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GAETANO CICCIÒ
(Presidente TAR dell’Emilia Romagna - Parma)
Gli interventi edilizi minori e la
semplificazione
delle relative procedure (*)
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1.- Tipologia degli interventi edilizi minori.
Sotto un profilo generale, le trasformazioni edilizie costituiscono modificazioni della forma, della configurazione, della destinazione o dell’architettonica degli immobili finalizzate alla loro conservazione o modifica estetica o funzionale.
Esse comprendono quindi anche gli interventi stabilmente idonei a mutare l’utilizzazione degli edifici senza peraltro innovarne gli “standards” o le relazioni fra i fabbricati nel contesto urbano (in caso contrario, si tratterebbe di trasformazioni urbanistiche), ivi compresi quelli che prescindono dall’effettuazione di opere edilizie di un qualche significato, purché in tal caso non vi sia una variazione di parametri urbanistici tale da mutare sostanzialmente gli “standards” della zona.
In quest’ultimo caso, resta fermo infatti il potere del legislatore regionale di obbligare chi proceda al mutamento a richiedere la più onerosa concessione edilizia, come prescrive l’art. 4, 20° comma, del D.L. n. 398/93, convertito nella l. n. 493/93, nel testo sostituito dall’art. 2, 60° comma, della l. n. 662/96.
Le fattispecie essenziali (dal punto di vista ontologico e definitorio) di tali trasformazioni rimangono quelle delineate dall’art. 31 della legge 5/8/1978, n. 457, lett. a), b) e c).
Le lettere a) e b) definiscono gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.
La prima (lett. a) riguarda quelle opere, non sottoposte ad assenso comunale ma a semplice controllo, come ulteriormente precisa l’art. 9, 1° comma, lett. c) della legge n. 10/77, che sono finalizzate a prevenire il deperimento degli immobili o il loro adeguamento tecnologico, e che attengono alla riparazione, alla rinnovazione e alla sostituzione delle finiture degli edifici e all’integrazione o al mantenimento in efficienza degli impianti tecnologici (per gli edifici industriali il Ministero dei lavori pubblici con circ. n. 1918 del 16/11/1977 ha ampliato estensivamente il concetto comprendendovi ad esempio opere nuove come le tettoie, le recinzioni esterne o le cabine o le stazioni). Si tratta, ad esempio, della sostituzione dei manti di copertura o dei rivestimenti, della riparazione degli infissi o degli impianti igienici o tecnologici (compresa la loro sostituzione) ed altro, e cioè di opere che non alterano la struttura degli edifici.
La manutenzione straordinaria, invece, (lett. b) richiama il concetto dell’art. 1005 cod. civ. e si concreta nelle opere necessarie per rinnovare o sostituire parti anche strutturali degli edifici nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici senza alterazione di volumi o superfici e senza modifiche di destinazione d’uso, purchè non si tratti di opere meramente interne, come tali previste dall’art. 26 della legge n. 47/1985 che le ha distinte, anche se ontologicamente assimilabili a quelle di manutenzione straordinaria, per semplificarne il regime di controllo.
Rispetto alla manutenzione ordinaria, si tratta di interventi più radicali, quantunque ancora parziali (sotto questo aspetto distinguibili, come si vedrà, da quelli di ristrutturazione).
Il limite positivo della manutenzione è pur sempre costituito dalla sua finalità, limitata appunto a quanto occorre per conservare la conveniente funzionalità ed efficienza dell’immobile (con opere di mera sostituzione o puro rinnovo di parte del fabbricato) quantunque considerata alla luce delle nuove necessità sopraggiunte nel tempo, cosicché può comprendersi nel concetto l’opera di integrale costruzione “ex novo” di impianti sanitari o tecnologici interni.
Limiti negativi e quantitativi sono quelli del divieto di alterazione dei volumi o di trasformazione dei c.d. “volumi tecnici”; del divieto di alterazione della superficie utile; del divieto di modifica delle destinazioni d’uso (es. da abitazione ad ufficio).
Le opere di restauro e risanamento conservativo (v. la lett. e) dell’art. 31) sono state assimilate quanto al regime autorizzatorio gratuito a quelle di manutenzione straordinaria dall’art. 7, 1° comma, del D.L. n. 9/82 conv. nella l. n. 94/82, che ha operato un’analoga assimilazione nei confronti delle pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti nel 2° comma.
Il restauro riguarda gli edifici rilevanti sotto l’aspetto artistico, storico o architettonico e tende a conservarne o a salvaguardarne i valori mediante la messa in opera di adeguate tecnologie. Il risanamento conservativo, invece, è finalizzato all’attribuzione all’immobile di un uso più consono alle esigenze di oggi o ad una maggiore sua funzionalità, nel rispetto, peraltro, degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio, e con eventuale eliminazione di superfetazioni, ed eventuale mutamento di destinazione d’uso.
Di notevole rilevanza è l’art. 36 del D. Lvo 29/10/99 n. 490/(t.u.. della legislazione sui beni culturali e ambientali) che abolisce l’autorizzazione e la concessione edilizia per gli interventi di restauro sui beni vincolati che siano stati autorizzati dalla competente Sovrintendenza.
Anche le opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti rientrano fra gli interventi edilizi minori.
La pertinenza edilizia è un’opera di dimensioni ridotte rispetto all’immobile principale che pur essendo rispetto ad esso fisicamente distinguibile ne condivide la destinazione, non ha autonomia anche in termini di valori di mercato e in definitiva è ad essa connessa con un rapporto di strumentalità per renderne più agevole o migliore l’uso.
Peraltro, la giurisprudenza ha chiarito che la nozione di pertinenza edilizia è più ristretta di quella civilistica, per cui deve trattarsi non solo di opere marginali per grandezza o rilevanza (quali un ripostiglio o una cabina sporgente dall’immobile) ma che non siano rispetto al bene principale ulteriori (come nel caso in cui occupino volumi e aree diverse e quindi siano fisicamente separate dallo stesso) o ne amplino considerevolmente la forma e le dimensioni.
Quanto agli impianti tecnologici, si tratta di un concetto indeterminato per legge, e comunque per giurisprudenza assimilabile ai c.d. “volumi tecnici” non computabili ai fini urbanistico-edilizi, come nelle ipotesi degli impianti idrici o termici o di condizionamento, degli ascensori, ecc., che abbiano un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile già esistente.
Sul concetto di volume tecnico, rilevante per la sua esclusione dal calcolo della volumetria ammissibile, v. la circ. Min. LL.PP. 3/1/73, n. 2474, che parla di volumi strettamente necessari a contenere ed a consentire l’accesso a quelle parti degli impianti tecnici che non possono per esigenze di funzionalità trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle leggi urbanistiche (serbatoi idrici, extracorsa degli ascensori, vani di espansione, canne fumarie, vani scale sopra le linee di gronda, ecc).
Prevale la tesi che si tratti di un regime applicabile alla sola edilizia residenziale a norma delle l. n. 94/82, la quale prevede, inoltre, altre ipotesi di autorizzazioni gratuite: le occupazioni di suolo mediante deposito di materiale o occupazioni di merci a cielo aperto - che non costituisce, a ben vedere, un caso di trasformazione edilizia ma di uso del territorio – e le opere di demolizione, di scavo e di reinterro, che non riguardino le cave e le torbiere e che non costituiscono momenti di una più consistente attività edilizia (come quella di ristrutturazione di un fabbricato).
Opere sottoposte a procedimento semplificato di autorizzazione (per i casi in cui vi sia un’alterazione della sagoma dell’edificio) o a nessuna autorizzazione (per i casi meno consistenti) erano disciplinate dalla legge 9/1/1989, n. 13 riguardante, fra l’altro, la disciplina urbanistico-edilizia relativa al superamento e all’abbattimento delle barriere architettoniche a favore dei portatori di handicap, e che consente anche una limitata deroga alle norme sulla distanze dei regolamenti edilizi.
Inoltre, la legge 24/3/1989, n. 122 assoggettava, all’art. 9, 2° comma, ad autorizzazione gratuita la costruzione di parcheggi ad uso esclusivo dei residenti nel sottosuolo, nelle aree pertinenziali esterne e nei locali a piano terra, anche in deroga agli strumenti e alla normativa urbanistica.
Ugualmente sottoposte al regime dell’art. 48 della legge n. 457/78 erano le opere di adeguamento degli scarichi degli insediamenti produttivi alle norme contro l’inquinamento (v. la legge 24/12/1979, n. 650) e le opere edilizie relative agli impianti di smaltimento dei liquami e dei fanghi (art. 2, 8° c., D.L. n. 801/81, conv. in l. n. 62/82).
Trattasi, a ben vedere, di casi che, per opportunità e necessità varie, pur potendo non rientrare nelle generali classificazioni delineate dalle leggi n. 47/85 e 94/82 quanto agli interventi edilizi minori, ne condividono la disciplina semplificata di controllo.
Diverso è il caso della ristrutturazione edilizia, disciplinato dall’art. 31, comma 1°, lett. d), della l. n. 457/78.
Tale fattispecie differisce da quella del risanamento conservativo e dal restauro perché comporta una trasformazione dell’organismo edilizio originario con o senza mutamento di superficie utile, e con o senza mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, e riguarda gli interventi rivolti a trasformare l’immobile mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
E’ quindi evidente che la nozione in esame non ha limiti che impongano il rispetto degli elementi strutturali o architettonici del fabbricato, potendo perfino riguardare, come ha precisato la più recente giurisprudenza, la demolizione seguita immediatamente (per cui non deve trattarsi della ricostruzione di ruderi) dalla edificazione di un nuovo fabbricato che peraltro corrisponda integralmente, per sagome, volumi, altezze, fisionomia, ubicazione e ingombro e caratteristiche architettoniche e artistiche a quello preesistente.
La giurisprudenza ha lungamente oscillato fra una interpretazione più restrittiva (con la quale si insiste sul concetto di fedele ricostruzione del preesistente) ad una più estensiva, che consente la riconducibilità alla definizione dei casi di interventi più incisivi, che comunque rispettino l’ingombro o la volumetria complessiva dell’edificio con limitate deroghe per la sagoma e la morfologia e che coerentemente riduce al restauro o al risanamento conservativo i casi di fedele ricostruzione dell’immobile stesso.
Le differenti interpretazioni del concetto appaiono estremamente rilevanti, non soltanto perché la ristrutturazione è consentita (a differenza della nuova costruzione) nel rispetto delle norme urbanistico-edilizie preesistenti (anche se più favorevoli, cioè, a quelle sopravvenute alla costruzione dell’immobile originario) ma anche perché essa, quantunque necessiti pur sempre di concessione, è gratuita a norma dell’art. 9 della l. n. 10/77 qualora non vi sia aumento delle superfici utili di calpestio né mutamento delle destinazioni d’uso.
Una nuova categoria di opere minori trattate come tipologia a sé stante (e che come tale assorbe opere riconducibili a diverse categorie dei tipi sopra delineati, quali la manutenzione straordinaria, il restauro e il risanamento conservativo) è quella delle opere interne, introdotta dall’art. 26 della l. 28/2/1985, n. 47.
Tale disposizione, che escludeva le opere interne dal regime autorizzatorio, e ne consentiva l’immediata effettuazione su presentazione contestuale di una relazione di un professionista abilitato, richiedeva che le opere stesse non fossero in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con i regolamenti edilizi, non comportassero modifiche della sagoma, della costruzione e dei prospetti, né aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari, né pregiudizio per la statica del fabbricato, e neppure, per gli edifici compresi nelle zone A dell’art. 2 del D.M. 2/4/1968, alterazione delle originarie caratteristiche costruttive.
Successivamente all’art. 26 è succeduta una nuova definizione legislativa di opere interne contenuta negli artt. 4, 7° c., lett. e) del D.L. n. 398/93, conv. in l. n. 493/93, 2, 60° comma, della l. n. 662/96 e 11 del D.L. n. 67/97, conv. con modificazioni in l. n. 137/97, per la quale le opere interne sono quelle che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti né pregiudizio per la statica dell’immobile né modifica della destinazione d’uso per gli immobili compresi nelle zone omogenee A. Non sussisterebbe in pratica più il divieto di un aumento delle superfici utili o di modifica (fuori dal centro storico) della destinazione d’uso o, per gli immobili della zona A, di modifica delle originarie caratteristiche costruttive, salvo il rispetto del numero delle unità immobiliari (si parla infatti di “opere interne di singole unità immobiliari”). In particolare, quindi, la destinazione d’uso sarebbe stata praticamente deregolamentata.
E’ peraltro condivisibile al riguardo una diversa tesi.
E’ noto innanzitutto come il mutamento di destinazione d’uso possa essere o no realizzato con lavori edilizi (mutamento con lavori o semplice “mutamento funzionale”) e come l’art. 25 della legge n. 47/85, così interpretato dalla Corte costituzionale, rinviando comunque alla disciplina delle leggi regionali e dei piani regolatori, imponesse comunque, a livello di norma-principio da rispettarsi dalle leggi regionali, il regime autorizzatorio per i semplici mutamenti funzionali. Il che poneva dei dubbi nei casi in cui si trattasse di mutamento di destinazione incompatibile con il carattere omogeneo della zona con conseguente violazione dei relativi standards.
Di tale problema si è reso conto il legislatore che con l’art. 2, comma 60°, della legge n. 662/96 ha riformulato il testo dell’art. 25 delegando alle leggi regionali di stabilire eventualmente il regime concessorio per mutamenti di destinazione d’uso anche non connessi a trasformazioni fisiche; con ciò attribuendo importanza all’incidenza urbanistica della modifica dell’uso degli immobili.
In tal senso, v. la lett. f) dell’art. 2, commi 2, 3 e 4, della l.r. n. 47/78 dell’Emilia-Romagna, nel testo sostituito dall’art. 16 della l. r.. 5/95, che subordina il mutamento della destinazione d’uso ad autorizzazione solo se si tratti di destinazione compatibile con la zona e siano rispettati i vincoli e gli standards (con obbligo, in caso contrario, di un loro contemporaneo e integrale reperimento).
2.- La semplificazione delle procedure di controllo ed autorizzatorie degli interventi edilizi minori.
La semplificazione delle procedure amministrative in materia edilizia è un aspetto della più generali “deregulation” nel campo del diritto amministrativo, che ha visto negli ultimi anni esempi sempre più vistosi.
Il sistema, per dirla in breve, si è improntato nel senso di richiedere, per tutta una serie di casi in materia non discrezionale ma che in passato necessitavano di un provvedimento assentivo (concessorio o autorizzatorio) della p.a., spesso dopo un defatigante iter, una più snella autorizzazione o il verificarsi, dopo un breve periodo, dopo un’apposita denuncia, del silenzio-assenso ovvero ancora di sostituire all’attività autorizzatoria una semplice attività di controllo con possibilità di irrogare sanzioni o di disporre nei casi più gravi i necessari ripristini quando l’attività privata è già iniziata.
La tendenza ha ricevuto una conferma a livello di generalizzazione concettuale e di tendenziale principio dalla l. n. 7/8/1990, n. 241, sul procedimento amministrativo.
L’art. 20 di tale legge istituisce un meccanismo di autorizzazione tacita abbreviata incentrato sul silenzio dell’Amministrazione protrattosi per 60 giorni dopo la denuncia del privato.
Tale silenzio, in altre parole, costituisce, unitamente al decorso del termine ed alla regolarità dell’istanza, una fattispecie tipica equivalente all’autorizzazione, come si desume dalla circostanza che il silenzio-assenso può essere annullato in caso di illegittima sua formazione. Dal comportamento, insomma, si presume un atto tipico.
L’art. 19 della stessa legge prevede invece più incisivamente al 1° comma una semplice denuncia di inizio attività in tutti i casi in cui l’esercizio di un’attività privata sia subordinato ad autorizzazione, licenza, abilitazione, nulla osta, permesso o altro atto di consenso comunque denominato il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, senza l’esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni discrezionali e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli atti stessi.
L’art. 19, valido in via di massima a livello di principio nella materia edilizia, non riguarda ovviamente la materia della concessione o dell’autorizzazione da rilasciarsi in materia di immobili tutelati ai sensi delle leggi n. 1089/39, 1497/39 e 431/85.
Si consolida quindi, anche sotto il profilo definitorio e dei principi, la tendenza a riconoscere per gli interventi edilizi minori un regime di accertamento meramente tecnico di rispondenza alla normativa e quindi non abbisognevole di alcuna valutazione. discrezionale.
B) Le prime leggi sulla semplificazione.
La legge 16/8/67, n. 765, e la legge 28/1/77, n. 10, rimanevano ancorate al principio dell’unicità del sistema assentivo (licenza o concessione) per tutte le opere di trasformazione urbanistica e anche edilizia (e quindi anche per gli interventi modificativi, ancorché minori) del territorio.
L’ultima di tali leggi si limitava infatti a stabilire la non necessità della concessione (stabilendo il semplice regime del controllo) per la manutenzione ordinaria e l’esonero dal contributo di concessione per le opere di restauro e risanamento conservativo (art. 9).
L’inizio della liberalizzazione dei procedimenti assentivi degli interventi minori risale alla legge n. 457/78, che all’art. 48 sostituiva al regime concessorio quello autorizzatorio per la manutenzione straordinaria.
Inoltre, per gli interventi di manutenzione straordinaria che non comportassero il rilascio dell’immobile da parte del conduttore veniva per la prima volta introdotto il regime del silenzio-assenso, che scattava dopo novanta giorni se il Comune non si fosse pronunciato sulla domanda, salva la necessità di comunicare l’inizio dei lavori, e purchè non si trattasse di immobili vincolati.
Altra tappa sul cammino della liberalizzazione è costituita dalla c.d. legge Nicolazzi (l. n. 94/82 di conversione del D.L. n. 9/82), da ritenersi ormai abrogata in gran parte dalla legge n. 493/93 e dalla legge n. 662/96 e successive modificazioni, soprattutto per incompatibilità con le sopravvenute previsioni. Essa estendeva il regime dell’autorizzazione gratuita alle opere di cui alle lettere b) e c) dell’art. 31 della legge n. 457/78, e cioè al restauro e al risanamento conservativo, per le quali introduceva anche il sistema del silenzio-assenso esteso, sia pure con alcuni limiti, ad interventi non minori in materia di edilizia residenziale, già abbisognevoli di concessione edilizia
La stessa legge sottoponeva altresì ad autorizzazione gratuita o, in alternativa, a silenzio-assenso (che si verificava trascorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda) gli interventi per pertinenze, impianti tecnologici al servizio di edifici esistenti, le occupazioni a suolo pubblico mediante il deposito di materiali o l’esposizione di merci a cielo aperto, le opere di demolizione, i reinterri e gli scavi che non riguardassero la materia delle cave e delle torbiere; il tutto alla duplice condizione della conformità agli strumenti urbanistici e all’assenza di vincoli di cui alle leggi nn. 1089 e 1497/39 per la tutela di interessi storico-artistici e paesistico-ambientali.
E’ successivamente intervenuta la legge 18/2/1985, n. 47 la quale ha introdotto uno specifico regime (anche sanzionatorio) per le autorizzazioni edilizie e ha previsto una specifica categoria di opere minori (quella delle opere interne: art. 26) per la quale per la prima volta si è introdotto il sistema più semplificatorio della denuncia di inizio attività (poi istituito in via generale e a livello di principio dalla legge n. 241/90, art. 19) e cioè ha affiancato, quale scelta del richiedente, a quello dell’autorizzazione o del silenzio-assenso il sistema della possibilità di inizio immediato dei lavori contestualmente alla presentazione di una relazione tecnica a cura di un professionista abilitato alla progettazione che si assume la responsabilità di certificare (o asseverare) le opere da compiersi e di dichiararne la conformità alla normativa urbanistica, di sicurezza e igienico-sanitaria.
C) La generalizzazione del sistema della denuncia di inizio lavori (o D.I.A).
Mentre l’autorizzazione e il silenzio-assenso (inteso come autorizzazione presunta e desunta per legge da un comportamento tacito della p.a. per un certo periodo di tempo) si pongono pur sempre nello stesso schema legale dell’atto assentivo in materia neppure minimamente sottoposta alla discrezionalità tecnica e al processo valutativo dell’ufficio, con la D.I.A. si ha un vero e proprio salto di qualità, poiché all’attività di controllo positivo dell’Amministrazione si sostituisce un’attività di mera sorveglianza e di successiva verifica nei confronti di un’attività liberalizzata, anche se ricondotta entro schemi legali tipizzati (perché fuori dallo schema gli effetti di legge non sarebbero raggiunti).
Il legislatore ha fatto prevalere la scelta di non frenare o limitare l’attività economica sacrificando in parte il controllo sul pieno rispetto delle norme urbanistico-edilizie, nel convincimento che la limitatezza degli interventi edilizi minori sia tale da non causare un grave danno alla esigenza che viene sacrificata o compressa.
Una compiuta disciplina della D.I.A. veniva delineata, come si è visto, dall’art. 2, 60° c., della legge n. 662/96, che ha sostituito il testo dell’art. 4, 7° c., del D.L. n .398/93 (conv. in l. n. 493/93), ed è stato a sua volta in parte mutato dall’art. 10, c. 6 bis, del D.L. n. 669/96, conv. in l. n. 30/97.
Esso richiama l’art. 2 della l. 24/12/93, n. 537, a sua volta di modifica dell’art. 19 l. n. 241/90, che prevede infatti sotto un profilo generale la semplice necessità di presentazione alla competente autorità di una denuncia di inizio attività, che attesti – unitamente all’eventuale autocertificazione – l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge, salva la facoltà dell’interessato di chiedere l’autorizzazione.
Per l’attività edilizia è anche obbligatoria la presentazione di una relazione firmata da un progettista abilitato e un’ulteriore relazione a lavori effettuati che certifichi il rispetto del progetto originario.
La p.a. conserva dal canto suo il potere di verificare d’ufficio la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e di disporre eventualmente con provvedimento motivato il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti.
Devono ora esaminarsi le tipologie di interventi edilizi per le quali la norma qui esaminata ha introdotto l’onere della D.I.A..
In proposito, si osserva che deve trattarsi di opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo; di opere particolari di eliminazione delle barriere architettoniche, di recinzioni, muri di cinta e cancellate, di aree destinate ad attività sportive senza creazione di cubatura; di opere interne di singole unità che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti nè pregiudizio per la statica dell’immobile; di impianti tecnologici anche con la creazione di volumi tecnici entro i limiti della lettera f); di varianti a concessioni che non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie o sulle destinazioni d’uso o sulle categorie edilizie, che non alterino la sagoma e non violino le prescrizioni delle concessioni; di parcheggi nel sottosuolo del lotto su cui insiste il fabbricato (la realizzazione di parcheggi nelle aree pertinenziali esterne al fabbricato è sottoposta ad autorizzazione o silenzio-assenso dall’art. 17, 90° c., della legge n. 127/97).
Com’è evidente, si tratta in ogni caso di opere edilizie per lo più definibili come minori (anche per gli effetti della normativa anteriore all’istituzione della D.I.A., che per esse prevedeva generalmente la necessità di autorizzazione) e come tali sostanzialmente inquadrabili nelle categorie qui indicate in precedenza; comunque, e in ogni caso, di opere rispetto alle quali non può ravvisarsi la necessità di valutazioni che ineriscano alla discrezionalità tecnica; comunque, in ogni caso di interventi irrilevanti sotto l’aspetto dei parametri urbanistici e accessori rispetto ad un immobile già assentito e regolarmente costruito. Sarebbe troppo lunga un’esposizione diffusa delle singole fattispecie.
Sotto il profilo generale, basterà evidenziare che si tratta di opere per le quali era prima prevista, la necessità di autorizzazione o di preventiva denuncia (le opere interne) o l’approvazione in corso d’opera (le varianti).
Per le opere interne, sorgono dei dubbi, dal momento che la definizione contenuta nell’art. 26 della legge n. 47/85 appare da una parte più ampia rispetto a quella dell’art. 2, 60° c., della legge n. 662/96 e dell’art. 11 del D.L. n. 67/97, come sopra evidenziato, comprendendo anche quelle connesse a intere costruzioni (e non a singole unità immobiliari) e dall’altra più riduttiva (non comprendendo il mutamento di destinazione d’uso, mentre la vecchia disciplina dell’art. 26, prevedendo una semplice denuncia corredata da una relazione, era senza dubbio più semplice e liberale).
Sembra, per evitare incongruenze e difficoltà interpretative evidenziate dalla dottrina, potersi optare per la natura di norma integralmente abrogatrice, per incompatibilità, sia per quanto riguarda la definizione delle opere interne che per la relativa disciplina (quindi attualmente soggetta soltanto a D.I.A.), nella materia delle opere interne.
Limiti negativi per lo strumento sono costituiti dalla sussistenza di vincoli di tutela ambientale, storico-artistici e urbanistici (es. le zone “A”) istituiti sull’immobile, e di contrarie prescrizioni pianificatorie o regolamentari operative o soltanto adottate ; una condizione di legittimazione si fonda invece sull’esistenza di prescrizioni pianificatorie e programmatorie sull’immobile che siano immediatamente operative (c.d. “statuto urbanistico” dell’immobile): in altre parole, non deve trattarsi di norme la cui efficacia sia condizionata da uno strumento di attuazione.
Quanto al procedimento, è noto come venti giorni prima dell’inizio dei lavori (per i quali peraltro non esiste un termine iniziale che sia sanzionato) deve presentarsi la denuncia di inizio di attività, completa degli elaborati progettuali e di una dettagliata relazione di un progettista abilitato che asseveri la conformità a tutte le norme urbanistiche ed edilizie, di sicurezza ed igienico-sanitarie e indichi l’impresa che procederà ai lavori stessi.
Il Comune nei venti giorni successivi potrà inibire le trasformazioni denunciate, trascorso il termine, non si avrà ovviamente silenzio-assenso, ma semplice attività legittimata formalmente, fermi restando i poteri sanzionatori di opere ordinariamente spettanti al Comune.
Lo schema differisce dal principio generale contenuto nell’art. 19 della legge n. 241/90, il quale consente l’immediato inizio dell’attività.
I lavori devono essere terminati entro tre anni, e al termine di essi occorre una denuncia e una relazione di conformità del professionista.
Le suddette disposizioni procedimentali prevalgono su quelle degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali.
Per le rimanenti disposizioni vige invece il principio dell’autonomia della legislazione regionale e degli Enti locali, che dovrà esplicarsi con norme direttamente operative.
D) Natura giuridica del silenzio-assenso e della D.I.A.
Mentre la concessione edilizia è lo strumento della trasformazione urbanistica del territorio, l’autorizzazione è quello della trasformazione edilizia, cioè di opere di intervento limitato sul patrimonio edilizio esistente, che richiedono un controllo attenuato perché generalmente carente di qualsiasi elemento di discrezionalità.
Per l’autorizzazione si rinvia alla teoria generale dell’istituto, mentre qualche notazione può farsi per lo strumento ad essa alternativo (e cioè rimesso alla volontà del richiedente, che per evitare incertezze e contestazioni può optare per l’autorizzazione, che comporta un controllo preventivo sull’opera) del silenzio-assenso.
Si è già osservato come tale istituto costituisca il primo passo del cammino della semplificazione dei procedimenti edilizi, e come esso si sia, nel tempo, evoluto e consolidato a livello di generale principio (art. 19 l. n. 241/90).
Si è altresì osservato che esso costituisce altresì un’autorizzazione presunta e desunta da un comportamento tacito e inerte della p.a. protrattasi per un certo tempo, dopo un atto d’impulso del privato.
Trattasi quindi di fattispecie legale tipizzata equivalente ad un atto di assenso, che peraltro non consuma (come del resto non consuma l’assenso esplicito) il potere della p.a. di intervenire successivamente annullando l’atto di assenso illegittimamente formatosi (si perime invece il potere di adottare tardivamente un diniego), ovvero, se possibile, emanando, su richiesta, un atto di sanatoria (art. 13, l. n. 47/85) nel caso di abusi minori.
La denuncia di attività (strumento anch’esso alternativo e percorribile, in luogo dell’autorizzazione, nei casi che si sono enumerati) non costituisce affatto una fattispecie equivalente a un provvedimento, per cui non è necessario, in caso di abuso (e cioè di uso distorto dallo strumento in casi non consentiti dalla legge), alcun annullamento, potendo liberamente la p.a. esplicare la sua attività di repressione.
Nel caso contrario, e cioè se lo strumento è stato correttamente utilizzato, esso equivale a fattispecie legittimante una modificazione edilizia senza il previo consenso del Comune; nel caso di semplice violazione di disposizioni procedimentali, potrà applicarsi (a seconda dei casi) la sanzione amministrativa o potranno (se possibile) regolarizzarsi le procedure.
La differenza fra i due istituti è rilevante anche sotto l’aspetto della tutela giurisdizionale concessa ai terzi lesi dall’intervento, i quali nel caso del silenzio-assenso potranno impugnare direttamente l’atto tacito o presunto, mentre nel caso della D.I.A. dovranno sollecitare i provvedimenti repressivi del Comune, e impugnare se del caso il successivo diniego od opporsi ad un comportamento inerte, equivalente a silenzio-rifiuto.
E) La legislazione regionale.
Punto di partenza dell’argomento dev’essere l’affermazione (prevalente in dottrina, quantunque contestata anche da chiari autori) che la materia urbanistica, come prevista dall’art. 117 Cost., non è costituita esclusivamente dall’urbanistica in senso stretto – e cioè dalla disciplina dell’assetto e dell’incremento edilizio dei centri abitati e dagli altri insediamenti e delle relative urbanizzazioni, a condizione che abbia rilevanza solo locale – ma anche dall’edilizia, come disciplina che riguarda l’uso del territorio e che, ai nostri fini limitati, comprende anche le forme di controllo e autorizzazione degli interventi di modifica delle costruzioni, e comunque degli interventi minori.
Tale affermazione è conforme al dettato dell’art. 4 della legge n. 1150/42, che dispone che la disciplina urbanistica si attua non solo con gli strumenti urbanistici generali ma anche con le norme sull’attività costruttiva edilizia.
Così impostata la questione, e limitando l’esame all’ambito legislativo delle Regioni a statuto ordinario, risulta evidente che anche nella nostra materia l’Ente regionale possiede potere legislativo concorrente (oltre che di attuazione) con il legislatore statale, il quale peraltro provvede a livello di leggi-principio, che abrogano legittimamente ogni legge regionale anteriore in contrasto con esse (art. 10, l. n. 62/53).
Il centro del problema, peraltro, risiede nello stabilire in quali casi si tratti di leggi-principio, perché raramente il legislatore statale lo dichiara espressamente (v. per es., le ipotesi di cui all’art. 1, 2° comma, della legge n. 47/85, che rinviando alla futura emanazione di leggi regionali prevalenti chiaramente esclude l’esistenza di norme-principio, o, al contrario, il caso, già esaminato a proposito del procedimento abbreviato della D.I.A. della dichiarata prevalenza su disposizioni locali, che lascia intendere che si tratti di norme-principio, come risulterebbe confermato dal testo dell’art. 9 del D.L. n. 495/96 – quantunque non convertito in legge – che attribuiva alle Regioni il semplice potere di estendere i casi di D.I.A.).
Il problema è importante, perché, ad esempio, l’avvenuta abrogazione, da parte della l. n. 662/96, del silenzio assenso sulla domanda di concessione edilizia avrebbe abrogato la disposizione contenuta nell’art. 22 della l. r. Emilia Romagna 30/1/95, n. 5, che invece lo prevedeva; inoltre, sarebbe dubbia la legittimità di leggi regionali (quali quelle di Lombardia e Toscana) che recentemente avevano esteso la D.I.A. anche alle opere di ristrutturazione e di nuova costruzione.
La stessa Corte costituzionale – come si è visto a proposito delle disposizioni in materia di mutamento delle destinazioni d’uso – sembra optare per l’opinione che le norme statali sul controllo e sullo snellimento delle procedure in materia edilizia costituiscano principi generali.
3) Il nuovo testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (d.p.r. 6/6/2001, n. 380).
La materia in esame è stata da poco riunita in testo unico e alquanto modificata.
Vedremo quindi di riassumere per argomenti e chiarire il senso delle modifiche intervenute.
Il testo unico precisa, all’art. 2, che le regioni ordinarie esercitano in materia edilizia la potestà legislativa concorrente nel rispetto dei principi della legislazione statale, che sono desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico.
Viene quindi esplicitato che non tutte le disposizioni del testo unico costituiscono principi generali (anche perché si tratta in molte parti di norme regolamentari, o comunque dettanti prescrizioni di dettaglio – come espressamente chiarito dal terzo comma – le quali comunque operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, finchè esse non si adegueranno ai principi fondamentali e disciplineranno autonomamente ed “ex novo” la materia).
Da ciò consegue che, finchè tale opera di riformulazione legislativa della materia non sarà compiuta, la legislazione regionale contrastante con i principi statali o con le prescrizioni di dettaglio attuative di tali principi deve intendersi abrogata.
Alcuni principi fondamentali sono da definirsi come tali per la loro natura generale e definitoria, com’è il caso dell’art. 3, relativo alle classificazioni degli interventi, che prevalgono sulle disposizioni regolamentari e di piano (v. il 2° comma).
L’art. 3 del testo unico definisce, quanto alla materia qui trattata, gli interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia [c. 1, lett. a), b), c) e d)]. Sono in essi compresi, a contrario [v. la lett. e.5) e e.7)], anche l’installazione di manufatti leggeri, prefabbricati, case mobili e simili diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e i depositi a cielo aperto senza trasformazione permanente del suolo, che non sono interventi di nuova costruzione.
I suddetti interventi sono sostanzialmente definiti con espressioni analoghe a quelle della precedente legislazione già esaminata (e in particolare della legge n. 457/78).
Sono peraltro assimilati agli interventi di ordinaria manutenzione, quanto alla non necessità di un qualsiasi titolo abilitativo, gli interventi di cui alle lettere b) e c) dell’art. 6 (interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe e ascensori esterni o di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio e le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano esperite in aree esterne al centro edificato), peraltro con la precisazione che non si tratta di principi generali in quanto sono fatte salve più restrittive disposizioni regionali o di strumento urbanistico o poste a tutela del patrimonio culturale e architettonico.
Inoltre, la definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia (lett.d) del 1° comma dell’art. 3) risente alquanto dell’elaborazione giurisprudenziale che si è formata sul punto, comprendendo nel concetto anche la demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico per sagoma, volume, area di sedime e caratteristiche dei materiali.
Il concetto di ristrutturazione, inoltre, si sdoppia per quanto riguarda il regime autorizzatorio, poiché è sottoposta al permesso di costruire (ex concessione) l’attività di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, che cioè comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti e delle superfici o mutamento delle destinazioni d’uso agli immobili compresi nelle zone omogenee A. Pertanto, gli interventi di ristrutturazione meno incisivi (c.d. “ristrutturazione leggera”) sono sottoposti a semplice denuncia di inizio attività.
Per i mutamenti di destinazioni d’uso è precisato poi che spetta alla Regione stabilire se, a prescindere dalla trasformazione fisica dell’immobile, essi siano soggetti all’obbligo di premunirsi del permesso di costruire o di presentare denuncia di inizio attività.
Altri e ulteriori interventi stabiliti dalle Regioni e che incidano sul territorio o sul carico urbanistico possono essere sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Resta quindi confermata dalla formulazione della normativa del testo unico l’interpretazione della legislazione precedente, fatta propria dalle considerazioni che precedono, secondo la quale il mutamento di destinazioni d’uso, ancorché riferito ad opere interne, e ad immobili non compresi nelle zone A, non risulta deregolamentato, essendo sottoposto – a seconda delle zone e ferma restando una disciplina regionale più restrittiva – a obbligo di permesso o di denuncia di inizio di attività.
Con il nuovo testo unico il sistema della D.I.A. (o denuncia inizio attività) è stato compiutamente generalizzato sostituendo del tutto anche i residui casi in cui vi era la necessità dell’autorizzazione edilizia (la cui figura è stata abrogata) salva la facoltà dell’interessato di chiedere, per sua sicurezza, il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di interventi non riconducibili agli elenchi, di cui all’art. 10 e all’art. 6; inoltre, poiché questi ultimi casi sono tipizzati e costituiscono un numero chiuso, tutti gli interventi residuali necessitano esclusivamente della D.I.A..
Il procedimento per l’ottenimento del titolo abilitativo per gli interventi edilizi minori (e cioè, come sopra precisato, del silenzio-assenso dell’Amministrazione) si accentra, come per il permesso di costruire, presso lo sportello unico per l’edilizia (art. 5) che cura tutti i rapporti con le altre amministrazioni.
Poiché la D.I.A. copre anche i casi di interventi su immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale è peraltro prescritto che occorre, in tali casi, il preventivo rilascio del parere e dell’autorizzazione dell’autorità preposta al settore, e che il termine di trenta giorni per il silenzio-assenso decorre da tale rilascio (art. 23, 3° comma) dovendo l’ufficio comunale, qualora l’atto non sia allegato alla denuncia, convocare una conferenza di servizi.
Nel termine di trenta giorni il Comune può notificare all’interessato l’ordine motivato di non effettuare l’intervento previsto; in caso contrario, la sussistenza del titolo è provata dalla copia della D.I.A. corredata dei documenti prescritti (fra essi l’attestazione del professionista abilitato).
Al riguardo, si rileva che il procedimento, anche per il resto, non sembra essere stato sostanzialmente mutato dalle nuove disposizioni, salve le precisazioni esposte.
Peraltro, è prescritto che per talune tipologie d’interventi (evidentemente per quelle che comportano variazioni del carico urbanistico) le Regioni possono stabilire un contributo di costruzione secondo criteri e parametri (art. 22, 4° c.) e che sono sottoposte a D.I.A. anche le varianti a permessi di costruire che non incidano su parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modifichino la destinazione d’uso e la categoria edilizia, che non alterino la sagoma dell’edificio e non violino le prescrizioni del permesso (art. 22, 2° comma).
Viene quindi ampliata la tipologia degli interventi edilizi minori.
L’interessato ha anche l’onere di chiedere, se del caso, il rilascio del certificato di agibilità (art. 24, 3° c.).
Quanto al controllo ed alle sanzioni, il progettista assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità ai sensi del codice penale ed è sottoposto a sanzioni per il rilascio di dichiarazioni non veritiere (art. 29, 3° c.).
Ancora, ai sensi dell’art. 37 l’assenza della D.I.A. o la costruzione in difformità della D.I.A. comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi e comunque in misura non inferiore a un milione di lire, salva la restituzione in pristino per interventi su immobili sottoposti a vincolo.
In caso di conformità alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento sia al momento dell’abuso può ottenersi la sanatoria con sanzioni ridotte; inoltre la D.I.A. effettuata quando l’intervento è in corso di esecuzione comporta una sanzione ancora inferiore.
Sono escluse le sanzioni penali.
Ovviamente quanto precede vale solo nel caso che non sia necessario il permesso di costruire.
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(*) Relazione al Convegno di Reggio Emilia del 7 dicembre 2001 su “Il Testo Unico sull’Edilizia - novità per privati ed amministrazioni”.