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Articoli e note

n. 6/2003 - copyright

PAOLO CREA
(Consigliere della Corte dei Conti)

P.M. contabile e segreto bancario:
quando una virgola può fare la differenza

 

Le odierne riflessioni traggono spunto da recenti considerazioni [1] sul rapporto tra il segreto bancario e i poteri istruttori del P.M. contabile.

Il merito di esse è quello di affrontare un problema di cui, in realtà, si è molto poco dibattuto, seppure, alla fine, si rappresenta il comune modo di interpretare le norme sulla materia, negando il potere di accesso agli atti e alle informazioni bancarie in mancanza di una norma esplicita in tal senso. Norma mancante in favore della procura erariale.

Si ritiene, infatti, che il segreto bancario non possa essere “infranto” dai poteri istruttori del pubblico ministero di fronte alla Corte dei conti in quanto, in estrema sintesi, "il segreto bancario, pur non previsto da alcuna norma, trova la sua regolamentazione nelle varie disposizioni che ne disciplinano la deroga, per cui si realizza una sorta di definizione in negativo, consistente nella sua operatività verso chiunque non abbia un adeguato titolo per infrangerlo".

Dalla ricostruzione normativa sul detto segreto, emerge che esso era basato sull’art. 10, co. 1, della legge bancaria del 1936 che imponeva il segreto d’ufficio, anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, su tutte le notizie, informazioni e dati riguardanti le aziende di credito sottoposte al controllo della Banca d’Italia, vincolo ritenuto applicabile anche alle stesse banche.

Ma la norma era palesemente diretta ai funzionari del servizio di vigilanza e aveva lo scopo di proteggere la banca da indiscrezioni per esse pregiudizievoli.

Né peraltro, il segreto d’ufficio si presta a tutelare gli interessi dei clienti, nemmeno se il fondamento fosse quello della tutela del risparmio ex art 47 Cost., giacchè se così fosse il segreto tutelerebbe solo i clienti e non le banche. Del resto la Corte Costituzionale (sent. 18 febbraio 1992, n. 51) ha escluso che <al tradizionale riserbo delle banche> corrisponda una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta dei clienti.

Emerge, pertanto, dalla giurisprudenza consolidata che il cosiddetto segreto bancario, sia un uso  normativo integrativo dei contratti tra la banca e il cliente, che vincola alla riservatezza l’istituto di credito nei confronti dei terzi estranei <fatta eccezione soltanto per quelli legittimati da specifiche norme di legge poste a tutela di superiori interessi pubblici>.

Ma deve essere ribadito che anche tale impostazione non appare del tutto convincente, sia per la difficoltà di dimostrare una siffatta consuetudine e di definirne i suoi contenuti, visto che le raccolte di usi la ignorano. Deve inoltre essere stigmatizzato il fatto che le stesse banche di norma escludono una pattuizione espressa del segreto e non offrono spunti per considerarlo pattuito implicitamente escludendo il suo inserimento nelle condizioni generali dei contratti bancari.

Perciò altre costruzioni interpretative hanno condotto il segreto in questione al dovere di buona fede e correttezza contrattuale (art. 1175 c.c.) ovvero ancora al dovere di correttezza nelle trattative (ex art. 1337 c.c.).

Dubbi, inoltre, sono emersi nella possibilità di applicazione alle banche dell’ art. 622 c.p. (violazione del segreto professionale), giacchè l’opinione prevalente è che tale sanzione si applichi per la violazione di un divieto già previsto dalla legge e non possa essa stessa esserne la fonte.

La bontà di tali argomentazioni deve essere letta comunque alla luce del vigente testo unico bancario del 1993 che non prevede tale segreto. Ma anzi sono previste forme di collaborazione con (tutta) l’autorità giudiziaria, le autorità che si occupano di controlli fiscali, di contrasto al riciclaggio di denaro, di contrasto al terrorismo anche internazionale.

Ed al riguardo deve essere notato come le stesse banche derogano il c.d. segreto nei loro rapporti interni quando, quotidianamente, si scambiano informazioni ,anche all’ insaputa dei clienti, sulla solvibilità di questi ultimi, al fine tutelarsi nell’ esercizio della propria attività.

Fatti che nel loro complesso dimostrano che, quantomeno, l’esigenza di riserbo non possa essere di ostacolo ad esigenze costituzionali primarie, secondo la giurisprudenza costituzionale già citata che “smitizza” detto segreto rilevando che spetta al legislatore primario stabilire  “il se, il quanto e il come” della sua eventuale tutela.

In sostanza il dovere di riserbo che caratterizza i rapporti bancari lascia ad ogni singolo istituto il compito di non divulgare le notizie in modo contrario alla correttezza.

La banca può tutelarsi (e tutelare il cliente) contro indagini o richieste illegittime precisando che le reazioni contro tali atti sono limitate, in quanto la banca può verificare solo la legittimità formale dei provvedimenti, non quella sostanziale, non essendo previsti rimedi contro l’esercizio di poteri istruttori della magistratura inquirente (compresa quella contabile). Nei casi in cui la banca ritiene non correttamente utilizzati tali poteri potrà solo fare constare in verbale la sua opposizione (a tutela della responsabilità verso il cliente). Notando comunque che gli atti e gli elementi raccolti dalla autorità procedente non sono soggetti a regole di inutilizzabilità processuale (e perciò si dubita anche della stessa possibilità per la banca di opporsi).

Tra gli interessi di rilevanza costituzionale prevalenti sul segreto bancario sono in genere individuati quelli discendenti dall’ art. 53 Cost. (il concorso di ogni cittadino alle spese pubbliche) sui quali sarebbero poi fondati le “deroghe” in favore delle Autorità amministrative indicate nel DM 4.08.2000 n. 269 (Regolamento istitutivo dell’ anagrafe dei rapporti di conto e di deposito, previsto dall’ art.20,co.4, della L. 30 dicembre 1991, n. 413) pubblicato sulla G.U. 2 ottobre 2000, n. 230.

Nel testo del menzionato articolo è citato l’ art 7, co.1, del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) che esclude l’opponibilità del segreto bancario < all’autorità giudiziaria quando le informazioni richieste siano necessarie per le indagini, o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente>.

Nel testo dell’ articolo citato alla nota uno non figura la “virgola”  dell’ inciso sopra riportato, “virgola” che è invece, sotto il profilo testuale, determinante per distinguere la richiesta delle informazioni provenienti dall’ autorità giudiziaria (qualunque essa sia) per le proprie indagini, da quelle riguardanti (specificamente) i procedimenti penali, ossia quelli <relativi a violazioni sanzionate penalmente>.

Separazione lessicale rafforzata dall’ uso della lettera “o” con valore disgiuntivo degli elementi dell’inciso normativo.

Parimenti l’ art. 4,co.2, lett.a) del DM n. 269\2000 distingue i soggetti abilitati ad avanzare richiesta di accesso all’anagrafe, tra <l’autorità giudiziaria, ai sensi delle vigenti disposizioni del codice di procedura penale, ovvero dagli ufficiali di polizia giudiziaria delegati dal pubblico ministero…> [2].

Ora non sembra inopportuno ricordare che le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti sono riconosciute dall’ art. 103,co.2, Cost. laddove più specificamente per il pubblico ministero presso le giurisdizioni (cosiddette) speciali l’art. 108, co. 2, Cost riconosce le funzioni riservando alla legge la realizzazione della loro indipendenza.

Ricordando,inoltre, che la magistratura al proprio interno si distingue solo per funzioni (art. 107, co. 2, Cost.) e ribadendo l’insegnamento della Corte Costituzionale secondo cui ogni ordine giudiziario è il “giudice ordinario” della materia assegnata e in particolare per il pubblico ministero contabile (Corte Cost., 22 febbraio-9 marzo 1989, n. 104) che esso è un <magistrato appartenente all’ordine giudiziario il quale non fa valere interessi particolari dell’ amministrazione ma agisce esclusivamente a tutela dell’ interesse generale all’ osservanza della legge:persegue, come si usa dire,fini di giustizia> al pari di ogni ufficio del P.M. presente nell’ attuale assetto giudiziario.

Come sia possibile a questo punto riconoscere come superiori gli interessi discendenti dall’art. 53 Cost. che legittimerebbero la deroga al detto segreto in favore di Autorità amministrative e non riconoscere gli interessi, parimenti di rilevanza costituzionale, di cui è portatrice la Corte dei conti sia come Istituto di rilevanza costituzionale, sia come corpo di magistrati (quindi una sorta di doppio riconoscimento costituzionale), risulta francamente singolare.

Al riguardo, peraltro, non appare giustificabile,sotto il profilo della gerarchia delle fonti normative, la paralizzazione dei poteri istruttori della magistratura inquirente contabile (come detto di rilievo costituzionale) da parte di usi contrattuali vincolanti solo tra le parti.

A questo punto il pensiero è già chiaro: laddove le norme cosiddette autorizzatrici delle deroghe al segreto bancario si riferiscono genericamente all’ autorità giudiziaria esse sono utilizzabili dal pubblico ministero contabile come da qualunque altra autorità giudiziaria.

Le sole norme che specificamente si riferiscono alla Procura della Repubblica,o a poteri che sono soggetti a riserva assoluta di legge (limitazione della libertà personale,di domicilio e di comunicazione), invece, non appaiono applicabili oltre i casi in esse previsti.

In sostanza è la costruzione “a contrario” del segreto (nel senso che è derogabile nei casi previsti) che non appare convincente, perché per ammetterla si deve preliminarmente dimostrare che il segreto non solo sia previsto nell’ ordinamento,ma anche che sia uno di quei casi in cui la legge preveda una riserva di disciplina.

Non sembra inopportuno al riguardo evidenziare che nessuna norma prevede (come detto) il segreto, nessuna norma prevede una riserva di legge sul segreto e consequenzialmente nessuna norma disciplina i casi,i modi e i tempi per superarlo, ma addirittura la norma ordinaria dell’art. 7 del T.U. bancario n. 385/1993 rubricato come “collaborazione tra autorità” include genericamente l’autorità giudiziaria quando le informazioni richieste sono necessarie per le indagini,specificando (si reputa con intento rafforzativo) che il segreto non vincola l’istituto di credito per i procedimenti di rilievo penale.

Non appare,pertanto, condivisibile l’opinione riportata nel menzionato articolo secondo cui la puntuale elencazione nelle norme regolamentari dell’ accesso all’anagrafe tributaria dei soggetti ammessi, le rigorose modalità di accesso,conservazione ed utilizzazione delle informazioni bancarie, rendono inimmaginabile, pertanto,ogni arbitraria attribuzione della facoltà di disporre accertamenti bancari <in assenza di inequivocabili norme di deroga, non sussistendo,ovviamente,margine alcuno per interpretazioni di carattere estensivo>.

L’impossibilità di procedere ad interpretazioni analogiche o estensive presuppone che le norme da applicare siano espressione di vincoli assoluti di legge o portatrici di interessi primari ed indisponibili, cosa da escludere per il segreto bancario che, come detto, non è rinvenibile in alcuna norma di legge e che rileva solo in rapporti contrattuali tra le parti.

Ciò sarebbe sufficiente quantomeno ad assoggettare ogni singola parola delle norme che di esso si occupano alla interpretazione estensiva e teleologica includendo nei concetti di esse tutti quelli non incompatibili.

Perciò nel concetto di autorità giudiziaria deve farsi rientrare tutta la magistratura,di ogni ordine e grado, inquirente e giudicante.

La previsione dei casi in cui gli istituti bancari e di credito possono derogare al segreto bancario,allora, rileva come causa di esclusione della responsabilità (contrattuale) di tali soggetti nei confronti dei loro clienti, i quali nei casi previsti dalle norme in argomento non possono chiedere i danni né da inadempimento, perché in quei casi il contratto deve ritenersi integrato dalla possibilità di rendere notizie; né extracontrattuali, in quanto, sempre nei casi previsti, gli istituti di credito e finanziari adempiono un dovere, che come tale esclude l’ingiustizia del danno.

Nell’ambito del segnalato profilo di non coincidenza tra gli obblighi contrattuali delle parti del rapporto bancario (o assimilato) e i doveri discendenti dai rapporti tra i menzionati istituti e le autorità che ad essi possono rivolgersi per accedere alle informazioni, devono essere considerati almeno i seguenti altri aspetti:quali conseguenze subisce la banca che non ottempera ad un ordine legittimo dell’ autorità che ad essa si rivolge, e se le norme bancarie di cui si discute possono incidere sui poteri di esercizio delle funzioni giurisdizionali.

Non pare allora inopportuno ricordare che le funzioni giurisdizionali sono soggette a riserva di legge (in alcuni casi assoluta) ,e i poteri applicati dalla magistratura non possono essere costruiti sulla base .di norme di disciplina di soggetti estranei all’ordine giudiziario, come si vorrebbe fare desumendone i suoi poteri in base alle norme bancarie.

Quanto al primo aspetto sembra possibile che l’inottemperanza integri, sotto il profilo materiale, gli estremi dei reati previsti dagli artt. 650 o 328 del codice penale, a seconda che nell’esercizio delle funzioni svolte dai soggetti degli istituti cui è rivolta la richiesta siano o meno ravvisabili le caratteristiche del pubblico servizio o delle pubbliche funzioni.

Appare possibile anche contestare il reato di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.).

Quanto al secondo, legato al primo, per il fatto che la richiesta o l’ordine deve essere <legalmente dato> deve rilevarsi che gli specifici poteri della procura della Corte dei conti prevedono che il PM possa disporre il sequestro dei documenti (cartacei ed informatici), senza alcuna limitazione, e possa disporre audizioni personali, senza alcuna limitazione.

Tali poteri, peraltro, non sono tra quelli soggetti a riserva assoluta di legge.

Escludere che tali poteri non siano esercitabili nei confronti delle banche, in mancanza di norme espresse in tal senso,ed anzi con la previsione espressa di legge della loro collaborazione con l’autorità giudiziaria, espone i soggetti operanti in tali istituti,che si opponessero all’ esercizio di tali poteri giudiziari,alla possibilità di incorrere in reati (compreso quello di false dichiarazioni al pubblico ufficiale).

Se le prospettate conseguenze sono possibili, appare arduo ritenere che la banca possa opporre il segreto alla procura erariale.

Appare a questo punto opportuno evidenziare ulteriormente l’opinione secondo cui gli “accertamenti patrimoniali” che può effettuare il Procuratore Generale della Corte dei Conti in forza dell’ art. 6 della legge 27 marzo 2001, n. 97 possa essere interpretato come mezzo per <dare significativa efficacia alla norma in questione>, escludendo tuttavia la possibilità di effettuare le indagini bancarie in mancanza di esplicita affermazione in tal senso. Tale limitazione non pare ammissibile: la norma, infatti, si presta ad essere interpretata proprio nella sua massima latitudine,sia perché la ratio di essa è quella di “dare significativa efficacia” all’ esercizio dell’azione contabile, sia perché è qui contestato, come già sopra evidenziato, che il superamento del segreto necessiti di specifica norma per essere superato dalla magistratura inquirente contabile, destinataria di specifiche, seppur non sempre esaustive, norme concessive di poteri istruttori giurisdizionali. Si potrebbe, tutt’al più, ammettere che una norma specifica vieti l’uso delle indagini bancarie da parte della procura contabile; ma questa norma non è presente nell’ ordinamento.

Del resto l’ art. 4, co. 1, del citato DM 269\2000 laddove si riferisce agli “accertamenti di carattere patrimoniale” si riferisce proprio alle indagini bancarie. Pertanto è lo stesso legislatore che considera il concetto di “accertamento patrimoniale” come comprendente non solo le notizie acquisibili dai pubblici registri, ma anche quelle bancarie.

Non si comprende,perciò, perché la medesima espressione normativa utilizzata nell’art. 6 della legge 97\2001 debba essere intesa in senso restrittivo, tanto più che l’art. 4 del regolamento 269\2000  prevede testualmente che gli accertamenti in questione sono finalizzati alla ricerca e all’ acquisizione della prova e delle fonti di prova, non solo nel processo penale in tutte le sue fasi ma anche <per le finalità di prevenzione previste da specifiche disposizioni di legge>, tra le quali a giusto titolo si colloca l’ art. 6 della legge 97\2001.

A conferma della pluralità delle ipotesi contemplate dalla norma del regolamento sulla cosiddetta anagrafe tributaria deve evidenziarsi che la norma separa gli accertamenti necessari per le indagini penali dalle altre ipotesi con la parola “ovvero”:  testualmente <ovvero degli accertamenti di carattere patrimoniale per le finalità di prevenzione previste da specifiche disposizioni di legge e per l’applicazione delle misure di prevenzione>.

Pur nella convinzione di non avere dato fondo ad ogni argomentazione giuridica sulla questione, appare necessario spendere qualche considerazione sulla possibilità paventata nell’articolo indicato in epigrafe che considera possibile l’effettuazione delle indagini bancarie da parte del giudice contabile ai sensi dell’ art. 210 c.p.c. applicabile in virtù del rinvio fatto al codice di rito dall’ art. 26 del RD 13 agosto 1933, n. 1038 (regolamento di procedura nei giudizi di fronte alla Corte dei conti).

Tale articolo recita che <Nei procedimenti contenziosi di competenza della Corte dei conti si osservano le norme e i termini della procedura civile in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni del presente regolamento>.

La norma in questione si riferisce ai “procedimenti contenziosi”, ossia a tutti quelli in cui il giudice risolve il conflitto tra le parti, sia in modo definitivo con valore di giudicato che con valore provvisorio.

Tale caratteristica di “procedimento contenzioso” non si rinviene nella fase istruttoria avviata dalla procura contabile.

Dubbi,pertanto, devono sorgere sulla possibilità che le norme del codice di rito possano applicarsi sic et sempliciter alla fase delle indagini preliminari all’esercizio dell’azione di responsabilità erariale o contabile, che avviene secondo pacifico e consolidato orientamento con il deposito dell’ atto di citazione in giudizio.

Non solo, ma la struttura dei procedimenti contenziosi civili tra le parti private dà per scontato che gli interessi sottostanti siano disponibili e di conseguenza le relative prove siano parimenti disponibili ed accessibili alle parti. Tale situazione non si riscontra nel giudizio erariale che si instaura a seguito di un’azione pubblica che presuppone che la procura abbia appunto avviato il giudizio dopo che abbia raccolto solide fonti di prova o prove precostituite da esibire in giudizio: cosa che non appare possibile se l’ufficio inquirente non abbia la possibilità di raccogliere le prove.

E’ questo,peraltro, il più consistente ostacolo all’ esercizio dell’ azione contabile, giacchè alcuni poteri penetranti, ossia quelli esercitabili nei casi, modi e tempi previsti dalla legge (perché si tratta di incidere su diritti soggetti a riserva assoluta di legge), esistono i capo al giudice ma non sempre in capo al pubblico ministero (si pensi, ad esempio, all’accompagnamento coattivo della persona informata non previsto in fase di indagine, ma esercitatile dal giudice dopo l’incardinazione del giudizio).

Ostacolo che da tempo si cerca di superare con un rinnovato regolamento di procedura.

Appare comunque sintomatico del modo di intendere la funzione inquirente contabile,che vede una fase inquisitoria pubblica e un giudizio regolato da regole “civili”, il fatto che il legislatore quando ha espressamente conferito al pubblico ministero contabile i poteri di nominare esperti e consulenti ha espressamente rinviato alle norme del codice di procedura penale.

L’applicazione delle norme di procedura civile al giudizio di responsabilità per danno erariale segue l’originaria impostazione dogmatica dell’ istituto, inquadrato come specie nella responsabilità di tipo contrattuale (sul presupposto che il rapporto tra il dipendente e l’amministrazione fosse regolato alla pari di un rapporto sinallagmatico).

Ma tale costruzione, seriamente in crisi almeno dai primi anni novanta, deve oggi essere rivista alla luce della giurisprudenza costituzionale che nel 1998 (sentenze nn. 327 del 24 luglio 1998; n. 371 del 20 novembre 1998; n. 453 del 30 dicembre 1998; e da ultimo quella n. 340 del 2001) ha preso atto dell’ evolversi della responsabilità erariale verso forme sanzionatorie delle condotte dei soggetti svolgenti pubbliche funzioni.

[1] Si fa riferimento all’ articolo apparso sul n. 4/2002 della Rivista della Guardia di Finanza,Segreto bancario e poteri istruttori del P.M. presso la Corte dei conti” di G. AZZARA’.

[2] Sulla possibilità di qualificare come attività di polizia giudiziaria (nella specie extrapenale) quella delegata alle Forze di Polizia da parte del PM contabile,si consentito rinviare a P. CREA, Responsabilità contabile,poteri del PM e delega alla polizia giudiziaria, in Diritto e Giustizia, n. 26/2002, 56 ss.

Anche sulla scorta di tali considerazioni, pertanto, appare applicabile l’art. 4,  co.  2, del D.M. 269/2000 laddove prevede che l’accesso all’ anagrafe tributaria è consentito <agli ufficiali di polizia giudiziaria delegati dal pubblico ministero>.


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