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Articoli e note

 

ANGELA DI GIOIA

La difficile attuazione del principio di distinzione tra politica e amministrazione negli enti locali: in particolare, le questioni riguardanti gli impegni di spesa e la rappresentanza in giudizio.

horizontal rule

L’attività di gestione, propria dell’apparato burocratico degli enti locali, attuativa dell’indirizzo politico degli organi di governo (1), non presenta sempre ambiti applicativi chiari e ben delineati. Il confine che separa le due sfere, soprattutto nei comuni di piccole dimensioni, spesso è molto sottile e condiziona fortemente la piena operatività del principio di separazione tra attività di governo e attività di gestione (2).

L’opera dei dirigenti e dei responsabili degli uffici e dei servizi è peraltro resa più difficile dalla farraginosità e molteplicità delle leggi, nonchè dalla frammentazione delle competenze; da qui l’emergere di complesse problematiche sul piano operativo che talvolta rendono incerta la concreta applicazione del principio di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione.

Il problema della possibilità e della legittimità degli impegni di spesa da parte degli organi politici di un ente locale è uno degli aspetti che ha dato luogo a maggiori incertezze e opinioni contrastanti in dottrina, in seguito all'affermarsi del nuovo assetto di competenze delineatosi sulla base del principio di separazione tra indirizzo politico e gestione.

La ricerca della soluzione di tale problema non può non muovere i suoi passi dalla riscostruzione del quadro normativo e delle posizioni dottrinali che hanno originato lo sviluppo di una pluralità di orientamenti tra loro contrapposti e diversificati.

Al riguardo occorre prendere l’avvio dalle disposizioni che hanno sancito, secondo l'iniziale indirizzo della dottrina, la preclusione assoluta per gli organi politici dell'adozione di atti che comportano l'assunzione di spese, divenuti, a seguito della riforma dell'art. 51, comma 3, lettera d), L. 142/90 introdotta dall'art. 6, comma 11, L. 127/97, di esclusiva e tassativa competenza dei dirigenti e dei responsabili di servizio.

Tale orientamento interpretativo si basava sull’assunto, rivelatosi in seguito non del tutto corretto, che l'atto comportante impegno di spesa dovesse essere considerato necessariamente atto gestionale e quindi privo della discrezionalità amministrativa propria degli organi di governo, anzi tipica espressione della competenza dirigenziale per dare piena attuazione alle direttive dell'organo politico e determinare il soggetto creditore e la ragione del credito (3).

Tuttavia l'effetto della legge 127/97 non fu certamente quello di eliminare del tutto la competenza degli organi politici di assumere gli impegni di spesa, per lo meno laddove la stessa legge ne sanciva la legittimità. Infatti il Ministero dell’Interno intervenne sul punto con la circolare n° FI 25/97 del 1° ottobre 1997 affermando, nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, la possibilità dell'assunzione degli impegni di spesa in deliberazioni, previo parere di regolarità contabile e attestazione di copertura finanziaria (4).

A titolo esemplificativo, è possibile citare l'art. 32, comma 2, lettera l), L. 142/90, ora confluito nell’art. 42, comma 2, lettera i), T.U. D. lgs. 267/2000, che attribuisce al Consiglio comunale la competenza all'assunzione di spese che impegnano i bilanci per gli esercizi futuri; la lettera f) del medesimo articolo (divenuta la lettera e) del citato art. 42) relativa alla partecipazione dell’ente locale a società di capitali; l'art. 107, comma 7, D. lgs. 77/95, riportato nel testo dell’art. 241, comma 7, T.U., relativo alla determinazione del compenso del revisore nella medesima delibera consiliare di nomina; l'art. 23, ultimo comma, L. 265/99, corrispondente all’art. 82, ultimo comma T.U., che stabilisce la competenza degli organi elettivi alla fissazione delle indennità di carica.

In tutti questi casi si tratta di atti non di indirizzo, ma di vera e propria amministrazione attiva, che implicano non solo il manifestarsi di una volontà politica, ma anche la sua diretta e concreta attuazione individuando la prestazione, il soggetto terzo contraente, la ragione del credito e la somma da pagare, cioè tutti gli elementi indicati dall'art. 27 D. lgs. 77/95 e, attualmente, dall’art. 183 del T.U. degli enti locali.

In queste ipotesi le deliberazioni collegiali si strutturano come "atti direttamente idonei a produrre effetti esterni o a instaurare rapporti che producono tali effetti" (5); e un distinto e separato provvedimento del responsabile del servizio per l’assunzione dell’impegno di spesa comporterebbe una duplicazione meramente formale di atti e una violazione sostanziale di altri importanti principi del nostro ordinamento, come quelli di economicità degli atti e di semplificazione procedimentale sanciti dalla L. 241/90 e dalla L. 127/97 (6).

Tale orientamento dottrinale ritiene inoltre che in questi casi non vi sia nemmeno violazione del principio di separazione tra indirizzo e gestione, ove si consideri che l’atto gestionale non necessariamente comporta impegno di spesa, ma si caratterizza a seconda del contenuto del potere che con l’atto si esercita. Tale interpretazione viene anche confermata dal D. lgs. 29/93, il quale all’art. 27 bis prevede un semplice adeguamento dell’ordinamento degli enti locali ai principi fissati dall’art. 3 del medesimo D. lgs. e nel rispetto delle loro peculiarità, mentre il precedente art. 13, ora abrogato, fissava l’obbligo di modifica degli ordinamenti locali al fine di una loro conformazione al dettato della riforma organizzativa della P.A. (7).

Tale tesi è stata maggiormente avvalorata dalle modificazioni apportate all’art. 53, comma 1, L. 142/90 ( ripreso nell’art. 49 T.U.) dall’art. 13, comma 2, L. 265/99, che stabilisce che su ogni proposta di deliberazione che non sia mero atto di indirizzo e comporti impegno di spesa o diminuzione di entrata deve essere previsto il parere di regolarità contabile. Quest’ultima previsione cancella inequivocabilmente ogni dubbio interpretativo e funge da supporto normativo per le tesi la cui legittimazione era prima desunta in via meramente interpretativa.

Tuttavia, secondo opposte opinioni, proprio alla luce di tale ultimo intervento normativo " sembra emergere la volontà di riservare in via esclusiva ai dirigenti - responsabili di servizio l’assunzione degli impegni", poichè, "allorchè l’impegno giuridico è stato assunto dagli organi di governo, l’attività ulteriore dell’apparato burocratico sarà meramente esecutiva e finalizzata alla registrazione contabile", vale a dire all’adozione di una determinazione di "impegno contabile", la cui efficacia sarà subordinata all’attestazione di copertura finanziaria (8).

Possono essere considerate deliberazioni che non siano atti di mero indirizzo proprio quelle deliberazioni sopra richiamate, in cui la decisione e la manifestazione di volontà dell’organo politico è accompagnata dalla definizione di aspetti attuativi costituenti gli elementi dell’impegno di spesa (9).

Nonostante la chiarezza e la univocità della norma, si è argomentato in senso contrario sostenendo che l’utilizzo del verbo "comportare" possa essere interpretato in altro modo e quindi, anzichè inquadrando l’impegno come diretta conseguenza scaturente dall’atto, come effetto indiretto della deliberazione che, costituendone la causa, va successivamente perfezionata con la determinazione dirigenziale.

Tale opinione è destinata a cadere laddove si pensi che l’art. 55, comma 5, L. 142/90 ( attualmente confluito nel testo dell’art. 151, comma 4, T.U.) utilizza lo stesso verbo con riferimento a provvedimenti che "comportano" impegni di spesa e, purtuttavia, non si conosce altro provvedimento attuativo della determinazione (10). Del resto, la stessa etimologia latina della parola fa capire che il verbo è composto da cum (con) e portare (portare insieme, contemporaneamente).

Non sembra potersi condividere nemmeno l’argomentazione che sottolinea come la norma contenga solo il riferimento al parere di regolarità contabile e non all’attestazione di copertura finanziaria. Lo stesso Ministero dell’Interno ha ritenuto possibile l’adozione di atti di amministrazione attiva, sui quali va espresso il succitato parere e l’attestazione di copertura finanziaria. Inoltre, il responsabile del servizio finanziario ha il compito di verificare continuativamente il permanere degli equilibri di bilancio, tanto più quando l’atto di Consiglio o Giunta determini una minore entrata.

Pertanto la regolarità contabile non può prescindere dall’accertamento della disponibilità di bilancio, in quanto una spesa assunta su un "intervento" incapiente non può certo essere definita regolare.

Sicuramente la determinazione delle ipotesi in cui è possibile che l’organo politico assuma un impegno di spesa deve essere fatta in modo rigoroso.

E’ stato rilevato che la previsione della preventiva deliberazione di Giunta comunale in ordine al provvedimento sindacale di nomina del Direttore generale o dei dirigenti extra-dotazione organica ha proprio questa funzione. Peraltro "la determinazione del compenso ad opera dell’organo esecutivo, nei limiti consentiti dalla normativa …, risponde a un criterio logico, in quanto lo stesso ha piena consapevolezza della situazione organizzativa e funzionale interna, degli obiettivi da raggiungere e delle risorse umane disponibili ed è quindi in condizione di apprezzare compiutamente più di ogni altro l’impegno richiesto e l’onerosità dei compiti che la posizione attribuita comporta" (11). Inoltre è da osservare che la necessità di una preventiva deliberazione di Giunta contribuisce a garantire gli equilibri di bilancio, in quanto, a differenza dei provvedimenti sindacali che rimangono svincolati dal preventivo parere di regolarità contabile, gli atti deliberativi limitano e contengono il rischio che venga disposta una spesa senza il previo accertamento di disponibilità in bilancio.

Pertanto non ha alcun fondamento normativo il tentativo di attribuire, con le medesime argomentazioni innanzi accennate, anche al Sindaco il potere di assumere gli impegni di spesa. L’art. 53 L. 142/90, vale a dire l’art. 49 T.U., chiaramente prevede l’espressione del parere di regolarità contabile solo per le deliberazioni quali atti che esprimono una manifestazione di volontà di tipo collegiale. Peraltro nel nostro ordinamento non esiste una norma che preveda analoga disposizione per gli atti monocratici che non siano le determinazioni dei dirigenti o dei responsabili di servizio, e quindi per i decreti e per le ordinanze quali atti tipici di competenza sindacale. Argomentando diversamente, e pertanto ammettendo la possibilità di determinazioni sindacali sulle quali apporre l’attestazione di copertura finanziaria ex art. 55 L. 142/90 o al contrario ammettendo l’espressione del parere di regolarità contabile anche sui decreti o sugli atti sindacali, si assisterebbe a una violazione sostanziale del principio di tipicità degli atti amministrativi, quale principio cardine del nostro ordinamento.

In senso contrario alla tesi su esposta, si è sostenuto che, sebbene la nuova formulazione dell’art. 13 L. 265/99 su richiamato, contenga l’espressa previsione del parere di regolarità contabile per le deliberazioni, l’art. 55, comma 5, L. 142/90 non è stato oggetto di modificazioni da parte della L. 265/99, e pertanto il visto di attestazione di copertura finanziaria è apposto sulle sole determinazioni e non sulle proposte deliberative. I sostenitori di tale tesi (12) ritengono che l’attestazione di copertura finanziaria sia un mero atto ricognitivo di natura squisitamente tecnica inerente la verifica delle effettive disponibilità di bilancio e, quando occorre, lo stato di realizzazione degli accertamenti di entrata vincolata, per cui essa è differente dal parere di regolarità contabile.

Inoltre l’argomentazione dottrinale che esclude l’adozione dell’impegno di spesa da parte degli organi politici trova la sua ratio nel principio del divieto di aggravamento del procedimento amministrativo, che renderebbe inutile la duplicazione degli atti, ma non tiene presente che si tratta in realtà di atti di contenuto diverso, adottati da organi diversi che intervengono in fasi diverse.

Si ritiene però che tale argomentazione possa considerarsi ininfluente ove si consideri che, in tali casi, la stessa funzione dell’organo gestionale, e quindi il poter "gestire" le proprie risorse con piena autonomia, viene meno perchè si limiterebbe a una mera operazione materiale di natura contabile, tanto più che non garantirebbe nemmeno l’effettiva realizzazione del principio di separazione tra competenze di indirizzo politico e competenze di gestione. Infatti, da un lato non darebbe agli organi elettivi la possibilità di muoversi in piena autonomia sul piano dell’indirizzo, e quindi nell’esercizio di una funzione che gli spetta per legge, perchè dovrebbero in ogni caso attendere l’adozione della determinazione di impegno per rendere pienamente operative le proprie decisioni, dall’altro non garantirebbe agli organi gestionali l’esercizio della propria funzione caratterizzata da autonomia, decisione e discrezionalità tecnica nella gestione della propria attività (13).

Le tesi appena esposte vanno riviste alla luce delle disposizioni introdotte dal nuovo Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali approvato con D. lgs. 267 del 18 agosto 2000, sebbene, proprio in esso, anche con diverse argomentazioni, trovino un’ulteriore conferma.

Come è noto, lo sforzo del Governo nell’elaborare il Testo Unico degli enti locali è stato quello di rielaborare i numerosi provvedimenti emanati in materia di enti locali, sistemandoli armonicamente in un codice che garantisse coerenza logica alle diverse disposizioni succedutesi nel tempo.

Già da una prima lettura del Testo Unico, si può notare come tutte le disposizioni siano state riorganizzate e collocate in un diverso ordine sistematico. Proprio con riferimento all’impegno di spesa risulta subito evidente come le vecchie norme degli artt. 53 e 55 L 142/90 siano state reinscritte nel nuovo T. U. in due differenti Titoli, l’uno riguardante gli organi istituzionali, l’altro i principi in materia di contabilità desunti dal D. lgs. 77/95.

Ad una prima riflessione, tale nuova sistemazione potrebbe far ritenere che l’intento fosse quello di tenere ben distinte le competenze degli organi politici e gestionali, anche alla luce della disposizione dell’art. 153, comma 5, T. U. che demanda al regolamento di contabilità … la disciplina delle modalità con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione e apposto il visto di regolarità contabile sulle determinazioni dei soggetti abilitati (14).

Lo stesso articolo, però, prosegue affermando che "… il responsabile del servizio finanziario effettua le attestazioni di copertura della spesa in relazione alle disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di spesa e, quando occorre, in relazione allo stato di realizzazione degli accertamenti di entrata vincolata secondo quanto previsto dal regolamento di contabilità".

Pare pertanto evidente come, pur volendo effettuare una distinzione tra la disciplina delle due operazioni attinenti la regolarità contabile, in quanto comunque trattasi di operazioni differenti, la norma sancisca in ogni caso l’obbligatorietà della verifica in merito all’attestazione di copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario.

Diversamente, la medesima distinzione operata ai fini delle modalità di resa del parere ex art. 49 T.U., e del visto ex art. 151, comma 4, T.U., avrebbe dovuto essere effettuata anche ai fini dell’attestazione di copertura finanziaria, volendo significare che il responsabile del servizio finanziario effettua comunque, e pertanto sia in sede di espressione di parere di regolarità contabile che di visto di regolarità contabile, la verifica in merito alla copertura finanziaria.

Nel primo caso, la verifica della copertura finanziaria è implicitamente ricompresa nell’espressione del parere di regolarità contabile e consiste in una registrazione del vincolo alla specifica spesa sul correlativo stanziamento di bilancio, rappresentando un presupposto necessario dell’impegno di spesa.

Nel secondo caso invece interviene su un atto in cui il dirigente – responsabile di servizio, in virtù dell’autonomia che gli spetta per legge e gli discende dall’attribuzione del PEG, può effettuare tutte le altre verifiche tipiche del controllo di regolarità contabile. Perciò l’intervento del responsabile del servizio finanziario è successivo all’atto, di per sé già esistente, ed è limitato all’accertamento della sussistenza della disponibilità in bilancio e alla verifica della correttezza dell’imputazione. E da questa sostanziale differenziazione discende la diversa disciplina a cui sottoporre le modalità di espressione delle competenze del responsabile del servizio finanziario in ogni caso in cui, in una proposta di deliberazione o in una determinazione, si proceda ad assumere un impegno di spesa.

Un altro spunto di riflessione, diretto nella medesima linea interpretativa appena esposta, e pertanto nel senso non solo della possibilità, ma anche della legittimità degli impegni di spesa da parte degli organi politici, è fornito dalla lettura dell’art. 191, comma 1, T.U. D. lgs. 267/2000, avente ad oggetto: " Regole per l’assunzione di impegni e per l’effettuazione di spese".

Esso, infatti, prevede che "gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l’impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l’attestazione della copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5…", riconoscendo implicitamente l’apposizione dell’attestazione di copertura finanziaria da parte del Responsabile del servizio finanziario in entrambi i casi richiamati dall’art. 153, comma 5, e cioè sia nel caso di espressione del parere di regolarità contabile ex art. 49 T.U., che nel caso di apposizione del visto di regolarità contabile previsto, per i provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa, dall’art. 151, comma 4, T.U.

Una seconda questione dibattuta in dottrina e giurisprudenza riguarda l’individuazione del soggetto competente ad autorizzare la costituzione in giudizio per promuovere una controversia o resistere a una iniziativa giudiziaria proposta da terzi, alla luce del nuovo assetto di competenze tra gli organi di indirizzo politico e gli organi di gestione.

Il problema si pone in quanto, se da un lato nell’ambito delle norme che hanno affermato il principio di separazione tra politica e gestione non è espressamente prevista la relativa competenza in capo ai dirigenti o ad altro organo o al Sindaco quale rappresentante dell’ente ai sensi dell’art. 36 L. 142/90 (15) (attualmente l’art. 50, comma 2, T.U.), dall’altro non vi sono disposizioni nel vigente ordinamento degli enti locali che attribuiscano espressamente la competenza a deliberare la costituzione in giudizio agli organi politici, vale a dire alla Giunta Comunale, stante la non previsione della competenza consiliare nella elencazione tassativa stabilita dall’art. 32 L. 142/90 (confluito nel testo dell’art. 42 T.U.).

La questione è divenuta di difficile interpretazione ed applicazione anche in seguito all’entrata in vigore del nuovo Testo Unico in materia di ordinamento degli Enti Locali, a poco più di dieci anni dalla nascita della L. 142/90, che affida, mediante la previsione dell’art. 6, comma 2, il potere di stabilire "… i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio …" allo Statuto, nell’ambito dei principi fissati dallo stesso Testo Unico.

Infatti anche il T.U., pur avendone la possibilità - essendo, in base alla delega contenuta nell’art. 31 L. 265/99, uno strumento non meramente compilativo ma di tipo ricognitivo con il compito di riunire e coordinare le disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento degli enti locali e di incidere pertanto nella soluzione di problemi interpretativi - non risolve espressamente il problema perché, come statuisce l’attuale previsione dell’art. 36 L. 142/90, si limita a stabilire, al comma 2 dell’art. 50, che il Sindaco e il Presidente della Provincia "rappresentano l’ente", senza specificare alcunchè in merito alla rappresentanza processuale. Pertanto l’arduo compito è lasciato all’interprete e all’operatore, i quali dovranno desumere il principio giuridico dalle norme del T.U. e argomentare non tanto sulla possibilità dello statuto di individuare l’organo avente la rappresentanza legale e processuale ma sui limiti contrapposti all’autonomia statutaria nel disciplinarne i modi di esercizio.

Anche in questo caso, lo sforzo di cercare una soluzione al problema deve dapprima inquadrare il suo fondamento normativo, nonché l’indirizzo dottrinario e giurisprudenziale. La prima verifica riguarda la diretta applicabilità del Capo II del D. Lgs. 29/93 agli enti locali, in cui è contenuta la previsione dell’art. 16 che, elencando i compiti e i poteri dei dirigenti degli uffici dirigenziali generali, ricomprende tra gli atti di natura gestionale quelli di promuovere e resistere alle liti, conciliare e transigere.

L’argomento è stato abbastanza dibattuto in dottrina e giurisprudenza. Nella vigenza della formulazione dell’art. 13 D. lgs. 29/93 antecedente al D. lgs. 80/98, si era posto l’accento sulle conseguenze che sarebbero derivate dalla mancata intermediazione statutaria o dalla mancata previsione nello statuto di una delle competenze previste dall’art. 16 D. lgs. 29/93 come proprie dei dirigenti, in particolare sulla possibilità di individuare in siffatte ipotesi un recupero del potere di gestione da parte dell’organo politico, in aperto contrasto con il principio di separazione tra attività di governo e attività di gestione. Il dubbio interpretativo era stato alimentato da alcune pronunce giurisprudenziali che avevano affermato l’esclusione dell’immediata applicabilità, per gli enti locali, del principio di separazione, essendo vincolata al preventivo recepimento statutario (16).

In seguito la normativa è cambiata a seguito dell’emanazione del D. lgs. 80/98 che, all’art. 8, se da un lato ha eliminato nella previsione dell’art. 13 D lgs.29/93 ogni riferimento alle altre "amministrazioni pubbliche", circoscrivendo la portata del Capo II, ove è contenuto l’art. 16, alle sole "Amministrazioni dello Stato", dall’altro ha stabilito all’art. 27 bis comma 1, dello stesso D lgs. 29/93 – introdotto dall’art. 17 D lgs. 80/98 - che le altre amministrazioni pubbliche si adeguano ai principi del nuovo ordinamento nell’esercizio dell’autonomia statutaria tenendo conto delle proprie peculiarità (17).

Con il comma 1 dell’art. 45 ha altresì stabilito che, " a decorrere dalla entrata in vigore del presente decreto, le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all’art. 3 D. lgs. 29/93, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti", ponendo così una norma di chiusura e rendendo immediatamente operativa ed effettiva l’attribuzione dei poteri dirigenziali. Tale previsione viene peraltro recepita dall’art. 107, comma 5, T. U. degli enti locali, che espressamente fa salve le funzioni esercitate dal Sindaco nei servizi di competenza statale, quelle attribuitegli dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e quelle di sovrintendenza all’espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune.

Sulla base di tali innovazioni legislative, i compiti dei dirigenti sembrano essere fissati direttamente e automaticamente, senza la necessità di ulteriori atti. Proprio in questa ottica rientrerebbe la competenza in merito alla decisione di instaurare o meno una controversia anche perchè, come già evidenziato, l’autonomia statutaria può esercitarsi solo nei confronti delle modalità di esercizio delle funzioni e delle competenze, non quindi nella attribuzione di competenze già per legge demandate ad un determinato soggetto.

A tale proposito appare utile sottolineare un diverso orientamento giurisprudenziale secondo il quale, "anche dopo l’entrata in vigore del D. lgs. 80/98, in mancanza di una ridefinizione delle competenze, la sfera di attribuzioni dei dirigenti degli enti locali risulta solo quella stabilita dall’art. 51 L. 142/90, che esclude il potere di agire e resistere in giudizio per conto dell’ente" (18).

Tale assunto muove dal convincimento che l’art. 45 citato faccia riferimento alle sole Amministrazioni statali, escludendo pertanto l’immediata operatività della norma per gli enti locali i quali, "… in forza di tale innovativa disposizione normativa di principio, sono soltanto facoltizzati a modificare eventualmente i propri statuti e regolamenti di organizzazione in conformità alle norme suddette per accentuare la separazione tra direzione politica e direzione amministrativa, tenuto conto delle peculiari esigenze locali …".

Se tale orientamento appare non condivisibile e sicuramente minoritario rispetto alla diversa evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale sviluppatasi in materia circa l’applicabilità dell’art. 45 D. lgs. 80/98 all’ordinamento degli enti locali, e oltretutto superato dalle disposizioni del T.U. che hanno ripreso totalmente il contenuto della disposizione, eliminando pertanto ogni residuo dubbio, è da riconoscere la valenza innovativa e precursoria della pronuncia giurisprudenziale nella parte in cui ha ipotizzato in capo agli enti locali la facoltà di disciplinare il potere di agire e resistere in giudizio in sede statutaria e regolamentare, per accentuare il principio di distinzione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione; infatti lo stesso T. U. ha previsto proprio questa possibilità, lasciando agli enti locali ampia libertà nella determinazione del soggetto deputato a rappresentare l’ente in giudizio, da cui discende automaticamente anche l’individuazione dell’organo competente a decidere la costituzione in giudizio per promuovere, resistere o transigere una controversia.

Se quindi le questioni sono così strettamente connesse, il problema può essere risolto individuando l’esatta configurazione della costituzione in giudizio come atto di gestione o come atto di natura politico - discrezionale.

Gli orientamenti in materia sono del tutto contrastanti. Infatti si è sostenuto (19) che, sebbene la disciplina del D. lgs. 29/93 si applichi agli enti locali in via "mediata", in base all’art. 3, comma 3, del suddetto decreto, secondo il quale le attribuzioni dirigenziali possono essere derogate in base a specifiche disposizioni di legge, e all’art.27 bis che fissa i criteri di adeguamento per le P.A. non statali, e sebbene l’art. 51 L. 142/90 effettivamente abbia affidato gli atti di gestione aventi rilevanza esterna ai dirigenti, sia necessario coordinare quest’ultima disposizione con l’art. 36 L. 142/90, che, affidando la rappresentanza legale al Sindaco, ricomprende, salvo diversa disposizione statutaria, anche quella giudiziale. Sarebbe infatti alquanto illogico pensare che un dirigente possa con proprio atto autorizzare chi ha già la rappresentanza legale dell’ente a stare in giudizio (20).

D’altronde, è stato anche rilevato (21) che, benchè nel corso dei lavori preparatori della L. 265/99 fosse stata prevista una integrazione al primo comma dell’art. 36 che riconosceva espressamente al Sindaco la competenza ad agire e resistere in giudizio, nel testo definitivamente approvato non vi è alcun riferimento; pertanto, non essendoci una chiara e precisa disposizione normativa, è pur sempre possibile quanto opportuno affidare la competenza al dirigente in base all’esplicita previsione contenuta nell’art. 51, comma 3, lettera f), L. 142/90 (22).

Tali norme però vanno ora rilette alla luce del nuovo T.U., individuando quelle che sono state reinscritte in esso e quelle che eventualmente sono state tralasciate. In effetti le norme su richiamate sono state interamente riprese nel D. lgs. 267/2000, rispettivamente, nell’art. 107, comma 4, nell’art. 111 e nell’art.50, comma 2.

Pertanto il tentativo di ricerca di una soluzione al problema posto dall’art. 6, comma 2 T. U., può svolgersi in una diversa ottica: quella di individuare dapprima l’esatta configurazione dell’atto di costituzione in giudizio, poi la natura dell’atto di volta in volta oggetto della controversia.

E’ stato rilevato che la promozione o la resistenza in una lite o la transazione di una controversia sono decisioni che attengono sicuramente all’aspetto gestionale e tecnico, non in quanto si tratti di provvedimenti attuativi di programmi e progetti politici, perchè anzi non è ravvisabile alcun risvolto attuativo in un programma politico tale da determinare già ab origine la possibilità di conflittualità con terzi, ma in quanto la relativa decisione implica sicuramente un profilo di discrezionalità gestionale, intesa come " potere dei dirigenti di stabilire forme e modalità idonee al perseguimento degli obiettivi fissati dagli organi di governo, secondo calendari e percorsi conformi al proprio disegno gestionale" (23).

Infatti, se nel corso di un procedimento preordinato all’adozione di un determinato provvedimento amministrativo si verifica in termini concreti o anche meramente potenziali una conflittualità, il percorso gestionale che si muove all’interno della procedura subisce inevitabilmente una deviazione dovuta a un riesame del provvedimento da parte del dirigente – responsabile del servizio sulla base della doglianza lamentata dal terzo, che può sfociare in due direzioni: nell’adozione di un atto di amministrazione attiva inerente l’esercizio del potere di autotutela e pertanto nell’adozione di un provvedimento di annullamento o di revoca, oppure, valutata la correttezza e la legittimità del provvedimento, nella decisione di resistere in giudizio.

In questo senso tale ultima decisione attiene alla sfera della discrezionalità gestionale, perchè l’organo tecnico, in quanto organo deputato alla gestione della procedura di adozione dell’atto (dalla fase genetica a quella istruttoria e quindi anche a quella patologica in caso di controversie), conosce approfonditamente tutti gli sviluppi della stessa procedura ed è pertanto in grado di valutare la fondatezza o meno della controversia o la strategia della causa, tanto più che quand’anche la decisione di costituirsi in giudizio fosse presa dall’organo politico, quest’ultimo dovrebbe in ogni caso avvalersi delle valutazioni tecniche dell’organo gestionale, perchè diversamente operando rischierebbe di interferire nella sfera di esclusiva competenza di quest’ultimo.

Pertanto, pur volendo ammettere uno spazio di regolamentazione della materia in questione all’interno della disciplina statutaria, in applicazione dell’art. 27 bis D. lgs. 29/93 inserito dall’art. 17 D. lgs. 80/98, la decisione in merito alla costituzione in giudizio o alla transazione di una controversia rimarrebbe riservata alla competenza della sfera gestionale, perchè una disposizione statutaria che la affidi diversamente alla Giunta Comunale risulterebbe non conforme ai principi generali fissati dalla legge e dall’ordinamento degli enti locali, tanto più che attraverso lo Statuto, con l’entrata in vigore del T.U., è possibile affidare alla dirigenza anche la rappresentanza dell’ente in giudizio (24).

Alla medesima conclusione si perviene tenendo conto delle previsioni degli artt. 3 D. lgs. 29/93, 27 bis e 45 D. lgs. 80/98 già citati, e dell’art. 74 del predetto D. lgs. 29/93 che sancisce l’abrogazione di tutte le norme incompatibili con la nuova normativa; al riguardo si afferma che (25) "la rappresentanza in giudizio rappresenti il momento culminante della responsabilità attribuita ai dirigenti di conseguire i risultati costituenti gli obiettivi dei programmi e dei progetti definiti dagli organi di governo ,…il ventaglio delle responsabilità dalle quali è gravato (n.d.r. il dirigente)impone che lo stesso abbia la possibilità di difendere le proprie scelte gestorie, anche in sede giudiziale" Sulla scorta di tali argomentazioni viene quindi affermata "l’identificazione dell’organo monocratico interno che ha il potere di rappresentanza dell’ente locale in giudizio, individuandolo nel dirigente".

Aderendo quindi a tale indirizzo, la soluzione statutaria potrebbe essere nel senso di una diretta attribuzione ai dirigenti, con specifico riferimento all’ambito delle rispettive competenze, del potere di rappresentanza legale dell’ente in giudizio, oppure nel senso di una delega generale ai sensi dell’art. 107, comma 3, lettera i), D. lgs. 267/2000 con la specificazione degli atti e dei limiti entro i quali esercitarla.

Tale ultima formula, non richiedendo di volta in volta la necessità di una delega specifica da parte del Sindaco al dirigente, eviterebbe il rischio di un proliferare di atti di delega da adottarsi caso per caso, e in particolare del permanere di un potere di controllo e di un forte condizionamento da parte dell’organo politico sull’operato del dirigente, ledendo nello specifico la sua sfera di autonomia gestionale che gli compete proprio alla luce delle condivisibili considerazioni su esposte circa la natura dell’atto di costituzione in giudizio.

Appare a questo punto fondamentale l’individuazione degli atti e dei limiti entro i quali ciascun dirigente – responsabile del servizio sarebbe legittimato a esercitare la rappresentanza in giudizio.

E’ sicuramente impensabile una dettagliata e tassativa individuazione, in sede statutaria, degli atti da attribuire a titolo di delega o in via diretta, alla competenza del dirigente; si creerebbe in questo modo uno strumento poco flessibile che mal si adatterebbe alla sua natura di atto a contenuto normativo generale che fissa i principi e le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente, e, specialmente, potrebbe essere ben presto superato dall’evoluzione legislativa, dottrinale e giurisprudenziale che caratterizza il sistema normativo italiano, in particolar modo il tema del riparto di competenze, sempre più controverso e soggetto a nuove evoluzioni e interpretazioni.

Potrebbe quindi individuarsi il criterio scriminante dell’organo competente a rappresentare l’ente in giudizio e ad adottare conseguentemente l’atto di costituzione, nella natura dell’atto impugnato e oggetto della doglianza del terzo, e pertanto in relazione al soggetto di volta in volta interessato che ha adottato l’atto, sempre nel rispetto del principio di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione. In altri termini se l’atto impugnato, secondo il principio di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione, risulta di competenza dell’organo politico, potrà spettare alla Giunta Comunale la costituzione e la resistenza in giudizio, e al Sindaco la rappresentanza dell’ente nello stesso giudizio, diversamente se l’atto impugnato dovesse essere di competenza dell’organo gestionale, sarà tale organo a resistere in giudizio e a rappresentare l’ente.

Tale soluzione non può certamente valere nel caso in cui si debba promuovere una vertenza giudiziaria, perchè in tale ipotesi manca il presupposto della soluzione sopra prospettata, cioè l’atto di indirizzo politico o di natura gestionale impugnato. Si potrebbe ipotizzare, sempre in sede statutaria, la possibilità di un atto di impulso alla promozione della lite da parte della Giunta, mediante la formulazione di indirizzi di natura generale e di criteri direttivi per l’esercizio della rappresentanza legale e per la costituzione in giudizio da demandare al dirigente, oppure la previsione di una competenza generica, in questi casi, dell’organo politico, identificandosi la decisione di promuovere una controversia, comunque, in un atto di indirizzo politico e di natura discrezionale.

Alla luce di tali considerazioni emerge sempre più l’affermazione del principio di separazione tra l’attività di governo, propria degli organi politici, e l’attività di gestione attribuita ai dirigenti o ai responsabili del servizio, quale principio fondamentale dell’ordinamento giuridico, ormai dominante in dottrina e giurisprudenza. Appare pertanto quanto mai indipensabile che cambino anche le regole comportamentali all’interno delle amministrazioni pubbliche in entrambe le sfere, politica e gestionale.

La classe politica deve concentrarsi sulla programmazione e sul controllo, dettando obiettivi e indicatori di valutazione chiari, precisi ed esaustivi, rinunciando perciò alla gestione e alla continua ingerenza sull’operato dei dirigenti e dei responsabili del servizio.

Tale imperativo deve valere in particolare nei piccoli enti, dove si assiste a una continua commistione dei due apparati, anche solo mediante strumenti che, se salvaguardano il rispetto formale del nuovo assetto di competenze, ne condizionano fortemente e sostanzialmente l’operatività.

Nei comuni di piccole dimensioni, infatti, lo stretto contatto tra organi politici e tecnici, la possibilità di conoscenza da parte dell’organo elettivo di tutta l’attività amministrativa dell’ente - spesso anche dal punto di vista strettamente procedurale - e il rapporto diretto che può instaurarsi tra questi ultimi e la popolazione amministrata, fanno sì che sia molto frequente l’ingerenza dell’organo politico nella gestione amministrativa, con la inevitabile conseguenza di una programmazione molto carente, se non addirittura inesistente, e di una attività gestionale esplicata al di fuori dei caratteri di autonomia, responsabilità e indipendenza che le dovrebbero essere propri, e per di più caratterizzata da notevoli appesantimenti procedurali (si pensi, ad esempio, alla prassi diffusa in molti piccoli enti di comunicare preventivamente in Giunta le determinazioni dei funzionari).

Appare utile ricordare che la questione dei piccoli comuni è stata più volte affrontata anche dalla giurisprudenza (26), la quale, di fronte al tentativo degli amministratori di far rivivere in tali enti il vecchio modus operandi nella gestione della cosa pubblica, ha ribadito l’assoluta incompetenza degli organi elettivi ad adottare atti di natura gestionale anche nei comuni sprovvisti di personale con qualifica dirigenziale.

Tale tesi peraltro è del tutto coerente con l’orientamento espresso dal Ministero dell’Interno (27), il quale, in occasione della riformulazione dell’art. 51 L. 142/90 ad opera dell’art. 2 comma 13 L.191/98, ha confermato che " … le nuove disposizioni della L. 191/98 non introducono alcuna novità, nè alcuna differenziazione per i comuni di esigue dimensioni demografiche rispetto all’assetto organizzativo già delineato con la citata L. 127/97 …" e che " … il nuovo assetto dei poteri all’interno degli enti locali … è improntato a una rigida ed effettiva separazione dei rispettivi ruoli: da una parte i compiti di indirizzo, attribuiti al potere politico, dall’altra i poteri gestionali, che divengono i poteri propri della burocrazia, intesa come il complesso degli apparati amministrativi, chiamati a tradurre in pratica … gli indirizzi politici …" (28).

D’altro canto, l’apparato gestionale deve saper assolvere con diligenza e dignità professionale il proprio ruolo, senza temere il peso delle nuove e impegnative responsabilità, sapendosi districare nella giungla del nostro sistema normativo, e senza subire alcun tipo di condizionamento da parte dell’organo politico, anche nella gestione dei rapporti fiduciari con i professionisti.

Sicuramente, per arrivare alla completa attuazione di questi principi, sarà necessario un ulteriore sforzo degli amministratori e degli operatori, in particolare nei casi in cui la dirigenza risulti, attraverso il meccanismo dello spoil system, di diretta derivazione politica, con il rischio di minare alla base lo stesso principio di separazione tra politica e gestione.

Con le recenti riforme il legislatore ha lanciato una sfida agli amministratori, più che mai richiamati all’etica della responsabilità nel governo della cosa pubblica. In ogni caso la loro azione sarà davvero e concretamente agevolata se stato e regioni sapranno operare una radicale potatura nella selva di un farraginoso sistema normativo, quale condizione indispensabile per una effettiva semplificazione dell’azione amministrativa.

 

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[1] Sul principio di separazione tra politica e amministrazione, cfr., in particolare, L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, 3° edizione, Maggioli 2000, pag.1175 ss.; F. Staderini, Diritto degli enti locali, IX edizione, Cedam 1999, pag. 372 ss.; M. Clarich, D. Ioria, La riforma del pubblico impiego, 3° edizione, Rimini 1999,  pag.102 ss. e 172 ss.; G. Abbamonte, Il problema della dirigenza nell’amministrazione locale: stato delle cose e prospettive, in Atti del XLIV Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, (Tremezzo, 17 – 19 settembre 1999), Giuffrè  1999, pag. 322 ss.; M. Susanna, Il principio di separazione tra funzioni di gestione e funzioni di indirizzo nei comuni, in Rivista del personale degli enti locali, 1999, n° 2, pag. 221 ss.; A. Stancanelli, Le competenze dei dirigenti degli enti locali dopo la L. 127/97, in Giornale di diritto amministrativo, 1998, n° 11, pag. 1045; F. Merloni, La distinzione tra politica e amministrazione, in Diritto pubblico, 1997, n° 2, pag. 319 ss.; F. Caringella, A. Crisafulli, G. De Marzo, F. Romano, Il nuovo volto della pubblica amministrazione, Simone, 1997, pag. 102 ss.

[2] Per un approfondimento, cfr. A. A. Mancieri, Il nuovo modello dei rapporti tra politica ed amministrazione, in Nuova Rassegna, n° 9/00, pagg. 993 ss.; F. Staderini, Le importanti innovazioni apportate dalla legge 265/99 in materia di ordinamento del personale e di ripartizione delle competenze, ivi, n. 18/99 pagg. 1793 ss.; G. Cavallari, Potere di indirizzo politico e gestione amministrativa nei comuni e nelle province, ivi,  n. 19 – 20/99, pagg. 1936 ss.; R. Pontoni Morelli , La dirigenza locale tra attività di gestione e attività di governo, ivi,  n. 16/98 pagg. 1674 ss.; F. Staderini, La nuova disciplina dell’apparato burocratica dell’ente locale, n. 12/97 pagg. 1209 ss.

[3] Cfr L. Olivieri, La legittimità degli impegni di spesa  degli organi politici degli enti locali – casi e limiti, in www.lexitalia.it.

[4] A tale proposito è da segnalare che il Ministero dell’Interno è ritornato sul punto in tempi più recenti con la circolare n° 7 del 26 gennaio 1999 affermando l’esclusiva competenza dei responsabili dei servizi anche in caso di atti spettanti all’organo politico con contenuto provvedimentale e con l’individuazione di tutti gli elementi per la determinazione della spesa.

[5] V. F. Botta, Consiglio e Giunta possono assumere gli impegni di spesa in casi limitati e residuali, in La Finanza Locale n. 11/98, Maggioli, pag.1387. Nello stesso senso, C. Mazzella e R. Ceriana, La semplificazione non affida ai dirigenti la potestà esclusiva sugli impegni di spesa, in Guida agli enti locali n° 21 del 30 maggio 1998, pag. 102.

[6] Sul punto cfr. anche A. Di Piazza – M.C. Giarratano, La legittimità dell’impegno di spesa da parte degli organi politici, in Comuni d’Italia, n° 5/2000, Maggioli, pagg. 699 ss.

[7] L. Oliveri, op. cit.

[8] In tal senso, F. Staderini, Diritto degli enti locali, cit., pag 410, il quale ritiene che il visto contenga in sè due diversi atti: un’attestazione di giudizio in relazione alla regolarità contabile dell’atto controllato, e una dichiarazione di scienza con riguardo all’esistenza o meno della copertura finanziaria necessaria nel caso di determinazioni di impegno meramente contabile e di esecuzione di precedenti deliberazioni.

[9] In tal senso, A. Maccapani, in Italia Oggi del 19 marzo 2000.

[10] L. Oliveri, La legittimità degli impegni di spesa degli organi politici negli enti locali. Casi e limiti, in  www.lexitalia.it.

[11] Così D. Foderini, La deliberazione di Giunta preventiva ai provvedimenti del Sindaco e del Presidente della provincia di conferimento degli incarichi e di nomina e revoca del direttore generale, del segretario, dei dirigenti e dei collaboratori esterni, in L’amministrazione italiana, n° 1/99, pag. 14 e ss.

[12] Tra gli altri, T. Tessaro, Gli atti amministrativi del comune,  2° edizione – Maggioli 1999.

[13] In merito al concetto di autonomia relativo alla qualifica dirigenziale, cfr. Cassazione, sez. lavoro, n° 8572 del 10 agosto 1999, Massimi c. Soc. Ilva, in Mass. 1999, e Cassazione, sez. lavoro, n° 12860, in Notiz. Giur. Lav., 1998, 694, le quali non hanno riconosciuto la qualifica dirigenziale a chi, pur svolgendo mansioni di particolare importanza e ricoprendo un ruolo direttivo, non opera in piena autonomia, ritenendo invece dirigente il soggetto che determina o contribuisce in modo rilevante a determinare le scelte organizzative in piena autonomia.

[14] Sul punto cfr. anche Rambaudi, in Italia Oggi, 25 agosto 2000, pag. 32, il quale ritiene che il legislatore abbia così voluto evidenziare la distinzione tra i due ruoli.

[15] E’ da notare che nel previgente ordinamento la rappresentanza in giudizio era espressamente prevista in capo al sindaco dall’art. 151 del T.U. n° 148/1915,ora abrogato.

[16] Cfr. T.A.R. Toscana, sez. I, 12 gennaio 1995, n° 17, in T.A.R. 1995, I, pag. 1198.

[17] Tale previsione è stata oltretutto recepita dal T. U. degli enti locali che, pur riconoscendo la piena applicabilità all’ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti, delle disposizioni del D. lgs. 29/93. (art. 88), nel Capo III, “dirigenza ed incarichi”, all’art. 111, prevede un potere di adeguamento degli enti locali, in sede di autonomia statutaria, ai principi del suddetto Capo e a quelli del Capo II del D. lgs. 29/93.

[18] T.A.R. Marche, 10 marzo 2000, n° 389, in T.A.R. n° 5 – 6/2000, I, pag. 2634.

[19] G. V. Lombardi, Rappresentanza e autorizzazione a stare in giudizio, in Guida agli enti locali, n° 5 del 12 febbraio 2000, pag.85.

[20] Di uguale avviso è il C. d. S., IV sez., che, con la decisione n° 1164 del 5 luglio 1999, in C.d.S., I, pagg. 1587 ss. premettendo l’inapplicabilità dell’art. 16 D. lgs. 29/93, ribadisce la competenza della Giunta comunale a deliberare l’autorizzazione a stare in giudizio, pur riconoscendo la possibilità di una diversa previsione statutaria. (commento di G. V. Lombardi, op. cit.).

[21] L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, pag. 895, 1195.

[22] Cfr. sul punto A. Maccapani, in Italia Oggi, 12 marzo 1999, pag 44, il quale, commentando il testo finale dell’allora ddl 4493, ritiene che rimane in capo ai dirigenti la competenza a resistere in giudizio in nome e per conto dell’ente locale, poichè, diversamente, la disposizione risulterebbe in contrasto “con il principio generale della rappresentanza con valenza esterna dell’ente locale, anche in sede giurisdizionale, introdotto dall’art. 11 D. lgs. 80/98”

[23] Si veda, in proposito, L. Olivieri, Spetta ai dirigenti l’adozione del provvedimento che autorizza la costituzione in giudizio per gli enti locali, in Rivista del personale dell'ente locale, nov. 1999, pagg. 531/536.

[24] L. Oliveri, In giudizio libera rappresentanza, in Italia Oggi del 15 settembre 2000, pag.43.

[25] G. Decandia, La legitimatio ad processum degli enti locali alla luce del D. Lgs. 80/98, in Nuova Rassegna, n° 11/99, pag. 1002 ss.

[26] T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, ordinanza 20 dicembre 1999, n. 2897, in www.lexitalia.it, con commento di Pietro De Luca, Breve commento all’ordinanza Tar Sicilia – Catania, sez. I – Ordinanza 20 dicembre 1999 n° 2897 , in tema di competenza al rilascio della concessione edilizia in un comune con meno di 10.000 abitanti, sfornito di dirigenti.

[27] Circolare n° 3 del 22 giugno 1998, in G.U. n° 157 dell’ 8 luglio 1998 e circolare n° 4 del 10 ottobre 1998 in G.U. n° 248 del 23 ottobre 1998.

[28] Al riguardo, si segnala che il legislatore è intervenuto recentemente con la L. Finanziaria 2001 n° 388 del 23 dicembre 2000, prevedendo, in presenza di particolari condizioni, la possibilità di restituire l’originario ruolo gestionale alla Giunta. L’art. 53, comma 23, consente, infatti, che gli enti locali con popolazione inferiore a 3000 abitanti, in presenza della riscontrata e documentata “…mancanza non rimediabile di idonee figure professionali nell’ambito dei dipendenti…”, e per ragioni legate al contenimento della spesa da documentare ogni anno con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio, possano adottare misure organizzative e regolamentari, anche in deroga alle disposizioni di cui all’art. 3 D. lgs. 29/93 e all’art. 107 D. lgs. 267/00, finalizzate ad attribuire la responsabilità degli uffici e dei servizi e l’adozione di atti di natura gestionale, ai componenti dell’organo esecutivo.


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