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SALVATORE CINNERA MARTINO
(Avvocato)
La partecipazione dell’"incandidabile" alle elezioni per il rinnovo dei consigli comunali (e provinciali): nullità dei voti o delle elezioni ?
(osservazioni a margine di C.G.A., Sentenza 14 marzo 2000 n. 113; TAR SICILIA-CATANIA, SEZ. II - Sentenza 27 maggio 1999 n. 1021; TRIBUNALE DI PATTI - Sentenza 12 ottobre 1998 n. 577).
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Sommario
– 1.
Premessa - 2. L’incandidabilità:
una nuova incapacità giuridica – 3. La doppia giurisdizione – 4.
L’interesse a ricorrere e la cosiddetta prova di resistenza – 5. La nullità
dell’atto che ammette l’incandidabile. – 6. I vizi del procedimento:
nullità dei voti o annullamento delle elezioni. 7 – Sempre sulla nullità dei
voti o annullamento delle elezioni: una questione processuale.
La
giurisprudenza non s’era occupata, sin qui, degli effetti della c.d.
incandidabilità sul procedimento elettorale [1],
se non con riguardo all’elezione dell’<<incandidabile>> alla
carica di sindaco [2].
La
vanificazione del procedimento elettorale, nel caso dell’elezione dell’incandidabile
alla carica di sindaco (o, è lo stesso, alla carica di presidente della
Provincia) era stata sancita come conseguenza, indiretta, dell’annullamento
dell’elezione del sindaco, che porta con sé lo scioglimento del consiglio
comunale. In tali ipotesi, cioè, non v’era stata una statuizione
immediatamente riferibile alla legittimità del procedimento elettorale ed alla
sua validità (meglio, alla sua invalidità)[3],
giacché lo “scioglimento” del Consiglio Comunale era conseguenza delle
norme che disciplinano il funzionamento, e non l’elezione, degli organi
rappresentativi delle comunità locali, che prevedono lo scioglimento quando,
per qualsiasi ragione, venga a cessare il Sindaco [4],
o il Presidente [5].
La
sentenza in commento, invece, prende in esame e risolve la questione inerente
alle conseguenze della partecipazione al procedimento elettorale (per il rinnovo
del consiglio comunale e del sindaco) dei cosiddetti incandidabili; di quei
soggetti, cioè, che <<non possono
essere candidati alle elezioni
regionali, provinciali, comunali
e circoscrizionali>>.
Questione, questa, che non ha soluzione nel testo legislativo e che perciò
necessita la considerazione della funzione della norma che l’ha introdotta nel
sistema e, prim’ancora, una lettura sistematica della norme che disciplinano
l’accesso al procedimento elettorale.
L’art.
15 della legge 19.3.1990 n° 55 –nel testo modificato dalla L. 16.1.1990 n°
16[6]-
che statuisce che <<non possono
essere candidati>> alle elezioni amministrative coloro che hanno
riportato condanne per alcuni reati contro l’ordine pubblico e contro la
pubblica amministrazione o nei cui confronti il tribunale ha applicato una
misura di prevenzione (v.
infra),
non si occupa, infatti, delle conseguenze sul procedimento elettorale della
partecipazione dell’<<incandidabile>>;
ma, soltanto, delle conseguenze (recte:
degli effetti) della <<incandidabilità>>
sull’elezione o, anche, sulla nomina ad alcune cariche di coloro che sono
colpiti da quella “sanzione”: il 4° comma sanziona di nullità l’elezione
o la nomina di coloro che si trovano nella “situazione”
di incandidabilità[7].
Gli
effetti della partecipazione dell’incandidabile sul procedimento elettorale,
così, sono stati considerati, per la prima volta dal Tar catanese[8],
e, ora, dal C.G.A[9], sotto una diversa ottica.
La questione sottoposta a quei giudici, infatti, riguardava –oltre,
ovviamente, alla nullità dell’elezione dell’incandidabile, sottoposta al
vaglio dell’A.g.o.[10]-
la legittimità del procedimento elettorale.
Le
questioni poste, prima, al Tar catanese, e, poi, in appello, al C.G.A. erano,
infatti, sostanzialmente tre e possono, così, riassumersi:
a) è legittimo (o illegittimo) il risultato elettorale determinato dalla partecipazione dell’incandidabile?
b) e, risolta negativamente la prima questione, sono nulle le schede contenenti il voto di preferenza per l’incandidabile, ed il risultato va, quindi, corretto depurandolo dell’apporto di chi non poteva essere candidato e, quindi, votato?
c) oppure, in quanto l’illegittimità del risultato non può essere rimediata con la correzione, vanno annullate le elezioni?
Nell’occasione
–offerta dall’<<incandidabilità>>
di un candidato al Consiglio Comunale- è stata possibile una riflessione sulle
conseguenze della partecipazione dell’incandidabile sul procedimento
elettorale, oltre ché sulla elezione dell’incandidabile -questa, sì,
normativamente considerata- capace di espandersi, oltre i confini del caso
pratico e d’investire, direttamente, il criterio tradizionalmente affermato in
riguardo al riparto di giurisdizione in materia elettorale.
L’importanza
della sentenza in rassegna è data, non tanto dal fatto che non esistono
precedenti giurisprudenziali, quantomeno pubblicati, ma, soprattutto, dalla “nuova”
soluzione data alle questioni sottoposte a quei giudici, che ha avuto, ed ha,
come presupposto la sistemazione dogmatica della cd. incandidabilità.
Ciò
che si coglie, immediatamente, nella sentenza del Tar catanese è, infatti, la
percezione
e l’affermazione della
diversità della figura dell’<<incandidabilità>> rispetto a quelle altre “situazioni”,
già note all’ordinamento, sanzionate con la nullità dell’elezione o della
nomina (ineleggibilità) o della decadenza (incompatibilità): <<l’accertamento,
… della condizione di non candidabilità … rifluisce indubbiamente a ritroso
nel procedimento elettorale sin dal momento in cui tale qualità doveva essere
accertata, vale a dire sin dal momento del controllo sui candidati delle liste
ammesse alla competizione. A sua volta, poi, la nullità di un atto del
procedimento si comunica agli atti successivi quando questi come nel caso in
specie, si trovano in un rapporto di dipendenza causale e necessaria con
l’atto nullo … l'illegittima partecipazione, perchè non candidabile ab
initio, di un candidato in una competizione elettorale inficia e travolge tutti
gli atti successivi (a quello che lo inserisce fra i candidati della
competizione), che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario
determinando la necessità di ripristinare la situazione anteatta>>[11].
L’importanza
di tali affermazioni, confermate dal giudice d’appello[12],
sta nel fatto che si è riconosciuta nell’incandidabilità una nuova figura di
incapacità giuridica (speciale), una situazione, cioè, che, a differenza
dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità, che come essa afferiscono al
diritto di elettorato passivo, incide direttamente quel diritto (meglio, sulla
legittimazione rispetto ad a quel diritto) e non, semplicemente, l’esercizio
dello stesso.
Un
contributo importante per la sistemazione del concetto di incandidabilità,
sconosciuto all’ordinamento nazionale fino all’emanazione della L. n° 16/92[13],
era venuto dalla Corte Costituzionale che l’ha, dapprima, ricondotto nella
figura della ineleggibilità e, poi, ne ha sottolineato la specialità e
specificità.
Ovviamente,
lo sforzo ricostruttivo compiuto dalla Corte, siccome limitato alla
considerazione delle questioni rimessegli, ed attinenti alla legittimità
costituzionale della norma che ha introdotto la <<non
candidabilità>>, non è giunto, e nemmeno poteva, alla definitiva
sistemazione dell’istituto. La Corte Costituzionale, infatti, si è limitata
ad assumere, in riguardo alla ratio legis,
che il fenomeno inerisce a quello della eleggibilità (descritta come capacità
di essere eletti o nominati ad alcune cariche negli enti locali) e, più, in
generale alla capacità giuridica: la l.
n. 16 del 1992 … per la prima volta introduce fattispecie di non candidabilità
che incidono sulla costituzione delle assemblee elettive … che interferiscono
sulla formazione della rappresentanza … ora, la previsione della ineleggibilità,
e della conseguente nullità dell’elezione è misura che comprime, in un
aspetto essenziale, le possibilità che l’ordinamento costituzionale offre al
cittadino di concorrere al processo democratico
[14].
L’alterità,
che pure la Corte Costituzionale riconosce all’incandidabilità rispetto
all’ineleggibilità –cui l’accomuna, per il fatto di inerire, entrambe, al
diritto di elettorato passivo- è data, però, non soltanto dal momento, dalla
fase, del procedimento elettorale, rispetto alla quale quella
situazione
giuridica esplica i suoi effetti; e che attiene, tutto sommato, al momento
funzionale. La diversità ontologica della figura in discussione rispetto
all’ineleggibilità e, ancor più, rispetto alla incompatibilità, è,
infatti, costituita dalla indisponibilità della fattispecie che genera
l’impossibilità di adire una carica elettiva negli enti locali o di
mantenerla[15].
Come,
giustamente, si afferma nelle sentenze in rassegna, l’incandidabilità è,
quindi, una nuova “incapacità giuridica speciale”; come tale,
ontologicamente e teleologicamente, diversa da quelle “situazioni”
che, come essa, impediscono l’elezione o la permanenza in una carica pubblica,
perché limitano, pongono delle condizione per l’esercizio del diritto di
elettorato passivo.
Ed
in ciò sta la novità. I fatti che importano l’incandidabilità, cioè,
escludono il diritto di elettorato passivo (rispetto alle elezioni
amministrative) e non soltanto l’esercizio dello stesso; e poiché escludono
quel diritto, impediscono ai soggetti che ne sono colpiti, persino, di adire la
situazione giuridica prodromica rispetto all’elezione: la candidatura.
La
differenza, non è, quindi, da poco. Il non poter <<essere
candidati>>, in tale prospettiva appare, com’è in effetti, la
conseguenza, non la causa, della perdita del diritto di elettorato passivo; che
non è, invece, riscontrabile riguardo all’ineleggibilità o
l’incompatibilità. L’ineleggibilità e l’incompatibilità, infatti, se,
come si diceva, limitano l’esercizio di quel diritto, discendono da situazione
che l’interessato può (e deve) rimuovere prima di essere candidato o al
momento in cui viene eletto, e che vanno perciò ascritte alla categoria della
“incompatibilità”, che
l’ordinamento pone in riguardo al possibile contrasto d’interessi tra
l’eleggendo e l’ente che esso dovrebbe rappresentare[16].
A
conferma di ciò è il fatto che le condanne per i reati di cui all’art. 15
della L. n° 55/90, non soltanto escludono il diritto di essere candidati, ma,
anche, la permanenza nelle cariche indicate nella stessa norma.
Accade,
così, che rispetto all’elezione o alla nomina ad alcune cariche può
riscontrarsi come –a differenza della soggettività giuridica, che è un
quid
semplice (non può che esistere o non esistere)- la capacità giuridica è
per sua natura un quantum, misurabile per gradi[17].
Possiamo, cioè, notare come la generale capacità <<ad
essere titolari di situazioni giuridiche soggettive>>[18]
possa essere graduata, tanto che, in riguardo a talune situazioni qualificanti,
l’ordinamento esclude determinati soggetti (giuridici) da alcune situazioni
giuridiche o da interi settori dell’ordinamento.
E
la c.d. <<incandidabilità>>
è proprio la manifestazione di come (della tecnica con cui) l’ordinamento
opera la discriminazione fra i soggetti, cui pure riconosce la generale capacità
giuridica, ponendoli in una situazione diseguale rispetto agli altri[19].
Il
problema, di ordine pratico, che si pone con riguardo alla fattispecie
considerate dalla sentenza in rassegna, è, innanzitutto, l’individuazione del
giudice “competente” a conoscere delle controversie nelle quali sia dedotta
l’illegalità del risultato elettorale, siccome determinato dalla
partecipazione di chi non può essere candidato.
La
riconduzione della <<non
candidabilità>> nell’ambito dei fenomeni che ineriscono al diritto
di elettorato passivo, ha indotto i giudici a ritenere che la giurisdizione su
tale questione appartiene al giudice ordinario; e ciò perché l’art. 82 Dpr
570\60 e art. 6 L. 1034\71 attribuiscono a quel giudice le questioni inerenti il
diritto di elettorato passivo, quand’anche siano introdotte a mezzo
dell’impugnazione della delibera che, ad esempio, in conseguenza
dell’accertamento di quello status,
ne ha decretato la decadenza dalla carica[20].
Da
tale considerazione, ed in ragione del fatto che l'art. 84 del Dpr 570\1960,
attribuisce al giudice ordinario, così come al giudice amministrativo, il
potere di correggere il risultato elettorale, potrebbe adirsi alla soluzione che
il giudice ordinario, investito dell’accertamento dell’incandidabilità del
componente di una lista, possa, anche, “ricondurre
alla legalità” il risultato elettorale. Ciò, ovviamente, sarebbe
possibile sol ché si ritenesse che le schede recanti voti per l’incandidabile,
in quanto dati ad un soggetto “non candidato” sono nulli (v., però,
infra)
L'individuazione
dei limiti del potere del giudice ordinario in
subiecta
materia e, quindi, delle modalità con le quali realizzare quel risultato,
dipende, infatti, dal coordinamento delle norme che attengono al riparto di
giurisdizione in materia elettorale (art. 82 Dpr 570\60 e art. 6 L. 1034\71),
l’art. 5 L. n° 2248 all. E del 1865, che riconosce al giudice ordinario il
potere di conoscere dei provvedimenti amministrativi allorché “si
faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere
interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano stati emanati
provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa” (art.
2 L. 20.3.1865 n° 2248 all. E) e, infine, le norme che disciplinano la
formazione degli organi rappresentativi degli enti locali[21].
Ovviamente,
la giurisdizione del giudice ordinario dovrebbe escludersi nel caso che
– com’è stato affermato dal Tar catanese, prima, e dal CGA, ora -
all’illegittimità del risultato elettorale si possa rimediare, soltanto,
mediante l’annullamento dell’atto che ne ha proclamato il risultato: al
giudice ordinario, infatti, è normalmente precluso la pronunzia di annullamento
del provvedimento amministrativo e nemmeno l’art. 84 Dpr n° 570/60 consente a
quel giudice una pronunzia demolitoria: il giudice ordinario può soltanto
correggere il risultato elettorale, non annullarlo.
Nella
controversia decisa con la sentenza in commento s’è, però, dovuta registrare
una pronunzia con la quale il G.O. ha declinato la propria giurisdizione sulla
domanda di correzione del risultato elettorale, che era stata posta in uno con
la richiesta di accertamento dell’incandidabilità, ancor prima che fosse
negata la possibilità di corregere il risultato elettorale.
Il
Tribunale di Patti, che pure ne era stato richiesto, passando
dall’annullamento delle schede recanti voti di preferenza in favore dell’incandidabile,
trasponendo alla questione dedotta innanzi a sé, l’affermazione,
tradizionale, secondo la quale “competente” a conoscere delle (recte:
la giurisdizione sulle) controversie riguardanti la regolarità del procedimento
elettorale è il giudice amministrativo, ha declinato la propria giurisdizione
su quella domanda[22].
Seppure
deve condividersi il risultato (v. infra), non può, invece, condividersi il metodo. Quel giudice,
infatti, non essendosi posto il problema del modo con cui l’illegalità del
risultato doveva essere rimediata, non ha colto la novità della questione, e,
quindi, non è riuscito ad apprezzare le differenze rispetto a quelle altre
decise con le pronunzie che, prima dell’introduzione dell’incandidabilità,
s’erano imposte di delimitare la potestas
iudicandi del giudice ordinario e del giudice amministrativo in materia
elettorale, attribuendo a quest’ultimo le questioni inerenti la legittimità
dei voti espressi dagli elettori, giacché inerivano alla regolamentazione del
procedimento elettorale ed alla determinazione del risultato, piuttosto che al
diritto di elettorato passivo dei candidati.
In
riguardo a ciò, deve sottolinearsi come al giudice ordinario (al pari del
giudice amministrativo) è dato di correggere il risultato delle elezioni e
sostituire ai candidati illegalmente proclamati coloro che hanno diritto di
esserlo (art. 84 Dpr 570\1960). Il giudice ordinario può, cioè, intervenire
con poteri sostitutivi sul risultato elettorale, e non soltanto limitatamente al
candidato (o ai candidati) in relazione al quale (o ai quali) è stata sollevata
la questione di ineleggibilità, incompatibilità o di decadenza.
Ad
aderire alla tesi sposata da quel Tribunale, dovrebbe, al contrario, negarsi che
il Giudice Ordinario possa, in nessun caso, influire sul risultato elettorale.
Necessario presupposto di quell'affermazione è, infatti, l'asserita incapacità
del Giudice ordinario di conoscere dei vizi del procedimento elettorale -ancorché
connessi alla partecipazione al procedimento elettorale e, quindi, all'elezione
di chi é incandidabile e\o ineleggibile- e di correggerli.
Riconosciuto,
però, al Giudice Ordinario il potere di intervenire (per correggerlo) sul
risultato elettorale, con poteri sostitutivi, è ovvio riconoscergli anche il
potere di conoscere delle illegittimità del risultato elettorale che deriva
dalla partecipazione di chi versa nelle condizioni cui la legge riconnette una
limitazione al diritto di elettorato passivo o al suo esercizio. Ed infatti, se
quel potere, discende dall'art. 84 del Dpr 570\1960, l'individuazione dei limiti
e, quindi, delle modalità con le quali realizzarlo, dipende dal coordinamento
della norma in parola con quelle che incidono (in vario modo) sul diritto di
elettorato passivo e con quelle che disciplinano la determinazione del risultato
elettorale, e non, semplicemente, dalle norme sul riparto della giurisdizione in
materia elettorale. Queste, infatti, riguardano solo indirettamente quel potere,
giacché attengono ad un momento preliminare all'introduzione del giudizio:
l'individuazione del giudice “capace” di conoscere della controversia.
Il
Tribunale, per declinare la propria giurisdizione, doveva, quindi, accertare
che, nel caso de quo, non era
possibile la correzione del risultato elettorale, e che l’illegalità dello
stesso era rimediabile, soltanto, con l’annullamento delle elezioni che gli
era precluso.
In
tal senso l'art. 84 Dpr 570\60 consente al giudice ordinario di conoscere di
questioni altrimenti rimesse al giudice amministrativo. In ogni altra ipotesi,
infatti, al Giudice ordinario -in quanto non può pronunziare sentenze che
incidano il provvedimento amministrativo (art. 4 della L. 20.3.1865 n°
2248 all. E)- é sottratta la giurisdizione sulle controversie nelle
quali sia chiesto di revocare o modificare l'atto che si assume illegittimo[23].
Ciò
trova conferma nel fatto che (prima dell’entrata in vigore della L. 16/92,
modificativa dell’art. 15 della L. n° 55/90) il giudice ordinario aveva,
senza difficoltà, affermato il potere di sostituire il "candidato
(o i candidati) in relazione al quale (o ai quali) è stata sollevata la
questione di ineleggibilità, incompatibilità o di decadenza", senza
preoccuparsi dell’incidenza della pronunzia sull’atto amministrativo che,
così, veniva ad essere modificato.
I
limiti di quel potere erano, così, individuati in considerazione dei vizi che
inficiavano il risultato elettorale e di cui poteva conoscere l'A.G.O.,
costituiti dalle cause di ineleggibilità e incompatibilità, per rimediare ai
quali era sufficiente sostituire a chi era impedito di essere eletto, o di
permanere nella carica elettiva, colui che era meglio graduato fra i non eletti
della stessa lista: non essendo impedito agli ineleggibili ed agli incompatibili
di partecipare alle elezioni, l'illegalità del risultato era rappresentata
dall'illegittima composizione dell'organo.
Ma
se ciò è vero, l’introduzione della cd. incandidabilità necessitava di
riconsiderare i limiti di quel potere e del modo di attualrlo, specie nel caso
in cui si ritenga che il rimedio rispetto all’illegalità così determinatasi
fosse l’annullamento delle schede votate, anche, per l’incandidabile (v.
infra).
Infatti, il criterio di riparto della giurisdizione elaborato dalla S.C., fuori
della materia che qui ci occupa, prevede
il concorso di due criteri: a) il criterio c.d. della <<causa petendi>>, secondo cui é competente l'A.G.O. a
conoscere delle controversie che riguardano diritti soggettivi e il G.A. conosce
delle controversie in cui si dibatta su interessi legittimi; e b) il criterio
del c.d. <<petitum sostanziale>>,
secondo cui é competente il giudice amministrativo se si chiede l'annullamento,
mentre é competente il giudice ordinario se si chiede il risarcimento del danno[24].
Tale
criterio, elaborato in relazione agli artt. 2 e 4 della L. 2248 all. E cit.,
sconta i limiti normalmente posti all'A.G.O., che può soltanto disapplicare, ma
non anche revocare o modificare l'atto amministrativo[25].
L'art. 84 Dpr 570\60, in quanto incide sui limiti entro cui va contenuta la
decisione del giudice ordinario e, così, sul criterio c.d. del <<petitum
sostanziale>>, elaborato dalla giurisprudenza[26],
ricomprende nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie in cui,
ancorché si chieda la revoca o la modifica dell’atto amministrativo
illegittimo (art. 84 Dpr 570), si faccia questione del diritto di elettorato
passivo (art. 2 L. 2248 all. E cit. e art. 82 Dpr 570\60 cit.). Con riguardo
alla materia elettorale, cioè, il criterio di riparto è costituito unicamente
dalla <<causa petendi>> e
non, anche, dal <<petitum
sostanziale>>; con esclusione, ovviamente, delle domande
d’annullamento, proprio perché il potere di correggere il risultato
elettorale, riconosciuto tanto al giudice amministrativo quanto al giudice
ordinario, non comprende la pronunzia demolitoria.
L’art.
1 della L. 16\92, nel caso si fosse assunto la possibilità di annullare le
schede votate per l’incandidabile, avrebbe, così, indirettamente “ampliato”
i poteri riconosciuti al giudice ordinario per la correzione del risultato
elettorale (art. 84 Dpr 570 cit.), proprio perché il potere sostitutivo di quel
giudice è teleologicamente orientato alla restituzione del risultato elettorale
alla legalità. L’art. 84 del D.p.r.
n° 570/60, cioè, ha anticipato la tendenza con la quale, recentemente[27],
si tende a concentrare innanzi ad un solo giudice, per assicurare celerità alla
tutela giurisdizionale, le controversie in ragione della “materia” cui esse attengono, evitando, così, la necessità di far
ricorso a due diversi (ordini di) giudici. E d’altronde, le esigenze di
celerità della decisione sono più dei giudizi elettorali rispetto ad ogni
altro, giacché in tali ipotesi la necessità di ricorrere al giudice ordinario
e poi a quello amministrativo, percorrendo tutti i gradi del giudizio,
renderebbe inutile la decisione finale.
Affermare,
quindi, come ha fatto il Tribunale di Patti, che l'individuazione dei limiti del
potere di cui all'art. 84 Dpr 570 cit. é affidata al criterio di riparto della
giurisdizione è, infatti, un’evidente petizione di principio; infatti, quel
criterio, tutt'al più potrebbe escludere la giurisdizione del giudice
ordinario, non, anche, segnare i limiti al potere dell'A.G.O. di intervenire sul
risultato elettorale.
Affermata
la giurisdizione del Giudice ordinario, il criterio per la delimitazione del
potere di quel giudice di “sostituire ai candidati illegalmente proclamati quelli che hanno diritto
di esserlo” va ricercato nelle norme che disciplinano l'accesso alle
cariche elettive e la determinazione del risultato elettorale.
Altrimenti
si finirebbe con l'affermare che al Giudice Ordinario é impedito di conoscere
della legalità del risultato che esso è chiamato a correggere e, quindi, della
legalità del procedimento che l'ha determinato. L'A.G.O. dovrebbe, così,
limitarsi a dichiarare l'esistenza di una causa ostativa del diritto di
elettorato passivo o del suo esercizio; cosicché sarebbe, sempre, devoluto al
G.A., verificare le illegittimità da cui é inficiato il procedimento
elettorale e, quindi, porvi rimedio. Ma una tale interpretazione -seppure
mascherata dal riconoscimento al giudice ordinario di limitati poteri di
intervento- é tale da rendere inutili sia l'art. 84 Dpr 570\60 che l'art. 2
della L. 2247 all. E.
Altra
cosa, ovviamente, è dire che le norme che disciplinano il riparto di
giurisdizione in materia elettorale -e che hanno riguardo unicamente alla
causa
petendi- concorrono dall'esterno, a delimitare il potere del Giudice
ordinario di sindacare la legittimità dell'atto di proclamazione del risultato
elettorale. Il Giudice ordinario, infatti, può conoscere del provvedimento di
proclamazione degli eletti solché sia in contestazione la candidabilità,
l'eleggibilità o la compatibilità di taluno di essi. Di conseguenza, potrà
conoscere soltanto dei vizi che la partecipazione o l'elezione di chi é
incandidabile, ineleggibile o incompatibile ha determinato sul risultato
elettorale; mentre, ogni altra questione che attenga alla legalità del
risultato elettorale é rimessa al Giudice Amministrativo.
D’altronde,
fin qui, non si é mai avuto alcun dubbio sul fatto che le questioni riguardanti
le delibere in materia di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità,
in quanto attengono al diritto di elettorato passivo, sono devolute alla
giurisdizione ordinaria[28].
Fenomeno,
di certo, non nuovo né ripudiato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza é la c.d. doppia tutela, cui può farsi ricorso azionando
innanzi all'A.G.O. ed al G.A., rispettivamente, posizioni di diritto soggettivo
e di interesse legittimo, ove gli atti coinvolti da quelle domande incidano su
entrambi tali “tipi” di situazioni[29].
Sicché, assunto che la partecipazione dell’incandidabile comporta
l’illegittimità del procedimento e del risultato elettorale, ma non anche la
nullità delle schede votate per l’incandidabile (v.
infra), riemerge la necessità di far ricorso alla <<doppia
giurisdizione>>: al giudice amministrativo va proposta la domanda di
annullamento delle elezioni ed al giudice ordinario la domanda, pregiudiziale
rispetto a quella, di accertamento dell’incandidabilità., che è, comunque,
sottratto, anche in via incidentale, alla giurisdizione del giudice
amministrativo[30],
giacché l'art. 82 del Dpr 570\1960 riserva la cognizione delle questioni
attinenti a quel diritto al giudice ordinario[31].
Ed
infatti, quantunque le cause di incandidabilità e quelle di ineleggibilità
debbano ascriversi a categorie necessariamente diverse -essendo ontologicamente
diversi i fatti da cui nascono ed il meccanismo con il quale il legislatore ha
previsto fossero realizzati gli interessi pubblici sottesi alle norme che le
individuano-, esse, comunque, afferiscono ed entrambe al diritto di elettorato
passivo, come anche affermato dalla S.C. , che, allorché ha avuto modo di
pronunziarsi sulle cause di incandidabilità e\o di decadenza individuate
dall'art. 1 della L. 16.1.1992 n° 16 ha statuito che “la
giurisdizione del giudice ordinario a conoscere delle controversie in tema di
eleggibilità o decadenza dalla carica ... non trova limitazioni e deroghe per
il caso in cui venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di
decadenza, perché anche in tale ipotesi, la decisione verte non
sull'annullamento dell'atto amministrativo, ma sul diritto soggettivo perfetto
inerente all'elettorato passivo”[32].
Un
momento (recte: criterio) decisivo nel
giudizio sull’ammissibilità dei ricorsi elettorali è, tradizionalmente, dato
dalla cd. prova di resistenza, dalla verificazione, cioè, dell’incidenza dei
vizi e, soprattutto, del rimedio di quelli sul risultato elettorale:
l’interesse al ricorso, cioè, è affermato o negato quando, secondo un
giudizio prognostico, la richiesta correzione è capace o incapace di ribaltare
il risultato elettorale.
Le
opinioni palesate dal Tar e dal C.G.A. riguardo alla necessità del superamento
della c.d. prova di resistenza quando, com’era nel caso dedotto in giudizio,
l’illegittimità del risultato elettorale è determinata dalla partecipazione
dell’incandidabile sembrano essere diverse.
Infatti,
il giudice di primo grado, pur affermando l’illegittimità del risultato
elettorale e, quindi, la necessità del suo annullamento sulla scorta della
(sola) partecipazione dell’incandidabile, s’è dato carico di dimostrare,
ad
abbundantiam, e quasi per giustificarsi, che, comunque, il ricorso avrebbe
superato la c.d. prova di resistenza; il Cga
ha ritenuto, invece, si possa prescindere da quella “prova”, perché in tali
ipotesi non è in considerazione l’illegittima attribuzione del voto,
l’illegittimità del risultato elettorale, ma del procedimento elettorale.
Il
criterio impiegato dal giudice d’appello per la verificazione dell’interesse
a ricorrere, sembra però eccessivamente formalistico, giacché, per assurdo,
potrebbe essere invocato da chi, pur giovandosi dell’apporto dell’incandidabile,
abbia perso le elezioni, nel mentre, come chiarito dalla Corte Costituzionale,
la ratio della norma sull’incandidabilità
è posta per impedire che il risultato elettorale possa essere determinato da
chi è <<non candidabile>>[33].
Con
ciò non si vuol certo riabilitare la c.d. prova di resistenza, la rigida
applicazione della quale potrebbe condurre –come mostra di ritenere il C.G.A.-
ad un risultato iniquo: l’affermazione della lista che annovera l’incandidabile
non potrebbe essere scalfito quando l’apporto di quello non sia determinante.
Detto
ciò si pone la necessità di verificare se, rispetto all’ipotesi in
considerazione, non debba, invece, farsi ricorso ai normali criteri per
giudicare dell’ammissibilità del ricorso, adattandoli alla peculiarità della
stessa. E in ipotesi, il criterio che potrebbe risultare determinante per quel
giudizio potrebbe essere, non tanto il computo numerico dei voti dati all’incandidabile
per rapportarli allo scarto fra le liste –proprio perché la scelta di voto
alla lista potrebbe non essere determinata, come ha affermato il C.G.A.,
unicamente, dal voto di preferenza[34],
ma, anche, dalla presenza in lista dell’incandidabile- quanto dal fatto che la
lista risultata vittoriosa annoveri o meno l’incandidabile.
Il
problema, evidentemente, si pone in maniera diversa nell’ipotesi in cui si
tratti delle elezioni in comuni con un numero di abitanti inferiore o superiore
a 10.000. In quest’ultimo caso l’interesse a ricorrere potrebbe ritenersi
positivamente accertato quando la lista che annovera l’incandidabile, seppure
non sia risultata vittoriosa, abbia condotto il candidato sindaco ad essa
collegato alla fase di ballottaggio, a detrimento di altre.
Rispetto
a tale ipotesi, l’interesse alla legalità e, quindi, l’interesse a
ricorrere, è dato dal fatto che, dovendo impedirsi che il risultato elettorale
sia determinato dalla partecipazione dell’incandidabile, non è possibile
prescindere dall’apporto di quello sulla scelte dei candidati sindaci (o
presidenti) così come determinatesi nella prima fase del procedimento
elettorale.
L’incapacità
giuridica (speciale), l'incapacità ad essere candidato alle elezioni
amministrative, introdotta dall’art. 1 della L. 16\92, esclude, come si
diceva, il diritto di elettorato passivo rispetto a quelle elezioni.
Ciò
ha una corollario necessario: l'atto di ammissione di chi versa in una delle
condizioni previste dall'art. 15 co. 1° L. 55\90 è radicalmente nullo, e non,
semplicemente, annullabile. L’atto che accerta l’esistenza\inesistenza di
quel requisito non può, infatti, ascriversi alla categoria dei provvedimenti
amministrativi, essendo, invece, un atto meramente ricognitivo
dell’esistenza\inesistenza di un diritto che, per dover essere accertato da
un’autorità amministrativa, non degrada ad interesse legittimo[35].
La conferma di ciò si ha nel fatto che, come affermato dalla Corte
Costituzionale, la sentenza di condanna ostativa di quel diritto <<è
... presa in considerazione come mero presupposto oggettivo ... viene
configurata quale "requisito negativo" ai fini della capacità>>
di essere candidato[36].
Ed
è su tale presupposto che le S.U., chiamate per regolare la giurisdizione,
hanno confermato la giurisdizione del giudice ordinario, come sui ricorsi in
materia di eleggibilità e compatibilità[37],
anche, riguardo alle ipotesi di decadenza disciplinate dall'art. 15 L. 55\90,
rilevando come “la giurisdizione del
giudice ordinario a conoscere delle controversie in materia di eleggibilità o
decadenza dalla carica ... non trova limitazioni e deroghe per il caso in cui
venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perché,
anche in tali ipotesi, la decisione verte non sull'annullamento dell'atto
amministrativo, ma sul diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato
passivo”[38], ed il Consiglio di Stato
ha ritenuto nulla - e non semplicemente annullabile- la candidatura di chi aveva
omesso di “presentare, contestualmente
alla dichiarazione di accettazione della candidatura, la dichiarazione antimafia
ex art. 15 comma 1 L. 19 marzo 1990 n° 55”[39],
giacché non era acquisito al procedimento la certezza dell'esistenza in capo al
“candidato” del requisito richiesto da quella norma: il diritto di
elettorato passivo rispetto a quelle elezioni.
A
tali insegnamenti sembra si siano adeguati il Tar catanese e il C.g.a..
La nullità dell’atto ammissivo della candidatura, infatti, se è determinato
dalla mancata presentazione della dichiarazione antimafia, a
fortiori
deve ritenersi ove sia accertato in capo a chi è stato “formalmente”
candidato la carenza del requisito che “la
dichiarazione antimafia” è destinato a dimostrare.
La
sentenza del Tar catanese aveva affermato che la nullità dell’atto di
ammissione della candidatura si ripercuote, inficiandone la legittimità, su
tutti gli atti che hanno in quello il loro presupposto. Dalla nullità di
quell’atto, cioè, deriva l’illegittimità di tutti quelli che ad essa
seguono, fino alla proclamazione del risultato. Ciò perché la <<nullità
di un atto del procedimento si comunica agli atti successivi quando questi, come
nel caso di specie, si trovano in un rapporto di dipendenza causale e necessaria
con l’atto nullo. Si tratta, più precisamente, di un rapporto di causa ed
effetto, potendosi escludere solo un eventuale nesso semplicemente occasionale o
accidentale>>. Da ciò aveva tratto la necessita dell’annullamento
del risultato elettorale.
L’assunto
appare, però, criticabile sulla
base della fondamentale considerazione che l’atto nullo, a differenza di
quello annullabile, non produce effetti, cosicché, il ragionamento doveva
spingersi oltre; doveva, cioè, accertarsi se non era possibile depurare il
risultato elettorale dall’apporto del candidato-non
candidato, che quel giudice ha riconosciuto determinante, rispetto
all’affermazione della lista in cui era inserito e del candidato sindaco ad
essa collegato, proprio perché, come, ora, dice il C.g.a.,
<<l’oggettiva indimostrabilità
dei meccanismi psicologici che possono aver indotto gli elettori a votare
congiuntamente il candidato [-incandidabile]
Arcodia e la lista nella quale il medesimo risultava inserito>>.
L’impossibilità di discernere quale fosse stata la motivazione determinante
la scelta dell’elettore, infatti, avrebbe dovuto, secondo un consolidato
orientamento del Cga, far ritenere
nulle le schede contenenti voto di preferenza per l’incandidabile, perché, in
ragione della nullità dell’atto di ammissione, esso non poteva compreso nelle
liste elettorali e, quindi, i voti attribuitigli, dati ad un soggetto non
compreso nelle liste elettorali[40].
E,
peraltro, il Tar catanese, nel tentativo di dar giustificazione al disposto
annullamento dell’elezioni, dandosi carico di ritenere superata la c.d. prova
di resistenza, aveva affermato che <<la verificazione …ha permesso di accertare che …129 schede in cui
l’elettore ha votato sia per la lista che esprimendo la preferenza per Arcodia
…in tale ipotesi il voto si è trasferito anche al candidato sindaco per
conseguenza del collegamento alla lista votata …sia la normativa elettorale
che dispone il collegamento, sia la logica che il senso comune … depongono per
un rapporto di stretta interdipendenza tra l’espressione della preferenza ed
il voto di lista che (a sua volta) si trasmette al sindaco collegato; ciò
determina la necessaria comunicazione dell’illegittimità conseguente al voto
espresso per il non candidabile anche al voto alla lista cui appartiene e quindi
a tutta la scheda>>. Il Tar, cioè, aveva ritenuto illegittime le
schede votate per l’incandidabile, pur se poi non ne ha saputo o voluto trarne
le logiche e necessarie conseguenze.
Il
giudice d’appello sembra, ad una prima lettura, aver fatto un passo indietro
rispetto all’affermazione della nullità dell’atto di ammissione di quella
candidatura. Si legge, infatti, in sentenza che <<invero,
l’espressione di un voto di preferenza in favore di un candidato che, nel
momento storico in cui si svolgeva la votazione, risultava a tutti gli effetti
inserito in una delle liste in competizione, ancorché sia stato successivamente
dichiarato non candidabile, non può essere equiparata all’ipotesi in cui
l’elettore abbia invece votato un nominativo estraneo, in quanto non compreso
in alcuna delle predette liste. Mentre infatti quest’ultima espressione
costituisce, per la sua anomalia, un’indicazione vietata tale da comportare la
totale nullità della scheda della scheda, nel caso in esame si è invece in
presenza di una normale e fisiologica espressione congiunta di voto di lista e
di preferenza, con oggettiva ed assoluta impossibilità di discernere se ed in
quale misura la preferenza abbia influito sulla scelta della lista, o viceversa>>.
L’assunto del C.g.a. postula, così,
che l’atto di ammissione dell’incandidabile non sia nullo, ma,
semplicemente, illegittimo, capace perciò di produrre gli effetti suoi propri,
che vengono ad essere caducati per effetto del successivo accertamento
giurisdizionale[41].
A
ben vedere, però, è lo stesso giudice che, confortando la linea argomentativa
del Tar catanese, aveva mostrato di condividerne i risultati. Le schede votate
in favore dell’incandidabile, stante l’impossibilità di individuare i
<<meccanismi psicologici che possono
aver indotto gli elettori a votare congiuntamente il candidato [-incandidabile]
… e la lista nella quale il medesimo
risultava inserito>>, potevano così essere annullate, facendo salvo,
per il resto, il procedimento elettorale. Tale principio, d’altronde, come
detto anche nella sentenza in rassegna, è stato più volte affermato e ribadito
dal C.g.a., proprio per affermare
la nullità delle schede contenenti una preferenza per chi “non
era compreso nelle liste elettorali”[42],
anche se, nel caso di specie, non avrebbe potuto farsi applicazione dell’art.
38, 7° co. D. P. Reg. Sic. n° 3/1960, se non dopo avere affermato la nullità
dell’atto di ammissione dell’incandidabile e, quindi, l’inidoneità dello
stesso a produrre effetti.
La
norma da ultimo citata, infatti, anche nell’interpretazione fattane dallo
stesso Cga, non ha soltanto
funzione sanzionatoria rispetto alle modalità di espressione del voto, ma pone,
innanzitutto, un criterio per l’attribuzione dei voti: così, ad esempio, ha
consentito l’annullamento delle schede che recavano la preferenza per il
candidato sindaco collegato alla lista votata, ma non candidato per il
consiglio, perché era incerta la volontà dell’elettore e non perché
l’elettore avesse inteso farsi riconoscere[43].
In
verità, il risultato cui è pervenuto il giudice d’appello sembra determinato
dal fatto che l’incandidabile è stato riammesso al procedimento elettorale
per effetto di un’ordinanza cautelare, pronunziata nel giudizio da quello
promosso contro la sua esclusione dalle liste.
Il
giudicato formatosi sulla sentenza che ha accertato la condizione di <<non
candidabilità>> di quello, infatti, seppure ha determinato
l’accertamento di un “fatto”da cui il G.a.
non poteva prescindere, non era, invece, capace di effetti caducanti
rispetto all’ordinanza cautelare che aveva riammesso l’incandidabile al
procedimento elettorale.
Il
giudicato formatosi sulle pronuncie a contenuto processuale, e quindi anche sul
capo riguardante la giurisdizione, ha, infatti, efficacia soltanto interna
quando siano rese da giudici di merito[44]
e non dalla Cassazione[45].
Il <<capo>> della sentenza
che ha deciso, anche implicitamente, sulla giurisdizione circa la questione
della legittimità dell’esclusione dell’incandidabile, pronunziata dal
Tribunale di Patti, non poteva, quindi, condurre a ritenere invalidata
l’ordinanza cautelare resa dal G.a. e,
così, l’incandidabile <<risultava
a tutti gli effetti in una delle liste in competizione>> e le schede
votate in favore di quello non potevano essere annullate.
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[1] Le pronunzie dei giudici, infatti, avevano fin qui considerato ipotesi in cui le condanne per i previsti dall’art. 15 della L. n° 55/90 erano stati assunti come causa di decadenza dalla carica; e non, invece, gli effetti di quelle condanne sul procedimento elettorale al quale avevano partecipato soggetti <<incandidabili>>
[2] Una recente pronunzia del Tribunale di Patti (sent. 18.3.1998), confermata in appello (Corte d’Appello di Messina, 8.6.1998, n° 216) e dalla Cassazione
[3] Tribunale di Patti (sent. 18.3.1998), confermata in appello (Corte d’Appello di Messina, 8.6.1998, n° 216) e dalla Cassazione.
[4] art. 37 L. 8.6.1990 n° 142, art. 11 L.r. 26.8.1993 n° 7 ed art. 11. L.r. 15.9.1997 n° 35
[5] art. 37 L. 8.6.1990 n° 142, art. 11 L.r. 26.8.1993 n° 7 ed art. 11. L.r. 15.9.1997 n° 35
[6] L’art. 15 della L. 19.3.1990 n° 55 è stato modificato dalla legge 18.1.1992, n° 16, che ha sostituito i commi 1, 2, 3, 4, ed introdotto i 4-bis, 4-ter, 4-quater, 4- quinquies, 4-sexies, 4-septies e 4-octies.
[7] Importanti mutamenti ha subito la norma in esame in conseguenza dell’intervento della Corte Costituzionale, che ne ha dichiarato (sent. 6 maggio 1996, n. 141) l’incostituzionalità nella parte in cui parificava la “situazione” di chi aveva riportato condanne definitive e di chi, invece, era stato condannato in primo grado o, semplicemente, imputato o rinviato a giudizio e di coloro nei cui confronti il tribunale ha applicato una misura di prevenzione quando il relativo provvedimento non abbia carattere definitivo.
[8] Tar Sicilia, sez. Catania, II sez. int., 27.5.1999 n° 1021
[9] C.G.A. 14.3.2000 n° 113
[10] Trib. Patti, 12.10.98 n° 577
[11] Tar Sicilia, sez. Catania, II sez. int., 27.5.1999 n° 1021
[12] C.G.A. 14.3.2000 n° 113
[13] v. supra
[14]
Corte Cost. n° 141 del 1996. V. anche Corte Cost. n° 280 del 1992:
<<la nuova normativa,
modificando in senso rigoroso le previsioni contenute in quella previgente,
detta un’ampia disciplina in tema di eleggibilità e, in genere, di
capacità di assumere e mantenere cariche od uffici di varia natura nelle
regioni, nelle province e nei comuni ed altri enti ed organismi di autonomia
locale. In particolare, viene introdotta (comma 1) la regola della
<<non candidabilità>> alle elezioni regionali, provinciali,
comunali e circoscrizionali …le ipotesi di <<non candidabilità>>
alle elezioni previste dal comma 1 altro non sono che nuove cause di
ineleggibilità … si è ritenuto, come risulta dai lavori preparatori
della legge n. 16 del 1992, che … attraverso l’istituto della non
candidabilità alle elezioni, ad <<impedire che persone gravemente
indiziate di crimini … di stampo mafioso, proprio mediante il metus che
incutono, possono pervenire a cariche elettive>> e, dall’altro, ad
estenedere l’ambito dei destinatari della disciplina <<a tutta una
serie di altri incarichi che spesso formano la fitta rete attraverso la
quale si esprime l’intreccio mafia-poltica ed il potere clientelare>>.
In definitiva, la ratio legis, come esattamente rileva l’Avvocatura
dello stato, è quella di costituire una sorta di difesa avanzata dello
Stato contro il crescente aggravarsi del fenomeno della criminalità
organizzata e dell’infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali.
Così anche, Corte Cost. n° 288 del 1993: <<
la legge 18 gennaio 1992 n. 16 … ha, in sintesi, introdotto un’ampia
disciplina in tema di eleggibilità e, in genere, di capacità di assumere e
mantenere una serie di cariche o incarichi di varia natura nelle regioni e
negli enti locali>>. E Corte Costit. n° 118 del 1994 che
chiarisce che: <<in altre parole … la condanna penale irrevocabile è stata presa in
considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un
giudizio di <<indegnità morale>> a ricoprire determinate
cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata quale
<<requisito negativo>> ai fini della capacità di assumere e di
mantenere le cariche medesime. Corte Cost. n° 141 del 1996,
definitivamente chiarisce <<individuando
la ratio della l. n. 16 del 1992 … questa Corte ha riconosciuto che, nelle
sue varie disposizioni, essa tutela beni di primaria importanza, minacciati
dall’infiltrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso negli
enti locali: le misure eccezionali adottate tendono a salvaguardare il buon
andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l’ordine e la
sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi ... Proprio al
fine di garantire questi valori, la l. n. 16 del 1992 integra le misure
interdittive, provvisorie, già previste dalla l. n. 55 del 1990
… e per la prima volta
introduce fattispecie di non candidabilità che incidono sulla costituzione
delle assemblee elettive; fattispecie che, interferendo sulla formazione
della rappresentanza, devono essere sottoposte ad un controllo stringente.
[15] V. art. 15 della L. 15.3.1990 n° 55
[16] Le ipotesi di incompatibilità, a differenza dell’incapacità giuridica (speciale), sono poste dall’ordinamento in ragione della incompatibilità della situazione, qualificante, in cui versano determinati soggetti rispetto agli “uffici” cui essi potrebbero essere chiamati o ad altri interessi tutelati dall’ordinamento. Sono, così, ascritti alla “incompatibilità” le limitazioni, poste dall’art. 330 c.c., ad assumere l’ufficio tutelare a chi non abbia la libera amministrazione dei propri beni, i limiti al diritto di adottare, posti dall’art. 6 della L. 4.5.1983 n° 184, in ragione della condotta dell’adottante, o, dagli artt. 348 e 393 c.c., all’assunzione dell’ufficio di tutore. Per tutti Falzea, Capacità, in EdD, cit., 28 ss..
[17] Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato, 6.a ed., I, Utet, Torino, 1965, 146;
[18]
Falzea,
Capacità, in EdD
[19] Arena, Incapacità (diritto privato), in EdD, Giuffrè, Milano, 1970, XX, 910 s.s. Le situazioni d’incapacità giuridica speciale sanciscono, quindi, una discriminazione tra i soggetti (giuridici), e quella introdotta dalla L. n° 55/90, segna un momento di ripensamento, se non di regresso, rispetto alla tendenza, riscontrabile in epoca repubblicana, verso la rimozione di tutte le cause di discriminazione, giustificate dall’Ordinamento attraverso le incapacità giuridiche che colpivano i cittadini in ragione della razza o del sesso (Si veda, ad esempio, Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità (I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi), Il Mulino, Bologna, 1980, 13 s.s) o di altri fatti qualificanti, come l’infermità mentale (v. Dpr 20.3.1967 n° 223 che sospendeva il diritto di elettorato per i ricoverati negli ospedali psichiatrici). Così, ad esempio, l’art. 2, co. 5° del T.U. sullo statuto degli impiegati civili dello Stato (Dpr 10.1.1957 n° 3) esclude dai pubblici impieghi i soggetti che hanno perso l’elettorato attivo.
[20]
Inserire giurisprudenza.
[21] Un argomento in tal senso potrebbe ravvisarsi nell’orientamento legislativo che, di recente, mira a concentrare innanzi ad unico giudice, il giudice ordinario o il giudice amministrativo, le controversie inerenti talune materie, indipendentemente dalla (natura delle) domande proposte e dagli (dalla natura degli) atti dell’amministrazione che il giudice è richiesto di conoscere.
[22] Trib. Patti, 12.10.98 n° 577.
[23] cfr. Capozzi, Problemi di giurisdizione, in Una giustizia per la pubblica amministrazione a cura di Spagnuolo Vigorita, Jovine, Napoli, 1983, 131; Guicciardi, <<Causa petendi>> e <<petitum>> nei rapporti fra giurisdizione ordinaria ed amministrativa in Studi di giust. amm., Cedam, Padova, 1967, 24; Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa in Riv. dir. proc., 1963\1964 n. 23.
[24] Il citato criterio discretivo è ora compromesso, o quantomeno messo in dubbio, dalla recente sentenza n° 500 del 1999 con la quale le Sez. unite della S.C. hanno riconosciuto la risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, dando, quindi, rilevanza o, comunque, prevalenza al criterio del c.d. petitum sostanziale, rispetto a quello della causa petendi.
[25] Scoca, Riflessioni sul criterio di riparto delle giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, in Dir. proc. amm., 1989, 549; Vela, Questioni sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Giust. civ., 1991, II, 110; Caramazza - Quadri, Il <<diritto civile e politico>> del cittadino nella cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, in Rass. avv. Stato, 1988, II, 83; Montesano, Lezioni sulla giurisdizione, Bari, 1972, 75.
[26] da ult., Cass. civ., 17.10.88 n° 5627; Cons. St., IV, 30.1.1991 n° 58 in Cons. St., 1991, I, 121
[27] V., ad esempio, D. Legisl. n° 80/98.
[28]
Anche recentemente, la S.C. ha confermato che la giurisdizione sulla
legittimità delle delibere che attengono all’incandidabilità e\o alla
decadenza dalla carica per le cause previste dall’art. 15 L. 55\90 spetta
all’A.G.O. (Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558)
[29] Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, p. 1308 e ss; Pajano, Provvedimenti di determinazione delle tariffe telefoniche e doppia tutela giurisdizionale, in Rass. Avv. Stato, 1978, I, 408; Stipo, Le origini del riparto di giurisdizione verso la P.A. e la doppia tutela, Roma, 1979; Sandulli, Un passo indietro nella teoria della <<doppia tutela>>, in Giur. It., 1984, III, 1, 313; in giurisprudenza ex plurimis Cass. civ. 27.6.1983, n° 3497, in Giur. It., 1984, I, 1 514.
[30] cfr. Cons. St., sez. V, 26.8.1988, n° 502; Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558
[31] ex plurimis Cass. civ., sez. un., 14.10.1986 n° 6005; Cass. civ., sez. un., 16.10.1985 n° 5074; Cass. civ., sez. un., 17.2.1994 n° 1558; Cass. civ., sez. un., 3.8.1994 n° 7205
[32] Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558; Cass. civ., sez. un., 3.8.1994, n° 7205
[33] Corte Cost. n° 141/1996 e n° 280/92
[34] CGA, 14.3.2000, n° 113
[35] Corte Cost. n° 295\94
[36] Corte Cost. n° 118\94
[37] ex plurimis, Cass. civ., sez. un., 28.10.94 n° 10131
[38] Cass. civ., sez. un., 17.2.1994, n° 1558; Cass. civ., sez. un., 3.8.1994, n° 7205
[39] Cons. St., sez. V, 17.5.1996, n° 574, in Foro amm., 1996, 1547
[40] l’orientamento del C.g.a. in tal senso è consolidato: v. C.g.a. 30.4.1997 n° 53 e C.g.a. 30.4.96 n° 119; v. anche Tar Sicilia – Catania, II, 8.5.95 n° 1340; Tar Sicilia – Palermo, 15.10.96 n° 1180; Tar Sicilia – Catania, 17.5.94 n° 958.
[41] Contra, però, Cons. Stato, 17.5.96 n° 574, cit.
[42] v. supra, nota 40.
[43] C.g.a. 30.4.1997 n° 53
[44] Cassazione civile, sez. un., 5.2.99 n° 45; Cassazione civile, sez. un., 21.1.1988 n° 444; Cassazione civile, sez. III, 16.3.86; Cassazione civile, sez. III, 24.11.86 n° 6900; contra Cassazione civile, sez. un., 19.7.85 n° 4262; Cass. civ., sez. un. 3.7.89 n° 3188.
[45] Cassazione civile, sez. un., 5.2.99 n° 45, cit.; C.g.a., 25.5.98 n° 307; Cassazione civile, sez. un., 18.12.1985 n° 6458;