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n.
3/2012 - ©
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CALOGERO COMMANDATORE
(Magistrato
ordinario)
Il “falso innocuo” nelle gare per l’affidamento degli appalti pubblici
(nota
alla sentenza del
Cons. Stato, Sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471*)
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1. La questione affrontata dalla sentenza.
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato torna ad occuparsi della questione relativa al “falso innocuo” nelle gare per l’affidamento di appalti pubblici.
Tale questione si è imposta di recente all’attenzione dei giudici amministrativi di primo e secondo grado chiamati ad interpretare il dettato dell’art. 38 d.lgs. n. 163/2006.
Nel caso affrontato nella sentenza in questione, il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso incidentale ed escluso l’impresa perché nella documentazione presentata in sede di gara mancava la dichiarazione ex articolo 38 Codice Contratti di un amministratore della società ricorrente, munito di poteri di rappresentanza.
La Terza Sezione ha rigettato l’appello ed ha escluso l’applicazione della teoria del “falso innocuo” poiché “a giudizio del Collegio, il falso è innocuo quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati. Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da perseguire perché consente – anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità – la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conseguentemente una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti ‘sostanzialmente’ di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione.”
Nella sentenza in commento si dà atto del diverso orientamento (definito "sostanzialista") della Quinta Sezione secondo cui l’incompletezza o falsità delle dichiarazioni relative ai requisiti dell’art. 38 non comporta l’esclusione dalla gara poiché non espressamente previsto dalla norma a differenza dell’effettiva mancanza dei requisiti previsti dalla norma di legge.
2. I reati di falso. Cenni.
Al fine di comprendere le scelte interpretative delle due sezioni del massimo Consesso amministrativo giova richiamare la nozione di falso innocuo così come elaborata in ambito penale.
Come ricordato da Autorevole dottrina [1] i delitti contro la fede pubblica sono posti a tutela di uno specifico bene giuridico: “la fiducia del pubblico in determinati oggetti e simboli, sulla cui genuinità o autenticità deve potersi fare assegnamento al fine di rendere certo e sollecito lo svolgimento del traffico economico e/o giuridico”.
Tale definizione trova una chiara rispondenza in ciò che si legge nella Relazione ministeriale del codice del 1930 che fa coincidere la fede pubblica con “la fiducia che la società ripone negli oggetti, segni, forme esteriori […] ai quali l’ordinamento attribuisce una particolare importanza”: in questa ottica, i reati di falso tutelerebbero esclusivamente la fiducia pubblica costituendo reati monoffensivi.
Autorevole dottrina [2] ha però evidenziato che la nozione di pubblica fede appare invero nebulosa, generica e astratta, sicché l’effettivo interesse che viene tutelato dai reati di falso non è la fede pubblica - la quale rappresenta solo un bene strumentale -, ma gli ulteriori e diversi interessi pubblici e/o privati rispetto ai quali la publica fides assume un ruolo servente.
I reati di falso avrebbero natura plurioffensiva risultando necessario che oltre alla pubblica fede - bene giuridico strumentale - vengano offesi ulteriori e specifici interessi che rappresentano il “vero scopo del falsario [3]”.
Tale ricostruzione è stato oggetto di critiche sia in dottrina sia in giurisprudenza poiché detti interessi ulteriori sarebbero verificabili solo ex post, ossia dopo la consumazione della falsificazione.
Ubbidiva a tale impostazione il codice Zanardelli che agli artt. 275 e 276 faceva dipendere la punibilità dei reati di falso dalla possibilità che potesse derivare un pubblico o privato nocumento.
Invero, in modo condivisibile, altra parte della dottrina [4] ha ricondotto ad unità la pluralità di interessi ulteriori che sarebbero lesi dalla condotta falsificatrice: la pluralità degli interessi sarebbe sintetizzabile nell’offesa nella fede pubblica intesa però come “certezza e affidabilità del traffico economico e/o giuridico”.
3. Il falso innocuo, grossolano e inutile.
Le questioni sulla natura monoffensiva o plurioffensiva dei reati di falso e la duplice nozione di fede pubblica (fiducia pubblica/certezza dei traffici) si riflettono sull’elaborazione giurisprudenziale dei concetti di falso grossolano, falso inutile e falso innocuo.
Il falso grossolano non è punibile poiché l’azione si appalesa assolutamente inidonea ai sensi dell’art. 49 c.p. integrando gli estremi del reato impossibile per assoluta inidoneità (in astratto) dell’azione.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte il falso grossolano si apprezza solo quando il falso sia "ictu oculi" riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento e avvedutezza e non si debba far riferimento nè alle particolari cognizioni e alla competenza specifica di soggetti qualificati, nè alla straordinaria diligenza di cui alcune persone possono esser dotate [5].
Anche il falso inutile o falso superfluo configura un’ipotesi di reato impossibile ai sensi dell’art. 49 c.p., ma, in tal caso, l’impossibilità dell’azione non deriva da un’inidoneità assoluta (e astratta) della condotta posta in essere bensì per l’inesistenza dell’oggetto poiché il falso inutile cade su un atto, o su una parte di esso assolutamente privo di qualunque valenza fidefacente [6] .
Falso grossolano e falso inutile per quanto fin qui esposto inferiscono alla categoria del reato impossibile.
Diversamente il falso innocuo non è riconducibile alla categoria del reato impossibile - che si riferisce alla pericolosità (rectius mancanza di pericolosità) in astratto - ma alla c.d. pericolosità in concreto, valutabile “ex post” [7] ossia alla “concreta inidoneità del falso ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati” [8].
Detta impostazione è stata oggetto di critiche da parte di alcuni Autori [9] poiché la valutazione “ex post” lascerebbe un eccessivo margine di discrezionalità al giudice in contrasto con il principio di legalità.
Nel falso innocuo trovano piena applicazione gli indirizzi della dottrina[10] e della giurisprudenza [11] favorevoli alla concreta operatività del “principio di offensività” che impedisce al legislatore di sanzionare con lo strumento penale condotte non offensive, ma si semplice disobbedienza.
Sul punto, la giurisprudenza costituzionale [12] ha di recente rimarcato come il Legislatore abbia ampia discrezionalità nell’introdurre norme incriminatrici scegliendo anche “forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva” purché dette scelte rispettino il principio di necessaria offensività del reato.
Secondo i giudici costituzionali il controllo del rispetto principio di necessaria offensività delle fattispecie incriminatrici si ripartisce in modo differente tra il giudice costituzionale e i giudici ordinari.
È infatti riservato alla Consulta la verifica dell'offensività «in astratto», “acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991)”.
Di contro è riservato al giudice ordinario il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa dovendo “evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva”.
Sulla base di tali direttrici, la distinzione tra falso grossolano e falso innocuo è stata oggetto di attento esame da parte delle sezioni unite che con la sentenza n. 46892 del 25 ottobre 2007 che appare utile riportare:
“6.1 - Quanto ai profili di natura sostanziale, meritano attenzione, ai fini che qui interessano, e sotto differenti aspetti, le categorie del falso grossolano e del falso innocuo.
Il falso grossolano è quello che si presenta così evidente da risultare inidoneo ad ingannare chicchessia: il che dovrebbe essere sufficiente a farlo considerare inoffensivo, a prescindere, cioè, da qualsiasi altra valutazione circa la sua eventuale idoneità a porre in pericolo anche ulteriori interessi. Nella prassi giudiziaria, laddove la falsità risulti macroscopica, ed "ictu oculi" percepibile, il fatto viene di regola considerato penalmente irrilevante (Sez. 5, n. 11498/90, imp. Casarola, RV. 185132) proprio perchè incapace di ingenerare errore nei terzi, circa l'affidabilità del documento (o del segno, ecc): in detta ipotesi, per la valutazione di inoffensività del fatto, è evidentemente sufficiente, dunque, considerare il bene giuridico rappresentato dalla pubblica fede. In estrema sintesi, può qualificarsi come falso grossolano il falso inoffensivo rispetto al bene "fede pubblica", proprio per l'inidoneità dello stesso a trarre in inganno la collettività; inidoneità che, derivando dalle modalità della falsificazione - prevalentemente di natura materiale - comporta una valutazione giudiziale in punto di fatto.
Si parla, invece, di falso innocuo, per indicare - in generale - il falso che risulti "inoffensivo per la concreta inidoneità ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati" (così come precisato da autorevole esponente della dottrina): con conseguente necessità, per l'interprete, di un accertamento in concreto, in relazione alle peculiarità del singolo caso, onde verificare i possibili effetti della falsità con riferimento a quella determinata situazione giuridica interessata dalla falsità.
Un falso - pur astrattamente idoneo ad ingannare il pubblico - rivelatosi però privo di qualsiasi concreta incidenza sulla sfera giuridica di chicchessia, dovrebbe essere valutato penalmente irrilevante, così come affermato in giurisprudenza (Sez. 5, n. 7875/87, imp. Dell'Acqua, rv. 176302; Sez. 5, n. 421/07, imp. Scaricabarozzi, rv. 206630) e sostenuto in dottrina: e non mancano Autori secondo i quali il falso innocuo rappresenta una categoria più estesa del falso grossolano, in quanto comprensiva non solo di quest'ultimo, ma anche di tutte le falsità incapaci di nuocere a qualsiasi soggetto. In sostanza, il falso innocuo può definirsi tale in due diversi significati. In senso lato, il falso innocuo abbraccia anche il falso grossolano, non potendo certo ipotizzarsi un falso grossolano che non sia nel contempo anche innocuo.Può parlarsi di falso innocuo in senso stretto, ove si voglia considerare la sua inoffensività non con riferimento al bene "fede pubblica", bensì in relazione ad un interesse ulteriore e connesso, tutelato dalla singola fattispecie incriminatrice ove alla stessa si riconosca natura plurioffensiva: l'innocuità del falso, cioè, può risultare anche al di fuori delle ipotesi di falso grossolano, nel caso in cui risulti esclusa - in forza di una valutazione giudiziale in punto di diritto, questa volta, e non di fatto - l'effettiva e concreta esposizione a pericolo di quei beni ulteriori rispetto alla fede pubblica, che, per i sostenitori della tesi della plurioffensività, si assumono oggetto di tutela da parte delle fattispecie "de quibus".
La nozione di falso innocuo, in particolare, sembra dunque confortare l'indirizzo interpretativo - che, come sopra anticipato, queste Sezioni Unite ritengono condivisibile - secondo cui ai delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, in primo luogo e soprattutto, un'offesa alla fiducia che la collettività ripone nella genuinità ed autenticità di atti e documenti di rilevanza pubblica, ma, altresì, una ulteriore, e potenziale, attitudine offensiva che può concretizzarsi nei confronti di una determinata situazione giuridica.”
4. Il falso innocuo e partecipazione a procedure di evidenza pubblica.
Il capo II del d.lgs. n. 163/2006 rubricato “Requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento” individua i soggetti che possono partecipare alle procedure di affidamento e i requisiti (di carattere morale, tecnico ed economico) che detti soggetti devono possedere.
L’art. 38 - contenuto nel suindicato capo - prevede i c.d. requisiti d’idoneità morale al fine di escludere determinati soggetti dalla partecipazione alle gare pubbliche. Tale previsione di legge rappresenta la chiara attuazione dell’art. 45 della direttiva 2004/18/CE ove vengono disciplinate ipotesi tassative e inderogabili di esclusione dalle gare, altre ipotesi di esclusione che ogni Stato nell’attuazione della direttiva può o meno introdurre e infine vengono altresì regolate le modalità con cui l’offerente può dar prova del possesso dei requisiti.
Fedele a tale impostazione l’art. 38, nella prima parte contempla un elenco dei casi di esclusione dalla gara, laddove nel secondo comma disciplina le modalità con cui l’offerente o il candidato attesta il possesso dei requisiti richiesti nel primo comma e segnatamente “mediante dichiarazione sostitutiva in conformita' alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
A parere della Quinta Sezione del Consiglio di Stato [13] l’esclusione dalla gara può comminarsi solo in caso della mancanza effettiva dei requisiti di partecipazione, mentre eventuali omissioni o errori che cadano sulla dichiarazione non possono comportare tale sanzione.
Tale scelta interpretativa trova il proprio fondamento - come già detto - su una lettura sostanzialistica delle cause di esclusione previste dall’art. 38 d.lgs. 163/2006 configurando così come innocuo il falso di eventuali dichiarazioni.
Le argomentazioni cui perviene tale indirizzo giurisprudenziale poggiano altresì su argomenti di carattere esegetico “ossia sulla considerazione che il primo comma dell'art. 38 ricollega l'esclusione dalla gara al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati, mentre il secondo comma non prevede analoga sanzione per l'ipotesi della mancata o non perspicua dichiarazione. Da ciò discende che solo l'insussistenza in concreto delle cause di esclusione previste dall'art. 38 comporta, ope legis, l'effetto espulsivo.
Quando, al contrario, il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la pena dell'esclusione in relazione alla mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, facendo generico richiamo all'assenza delle cause impeditive di cui all'art. 38 - come nel caso all'esame del Collegio, in cui nessuna condanna è stata contestata nei riguardi del B. e del P. - l'omissione non produce alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo un'ipotesi di "falso innocuo", come tale insuscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa o - si ripete - della legge di gara, a fondare l'esclusione, le cui ipotesi sono tassative.
In senso conforme alla prospettata soluzione depone anche l'art. 45 della direttiva 2004/18/CE che ricollega l'esclusione alle sole ipotesi di grave colpevolezza di false dichiarazioni nel fornire informazioni, non rinvenibile nel caso in cui il concorrente non consegua alcun vantaggio in termini competitivi , essendo in possesso di tutti i requisiti previsti (cfr. Cons. St. n. 1017/2010 cit.)”
Tentando così di applicare le categorie brevemente delineate nel paragrafo precedente è evidente che la ricostruzione adottata dalla Quinta Sezione presuppone che il bene giuridico sotteso alla disciplina prevista dall’art. 38 sia rinvenibile principalmente nell’esistenza dei requisiti ivi richiesti di cui la dichiarazione sostitutiva ex DPR n. 445/2000 rappresenta esclusivamente un mezzo probatorio suscettibile di altri equipollenti.
Altro indirizzo giurisprudenziale - cui aderisce la sentenza in commento - ritiene che l’art. 38 sia una norma posta a presidio non solo dell’effettiva esistenza dei requisiti richiesti in capo all’offerente o al concorrente, ma rappresenti uno strumento per assicurare il buon andamento della P.A., la quale deve poter fare affidamento su quanto dichiarato dai concorrenti per evitare inutili aggravi procedimentali [14].
Non può trascurarsi, infatti, che il partecipante a una pubblica gara, attraverso le dichiarazioni ex DPR n. 445/2000, concorre a completare e delineare il quadro istruttorio del procedimento amministrativo di evidenza pubblica esonerando la P.A. da una gravosa istruttoria finalizzata ad accertare, in concreto, l’esistenza dei requisiti di partecipazione dei concorrenti.
Muovendo da tale considerazione, il falso che cade sulla dichiarazione ex DPR n. 445/2000 non può qualificarsi come innocuo perché a ben vedere mette in pericolo uno specifico bene giuridico: l’affidamento della P.A. che sulla base di tali dichiarazioni imposta la procedura competitiva [15].
La sentenza in commento richiama a sostegno della tesi restrittiva l’insegnamento delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, 27 novembre 2008, n. 6591 che hanno affermato la rilevanza penale del falso compiuto mediante dichiarazione sostitutiva ex DPR n. 445/2000 da chi si trovava effettivamente nelle condizioni per accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato perché bisogna avere riguardo alla funzione che l’atto svolge per l’ordinamento giuridico: porre subito nelle condizioni il decidente di ammettere al gratuito patrocinio.
La Suprema Corte ricorda che la veridicità della dichiarazione sostituiva è posta a tutela “della compiuta ed affidabile informazione del destinatario [il magistrato] che, a fronte della complessità del tenore dell'istanza cui è speculare la valutazione da svolgere, ha urgenza di decidere”, sicché nel caso di difformità tra i dati emergenti nella dichiarazione e la situazione di fatto non potrà configurarsi alcun falso innocuo (tuttalpiù l’attenzione del giudice penale dovrà concentrarsi sull’elemento soggettivo).
In altre parole, la soluzione adottata dalla sentenza in commento non mira a un ritorno alla teoria della monoffensività dei reati falso e della necessaria tutela della pubblica fede intesa in modo astratto e generico, ma rappresenta, invece, una corretta applicazione della teoria dell’offensività in concreto poiché la falsa dichiarazione in procedure competitive, di per sé, appare idonea a pregiudicare la par condicio competitorum.
Come evidenziato, in modo condivisibile, in una recente sentenza della Sesta Sezione [16] spingendo alle estreme conseguenze la tesi sostanzialista si consentirebbe ai candidati interessati all’affidamento dell’appalto di rendere, nel corso del procedimento dichiarazioni non veritiere con la possibilità di disconoscerle una volta accertato che le stesse sono inutili allo scopo di conseguire il risultato sperato.
La sentenza sottolinea che tale “tesi comporta un evidente nocumento per la parità di condizione fra i partecipanti alla gara o a qualsiasi procedimento cui partecipino diversi aspiranti, per cui non può essere condivisa.
Il falso quindi non deve essere neanche potenzialmente in grado di incidere sul procedimento, e non può essere considerato innocuo il falso potenzialmente in grado di incidere sulle determinazioni dell'Amministrazione.”
In conclusione, la breve analisi dei contrapposti indirizzi giurisprudenziali evidenzia come il giudice amministrativo sia – allo stato – diviso dall’esigenza di contemperare due diverse esigenze legittime, da un lato, il favor partecipationis e, dall’altro, il buon andamento della P.A.
Nel bilanciare queste due differenti esigenze (a parere di chi scrive) appare corretta la soluzione adottata dalla Terza Sezione con la sentenza in commento. Infatti, l’accoglimento della teoria “sostanzialista” - consentendo l’accertamento dei requisiti di partecipazione anche ex post – comporterebbe un eccesivo aggravamento del procedimento amministrativo in contrasto con i principi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, logici corollari del buon andamento.
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[1] G. Fiandaca - E. Musco, Diritto Penale, Parte speciale, Bologna, 2002, 529 e ss.
[2] F. Liszt (von), Lehrbuch des deutschen Strafrechts, Berlin, 1908 ; G. Delitala, Concorso di norme e concorso di reati, in Riv. it. dir. pen., 1934, 109.
[4] G. Fiandaca - E. Musco, Diritto Penale, Parte speciale, Bologna, 2002, 529 e ss.
[5] Cass. Pen., Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 41108 in CED.
[6] Cass. Pen., Sez. V, 05 luglio 1990, n. 11498 in CED.
[7] F. Crimi, voce Falso (delitti di), in Dig. dir. pen., Aggiornamento, Torino, 2008, vol. III, 297.
[8] G. Fiandaca - E. Musco, Diritto Penale, op. cit. 2002, 535 e ss.
[9] Nappi, in Falso e legge penale, Milano, 1989, 23 e ss.
[10] E. Mezzetti, La condotta nelle fattispecie pertinenti al falso documentale, in AA.VV., Le falsità documentali, a cura di Ramacci, Padova, 2001.
[11] Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 1997, n. 3134.
[12] Corte Cost., 20 giugno 2008, n. 225 in www.cortecostituzionale.it.
[13] Cons. Stato, Sez. V, 9 novembre 2010, n. 7967 in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] In tal senso si era espressa la stessa Quinta Sezione con al sentenza del 12.6.2009 n. 3742 www.giustizia-amministrativa.it che puntualmente evidenziava: “Le dichiarazioni sono, in realtà, richieste per una finalità che non è solo di garanzia sull'assenza di ostacoli pure di natura etica all'aggiudicazione del contratto, ma anche per una ordinaria verifica sull'affidabilità dei soggetti partecipanti: la concreta carenza di condizioni ostative costituisce un elemento successivo rispetto alla conoscenza di una situazione di astratta sussistenza dei requisiti morali e giuridici che lambiscono in modo determinante la professionalità degli amministratori”
[15] In tale senso cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III quater, 15 luglio 2009, n. 8304 in www.giustizia-amministrativa.it secondo cui l'autodichiarazione sul possesso di propri requisiti non è una generica attestazione « de scientia », ma una dichiarazione « de veritate » su ciò che si dice e su ciò che si afferma possedere (T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 10 ottobre 2007, n. 9925) con la conseguenza che ove le affermazioni in essa contenute, siano contrarie alla verità dei fatti dichiarati, l’autodichiarazione oltre a poter essere rilevante su altri piani mina il rapporto di fiducia che deve intercorrere tra stazione appaltante ed aggiudicatari.”
[16] Cons. Stato, Sez. VI., 8 luglio 2010, n. 4436 in www.giustizia-amministrativa.it.