
La
Corte di giustizia, infatti, era chiamata,
per la prima volta,
a verificare direttamente la “legittimità comunitaria” della recente norma
italiana che, se formalmente adottata come atto “interpretativo” dell’art. 6,
del c.d. “decreto Ronchi“, per molti
[2]
sostanzialmente
restringeva,
in via definitoria, la portata e l’area di riferibilità della stessa, escludendo
- da tale nozione - quei residui, produttivi e di consumo, “effettivamente
riutilizzati” - non solo nello stesso ma anche in diverso ciclo produttivo o di
consumo - senza preventivo trattamento di recupero o con un trattamento minimale
che non incidesse e/o modificasse l’identità sostanziale (chimico-fisica e/o
merceologica), della sostanza, in assenza di pregiudizio all’ambiente.
Le
conclusioni cui perviene la sentenza 11 novembre 2004 (in causa C- 457/02),
parrebbero univoche e trancianti. Gli effetti che potrebbero derivarne sul
mercato delle c.d. “materie prime secondarie”, gravosissimi, come d’altronde è
stato tempestivamente segnalato da alcuni mezzi di stampa
[3].
In una
battuta, secondo la Corte di Giustizia, la nozione di rifiuto, ricavabile
dall’art. 1 della direttiva 75/442 cit., avrebbe un
contenuto specularmente
opposto
all’art. 14 della legge italiana, perché ricomprenderebbe tutti i casi di
esclusioni del comma 2 di quest’ultimo.
Il
dispositivo della sentenza in versione affermativa, anziché negativa (così come
è stato redatto: “la definizione dell’art. 1 non può essere interpretato nel
senso che…”), dichiara, perentoriamente, che sono rifiuti:
tutti i residui,
riutilizzati senza trattamento preventivo o con trattamento, non recuperatorio,
anche se non si arrechino danni all’ambiente.
2. Le
motivazioni della pronuncia: qualche equivoco e più di una “chiusura”
ingiustificata.
Si può
rilevare, in una prima riflessione d’insieme, che se le conclusioni della Corte
si presentano precise, nella loro formulazione, ed univoche, nei contenuti del
suo dictum
finale; non altrettanto perspicue ed appaganti mi appaiono le argomentazioni di
supporto offerte in motivazione.
Sono,
infatti, frutto di un equivoco, in cui sembra incorrere il giudice comunitario,
le considerazioni in base alle quali si rigetta “la prima questione” (punti
32/40 della motivazione) “contestandosi” al legislatore italiano di aver
subordinato (e circoscritto) la nozione di “disfarsi”,
costitutiva di quella di rifiuto,
ad una elencazione
tassativa di comportamenti e di sostanze,
come menzionati negli allegati II A e II B della direttiva, anziché adottare una
definizione aperta che andasse oltre le elencazioni esemplificative di detti
allegati.
Quando, infatti, il nostro parlamento (ratificando il governo) - per definire i
comportamenti (di smaltimento e recupero) e le sostanze o materiali che ne
costituiscono l’oggetto - rinvia, nell’art. 14, a detti allegati,
è pienamente avvertito
che essi contengono degli elenchi
non tassativi ma
esemplificativi.
Sarebbe bastato leggere, sul punto, gli allegati B e C del decreto Ronchi –
richiamati nell’art. 14 - ove si premette, in esordio, che “le operazioni di
smaltimento e recupero”, ivi riportate, sono elencate, non in modo rigido e
chiuso, ma “come
avvengono nella pratica”
cioè, per l’appunto, in forma aperta e con aggiornamento
in continuum!
[4]
Di
peso assai maggiore, per le conseguenze che ne deriveranno, e non per la forza
argomentativa che le sorregge, le ragioni con cui si perviene alla soluzione
della “seconda questione”, poste a base del dispositivo del “tutto è rifiuto”.
Qui la Corte si limita a
confermare il passato,
riassumendo nei punti 41-47 i principi innovativi e di grande potenzialità,
introdotti da una sua precedente decisione,
ma senza valorizzarli né
portarli ad ulteriore sviluppo.
In quella occasione (con diversa sezione ma identico relatore) si era arrivati
ad affermare che:
“Può
tuttavia ammettersi un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una
materia prima, derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non
è principalmente destinato a produrlo,
può costituire non un
residuo, bensì un sottoprodotto,
del quale l’impresa
non ha intenzione di
“disfarsi”,
ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa
intende sfruttare
o commercializzare
a
condizioni per lei favorevoli,
in un processo successivo,
senza operare
trasformazioni preliminari.
In
un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata
un ingombro
(?),
di cui il detentore cerchi di “disfarsi”, bensì un autentico prodotto” [5].
A tale
illuminata, anche se tardiva apertura, lo stesso Giudice comunitario aveva
posto, però, dei paletti, che, per un verso finivano
per “sterilizzare” quelle
affermazioni di principio,
e, per altro verso, non possono, in alcun modo, essere condivisi, sul piano
giuridico, della logica oltre che delle perniciose conseguenze economiche che ne
derivano (con riferimento ad un mercato che deve tendere a massimizzare il
riutilizzo del residuo rispetto al suo smaltimento).
2. 1.
Il riutilizzo da parte del solo produttore: un limite irragionevole.
Mi
spiego. Un primo limite, del tutto ingiustificato (ma ribadito nella
odierna decisione), è quello del
riutilizzo del residuo
produttivo
–
necessariamente -
all’interno e “nel corso del processo produttivo”.
A
parte l’approssimazione della previsione, perché mai “un sottoprodotto .. che
l’impresa intende
commercializzare
..
soggetto alla normativa applicabile
ai prodotti,”
non potrebbe essere
consegnato a terzi
(cioè
appunto “commercializzato”) perché sia “ effettivamente riutilizzato in ..
diverso ciclo produttivo” (come prevede l’art. 14, “senza recare
pregiudizio all’ambiente”)?
Secondo quale logica
detto
residuo viene qualificato, dal giudice comunitario, “sottoprodotto”, se
riutilizzato dal suo produttore, e “rifiuto” ove, nella sua oggettiva
identità…(chimica-fisica-merceologica), sia conferito a terzi ?
Si è
risposto (e motivato) sul punto richiamando “le finalità della direttiva.. di
tutela della salute umana e dell’ambiente” (v. punto 34). Ma, a parte la
eccessiva
genericità dell’argomento,
la sentenza, in esame, sembra non valorizzare il fatto che, nel suo precedente
“arresto” (decisione Granit Palin cit.), si legge, in senso contrario, che:
“Un’analisi del genere
non contrasta infatti con
le finalità della direttiva 75/442
in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di
quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero
dei rifiuti,
beni, materiali o materie prime che, dal punto di
vista economico, hanno
valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione,
e che, in quanto tali,
sono soggetti alla
normativa applicabile a tali prodotti”
(v.
punto 35).
2.2.
La provenienza obbligata della sostanza dall’attività di “fabbricazione ed
estrazione”.
Ancor
più sconcertante un secondo limite – quello della provenienza del residuo
- che sembra poter
derivare soltanto “da un processo di fabbricazione o di estrazione”
(punto
48), con la conseguenza, incontrollata e pesantissima,
di escludere dall’area dei
prodotti – in via pregiudiziale e di principio -
tutti
i residui derivanti dai processi di consumo
(come
dire, esemplificativamente, un veicolo usato ancora utilizzabile come tale,
venduto a terzi; abiti usati riutilizzabili, tal quali, o del mobilio usato, ma
non da riparare, da parte del destinatario, ecc.
[6])!
Sorge
il dubbio, quasi irrispettoso, che la seconda sezione della Corte, abbia
“imposto” tale incomprensibile limitazione, sol perché, assumendo come
precedente esemplare, la sentenza Palin Granit cit. (ove le affermazioni di
principio, ricordate, sono riferite, per l’appunto, “ai sottoprodotti della
fabbricazione e
della estrazione”),
l’abbia fatta propria mantenendosi all’interno di
quello stesso ambito di
materia
(che non ha voluto allargare..), confondendo l’ampiezza dei principi ivi
enucleati – sicuramente estensibili
anche ai residui di
consumo
– con
la ristrettezza o singolarità della fattispecie presa, all’epoca, in
considerazione.
2. 3
L’incomprensibile nozione di “disfarsi”.
Ma lo
“sbarramento” più cruciale - imposto al mercato del
riutilizzo diretto -
dal
giudice di Strasburgo si rintraccia nel punto della motivazione (n. 52) in cui
si ritiene che i produttori/detentori
si siano “disfatti” dei
rottami ferrosi
(“derivanti dalla demolizione di macchinari, automezzi, metalli scartati”)
nel momento in cui
li affidavano ad una ditta terza
(quella giudicata dal Tribunale di Terni) che,
dopo alcuni trattamenti minimali (per es. cernita, ecc.), li trasportava ad
impianti siderurgici per la loro diretta fusione.
Osservo, in proposito, che, ove si accolga, per le ragioni esposte, che il
“sottoprodotto” possa essere, in taluni casi, legittimamente “commercializzato”
(come indicato letteralmente dalla sentenza Palin Granit cit. retro) - e quindi
affidato a terzi - e si tenga per ferma la nozione di “disfarsi” - come
comprensiva delle attività di smaltimento e di recupero -
non vedo come possa
affermarsi,
nella presente vicenda, che
i produttori
del materiale metallico e/o
le imprese siderurgiche
che lo riutilizzavano “tal quale” (per ottenere “prodotti siderurgici”),
avessero compiuto - sul residuo produttivo - “operazioni
di recupero completo”
[7].
Nel
caso, infatti, come ricorda la Corte, era stata praticata “la cernita o taluni
trattamenti” che, ragionevolmente, devono essere considerati “preliminari o
minimali” (come, per es., la selezione, compattazione, trasformazione in
trucioli, ecc.[8])
in quanto lasciano
la sostanza con le sue stesse caratteristiche merceologiche
che essa già possedeva
[9]
In conclusione,
il passaggio del materiale ferroso, dal produttore all’utilizzatore, tramite la
ditta inquisita, e la sua utilizzazione effettiva, “tal quale”, cioè in
assenza di una attività di vero e proprio recupero (né da parte del produttore,
né da parte del trasportatore né da parte dell’utilizzatore finale) , esclude
il verificarsi – nella fattispecie descritta - di una attività
giuridicamente qualificabile come “disfarsi”.
Il
materiale in ingresso alle imprese siderurgiche, infatti, possedeva già le
caratteristiche del “sottoprodotto” (o della materia prima secondaria) che,
unitamente ad altre “materie prime vergini”[10],
entrava nel “processo di trasformazione” proprio del settore siderurgico.
Ed,
invero, se quel materiale cessa di essere rifiuto solo al momento di
trasformarsi “in prodotto finito” (come sostiene la Corte, a punto 52), quale
spazio (giuridico prima ancora che economico) sarebbe lascito alla
nozione “di materia prima
secondaria”
presente nell’ordinamento comunitario e nazionale con riferimento:
-
al
sottoprodotto riutilizzato “tal quale” (v. sentenza Palin Granit punti
34/35);:
-
al
prodotto ottenuto dalle attività di recupero, ai sensi dell’art. 3, p. 1,
lett. b), i), nonché dell’artt. 10 e 11, della direttiva 91/156 (in relazione al
“ recupero dei rifiuti mediante… ogni altra azione intesa ad ottenere
materie prime secondarie”;
v., per l’ordinamento interno, l’art. 3, del D.M. 5.2.1998 )?
3. La
decisione della Corte non è né definitiva
(irrevocabile) né di annullamento.
Ma, a
questo punto, tralasciando l’esame di altri profili della motivazione, che ci
porterebbero lontano per il loro eccessivo tecnicismo, mi sembra doveroso
tentare di fornire qualche immediata riposta alla ovvia e già montante domanda
sulle conseguenze
“pratiche”
di tale decisone. La quale, per attingere e riformulare
un criterio decisivo di
discrimine
fra
due settori, quali la gestione dei rifiuti e il mercato dei prodotti, coinvolge
necessariamente una vasta platea di soggetti interessati.
Intanto, occorre sgombrare il campo da qualche equivoco giuridico (ma di enorme
valenza psicologica e pratica) che sembra connotare alcune reazioni a caldo dei
primi commentatori i quali leggono, nella decisone, una affermazione giudiziale
definitiva
della nozione giuridica di rifiuto (e,
contrario sensu,
del non rifiuto) che porterebbe alla totale
rimozione
dell’art. 14.
Su
tali due profili occorre fare attenzione.
Se per definitiva,
si intende una pronuncia che proviene da un organo giurisdizionale cui compete,
in via esclusiva,
di dire l’ultima parola sul significato da dare alle fonti comunitarie (primarie
e derivate), l’attributo è corretto, in forza del principio dell’interpretazione
centralizzata
dell’ordinamento comunitario in capo alla Corte di giustizia, ex artt. 234 (già
177) del Trattato.
Se,
invece, si dà a quel termine, un connotato di
irrevocabilità
(una sorta di sentenza passata in giudicato, in senso sostanziale e formale, ex
art. 324 c.p.c. sulla nozione comunitaria di rifiuto) e, dunque, di soluzione
finale e conclusiva,
per il futuro, del problema, allora, l’appellativo è tecnicamente sbagliato.
Come è
noto, la sentenza
interpretativa
del giudice comunitario, ex artt. 234 cit. – a differenza di quella di
dichiarazione di invalidità di un atto comunitario, ex art. 231 (già 174), che
produce l’effetto definitivo della cosa giudicata - non esclude
la riproponibilità di un
ulteriore rinvio pregiudiziale sullo stesso tema
(della
nozione di rifiuto), da parte di qualsiasi altro soggetto legittimato (per es.
altro giudice nazionale, compreso il Tribunale di Terni), sulla base di nuovi
elementi e/o nuove prospettazioni ovvero, anche solo,
per chiedere chiarimenti
sulla pronuncia già resa [11],
con la possibilità di sollecitare un ripensamento della stessa Corte o,
comunque, una
correzione di tiro.
E’ poi
di dominio comune che il giudice comunitario, come quello nazionale…,
cambia spesso avviso, nel
tempo
o con
una…. diversa
formazione del collegio,
nella interpretazione della medesima norma (e il non lineare andamento della
giurisprudenza comunitaria proprio sulla nozione di rifiuto ne è un esempio
istruttivo oltre che calzante[12]).
Costituisce una affermazione giuridicamente impropria (salvo a considerarla una
semplice metafora giornalistica) quella secondo cui la sentenza, in questione,
abbia
definitivamente cancellato l’art. 14,
perché, all’opposto, detta norma è ancora vigente e cogente. Non perché
l’ordinamento italiano sia insensibile (o irrispettoso) dei giudizi della Corte
europea, quanto perché le pronunce
interpretative
di quest’ultima si limitano a definire il
contenuto del diritto comunitario
e non a dichiarare direttamente l’illegittimità di quello nazionale, per
implicita o espressa incompatibilità con il diritto comunitario (anche se tale
incompatibilità viene implicitamente o esplicitamente espressa dal tenore della
motivazione, come nel caso).
Il
compito di dichiarare l’illegittimità comunitaria e/o di annullare la norma
interna incompatibile, non compete, infatti, né alla Corte di giustizia né al
giudice nazionale. Il quale ultimo potrà, semmai, sollevare questione di
incostituzionalità dell’art. 14, per contrasto con l’ordinamento comunitario, ai
sensi dell’art. 11, della Costituzione, al fine di ottenere una pronuncia di
illegittimità della norma da parte della Corte costituzionale ovvero sospendere
il giudizio e inoltrare al giudice comunitario domanda di accertamento
pregiudiziale (come è stato già fatto [13]).
Spetta, infatti, solo al legislatore nazionale la funzione (sovrana) di
modificare la propria legislazione per conformarla all’ordinamento comunitario,
abrogando e/o a riscrivendo, nel caso, l’art. 14, in ottemperanza ai principi
posti dal giudice lussemburghese. Ma se ciò non farà, più o meno sollecitamente,
e per tutto il tempo in cui resterà “inadempiente”, l’art. 14 conserva la sua
efficacia e si impone
tanto al giudice ordinario
che alla pubblica amministrazione
[14].
E’
ovviamente fatta salva la facoltà della Commissione CE di assumere altre
iniziative a carico dell’Italia; ma anche se si pervenisse ad accertare, ex
artt. 228, comma 2, del Trattato, la sua inosservanza alla sentenza della Corte,
l’eventuale conclusione sfavorevole del procedimento, con sentenza dichiarativa
di inottemperanza alla precedente pronuncia, comporterebbe comunque il pagamento
di una somma pecuniaria o una penalità,
giammai la caducazione o
annullamento della norma nazionale incompatibile
(trattandosi di sentenza meramente dichiarativa e non esistendo la
possibilità di attuare
in forma coattiva
la pronuncia della Corte
[15]).
4.
Ultimi interrogativi.
Resta
da riferire, da ultimo, su qualche ulteriore, insidioso equivoco che si annida,
in particolare, nei seguenti interrogativi:
·
se
sussista, nel caso, un potere-dovere del giudice, come della pubblica
amministrazione, di “disapplicare” la norma nazionale che si ponga in antitesi
con la normativa comunitaria;
·
se
tale disapplicazione sia comunque consentita, anche in assenza delle condizioni
precedenti, in considerazione dell’efficacia vincolante ed
erga omnes,
della sentenza della Corte di Giustizia (nella specie di quella dell’11 novembre
scorso, e quindi a partire da tale data), la quale configurerebbe un sicuro e
buon motivo per disapplicare
di fatto o praticamente
l’art.
14;
·
se, a
seguito di tale disapplicazione, quanto meno per le condotte poste in essere in
un periodo anteriore all’entrata in vigore dell’art. 14, possa riaprirsi uno
spazio valutativo di loro (ripristinata) rilevanza penale, sanzionabile con
pronuncia di condanna.
4.1.
Non vi sono le condizioni per “disapplicare” l’art. 14.
Ebbene la prima prospettiva - di superamento della norma nazionale (in quanto
ritenuta incompatibile con il diritto comunitario) - benché reiteratamente
evocata, in più sedi e con qualche eccessiva disinvoltura, si presenta corretta
e percorribile, solo ove venga riferita al contrasto fra
una norma nazionale ed una
norma comunitaria
che
abbia efficacia diretta
negli ordinamenti giuridici interni,
senza necessità di alcuna trasposizione da parte del legislatore nazionale (cioè
quando essa sia, per sua forza, autoapplicative o
self-executing:
ciò vale, come è noto, per alcune norme del Trattato, per es. sulla libera
circolazione delle persone e delle merci; per i regolamenti comunitari, che
disciplinano direttamente alcune fattispecie, senza che occorre alcun
provvedimento ulteriore; per alcuni tipi di direttive, “precise e non
condizionate”, per la loro applicazione, ad alcun intervento delle autorità
nazionali [16];
per le decisioni, rivolte ai singoli o agli stati membri).
La
stessa tesi risulta, invece,
giuridicamente fallace
se riferita alle c.d. direttive “classiche”, come quelle disciplinanti la
gestione dei rifiuti citt. (trasposte dal decreto Ronchi), che non sono
certamente autoapplicative, per insegnamento espresso e costante dello stesso
giudice comunitario
[17].
Ne
segue che l’art. 1, della direttiva 91/156, sulla nozione di rifiuto,
non può trovare diretta
applicazione
nell’ordinamento interno - ad opera del giudice o della pubblica
amministrazione -
previa disapplicazione
della
norma interna con essa confliggente (appunto l’art. 14, alla luce della
motivazione della Corte U.E).
Ciò va
ribadito e riferito sia all’ambito propriamente amministrativo sia, ed a maggior
ragione, in sede di giurisdizione penale (e, prima ancora, di attività di
polizia amministrativa o giudiziaria), tanto più che tale, diretta applicazione
del precetto comunitario (art. 1, direttiva citt.) verrebbe attuata non per
affermare e/o assicurare al cittadino (o ad altro soggetto giuridico dello Stato
membro) una
posizione sostanziale attiva e/o di vantaggio,
ma, all’opposto, per creare, a suo carico,
una posizione di obbligo,
soggezione o addirittura di responsabilità penale
(oggetto o meno di una pronuncia di condanna[18]),
in aperto conflitto con un principio fondante di quello stesso ordinamento
dell’U.E. che si vorrebbe fa rispettare ed applicare.
4.2.
.. né per la diretta ed immediata applicabilità della sentenza 11 novembre 2004.
Quanto al richiamo all’efficacia
diretta e vincolante
delle
sentenza del giudice dell’U.E. – nella specie, della pronuncia dell’11 novembre
scorso – l’ipotesi prospettata da alcuni, con la formula, purtroppo ricorrente,
di una loro applicazione immediata e doverosa da parte degli organi dello Stato
membro (ancora una volta giudici e pubblica amministrazione), racchiude un
insidioso equivoco.
In
caso di rinvio pregiudiziale di interpretazione (non di validità o invalidità
delle norme comunitarie), è bensì vero che la Corte finisce altresì con il
verificare la legittimità comunitaria di una legge nazionale o di una attività o
anche solo di una prassi amministrativa. Ma, come si rilevava più sopra, l’esito
del suo giudizio se, per un verso,
fornisce l’esatto
significato della norma comunitaria,
per altro verso, si limita a dichiarare che tale sua interpretazione
”osta (o non osta) ad una
applicazione della norma nazionale (con contenuto compatibile o incompatibile”),
senza
peraltro pervenire, in caso di incompatibilità, ad una dichiarazione di
illegittimità di quest’ultima né a un suo annullamento (cui gli organi dello
Stato debbano dare esecuzione [19]).
La
sentenza di accertamento pregiudiziale (che non è di annullamento, costitutiva o
di condanna) si limita dunque a individuare la portata e il contenuto della
norma; determina il significato delle proposizioni prescrittive e/o
definitorie contenute e/o desumibili dal testo del precetto[20]
(nel caso: “la nozione di rifiuto, ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma,
della direttiva 75/442, come modificata della direttiva n. 91/156”, come si
legge nel dispositivo), non solo in modo (genericamente) autorevole, ma in
forma esclusiva e vincolante. Ma in che senso?
4.2.1.
La sentenza interpretativa come precedente “vincolante”.
Del
significato del termine
esclusivo,
si è detto sopra, con riferimento alla competenza riservata alla Corte,
ex art. 234 Trattato. Quanto all’effetto “vincolante”, esso va inteso nel
senso che la sentenza certamente
vincola il giudice
rimettente,
che ha sollevato la questione, ma non, per es., sul piano giuridico-formale, gli
altri giudici
[21], anche se è ragionevole considerare che, nella più parte
dei casi, la Corte tiene conto e si conforma a quanto stabilito in precedenza.
Si
aggiunga, nel merito, che avendo quel Collegio la funzione istituzionale di
assicurare l’interpretazione uniforme ed esclusiva delle norme comunitarie,
dette norme
assumono normalmente, nel tempo
[22],
il significato e la portata che viene loro attribuita dalle sentenze
interpretative della stessa Corte.
Il
contenuto precettivo e/o definitorio della norma e il suo ambito di operatività
sono dunque quelli e solo quelli fissati,
di volta in volta,
dalle sue pronunce. E, dal momento che le norme comunitarie hanno efficacia,
in diversa misura, negli ordinamenti interni degli Stati membri (diretta o
indiretta, in base a complessi meccanismi che derivano dalla loro fonte di
produzione e/o contenuto) [23],
si può dire, del tutto correttamente, che
le sentenze che
individuano e fissano tali contenuti delle norme rivestono logicamente la loro
stessa efficacia.
Come
osservava un geniale processualista-scrittore “.. è il giudice che fa la norma
assai più di quanto la norma non faccia il giudice” [24].
Intendeva dire, sempre in linguaggio poeticamente metaforico, che “… poiché
l’ordinamento” (nel caso comunitario) “non ha per se stesso una voce, bisogna
che egli esprima dal suo seno chi parli per lui, sia un vero “altro da sé”.
Costui è il giudice”
[25].
Parafrasando il suggestivo messaggio, può dunque affermarsi che le norme
comunitarie “dicono” (o dettano)
quello e solo quello che
il giudice comunitario “legge in esse”.
Ma, tanto ammesso, vanno aggiunte due importatati specificazioni:
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n. 12/2004 - ©
copyright
secondo la Corte di Giustizia: portata ed effetti![]()
-
il fatto di conferire ad una norma, in via ermeneutica, un determinato contenuto, più ampio o più restrittivo (come quello assegnato all’art. 1, della direttiva 75/442 cit.), non significa però mutarne la natura e quindi l’efficacia (a seconda dei casi: di norma costituzionale, regolamentare, di direttiva ecc.).In altri termini:
- l’accertamento giurisdizionale non è in grado di incidere sulla efficacia (diretta o indiretta rispetto agli ordinamenti interni) del precetto interpretato la quale dipende dalla fonte di produzione normativa che lo ha generato: trattato, regolamento, direttiva, ecc. (ovviamente fatto salva l’ipotesi, per es., di una direttiva, già considerata “classica”, non self executing, che venga, successivamente, ritenuta autoapplicativa, come un regolamento: ma non è il nostro caso [26]).
4.2.2. Mutamenti di giurisprudenza della Corte U.E. ed effetti della sentenza a seconda della efficacia della norma comunitaria interpretata.
In questo specifico senso, già da tempo ed in modo esemplare per la sua chiarezza, la Corte Costituzionale italiana ha avuto modo di chiarire che: “ .. qualsiasi sentenza, che applica e/o interpreta una norma comunitaria, ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative.”
“Quando questo principio viene riferito ad una norma comunitaria avente “effetti diretti”…non vi è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate” [27].
Anche la dottrina più autorevole si allinea a questa corretta ricostruzione della vicenda – sull’efficacia “vincolante” delle sentenze del giudice comunitario e sul dovere di dare loro applicazione negli ordinamenti interni (dai giudici e/o dalla p.a.) - quando interpreta e ribadisce il pensiero dell’organo costituzionale in questi termini: “…L’interpretazione della norma comunitaria, compiuta attraverso una sentenza della Corte di giustizia ….. ha la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate; in altri termini, si impone al giudice la non applicazione della norma interna confliggente e l’applicazione della norma comunitaria provvista di effetto diretto, così come interpretata dalla Corte di giustizia” [28] (non è, evidentemente, il caso delle direttive 75/442 e 91/156 che non sono “norme provviste di efficacia diretta negli ordinamenti interni, per quanto ripetuto!).
In base alle considerazione che precedono, può conclusivamente affermarsi che il giudice italiano e la pubblica amministrazione, ove assegnassero alla nozione di rifiuto il significato più ristretto che le ha conferito la Corte di giustizia, non darebbero “applicazione o esecuzione alla sentenza dell’11 novembre 2004, “in quanto vincolante”, ma farebbero diretta applicazione della norma comunitaria (art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva, come interpretata, in modo vincolante, dalla Corte [29]) la quale (norma), peraltro, come assodato e ripetuto dal giudice lussemburghese, non è “provvista di effetto diretto” all’interno degli ordinamenti nazionali[30].
La indebita applicazione immediata dell’art. 1, comma 1, lett. a), cit., presuppone logicamente e giuridicamente, la previa, illegittima disapplicazione dell’art 14, norma ancora vigente e vincolante, anche se incompatibile con la direttiva cit. [31].
4.3. I (presunti) supporti giurisprudenziali delle tesi contrarie.
Merita peraltro osservare che noti esperti della materia, di matrice schiettamente penalistica, esplorando gli incerti confini e gli articolati “rapporti tra normativa comunitaria e normativa interna”, hanno approntato un catalogo di principi, soprattutto diretto agli operatori amministrativi (della vigilanza e controllo), ma anche ai magistrati, contenente, fra l’altro i due seguenti canoni:
“1) Non applicabilità da parte dei funzionari e giudici italiani della normativa nazionale contrastante con quella comunitaria”;
2) L’osservanza del principio della immediata e diretta applicabilità (del diritto comunitario con efficacia diretta: nota dello scrivente) vale anche per le sentenze interpretative della Corte europea di giustizia” [32].
Dopo quanto detto sinora, le due regole giuridiche, appena elencate, non possono essere accolte in senso assoluto, ma solo a certe condizioni. Di fatto, i tanti destinatari del messaggio sopra riportato, lo hanno assunto in “blocco”, nella prassi amministrativa e, in parte, in quella giudiziaria, senza troppo sottilizzare sui presupposti di validità dei due precetti e, soprattutto, senza esaminare, come sarebbe stato consigliabile, i dati giurisprudenziali citati a conforto di quelle “massime”.
Così, sub 1), si è già evidenziato che la regola dell’applicazione diretta della normativa comunitaria, previa disapplicazione di quella interna, può valere solo ove il precetto comunitario rivesta efficacia diretta e perciò sia di rango costituzionale (Trattato) o derivato (regolamento e direttive autoapplicative). Non dunque per le direttive sui rifiuti (75/442 e 91/156) che non sono incondizionate e non assicurano direttamente posizioni di vantaggio ai cittadini. Ed appunto questo dicono le decisioni della Corte costituzionale, della Corte di giustizia e del Consiglio di Stato, citate dai menzionati esperti nelle loro note[33] (ma per sostenere l’esatto contrario….).
Chiarito il primo punto, si risolve, automaticamente anche quello successivo, sub 2).
Come dovrebbe essere, ormai, chiaro, con la formula ellittica (dell’obbligo) della “immediata e diretta applicabilità delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia”, si deve intendere il dovere (del giudice nazionale o della p.a.) di dare applicazione alle norme comunitarie (non alle sentenze) secondo il significato e la portata che ha attribuito loro il giudice lussemburghese, in sede di accertamento pregiudiziale (nell’esercizio di una potestà esclusiva), previa disapplicazione della norma interna incompatibile.
E’ dunque sempre la norma comunitaria ad essere applicata [34] - nell’interpretazione datane dalla Corte – non la sentenza di accertamento di quest’ultima.
Ciò comporta una fondamentale condizione: che per disapplicare la norma interna e dare applicazione a quella dell’ordinamento comunitario (con il contenuto“autoritariamente” datogli dalla Corte) è giuridicamente necessario che quest’ultima norma abbia efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri (e tale efficacia non rivestono le due direttive citt. sulla gestione dei rifiuti).
Resta, da ultimo, assodato che le sentenze interpretative adottate dalla Corte, ai sensi dell’art. 234 (già 177), non sono né irrevocabili (non passano in giudicato) né vincolanti, nei loro contenuti, per lo stesso giudice che le ha emesse (il quale potrebbe cambiare avviso: basti pensare alla sentenza sul pet-coke).
Né, comunque e sempre, retroattive, pur avendo natura dichiarativa (potendo il giudicante porre un limite cronologico alla retroattività della sua decisione: v. retro).
4.4. La inutilizzabilità della pronuncia comunitaria da parte del Tribunale di Terni, ai fini di un giudizio di colpevolezza.
Resta da dire in ordine alla terza questione, affrontata in sentenza, relativa alla utilità o “utilizzabilità” della pronuncia resa in sede pregiudiziale, da parte del giudice penale rimettente.
Sul punto la Corte, nel superare positivamente la questione pregiudiziale della “ricevibilità” della domanda del tribunale di Terni (punti 24/29), sottolinea, da ultimo, che “.. nella fattispecie è pacifico che, all’epoca dei fatti, che hanno dato luogo al procedimento penale, .. tali fatti potevano, se del caso, integrare gli estremi delle infrazioni sanzionate penalmente. Ciò considerato, non vi è motivo di considerare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio di legalità delle pene per l’applicazione della direttiva 75/42” (citando, sul punto, un suo precedente: sentenza 25 giugno 1997, Tombesi cit.).
La risposta risulta, a prima lettura, tanto ellittica quanto sibillina. Dispiace che la Corte non si sia attardata sulla questione per fornirne qualche approfondimento. Soprattutto perché, a parere della Commissione (che condivido pienamente), pur essendo la domanda ammissibile, la soluzione delle questioni pregiudiziali poste non aveva comunque alcuna utilità, ai fini della decisione del giudice nazionale.
Ciò perché, come essa argomenta nelle sue osservazioni scritte, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, “una direttiva non può avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro, adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni” [35]
Aggiungasi che la Corte (punto 30) richiama, con fini di motivazione, la sentenza Tombesi cit. (punto 43 di quest’ultima) che, per un verso, non risulta “del tutto chiara in tal senso” (secondo le stesse conclusioni scritte dell’Avvocato generale, Juliane Kokott; v. nota 9) e, per altro verso, considera una fattispecie in cui il “le conseguenze che potrebbero derivare dal principio di legalità delle pene” - nella successione fra DPR. n. 915/82, in cui si erano svolti i fatti e i successivi decreti legge, in deroga alla legge e incompatibili con l’ordinamento comunitario, sul riutilizzo dei residui derivanti dai cicli di produzione e consumo – sono riferite “all’applicazione del regolamento n. 259/93” (immediatamente applicabile) e non ad una direttiva.
Né tale impedimento istituzionale (di applicazione della direttiva sui rifiuti dal giudice nazionale e in malam partem [36]) potrebbe essere correttamente risolto nei termini suggeriti dall’Avvocato generale la quale, nelle sue conclusioni scritte, ha evidenziato che, all’epoca dei fatti, anteriori all’approvazione dell’art. 14, i rottami ferrosi dovevano essere qualificati “rifiuti” (e dunque soggetti al regime autorizzatorio cui si era sottratto l’imputato) e che il giudice, a ben vedere, non era chiamato ad applicare la direttiva come se definisse direttamente una fattispecie di reato ( ipotesi del tutto inammissibile).
“Nella fattispecie, osserva l’Avvocato generale, “il ricorso alla direttiva porterebbe solamente alla disapplicazione di una disposizione” (l’art. 14; nota dello scrivente) “che esclude la responsabilità penale, con la conseguenza che torna nuovamente in essere, la responsabilità penale esistente in virtù della normativa nazionale generale” (par di capire, in base all’art. 6, comma 1, lett. a).
La tesi non convince affatto. Per poter disapplicare una norma dell’ordinamento interno – rispetto ad una fattispecie concreta che essa disciplina in modo diretto o indiretto (nella specie: l’art. 14, che dà una nozione restrittiva di rifiuto), il giudice (o la P.A.) deve comunque far “ricorso” cioè deve pur sempre dare applicazione, in sua vece (dell’art. 14), ad una norma dell’ordinamento comunitario riferibile ed applicabile alla stessa fattispecie concreta (nel caso: l’art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva cit., che contempla una nozione più ampia di rifiuto).
Quindi, anche a ritenere che, nella presente vicenda, la norma comunitaria non definisca il reato ma un suo presupposto, come la nozione di rifiuto (o meglio: alcuni elementi normativi e/o fattuali della fattispecie incriminatrice configurata, nella legge italiana, secondo il modello della norma penale in bianco, ai sensi dell’art. 51), la disapplicazione della norma interna (art. 14) costituisce, pur sempre, l’effetto logico-giuridico - diretto, consequenziale ed inscindibile - della contestuale applicazione della norma comunitaria, ai fini penali (vietata dalla giurisprudenza comunitaria [37]).
Ebbene, come si ricordava più sopra, la Corte dell’U.E. non riconosce tale efficacia immediata, negli ordinamenti interni, alla direttiva sui rifiuti (e dunque non autorizza la sua applicazione, anche solo per disapplicare la norma interna e far rivivere quella precedente, tanto più se l’operazione è effettuata a fini di persecuzione penale).
In più lineari termini: benché il giudice italiano sia pienamente convinto che la nozione di rifiuto, posta dalla direttiva e come identificata dal giudice comunitario, sia quella “corretta” [38], esso rimane vincolato dalla norma nazionale (l’art. 14, ancorché incompatibile con il diritto comunitario, come accertato dal giudice dell’U.E), fino a quando non venga cancellata (abrogata, annullata) ovvero cambiata e resa compatibile dal parlamento nazionale.
Non rientra, infatti, nei suoi poteri-doveri istituzionali, dare applicazione diretta, nell’ordinamento interno, alla direttiva “non auto-applicativa” la quale, si ripete, incide nell’ordinamento interno solo se trasposta[39].
Ove si accedesse, poi, alla tesi adombrata dall’Avvocato generale, di un diverso regime penale fra fatti anteriori all’adozione dell’art. 14 (come nel caso pendente presso il Tribunale di Terni), da considerare illeciti penali e fatti successivi (i quali non sarebbero configurabili come reato in quanto, per essi, non scatterebbe il meccanismo della disapplicazione dell’art. 14, con automatica reviviscenza dell’art. 6 cit.), si creerebbe una situazione sociale, giuridica e di mercato talmente paradossale e insostenibile da rendere del tutto insignificanti le pur serie obiezioni giuridiche che potrebbero sollevarsi alla (astrusa) prospettazione accusatoria per il suo palese, insanabile contrasto:
- con il principio fondamentale dell’ordinamento interno circa la prevalenza, in favore dell’imputato, della “legge più favorevole, emanata successivamente” [40], ai sensi e per l’effetto di cui all’art. 2, comma 2 codice penale, oltre che:
- con la norma costituzionale che impone, nell’applicazione di una legge, il rispetto del principio di uguaglianza fra cittadini (art. 3), in ordine a comportamenti identici [41].
5. Conclusioni.
La varietà e complessità delle tematiche affrontate rendono ardua una qualsiasi, anche se temporanea, conclusione. Ma un dato è certo: la difficoltà di una corretta individuazione dei rapporti fra Stati (sempre meno sovrani) e ordinamento comunitario, come il graduale passaggio verso forme più spinte di integrazione, non tollera – né giustifica – la rappresentazione di quei rapporti con valutazioni semplificate, quando non semplicistiche, espresse, talvolta, con generici slogan.
Sul piano sostanziale e di merito, non può negarsi che il meccanismo procedimentale e sostanziale per arrivare ad individuare una nozione affidabile di ciò che è rifiuto e di quel che non lo è (sottoprodotto o materia prima secondaria), si presenta ancora troppo laborioso, anche con il meccanismo della sollecitazione, in sede giudiziale, delle sentenze di accertamento pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, tutt’altro che coerenti e definitive.
Il problema definitorio di tale nozione resta ancora seriamente problematico, nel mondo del diritto (molto meno per il mercato, che ha idee assai più chiare in proposito), anche perché il contributo offerto dalla sentenza dell’11 novembre 2004, sembra abbastanza modesto e immotivatamente restrittivo, per le riflessione svolte.
Con un criterio così severo, onnicomprensivo ed incerto, non potremmo certo mirare - seriamente - ad incrementare il mercato del riutilizzo diretto dei sottoprodotti (o, con altra espressione, dei residui produttivi e di consumo, utilizzati tal quali) ove ci si irrigidisca, senza serie ragioni, a ridurre tale importante settore, ai soli, sporadici casi di recupero all’interno “e nel corso del processo di produzione” [42] (tanto più quando si giustifichi, espressamente, l’interesse ad un possibile “sfruttamento e commercializzazione del sottoprodotto” e lo si ritenga, incoerentemente, “non contrastante con le finalità della direttiva”!)
In senso ancor più generale va certamente riconosciuto che l’art. 14 ha suscitato molte reazioni avverse, anche perché, malgrado le buone intenzioni, è stato scritto in modo precario e, in più passi, con espressioni inintelligibili (basti vedere le incomprensioni che ha suscitato nella Commissione U.E. e nella Corte di giustizia).
Ma è altrettanto sicuro che una soluzione normativa del problema, solo italiana (per es. di riscrittura dell’art. 14), non sembra possa sortire grandi esiti se non si modifica, in sede comunitaria, l’atteggiamento politico, culturale e tecnico (comune e condiviso) sull’intero fenomeno (per es., con riferimento alla vicenda trattata, predisponendo delle “specifiche tecniche comunitarie” alla cui stregua “caratterizzare” il residuo produttivo, per consentirgli di essere utilizzato tal quale, salvo trattamenti minimali, al di fuori dall’area del rifiuto).
Ciò che non può essere accolto, invece, da parte di tutti, mi sembra essere proprio il sistema attualmente vigente in cui, nella genericità della definizione sostanziale del rifiuto, di cui all'art. 1, lett. a) della direttiva cit., e nella carenza normativa di univoci elementi costitutivi di quest'ultimo, i criteri di identificazione di tale complessa figura restano affidati, in ultima istanza, alla sede giurisdizionale: Corte di giustizia e giudici nazionali.
Non sarà sfuggito, infatti, che questi ultimi, sono divenuti i destinatari naturali della stessa Corte, che, di volta in volta, suggerisce loro, con riferimento alle singole fattispecie, gli elementi indiziari su cui individuare tale nozione, sulla scorta di complessi, articolati e, spesso, astrusi …. criteri di individuazione.
Le istituzioni comunitarie e nazionali degli Stati membri, gli operatori pubblici e privati, ma, soprattutto il mercato dell'U.E. [43], non può supinamente ratificare né rassegnarsi a questo precario stato di fatto (e di conseguente stallo), perché, si ribadisce, il conoscere, in anticipo, cos'è “rifiuto” e cosa “sottoprodotto” non può derivare, in via istituzionale (o fisiologica), dalla contingente e spesso divaricata "pronuncia" dei giudici di 25 ordinamenti sovrani …, anziché, direttamente, e in prima battuta, da una descrizione, chiara ed univoca, di una norma comunitaria (corredata da specifiche tecniche).
Un corretto funzionamento del mercato unico non sopporterebbe, oltre una certa misura, le accertate distorsioni economiche e di concorrenza fra Stati, connesse ad una casistica giurisprudenziale in continua evoluzione, secondo un meccanismo che non può né deve risolversi nella sola fase "patologica" del processo [44] (sia esso di accertamento pregiudiziale sia, ancor peggio, di condanna penale). Cioè all’esito … di procedimenti defatiganti, costosi ed estremamente aleatori nei risultati (non solo in Italia ma anche all’estero, ove si guardi all’epoca ed alla sorte delle questioni sollevate davanti al giudice comunitario…).
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(·) Già Consigliere di Cassazione - Docente universitario - Fondatore e codirettore di “AMBIENTE” Ipsoa (Mi).
[1] Analogo panorama poteva riscontrarsi nei primi orientamenti della magistratura ordinaria e amministrativa che però, dopo una prima fase di sbandamento, si è andata orientando verso un atteggiamento di accettazione e valorizzazione della portata innovativa della norma. Sul punto, mi permetto di rinviare a P. Giampietro, Proposte ricostruttivo della “nozione autentica” di rifiuto, ex art. 14, l. 178/2002, in Riv. Giur. dell’ambiente, n. 2/2004, pag. 233 e ss., con richiami aggiornati di dottrina e giurisprudenza. Sulla sentenza della Corte di giustizia dell’11 novembre scorso, si vedano le sintetiche ma lucide osservazioni di P. Ficco, La Corte Ue: rifiuti i residui riutilizzabili”, ne “Il Sole 24 Ore” dell’12 novembre, pag. 23, le cui conclusioni meritano, come risulterà in prosieguo, attenta riflessione. Si ricorda, preliminarmente, che la domanda di “pronuncia pregiudiziale”, avanzata nel 2002, dal Tribunale di Terni, riguardava un caso significativo di trasporto, senza autorizzazione e senza formulari, di rottami ferrosi: parte di macchinari, lamiere, tubi, travi, ecc. (in quanto ritenuti dal detentore materia prima secondaria e, dunque, non rifiuto).
[2] In tal senso, v., esplicitamente e perspicuamente, Cass. pen. Sez. III, 13 dicembre 2002, ric. Passerotti, in Foro it. 2003, II, 116. A mio avviso tale prospettiva poteva essere superata dando all’art. 14 una lettura “conforme ai principi comunitari” – cui il legislatore si era sostanzialmente attenuto - per le ragioni esposte nella nota “Proposte ricostruttive cit.”, previo superamento delle tante improprietà lessicale che connotano il testo della norma.
[3] Mi riferisco, in specie, all’articolo citato a nota 1.
[4] Per una più ampia dimostrazione dell’assunto, rimando a P. Giampietro, “Interpretazione autentica della nozione di rifiuto: controdeduzioni ai rilievi della Commissione CE, in Ambiente, n. 2/2003, pag. 105.
[5] Trattasi della nota sentenza della Corte di Giustizia del 18.4.2002, Palin Granit, punti 34, 35 e 37 della motivazione.
[6] Per dare degli esempi concreti tratti da G. Amendola, I rifiuti, normativa italiana e comunitaria, Milano, 1998, pag. 296, che cita tali casi, di residui di beni di consumo, per asserire la loro sicura non riconducibilità ad una nozione interna e comunitaria, di rifiuto.
[7] Nel senso specificato da Corte di Giustizia, 15 giugno 2000, Arco, punto 94, cioè di operazioni che fanno acquistare al residuo “le stesse proprietà e caratteristiche della materia prima” - che esso non possedeva – contrapposte ai trattamenti preliminari, che non sortiscono tale effetto, lasciando il residuo nel suo stesso stato.
[8] Per la distinzione fra operazioni di recupero complete e trattamenti preliminari, si rimanda a P. Giampietro, Nuove contestazioni comunitarie sulla nozione autentica di rifiuto, in Ambiente, n. 1/2004, pag. 20, par. 10. Proprio con riferimento all’art. 14, cfr. G. Amendola, in Gestione dei rifiuti e normativa penale, 2003, pag. 120, il quale distingue nettamente il trattamento recuperatorio dal trattamento “minimo” in questi termini: “Deve ritenersi, cioè, che non siano da considerare rifiuti, solo quei residui di cui sia fornita dall’interessato la prova certa di un diretto, totale ed immediato reimpiego, senza necessità di alcun trattamento preventivo ovvero con un trattamento preventivo minimo ma tale da non sfociare in nessuna delle operazioni classificate dall’allegato C, come recupero e dell’allegato B, come smaltimento”. Confesso, comunque, di non riuscire ad intendere perché tale residuo, riutilizzabile tal quale, in quanto già in possesso delle caratteristiche del “sottoprodotto commercializzabile” sia merce all’interno dell’insediamento del suo produttore e divenga rifiuto se consegnato a terzi, per il suo impiego diretto, “senza recare pregiudizio all’ambiente”…. Tanto più che lo stesso A. op. cit. pag. 120, nota 37, mostra di essere convinto della bontà della tesi sostenuta dal governo olandese, nel procedimento che ha portato alla sentenza Tombesi del 25 giungo 1997, per il quale non sono rifiuti i residui di gusci d’uovo prodotti da una impresa che li cedeva, direttamente, ad altra impresa perché venissero riutilizzati, da parte di quest’ultima, tal quali, per produrre fertilizzanti. Si provi a sostituire i gusci d’uovo con i residui di materiale ferroso che, prodotti da una ditta, senza operazioni di recupero complete (ma eventualmente con trattamenti minimi) siano ceduti a imprese del settore siderurgico (ovviamente previo trasporto) per essere riutilizzati, tal quali, in un diverso ciclo produttivo (analogamente ai gusci che, venivano impiegati da soggetti diversi dai produttori, nel distinto settore della produzione dei fertilizzanti).
[9] Si veda, per questa nomenclatura e argomentazione logica, la sentenza Arco, cit. punto 93.
[10] Nella lingua inglese la distinzione è espressa con i termini: primary raw material e secondary raw material.
[11] V. Corte di giustizia, sentenza 24 giungo 1969, Milchkontor; e, più di recente, sentenza 1 febbraio 1996, Postuma – Van Damme. In dottrina, G. Tesauro, Diritto comunitario, 2003, pag. 323.
[12] Basti pensare alle rigide “chiusure” della sentenza Tombesi del 25 giungo 1997, seguite dalle importanti aperture” delle pronunce Arco e Granit Palin Oy , del 2002, cit. per arrivare alle sostanziali “innovazioni” della decisione della sez. III, 15 gennaio 2004, causa CX- 235/02 sulla esclusione della nozione di rifiuto con riferimento al coke da petrolio, in Foro it, 2004, IV, 150 , con densa nota redazionale di V. Paone. Per una ricostruzione critica della complessa vicenda, mi sia consentito rimandare a P. Giampietro, Nuove contestazioni comunitarie, 2004, cit. nonché, in diversa prospettiva, di sostanziale adesione al pensiero della Corte, a G. Amendola, Gestione dei rifiuti, citt., salvo il caso in cui lo stesso giudice si apra a letture meno burocratiche ed innovative come nella pronuncia sul pet coke, da ultimo richiamata, oggetto di dura critica dello stesso Autore, in Foro it. ult. cit.
[13] In tal senso, cfr. Cass. pen. Sez. III, 20 gennaio 2003 (ud. 13.12.2002) rel. Onorato, ric. Passerotti. Di tale profilo specifico mi sono occupato in “ La nozione autentica di rifiuto: dalla incostituzionalità della legge alla sua disapplicazione, in Ambiente, n. 12/2002, pag. 1133.
[14] Si rimanda, su tale specifico punto, a Cass. pen. sez. III, 13 novembre 2002, ric. Passerotti, cit. che, proprio con riferimento all’art. 14 , ha modo di precisare, che esso non può essere disapplicato dal giudice in quanto vincolante, in questi termini: “.. comunque, la nuova norma, benché modificativa della nozione di rifiuto, dettata dall’art. 6, lett. a) D.L.vo 22/1997, è vincolante per il giudice, in quanto introdotta con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente. Inoltre, benché modificativa anche della nozione di rifiuto dettata dall’art. 1 della direttiva europea 91/156/CEE (letteralmente trasposta nel citato art. 6 D.L.vo 22/1997), essa resta vincolante per il giudice italiano, posto che tale direttiva non è autoapplicative (self executing). E’ indiscutibile infatti che essa costituisce obblighi per gli Stati della Comunità (Unione) Europea e non direttamente situazioni giuridiche attive o passive per i soggetti intrastatali, sicché ha necessità di essere (fedelmente) recepita dagli ordinamenti nazionali per diventare efficace verso questi ultimi. Il contrasto con la direttiva europea, semmai, può costituire oggetto di intervento della Commissione, che può aprire una “procedura di infrazione” contro lo Stato italiano, sino ad adire la Corte di Giustizia, nel caso in cui lo Stato non si adegui al parere motivato della stessa Commissione, ai sensi dell’art. 226 (già 169) del trattato di Roma”. Con tale pronuncia si sono disattese implicitamente tanto le tesi di applicazione diretta della nozione di rifiuto, contenuta nel regolamento comunitario 93/259 (prospettate, per la prima volta, dalla sentenza Tombesi cit. e valorizzate, successivamente, dal G.I.P. del Tribunale di Udine, il 14/16 ottobre 2002: v. oltre nota 17) sia il suggerimento, peraltro inaccoglibile, di una partire della dottrina, di dare applicazione diretta alle sentenza della Corte di giustizia sulla nozione di rifiuto, come esaminato, infra, nel testo.
[15] Cfr. G. Tesauro, op. cit. 2003, pag. 281 e ss.
[16] Come è stato notato dalla dottrina più accorta, l’effetto diretto della direttiva non è tanto legato al fatto che essa sia dettagliata o particolareggiata quanto alla circostanza che la norma contenuta nella direttiva non sia condizionata, per la sua applicazione, ad alcun atto dell’autorità nazionale. Tanto è vero che, anche le disposizioni dettagliate di un regolamento, che non abbiano queste caratteristiche, non sono provviste dell’effetto diretto: così: G. Tesauro , op. cit. pag. 169.
[17] V. Corte di giustizia, 11 giugno 1987, causa 14/86, Pretore di Salò, punto 20; ID 26 settembre 1996, Arcaro, punto 37; Id. 12 dicembre 1996, in cause riunite C- 7/95 e C- 129/95; Id 7 gennaio 2004, , in causa 60/02, punto 61. Sul punto, cfr. P. Giampietro, Rapporti più corretti da il decreto Ronchi e le direttive trasposte, in Ambiente 1997, n. 4, pag. 297C. Annota favorevolmente la sentenza Arcaro, A. Gratani, in Riv. Giur. ambiente, 1997, pag. 257 mentre F. Novarese, “La nuova disciplina emergenziale dei rifiuti”, in Riv. Giur. ambiente, nn. 3 e 4/2003, pag. 450, richiamando il mio contributo sulla “Nozione autentica di rifiuto, cit., osserva che ivi si ribadiscono “.. concetti pacifici in tema di diritto comunitario, quali l’impossibilità di fornire immediata applicazione, in uno Stato, ad una direttiva non self executing”, come quella sui rifiuti, cui mi riferivo nella menzionata nota. L’Autore, infatti, suggerisce che, per superare l’art. 14, non occorre “disapplicarlo” ed applicare, in sua vece, la direttiva (operazione che non ritiene ovviamente consentita) quanto applicare il Regolamento comunitario 93/259 ovvero “applicare direttamente le decisioni della Comunità europea che sono direttamente ed immediatamente applicabili in Italia sin dal 28 marzo 1990 (v. pag. 444)”. Lo stesso Autore, si stupisce del fatto che coloro i quali enfatizzano il pacifico divieto di disapplicare la norma nazionale, in applicazione di una direttiva classica non autoapplicativa per principio, come quella 91/156, non scelgano quest’ultima via (dell’applicazione delle decisioni della Corte U.E.) e del fatto che si “… taccia completamente della costante giurisprudenza del giudice delle leggi italiano secondo cui, ove sia intervenuta una interpretazione chiara da parte della Corte di giustizia della normativa comunitaria, il giudice deve disapplicare la legge nazionale e non può sollevare questione di legittimità costituzionale ..” (pag. 452). Su quest’ultimo profilo, si rimanda a quanto osservo oltre, nel testo. Sulla “trovata” di invocare la nozione di rifiuto che sarebbe stata, autonomamente, introdotta dal regolamento 93/259 (con novazione della fonte originaria, costituita dalla direttiva 91/156), rinvio, stante l’estraneità dell’argomento, alla sintetica replica di nota 3, in fondo, dell’articolo “Proposte ricostruttive della nozione di rifiuto”, cit.
[18] Per le ragioni esposte dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale indicata a nota precedente.
[19] In tal senso, v., anche, T. Ballarino, Manuale di diritto dell’Unione Europea, 2001, pag. 186.
[20] Come ogni atto di interpretazione anche giudiziale: v., in proposito, le sempre lucide osservazioni di A. Pizzorusso, Fonti del diritto, sub 1-9, Commentario del Codice Civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1977, pagg. 114 e ss.
[21] Nota, in tema, una autorevole dottrina: “Si è talora parlato di un effetto generale (“erga omnes”) delle pronunce rese dalla Corte di giustizia a titolo pregiudiziale, quasi che esse risolvano una volta per tutte le questioni decise. Non esiste tuttavia nei giudizi nazionali diversi da quello in cui sono state sollevate le questioni un vincolo del giudice ad attenersi alla soluzione data dalla Corte. Come si è visto, il giudice di ultima istanza è bensì liberato dall’obbligo di deferire una questione alla Corte, qualora intenda conformarsi a quanto già deciso dalla stessa Corte¸ egli può tuttavia sollevare nuovamente la questione, e così possono fare gli altri giudici” (così, G. Gaja, Introduzione al diritto comunitario, Bari, 1996, pag. 63 il quale aggiunge, in proposito, come già affermato nel testo, che neppure il giudice comunitario si sente vincolato ai suoi precedenti “.. D’altra parte, la Corte non si considera formalmente vincolata dai propri precedenti: lo ha dichiarato esplicitamente, dicendo che si pronunciava “contrariamente a quanto sino ad ora statuito”, nella sentenza Keck (sent. 24 novembre 1993, cause C- 267-268/91, in “Raccolta”, 13, p. I-6097), nella quale ha mutato la sua giurisprudenza per affermare che le misure nazionali non discriminatorie che concernono le modalità di vendita delle merci sono compatibili con l’art. 30 del Trattato CE “ (ivi). E, d’altronde, l’esperienza suggerita dalla ordinanza della Corte 15 gennaio 200, sul le sul coke da petrolio dovrebbe far riflettere i fautori della tesi del precedente “vincolante”, con effetti erga omnes!
[22] Rispetto agli effetti nel tempo delle sentenze, rese a titolo pregiudiziale, la Corte di giustizia ha osservato che “ l’interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte di Giustizia nell’esercizio della competenza ad essa attribuita dall’art. 177 chiarisce e precisa, quando ve ne sia bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore” (v. sentenza 27 marzo 1980, causa 66 e 127-128/9). Ma tale lettura non è necessariamente stabile nel tempo, come osserva A. Gaja, op. cit., pag. 64, in questi termini: “… Ciò dovrebbe trovare un limite quando la Corte, come ha prospettato la sentenza CILFIT, citata sopra, interpreti una norma tenendo conto dello “stadio di evoluzione” del diritto comunitario “al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi”: l’interpretazione darebbe allora alla norma un significato diverso da quello originario e non potrebbe quindi valere retroattivamente sin o al momento in cui la stessa norma era stata adottata".
[23] E dunque verso i loro organi interni, giurisdizionali e amministrativi, i cittadini, ecc.
[24] Mi riferisco ad un passaggio della prefazione alla quinta edizione del “Diritto processuale civile” di S. Satta.
[25] Così sempre S. Satta, op. cit. pag. 8.
[26] Per quanto esposto a nota 17.
[27] Così Corte Costituzionale, sentenza 11 luglio 1989, n. 389, est. Baldassarre, ric. Provincia di Bolzano, in Foro it. 1991, I, 1076; nonché, Id, 18 aprile 191, n. 168, Giampaoli, in Foro it. 1992, I, 660.
[28] Le espressioni fra virgolette sono di G. Tesauro, op. cit., pag. 285.
[29] Osserva, in proposito, con la consueta chiarezza, G. Tesauro, op. cit., pag. 323 “Tale sentenza può, e all’occorrenza, deve essere considerata anche al di fuori del contesto processuale che l’ha provocata, proprio perché si pronuncia su punti di diritto. Altri giudici, dunque nonché le amministrazioni nazionali, saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come interpretate dalla Corte”. L’applicazione doverosa da parte della p.a. o del giudice (salvo che egli intenda risollevare questione pregiudiziale, previa sospensione del processo) riguarda pertanto la norma comunitaria, come ho osservato nel testo, non la sentenza della Corte che ha esaurito la sua funzione nel conferirgli un determinato contenuto “vincolante” (ma non in senso formale, come sottolineato, ma per la autorevolezza del giudicante, in quanto le sentenze interpretative non sono né irrevocabili né immodificabili nel tempo: v. retro nel testo e nota 21). Per poter applicare la norma comunitaria questa deve essere munita, ovviamente, di efficacia diretta negli ordinamenti interni. E non è il caso delle direttive sui rifiuti, cui si riferisce l’art. 14.
[30] V. nota 17.
[31] Come chiarito da Cass. pen. 20 gennaio 2003, Passerotti, citata a note 13 e 14 la quale corregge una evidente svista contenuta in due precedenti pronunce (Cass. pen. Sez. III, 27 novembre 2002, Ferretti e 5 marzo 2002, Amadori, stesso relatore F. Novarese), ove si legge, nella prima, che la nozione di rifiuto va ricercata nelle sentenze della Corte di giustizia “le cui decisioni sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia (Corte cost. n. 389del 1989) sin dal 28 marzo 1990” e, nella seconda, che “…la qualificazione del limo come rifiuto” va compiuta secondo costante ed uniforme giurisprudenza di legittimità e comunitaria (cfr. Cass 5 marzo 2002, Amadori, Foro it., 2002, II, 673, contenente ampio excursus giurisprudenziale anche con riferimento alle sentenze della Corte di giustizia … giacché per rifiuto deve intendersi… Infatti la Corte di giustizia delle Comunità europee, le cui decisioni sono immediatamente e direttamente applicabili in Italia (Corte Cost. n. 113 del 1985, ;nn. 232 e 389 del 1989” . Come ricordato sopra, nel testo, le successive, copiose sentenza della Cassazione penale, ma anche del giudice amministrativo, hanno dato applicazione all’art. 14, disattendendo la tesi tanto della disapplicazione della norma interna confliggente con quella comunitaria quanto della “applicabilità diretta e immediata delle sentenze della Corte di giustizia”, frutto di un evidente equivoco per le ragioni sopra esposte. Merita altresì ricordare che G. Tesauro, op. cit. nota 288 di pag. 193, segnala, a commento di Corte Cost. 23 aprile 1985, n. 113 (riportata, più avanti a nota a nota 32), che : “Sul punto si segnalano due sentenze della nostra Corte di Cassazione con punti di vista e conoscenze comunitarie molto diverse: Cass. pen. III, 27 novembre 2002, Ferretti, in Foro it. 2003, II, 116; : Cass. pen. III, 13 novembre 2002, Passerotti, in Foro it. 2003, II, 116”.
[32] Cfr. G. Amendola, Gestione dei rifiuti cit, 2003, pag. 3, che riproduce sostanzialmente, con qualche aggiornamento, il medesimo catalogo che può leggersi in “I rifiuti normativa italiana e comunitaria, Introduzione, pag. XI. Recuperando, parzialmente ed ampliando le motivazioni delle due sentenze della Cassazione, Amadori e Ferretti citt., di cui era estensore, F. Novarese, ne “La nuova disciplina emergenziale”cit. pag. 457, ribadisce i principi esposti in dette pronunce, integrandoli con più nutriti riscontri giurisprudenziali (riesaminati, con esiti contrari, nella nota successiva).
[33] Si rilegga, infatti: Corte Cost. n. 170/1984, Granital, ove il principio secondo cui “la norma comunitaria provvista di immediata applicabilità impedisce alla norma nazionale, non importa se anteriore o posteriore, eventualmente contrastante di venire in rilievo per la disciplina del rapporto, da parte del giudice, e dall’altro, la norma nazionale configgente non è né nulla né invalida ma solo inapplicabile al rapporto controverso”, si riferisce esclusivamente alle norme “immediatamente applicabili” (non quindi alle direttive sui rifiuti);
Corte Cost, n. 113 del 1985, in materia di indebita corresponsione di dazi doganali: “Successivamente alla emanazione dei provvedimenti impugnati la Corte ha emesso nuove pronunce con riguardo ai rapporti fra diritto comunitario e le configgenti disposizioni del legislatore nazionale. In base a tali decisioni (sentenze n. 170/84, Foro it., 1984, I. 2062; 47/85, id., 1985,I, 933 e 48/85), spetta precisamente al giudice ordinario accertare che la fattispecie cada sotto il disposto della disciplina prodotta dagli organi della CEE e immediatamente applicabile nel territorio dello Stato; in questo caso la regola comunitaria riceve necessaria e immediata applicazione pur in presenza di incompatibili statuizioni della legge ordinaria dello Stato, non importa se anteriori o posteriori” (nel caso si facevano valere delle violazioni del trattato istitutivo della CEE). A commento della decisione, G. Tesauro op. cit. 193, osserva: “ In altri termini, si è rilevata l’immediata applicabilità, in luogo delle norme nazionali configgenti, delle norme comunitarie così come interpretate nelle sentenze della Corte di giustizia pronunciate a seguito di rinvio pregiudiziale nonché all’esito di una procedura di infrazione”; Corte Cost. 11 luglio 1989, n. 389 (già cit. a par. 4.2., nota 27), in materia di assegnazione di alloggi di edilizia economica e popolare, ribadisce il principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci nel diritto interno , come gli artt. 52 e 59 del Trattato (non quindi le direttive classiche) in questi termini: “ Quando questo principio viene riferito ad una norma comunitaria avente “effetti diretti” – vale a dire una norma dalla quale i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non v’è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate”: Corte Costituzionale 13 aprile 1989 n. 232 con riferimento agli effetti diretti, nell’ordinamento interno, di pronunce pregiudiziali della Corte di giustizia “rese sulla validità di disposizioni regolamentari” e al potere della Corte di limitare nel tempo gli effetti delle pronunce pregiudiziali cioè su fonti derivate (regolamenti) aventi effetti diretti negli ordinamenti statali (non quindi di pronunce pregiudiziali su direttive classiche); cfr. Corte cost. 25 maggio 1989 n. 284, con nota di richiami, che afferma la competenza delle Regioni di dare attuazione ai regolamenti comunitari (non alle direttive classiche).; Corte Cost. 18 aprile 1991, n. 168, in relazione all’assoggettamento di imposta dell’emissione di obbligazioni societarie, oggetto di direttiva comunitaria, che, in conformità dei precedenti, sopra richiamati e riportati in sentenza, ribadisce che: “ nel caso all’esame di questa Corte … si può procedere alla diretta applicazione della normativa comunitaria … in quanto risulta con chiara evidenza che l’art. 11 della direttiva CEE 17 luglio 1969 (concernente le imposte dirette sulla raccolta di capitali) pone agli Stati membri una prescrizione incondizionata (perché non lascia margine di discrezionalità ai legislatori nazionali, escludendo in ogni caso la tassazione dell’emissione di obbligazioni) e sufficientemente precisa (trattandosi di un obbligo di astenersi dall’imposizione fiscale compiutamente definito…); v. nota adesiva di L. Daniele, in Foro it., 1992, I, col. 662, il quale osserva che “l’applicazione del principio del “primato” anche in favore delle direttive “direttamente applicabili o efficaci” non costituisce in verità motivo di meraviglia …”; Corte Cost. 2 febbraio 1990, n. 64, in Foro it. 1990, I, 747, la quale, con riferimento alle direttive comunitarie sulle quantità massime di residui di antiparassitari consentite sugli e negli ortofrutticoli nonché sui cereali rileva che “le stesse direttive obbligano gli stati membri a non vietare o a non ostacolare l’immissione in circolazione di sostanze alimentari contenenti residui tossici nei limiti tollerati in sede comunitaria … Ne deriva che le stesse direttive essendo incondizionate e sufficientemente precise, possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti di attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualunque disposizione di diritto interno non conforme ad esse” (non si tratta, pertanto, di direttive non autoapplicative come la 75/442 e la 91/156).
Gli stessi principi dalla Corte costituzionale, sopra rassegnati, con riferimento alla immediata applicabilità di alcune norme del Trattato, dei regolamenti e delle direttive incondizionate, sono stati affermati dalla Corte di Giustizia. Si richiamano, fra le tante, le sentenze: 19 gennaio 1992, causa 8/81, Ursula Becker, con riferimento alle direttive dettagliate o anche solo incondizionate e sufficientemente precise; 22 giugno 1989, in causa 103/88, Costanzo; sent. 24 maggio 1987 in causa 286/85 McDermott e Cotter; sent. 29.4.99, in causa C- 224/97, Ciola.
Quanto al giudice amministrativo, merita segnalare, per una ricostruzione del problema, TAR Lazio, II sez., sent. 22 aprile 1994, n. 511, in Riv. It. pub. Com. 1995, p. 181. In precedenza, il Consiglio di Stato, sez. II, parere 13 maggio 1998, n. 598, in Foro it. 1992, III, col. 425, affermava in massima: “Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee pronunziate ai sensi dell’art. 177 del trattato Cee, pur non importando la caducazione della norma interna ritenuta incompatibile, si traducono in un obbligo di attuazione della normativa comunitaria rivolto a tutti i soggetti giuridicamente tenuti all’attuazione delle leggi ed in particolare alle autorità giurisdizionale e amministrative”. Ove si legga la sentenza dell’organo comunitario, cui deve darsi attuazione da parte dell’autorità giudiziaria o della P.A., e cioè la sentenza 10 dicembre 1991 in causa C/170/90, in Foro it., 1992, IV, 225, si apprenderà che la Corte si era pronunciata, in sede pregiudiziale, su norme del Trattato Cee immediatamente applicabili negli ordinamenti interni (“Il combinato disposto dell’art. 90, n. 1, e degli art. 30, 48 e 86 del trattato Cee osta alla normativa di uno Stato membro che conferisca ad un’impresa stabilita in questo stato, il diritto esclusivo dell’esercizio delle operazioni portuali e le imponga di servirsi, per l’esecuzione di dette operazioni, di una compagnia portuale composta esclusivamente di maestranze nazionali”) e non su direttive non autoapplicative! Quando pertanto il Consiglio di Stato conferma, nel suo parere, che : “la giurisprudenza costituzionale ha stabilito che sono soggette alla “diretta applicazione” le sentenze interpretative della Corte di Giustizia pronunciate ai sensi e per gli effetti dell’art. 177 del Trattato (cfr.. Corte cost. 23 aprile 1985, n. 113; id., 18 aprile 1991, n. 168 cit. )”, a parte l’improprietà dell’espressione (perché si applicano le norme e non le sentenze), omette di aggiungere che ciò è vero solo ove la sentenza dell’organo comunitario riguardi una norma con efficacia diretta (come esplicitamente indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza 11 luglio 1989, n. 389, citata nel parere e richiamata in nota 27, oltre che confermato dalla migliore dottrina, v., nota 29).
[34] V. nota 29.
[35] L’organo esecutivo dell’U.E. si richiama alla sentenza Arcaro, punto 37 cit. e, con riferimento alla emananda sentenza interpretativa – anche se favorevole alla tesi del giudice italiano - non invoca né fa cenno, comunque, all’immediata e diretta applicabilità della stessa (che eventualmente accertasse l’incompatibilità dell’art. 14 al diritto comunitario) ma, come osservato nel testo, alla non applicazione comunque, in Italia, da parte del giudice rimettente, della norma comunitaria sulla definizione dei rifiuti, in quanto contenuta in una direttiva non autoapplicativa. Insomma, negli Stati membri, il giudice applica la norma comunitaria (se ad efficacia diretta) non la sentenza interpretativa che ne ha fissato il contenuto.
[36] Per le ragioni esposte nel testo e a nota 17.
[37] V., sul punto, G. Amendola, op. cit., pag. 6/7 il quale osserva, in forma conclusiva: in altri termini , citando altro autore (a n. 9) “.. nessuno può essere punito in forza di una norma nazionale interpretata estensivamente per renderla conforme ad una direttiva comunitaria, né per fatti che secondo tale norma interna non sono punibili” (nel caso, applicando la nozione di rifiuto, più estesa, in base alla direttiva comunitaria, assunto dalla norma nazionale come elemento normativo della fattispecie incriminatrice; nota dello scrivente).
[38] A mio avviso, per es., appare molto più calzante, e conforme al diritto comunitario, l’interpretazione della nozione di rifiuto fornita dalla Corte di Giustizia , nella ordinanza 15 gennaio 2004 , che considera sottoprodotto e non rifiuto il coke da petrolio (in Foro it. 2004, IV, 150) benché alcuni autorevoli annotatori (si veda, per es., la nota critica di G. Amendola ivi, col 151) abbiano ritenuto quel provvedimento “inaccettabile” perché, a loro avviso, contrario alla pregressa giurisprudenza della stessa corte…. (di cui, peraltro, l’estensore dell’ordinanza è perfettamente a conoscenza e che dichiara di condividere, unitamente all’avvocato generale, nella persona della stessa J. Kokott la quale ha assunto, in detta occasione, conclusioni conformi..!).
[39] Si rimanda, sul punto, alla lucide argomentazioni della sentenza Passerotti, più volte cit. (v. n. 2).
[40] Come riconosce lo stesso Avvocato generale che considera tale regola non solo “questione di diritto nazionale” ma “principio di diritto comunitario” v. punto 24 delle note scritte ed ivi menzione di precedenti giurisprudenziali comunitari.
[41] L’espressione legge penale, contenuta nell’art. 2 c.p. comprende oltre alle leggi extrapenali richiamate espressamente ed integranti la norma penale, anche le leggi costituenti l’indispensabile presupposto del precetto. Sul principio di eguaglianza si rimanda alla giurisprudenza e dottrina riportati nel “Commentario breve al codice penale”, sub art. 2, a cura di Crespi, Stella e Zuccalà, Padova, Cedam 2004.
[42] Da parte del produttore del rifiuto.
[43] Peraltro la gravità del problema è avvertita dalla Commissione CE che in una sua "Comunicazione" del 27 maggio 2003, osservava "La definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lett. a) della direttiva quadro sui rifiuti è il fulcro della legislazione sui rifiuti. Tale definizione è stata al centro di notevoli discussioni e la Corte di giustizia europea ha emanato utili indicazioni in ordine alla sua interpretazione. Il dibattito su questa definizione, tuttavia, è destinato a proseguire, tanto più che l'art. 8, par. 2), punto iv) del Sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente chiede che sia precisata "la distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è"…
A causa del carattere soggettivo della nozione di rifiuto, probabilmente qualsiasi definizione migliorata conterrebbe comunque un certo grado di ambiguità. Per rendere meno ambigua l'attuale definizione si potrebbero aggiungere alla definizione generale criteri oggettivi che permettano di stabilire quando un materiale o oggetto specifico diventa un rifiuto. Allo stesso modo, si potrebbero fissare criteri oggettivi per stabilire quando un dato rifiuto non debba essere più considerato rifiuto, a meno che il materiale stesso non venga nuovamente scartato, come quando non esistono sbocchi commerciali per il materiale recuperato…
A causa della incertezza insita nella definizione di rifiuto, sembra anche auspicabile limitare per quanto possibile i costi economici legati all'attuazione della legislazione sui rifiuti in tutti casi in cui ciò sia opportuno dal punto di vista ambientale ed economico. A tal fine si potrebbero sfruttare sistematicamente le possibilità offerte dal quadro giuridico esistente e in particolare le deroghe all'obbligo di autorizzazione previste dall'art. 11 della direttiva quadro sui rifiuti e dall'art. 3 della direttiva sui rifiuti pericolosi… Infine, l'elaborazione di orientamenti comuni sull'applicazione della definizione di rifiuti faciliterebbe l'applicazione della definizione caso per caso da parte degli Stati membri e attenuerebbe le possibili distorsioni del mercato derivanti da un'applicazione nazionale non uniforme della definizione".
[44] Per la individuazione di tale nozione.