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ROBERTO COLAGRANDE
(Avvocato)

Ineleggibilità da sentenza penale di condanna e sospensione condizionale della pena all'esame della Corte costituzionale

(nota a CORTE DI APPELLO DI L'AQUILA - Ordinanza 12 settembre 2000)

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SOMMARIO: 1. Il fatto. 2. I profili di incostituzionalità rilevati dalla Corte d'appello di L'Aquila sulla norma (recte interpretazione nomofilattica) sospetta. 3. Riflessioni critiche: le ''debolezze'' dell'orientamento della Corte di cassazione e l'interpretazione secundum cositutionem.  3.1 (Segue): l'ingiustificato ed irragionevole abbandono dello schema codicistico della pena accessoria. 3.2 (Segue): la sovrapposizione dell'art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90 e l'art. 31 c.p. come ''chiave di lettura'' per una soluzione coerente e costituzionalmente orientata. 4. La prospettiva dello ius superveniens  in materia: il nuovo testo dell’art. 122 Cost. per ulteriori spunti di riflessione.

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1. Il fatto.

La Corte d'Appello di L'Aquila solleva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 1, lett. c) della legge 19 marzo 1990, n. 55 come modificata  dall'art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 nella parte in cui non prevede l'estensione all'ipotesi di ineleggibilità di cui al predetto articolo degli effetti di cui all'art. 166, comma 1, c.p. e non prevede limiti temporali ragionevolmente proporzionati all'entità della pena.

In realtà la disposizione in questione si limita a prevedere che ‘’non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di (…): c) coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio diversi da quelli indicati alla lettera b) (…)’’.

Nella fattispecie, l’interessato è stato condannato a un anno e quattro mesi di reclusione e, dunque, a pena superiore a sei mesi per un delitto (falso ideologico) che sicuramente rientra nella tipologia indicata dalla lett. c) dell’art. 15 in questione e pure indicata dall’art. 31 c.p., tant’è che è stata comminata anche la pena accessoria temporanea interdizione dai pubblici uffici prevista da quest’ultima disposizione; interdizione che, come è noto, ai sensi dell’art. 28 c.p., comprende, tra l’altro, anche la perdita dal diritto di elettorato (ossia la ineleggibilità).

L’interessato, tuttavia, ha ottenuto il beneficio della sospensione condizionale della pena che, estendendosi ai sensi dell’art. 166 c.p. anche alle pene accessorie, ha sospeso anche la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici (compresa la ineleggibilità); sicché lo stesso interessato ha ritenuto di potersi candidare e, quindi essere eletto come consigliere regionale.

Diversamente, il Tribunale di L'Aquila, su ricorso di alcuni candidati non eletti e sulla scorta di un consolidato orientamento della Corte di Cassazione - pur riferito alla formulazione anteriore alla modifica di cui all’art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 –  ha ritenuto che nella fattispecie la specifica applicazione dell’art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90 non ammettesse l’estensione della sospensione condizionale alla specifica ineleggibilità in quanto non si tratterebbe di pena accessoria ma di un diverso istituto qualificabile in termini effetto extrapenale della sentenza di condanna; prevenendo così alla dichiarazione di ineleggibilità e consequenziale decadenza di consigliere regionale.

 

2. I profili di incostituzionalità rilevati dalla Corte d'appello di L'Aquila sulla norma (recte interpretazione nomofilattica) sospetta.

I dubbi di costituzionalità prendono le mosse dalla constatazione che la dichiarazione di ineleggibilità dell'appellante dichiarata, ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90, dal primo giudice discende dall'applicazione che quest’ultimo ha fatto del principio costantemente affermato dalla Cassazione secondo cui ‘’l’incompatibilità elettorale, nelle sue varie estrinsecazioni negli istituti della ineleggibilità, della decadenza, della sospensione non rientra nel novero delle pene accessorie, per tali dovendosi intendere quelle caratterizzate dalla afflittività e dalla funzione generalpreventiva e specialpreventiva che le accomunano alle pene principali, delle quali comportano un’accentuazione di intensità sanzionatoria (anche quando si traducono nella privazione di una funzione o di un ufficio), ma costituisce piuttosto una conseguenza negativa che il legislatore pone a carico di coloro che, a causa della commissione di determinati reati, in considerazione della natura significativa di questi, ritiene indegni di acquisire e mantenere la carica elettiva’’[1]; principio che nella fattispecie ha impedito all'appellante di poter invocare il beneficio - concessogli dal Giudice penale - della sospensione condizionale della pena che, ai sensi dell’art. 166, comma 1, si estende (solo) alle pene accessorie e non anche ad altri effetti della sentenza penale di condanna..

Il dubbio di costituzionalità viene alimentato dalla considerazione che il regime codicistico delle pene accessorie prevede espressamente la privazione del diritto di elettorato attivo e passivo tra le forme di interdizione dai pubblici uffici (art. 28, n. 1); interdizione che, peraltro, è espressamente comminata – come interdizione temporanea - dall'art. 31 c.p. nel caso di ‘’ogni condanna per delitti commessi con l'abuso dei poteri, o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, o ad un pubblico servizio, o a taluno degli uffici indicati nel n. 3 dell'articolo 28’’.

Quest’ultima, evidentemente, rappresenta una fattispecie del tutto assimilabile a quella disciplinata dall'art.15, comma 1, lett. c): invero ci si trova di fronte allo stesso presupposto normativo ossia al fatto giuridico della sentenza di condanna per lo stesso tipo di reato [2] e alla stessa conseguenza normativa ossia alla ineleggibilità. O meglio, la ‘’conseguenza negativa’’ (per usare gli stessi termini di Cass. n. 3490/96) prevista dall'art. 15, lett.c) si ritrova tal quale anche nell'ambito dell’art. 31 in quanto concorre con le altre ''conseguenze negative'' (art. 28, n. 2 e ss., c.p.) connesse all'applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici.

A ben vedere - e ciò costituisce un dato importante ai fini delle riflessioni critiche che si andranno ad esporre - la fattispecie di cui all'art. 15, lett. c) è contenuta ma non esaurisce la fattispecie prevista dall'art. 31 c.p.: più precisamente la ineleggibilità e la condanna per delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio si atteggiano quale minimo comune denominatore degli articoli 31 c.p. e 15, comma 1, lett.c della legge n. 55/90.

In questa ottica, la Corte d'appello non ha potuto fare a meno di dubitare della costituzionalità della interpretazione fornita dalla Cassazione attraverso la quale si perviene ad un diverso trattamento di due situazioni sostanzialmente identiche: infatti, secondo detta interpretazione, benché ci si riferisca a condanne per medesima tipologia di reati che comportano, comunque, la perdita del diritto alla eleggibilità, il beneficio della sospensione condizionale  viene a determinare effetti diversi paralizzando la ineleggibilità soltanto nella fattispecie prevista dall’art. 31 e non anche in quella analoga prevista dall’art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90

Questa circostanza, sotto un primo profilo, induce a sospettare della costituzionalità della norma in questione (nel senso inteso dalla Cassazione e dal Giudice di primo grado) in riferimento all’art. 3 Cost., stante l’irragionevole disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche.

Sotto un secondo profilo la Corte d’appello sospetta della ingiusta violazione del diritto di elettorato passivo che l'art. 51 della Cost. riconduce, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale [3], alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art.2 della Costituzione e che, come tale, può essere limitato soltanto eccezionalmente ed a tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti quali quelli propri dell'intera collettività nazionale e strettamente collegati a valori costituzionali di primario rilievo quali la difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica.

Alla luce di tale orientamento la Corte d’appello riconosce che anche la norma in questione, ‘’interferendo sulla formazione della rappresentanza elettorale, dovrebbe essere sottoposta ad un controllo particolarmente attento e stringente, andando ad incidere direttamente sul diritto alla partecipazione alla vita pubblica e dunque sui meccanismi che danno concretezza al principio di rappresentatività democratica’’; un controllo di cui, in definitiva, non sembra essersi fatta carico la Suprema Corte nell’interpretazione in questione che, come evidenziato, conduce ad un irragionevole disparità di trattamento tra fattispecie analoghe.

                E tale disparità, sempre a dire della Corte rimettente, risulta aggravata ove si rifletta che, nella logica dell'effetto extrapenale, la ineleggibilità di cui all'art. 15, lett. c) in questione, pur conseguendo ad una sentenza penale di condanna definitiva, non consentirebbe al condannato l'avvio del procedimento di riabilitazione che, invece, può essere accordata nel regime della ineleggibilità intesa come pena accessoria interdittiva; con tutto ciò che se ne trarrebbe in termini di irragionevole compressione della funzione rieducativa della pena e, quindi, in termini di violazione dell'art. 27, comma 3, Cost.

In questo dubbio, sollevato d'ufficio, l'irragionevolezza si ricava dalla constatazione che la sostanzialmente identica fattispecie possa, da una parte, secondo la disciplina codicistica, dare spazio alla funzione rieducativa della pena e dunque alla prognosi favorevole nei confronti del condannato che beneficia della sospensione condizionale, e, dall'altra parte, secondo la disciplina dell'art. 15, lett. c) della legge n. 55/90 calata nell'orientamento della Cassazione, sganciarsi da tale quadro senza che sussista alcuna discriminante di carattere sostanziale.

Sotto un terzo profilo la Corte d'appello ancora in riferimento all'art. 3 Cost. sospetta della costituzionalità della interpretazione dell'ineleggibilità di cui all'art. 15 lett. c) intesa come effetto extrapenale tenuto conto che non vi sarebbe alcuna limitazione temporale, con irragionevole sproporzione rispetto ad ipotesi di condanne a reati anche più gravi che, tuttavia, sono puniti con pene accessorie temporanee la cui durata in mancanza di espressa indicazione trova la disciplina nell'art. 37 c.p..

In definitiva la Corte d'appello, nell'ottica di una sentenza additiva della Sovrana Corte, non sospetta direttamente della costituzionalità della disposizione in esame così come formulata dal legislatore (che si è limitato a stabilire una ipotesi di ineleggibilità conseguente a sentenza penale di condanna definitiva per un certo tipo di reati), ma sospetta della interpretazione resa - in recepimento del costante orientamento della Cassazione - dal Giudice di primo grado, secondo cui quella ipotesi di ineleggibilità non integrerebbe una pena accessoria ma un effetto extrapenale, come tale non rientrante nell'ambito del beneficio della sospensione condizionale della pena concessa, nella specie, all'interessato; con l'ulteriore conseguenza di risultare sottratta ad ogni regime temporale ragionevolmente proporzionato alla entità della pena principale.

 

3. Riflessioni critiche: le ''debolezze'' dell'orientamento della Corte di cassazione e l'interpretazione secundum costitutionem.

Per comprendere il senso e la portata della ordinanza in commento e trarre spunto per alcune riflessioni critiche appare opportuno approfondire alcuni aspetti del tema in esame.

Preliminarmente è bene osservare che la questione viene sollevata in relazione alla costante interpretazione che la Corte di cassazione ha reso sull’istituto della ineleggibilità e che ha condotto il Giudice di prime cure ha dichiarare ineleggibile l'interessato.

Sotto questo profilo vale la pena chiarire che la questione di costituzionalita' sollevata è sicuramente ammissibile  in quanto, sebbene non direttamente riferita alla norma ma ad una consolidata interpretazione della Corte di Cassazione, ''non è surrettiziamente volta ad ottenere dalla  Corte  costituzionale   (attribuendole   un  ruolo  impugnatorio   che  non  le   e'  proprio) una  revisione  di quella interpretazione'' ma chiede ''la verifica  di compatibilita' con dati   parametri Costituzionali della interpretazione  medesima assunta in termini  di <<diritto vivente>>''[4].

Tuttavia la Corte costituzionale anche in queste ipotesi non ha mancato di sottolineare che il gudice a quo dovrebbe valutare la possibilità di sottrarsi alla "regula juris" della Corte suprema ritenuta sospetta.

Nella fattispecie la Corte d’appello non sembra aver cercato strade interpretative alternative alla prospettazione della questione di costituzionalità.

Tale circostanza induce ricercare nell’ambito del presente lavoro una soluzione idonea a sottrarsi al principio della Cassazione ritenuto costituzionalmente sospetto, procedendo attraverso una interpretazione logico-sistematica e costituzionalmente orientata della norma in questione.

3.1 (Segue): l'ingiustificato ed irragionevole abbandono dello schema codicistico della pena accessoria.

A tale scopo, una volta ricordato che il catalogo delle pene accessorie previste dall'art. 19 - nell'ambito del quale figura la interdizione dai pubblici uffici - non dovrebbe costituire un numerus clausus[5], si può subito passare, per quanto qui interessa, all'art. 28 secondo cui l'interdizione dai pubblici uffici  priva il condannato  - per tutto il resto della sua vita se si tratta di interdizione perpetua e durante la durata dell'interdizione  se si tratta di interdizione temporanea - di una serie di diritti, uffici , servizi, qualità gradi, titoli ed onorificenze tra i quali  ''il diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale e di ogni altro diritto politico'' (art. 28, n. 1)

L'ultimo comma dell'art. 28 stabilisce che ''la legge determina i casi nei quali l'interdizione dai pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi'' (nda: diritti, uffici, servizi etc.); sicché ben potrebbe configurarsi una interdizione ''limitata'' alla sola perdita del diritto di eleggibilità  che, in tal caso, rappresenterebbe ed esaurirebbe la pena accessoria.

Se è vero che la perdita del diritto di elettorato e dunque la ineleggibilità è una delle manifestazioni della species interdizione da pubblici uffici del genus pena accessoria e se è vero che, in base allo stesso art. 28, ultimo comma, c.p. il legislatore può in alcuni casi limitare l'effetto interdittivo anche alla sola perdita del diritto di elettorato e, dunque, alla sola ineleggibiltià, non si comprende per quale ragione nel caso dell'art. 15, lett. c), della legge n. 55/90 debba ritenersi che la non candidabilità (ossia la perdita del diritto di elettorato) di ‘’coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio diversi da quelli indicati alla lettera b)’’ non vada intesa come pena accessoria di interdizione per così dire ''limitata''[6] ma debba intendersi come mero effetto extrapenale della condanna.

In particolare, non è dato comprendere (né la Suprema Corte sembra riuscire a spiegare chiaramente e compiutamente) perché una fattispecie normativa quale l'art. 15, comma 1, lett. c), perfettamente congruente con la prospettazione codicistica dell'art. 28, u.c., c.p. non possa essere intesa, come previsto da quest'ultima disposizione, quale pena accessoria nel senso illustrato della interdizione ''limitata'' e debba, invece, integrare un mero effetto extrapenale inteso – per usare le parole della Cassazione – come ‘’conseguenza negativa della sentenza di condanna che il legislatore pone a carico di coloro che, a causa della commissione di determinati reati, in considerazione della natura significativa di questi, ritiene indegni di acquisire e mantenere la carica elettiva’’.

Su questo punto, francamente, sembra che la Suprema Corte incorra in un gioco di parole.

In primo luogo la Cassazione non tiene conto che la indegnità, stando all'art. 48 Cost., potrebbe costituire una preclusione al solo diritto di voto (quindi al diritto di elettorato attivo e non anche a quello passivo rispetto al quale non si trovano espressi parametri di limitazione nella Carta fondamentale) e, comunque, dovrebbe essere indicata dal legislatore e non potrebbe ricavarsi in via interpretativa attraverso una inversione logica del senso e della portata dell’art. 48.

Invero, secondo il ragionamento della Cassazione, la indegnità non sarebbe più il presupposto normativo espresso dal quale potrebbe derivare la ineleggibilità ma, al contrario, una conseguenza implicita della mera individuazione della ipotesi di ineleggibilità.

D’altra parte, però, se la ineleggibilità non consegue alla affermazione legislativa della indegnità - che, si badi, manca nella fattispecie normativa in questione - ma assorbe quest'ultima, allo stesso modo si dovrebbe configurare una indegnità anche nell'ambito della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), tra le cui manifestazioni si va dalla perdita dei diritti elettorali (art. 28, n. 1) alla perdita dei diritti onorifici e di specifiche dignità e decorazioni (art. 28, n. 7).

Ed allora anche la ineleggibilità prevista dall’art. 28 n. 1 c.p. quale manifestazione (o, ai sensi dell'art. 28, u.c., quale possibile integrazione) della pena accessoria interdizione dai pubblici uffici dovrebbe ritenersi, stando al principio della Cassazione, un mero effetto extrapenale che inspiegabilmente verrebbe a sottrarsi al regime codicistico.

Evidentemente l'impostazione della Cassazione reca con sé un irragionevole ed ingiustificato abbandono dello schema disegnato dallo stesso codice penale: in particolare, non si comprende la ragione per la quale nell’applicazione dell’art. 15, comma 1, lett. c) ci si debba discostare dalla natura (o, comunque dal regime) della pena accessoria che, invece, l'art. 28 c.p. assegna alla perdita del diritto all'elettorato e quindi alla ineleggibilità.

In altre parole non è dato comprendere come la stessa deminutio prevista in entrambi i casi quale conseguenza di una sentenza penale di condanna possa atteggiarsi diversamente sul piano della stessa natura dell’istituto.

Tantomeno si comprende come la afflittività e la funzione generalpreventiva e specialpreventiva che, stando alla stessa tesi della Cassazione, sarebbero state valutate positivamente proprio a livello di codice penale con riguardo alla ineleggibilità di cui all’art. 28, n. 1 quale forma di (pena accessoria della) interdizione dai pubblici uffici (ovvero, secondo l'art. 28, u.c., quale pena accessoria tout court), debbano poi inspiegabilmente ''volatilizzarsi'' a livello di legge speciale e, in particolare, nell’art. 15, lett. c) della legge n. 55/90 per lasciare spazio alla figura della ''conseguenza negativa'' extrapenale.

Evidentemente nel caso in esame non mancano gli argomenti per evitare di dichiarare la incostituzionalità della norma letta secondo l'interpretazione della Cassazione, sottraendosi a questa interpretazione attraverso una lettura logico-sistematica e costituzionalmente orientata dell'art. 15, lett. c) della legge n. 55/90. 

Ciò è tanto più vero se si riflette sui risultati aberranti cui conduce l'abbandono dell'impianto codicistico in cui incorre la interpretazione in questione.

 

3.2 (Segue): la sovrapposizione dell'art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90 e l'art. 31 c.p. come ''chiave di lettura'' per una soluzione coerente e costituzionalmente orientata.

In particolare, se si prende in considerazione l'art. 31 c.p. congiuntamente all'art. 15., lett. c, della legge n. 55/90, si ottiene che, a voler seguire la tesi della Corte di cassazione fatta propria dal Tribunale, coloro che sono stati condannati ‘’per delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio’’[7] alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi soggiacerebbero a due contestuali forme di ineleggibilità.

Una prima forma di ineleggibilità - per così dire, generale - discenderebbe dall'applicazione dell'art. 31 c.p. e sarebbe accompagnata da tutte le altre forme della pena accessoria ''interdizione temporanea dai pubblici uffici’’ indicate nell'art. 28; con tutto ciò che ne seguirebbe in ordine all’applicazione dell’art. 166 c.p. e, quindi, alla sospensione della interdizione (compresa la ineleggibilità) in caso di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Una seconda forma di ineleggibilità – per così dire, speciale – discenderebbe dall'applicazione dell'art. 15, lett.c) della legge n. 55/90 e, nella logica della Cassazione, dovrebbe perdere la natura di pena accessoria ed acquistare quella dell’effetto extra penale della condanna, resistendo così alla sospensione condizionale della pena.

Ora, l’implicito ed inspiegabile artificio normativo in base al quale si dovrebbe ritenere che l'art. 15, lett.c ) della legge n. 55/90 abbia trasformato la natura codicistica della ineleggibilità intesa quale forma di pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici) in mero effetto extrapenale si risolve in una vera e propria petizione di principio che, come tale, non può essere accettato.

A tutto concedere, la tesi della Cassazione applicata all’art. 15 lett. c) in questione si dovrebbe rivelare piuttosto come preclusione (del beneficio della sospensione condizionale) operante soltanto nell'ambito di una delle forme della citata pena accessoria; nel senso che in caso di condanna per la citata tipologia di delitti a pena superiore a sei mesi con il beneficio della sospensione condizionale sarebbero sospese tutte le forme di interdizione diverse dalla ineleggibilità che conserverebbe il suo effetto.

Ma anche questo tipo di interpretazione non appare accettabile, tenuto conto che si tratta di una limitazione non espressa dal legislatore e soprattutto irragionevole.

A tale riguardo, con riferimento agli orientamenti richiamati dallo stesso Giudice rimettente, si consideri che la Corte Costituzionale ha più volte affermato che "le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile (nda: quale è stato ritenuto il diritto di elettorato) sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione", sottolineando che "l'eleggibilità è la regola e l'ineleggibilità l'eccezione: le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate"[8].

Ebbene, la limitazione del beneficio della sospensione condizionale alle forme della (pena accessoria) interdizione diverse dalla ineleggibilità in caso di condanna per la stessa tipologia di reati compresi nell’art. 31 c.p. ma, in particolare, superiore a sei mesi, non sarebbe giustificata in nessun modo dalla tutela di altri interessi di rango costituzionale in quanto questi ultimi, all'esito della prognosi favorevole che ha indotto il Giudice penale a concedere il beneficio della sospensione condizionale, risultano già ritenuti ugualmente protetti e, dunque, non messi in pericolo dalla paralisi tanto della pena principale quanto di quelle accessorie.

Se, infatti, come nel caso in esame, la pena principale inflitta è stata sospesa in considerazione del fatto che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati (art.164 c.p.) è evidente che è stata compiuta dal Giudice che ha concesso tale beneficio una valutazione e ponderazione in merito agli altri interessi di rango costituzionale, quali l'ordine e la sicurezza pubblica ed il buon andamento della pubblica amministrazione, che potevano in linea teorica essere minacciati ed è stato ritenuto che tali interessi fossero sicuramente immuni da eventuali pericoli per effetto del comportamento del condannato; sicché non v'è ragione che giustifichi la disapplicazione di tale beneficio rispetto alla (forma di) pena accessoria dell'ineleggibilità.

In altre parole se, come sottolineato dalla Corte costituzionale, le cause ostative all'esercizio del diritto di elettorato, avendo carattere derogatorio, debbono essere contenute rigorosamente nei limiti necessari al soddisfacimento delle esigenze di pubblico interesse ricollegate alla funzione elettorale al fine di garantire, nel caso specifico, l'imparzialità degli eletti nell'esercizio delle loro funzioni, si deve ritenere che tali esigenze siano state adeguatamente valutate e soddisfatte al momento della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, allo stesso modo di quanto è stato fatto con riguardo all’altra forma di interdizione inerente la privazione di ogni pubblico ufficio (art. 28, n. 2) tesa a tutelare la stessa esigenza di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione.

La diversa conclusione cui si perviene seguendo la tesi della Cassazione conduce ad un irragionevole e sproporzionato sbilanciamento dei valori costituzionali in considerazione; tra i quali pur si inserisce la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 2, Cost. opportunamente richiamata d’ufficio dalla Corte rimettente.

In realtà occorre invertire il ragionamento.

Fermo restando che la ineleggibilità fa capo alla (e può, ai sensi dell'art. 28, u.c., c.p. coincidere con la) pena accessoria interdizione dai pubblici uffici, per arrivare ad una interpretazione coerente con il sistema di riferimento e ispirata al principio di non contraddizione, appare necessario prendere le mosse dalle regole fondamentali (art. 25 Cost. e artt. 1 e 2 c.p.) che governano la successione di leggi penali nel tempo nello spirito del favor rei.

Su queste basi, infatti, si perviene agevolmente all'unica soluzione che risolve ogni questione e che impone di ritenere che l'art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90, quale norma penale  in tema di pena accessoria stante la evidente congruenza con l'art. 31 c.p., sia andata a modificare quest'ultima disposizione nel senso di escludere la ineleggibilità tra le forme di interdizione dai pubblici uffici irrogabile quale pena accessoria in caso di condanna inferiore ai sei mesi per ‘’per delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio’’.

In questi casi la variabile (favorevole al reo) coincide con la minore entità della pena principale[9], sicché la pena accessoria della interdizione viene ad essere, ai sensi dell'art. 28, u.c., c.p. effettivamente  limitata ad alcune delle privazioni previste dallo stesso art. 28 e, in particolare, a tutte quelle diverse dalla ineleggibilità.

Questa soluzione interpretativa, del resto, appare del tutto in linea con l'idea più volte ribadita dalla Corte costituzionale di limitare al massimo la compressione del diritto inviolabile all'elettorato attivo e passivo e rappresenta, sotto questo profilo, una evoluzione normativa in tal senso.

Evidentemente ove la Sovrana Corte dovesse condividere questa interpretazione - che a sommesso avviso di chi scrive risulta tanto coerente all'impianto codiscistico di riferimento quanto costituzionalmente orientata - il giudizio costituzionale potrebbe concludersi con una sentenza interpretativa di rigetto che supererebbe l'orientamento della Cassazione di cui dubita la Corte d'appello di L'Aquila e che consentirebbe a quest'ultima di riformare la sentenza impugnata riconoscendo l'estensione del beneficio della sospensione condizionale anche alla ineleggibilità di cui all'art. 15, lett. c), della legge n. 55/90.

 

4. La prospettiva dello ius superveniens  in materia: il nuovo testo dell’art. 122 Cost. per ulteriori spunti di riflessione.

In ultima analisi si deve segnalare che l'art. 2 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, nel sostituire l'art. 122 della Costituzione, prevede che ''il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi''.

Sebbene non sia stato dettato un regime transitorio, sembra logico ritenere che sino all'entrata in vigore delle leggi regionali debbano continuare a trovare applicazione le cause di ineleggibilità attualmente vigenti; del resto una simile indicazione legislativa potrebbe essere inserita proprio nella legge della Repubblica che dovrebbe stabilire i principi fondamentali nei limiti dei quali dovrebbe legiferare il legislatore regionale.

In altri termini è da ritenere che la legge della Repubblica si preoccuperà di subordinare l'abrogazione delle disposizioni attualmente vigenti in materia di ineleggibilità all'entrata in vigore delle rispettive leggi regionali onde evitare un vuoto normativo sulla materia.

In questa logica nell'ambito del processo costituzionale attivato con l'ordinanza in esame potrebbero presentarsi due scenari a seconda che al momento del vaglio da parte della Consulta sia o meno entrata in vigore la legge regionale sul sistema di elezione e sui casi di ineleggibilità e incompatibilità.

Nella prima ipotesi, infatti - se è vero, come sembra più logico, che con l'entrata in vigore della legge regionale dovrebbe venir meno l'applicazione della legge previgente e, in particolare, della disposizione in questione -  la Corte potrebbe restituire gli atti al giudice a quo ai fini dell'esame della permanenza della rilevanza della questione anche con riguardo alla disciplina sopravvenuta.

Nella seconda ipotesi, a prima vista, si potrebbe pensare ad una influenza del nuovo testo dell'art 122 Cost. sul piano strettamente interpretativo della questione sottoposta all'esame della Sovrana Corte.

Quest'ultima, infatti, nel prendere atto della scelta del legislatore costituzionale che ha rimesso alla legge regionale l'individuazione dei casi di ineleggibilità, potrebbe ragionare in due direzioni.

Per un verso, potrebbe dubitare della natura di pena accessoria della ineleggibilità stabilita dall'art. 15, lett. c) in questione, facendo leva, quale argomento a contrario, sul principio della riserva di legge in materia penale espresso nell'art. 25, comma 2, cost. e ribadito nell'art. 1 del codice penale che trova spazio sia riguardo al fatto previsto come reato sia riguardo alla pena (principale o accessoria) e che ha indotto la dottrina dominante e la quasi unanime giurisprudenza costituzionale (così G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna,1989, 61 con note di richiamo)  ad escludere dal novero delle fonti in materia penale la legge regionale.

Detto in altri termini la Corte potrebbe osservare che l'aver rimesso al legislatore regionale l'individuazione dei casi di ineleggibilità confermerebbe che non si versa in materia penale e, in particolare, in tema di pena accessoria.

Tuttavia una simile conclusione sarebbe tanto istintiva quanto sbrigativa.

Per altro verso, infatti, ad una più attenta riflessione, la Sovrana Corte - ispirandosi allo stesso principio della riserva di legge in materia penale e guardando alla congruenza delle disposizioni (quale l'art. 15, lett. c) legge n. 55/90) che, così come a livello codicistico, prevedono la ineleggibilità quale conseguenza della sentenza penale di condanna - potrebbe riconoscere che l'individuazione dei casi ineleggibilità rimessa alle leggi regionali deve riferirsi soltanto ad ipotesi che non trovano il presupposto in una sentenza penale di condanna e che, pertanto, non integrano la natura di pena accessoria: riconoscendo così che quest'ultima è data proprio dalla relazione intercorrente tra presupposto (sentenza di condanna) ed effetto (ineleggibilità).

In caso contrario si arriverebbe, tra l'altro, ad avere regimi penalistici differenziati del libero esercizio dei diritti fondamentali  tra i quali rientra sicuramente il diritto di elettorato passivo costituzionalmente garantito.

E non è detto che questa censura non possa rivolgersi anche alle altre ipotesi ''regionali'' di ineleggibilità per così dire ''extrapenale'' in quanto non ricollegate a sentenze penali di condanna definitive; il che potrebbe far prevedere, sia pure in prospettiva, un ulteriore carico di lavoro per la Sovrana Corte.

 

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[1] Così, tra le altre, Cass. 12 aprile 1996, n. 3490 in Cd Rom Cass. Civ. del Mass. Cass. 1999, infra motivazione, pagg.4 e 5.

[2]  L'unica differenza riguarda il riferimento alla entità della pena.

[3]  Corte cost. nn.571 del 1989 e 235 del 1988.

[4] Così Corte cost. 23 maggio 1995, n. 188 in Giust. civ.,1995,I,1711 con nota di MORELLI e id, 2307 con nota di VARLARO SINISI; Cons. St.1995,II, 877; Giur. cost. 1995,1478; Riv. amm. R.I.1995,1191,1381 con nota di SBRANA e SESTITO. Nello stesso senso si è espressa Corte cost. 21 gennaio 1999,Ord. n. 11 in Cons. St. 1999,II, 24.

[5] Così G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna,1989, 549 con note di richiamo.

[6] In questo senso si è espresso il Sen. Bertoni nel corso dei lavori preparatori della norma - art. 1 della legge 13 dicembre 1999, n. 475 - che ha da ultima modificato l'art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90 come risulta dal Resoconto stenografico della 498^ seduta del Senato della Repubblica del 2 dicembre 1998, pag. 7.

[7]  Quanto virgolettato, congiuntamente alla ineleggibilità, rappresenta, come già notato, il minimo comun denominatore degli articoli 31 c.p. e 15, comma 1, lett.c della legge n. 55/90.

[8] Tra le tante, se veda Corte cost. nn. 141/1996, 467/1991, 138/1985 e 102/1975.              

[9] Che, in effetti, si è già detto alla nota 2, è l'unica discriminante tra art. 31 c.p. e art. 15, comma 1, lett. c) della legge n. 55/90.


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