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VINCENZO CERULLI IRELLI
(Ordinario di diritto amministrativo
nell'Università di Roma "La Sapienza")
Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell’amministrazione
(Appunti per la relazione introduttiva al
Convegno di Roma del 22 marzo 2002
su "Innovazioni
del diritto amministrativo e riforma della amministrazione")
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1. Da molti anni è in atto un processo di riforma della pubblica amministrazione molto incisivo, che ha condotto al travolgimento di istituti e concezioni tradizionali, e per molti aspetti ha modificato il volto della pubblica amministrazione quale da noi conosciuto sulla base dell’elaborazione dottrinale e dell’evoluzione legislativa degli ultimi due secoli.
Obiettivo fondamentale dichiarato del processo di riforma, obiettivo in notevole misura realizzato nell’ultimo decennio, è stato quello di razionalizzare e ristrutturare gli apparati organizzativi centrali e locali dello Stato, di modificare la disciplina del rapporto di lavoro del personale pubblico, nonché quella della contabilità e del bilancio, al fine di renderle tendenzialmente omogenee rispetto a quelle delle organizzazioni private; nonché di attuare un fortissimo decentramento di funzioni e di compiti dal centro alla periferia e di rivedere, in conseguenza, le strutture organizzative e i reciproci rapporti tra Amministrazioni dello Stato e Amministrazioni locali, anche per effetto dell’emergere con sempre maggiore consapevolezza in tutti i Paesi dell’area, del principio di sussidiarietà, nel suo più evidente significato di rendere l’amministrazione il più vicina possibile agli interessi degli amministrati.
Invero, questi obiettivi del processo di riforma sono a loro volta dichiaratamente ispirati all’idea che la pubblica amministrazione in un ordinamento pienamente democratico debba assumere la veste di struttura di servizio degli interessi della collettività e debba operare sulla base dei principi dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità, al fine di produrre risultati migliori ai minori costi; e in conseguenza, debba essere valutata sulla base di questi parametri.
I migliori trasporti, le migliori telecomunicazioni, la migliore viabilità, la migliore nettezza urbana, e così via: sono questi gli obiettivi a cui l’azione amministrativa deve tendere e sui quali essa deve essere valutata. L’emergere con sempre maggiore consapevolezza di questa idea, che sembrerebbe banale invero nella visione del cittadino comune che sempre ha pensato all’amministrazione in questi termini, diventa viceversa un fatto fortemente innovativo rispetto alle concezioni tradizionali dell’amministrazione come attività di attuazione ed esecuzione della legge, il cui parametro di valutazione era fondamentalmente rappresentato da quello della legalità.
Nella nuova concezione la legalità indubbiamente resta come valore di riferimento ma deve convivere con quelli dell’efficienza e dell’efficacia, in qualche modo rapportabili al principio costituzionale del buon andamento, nonché quello dell’economicità o della sana gestione finanziaria che acquista un peso determinante nell’esperienza più recente.
Un’amministrazione astretta nel suo agire ai vincoli del legalismo formale, incapace perciò di gestire i suoi compiti assumendosi la responsabilità del conseguimento di risultati utili per la collettività alle cui esigenze adattare modalità e contenuti della propria azione, sicuramente è in contrasto con il dichiarato obiettivo di un’amministrazione orientata principalmente all’assolvimento di quei valori o di quei servizi piuttosto che tenuta semplicemente all’esecuzione della legge.
Tuttavia i diversi tentativi di riforma che si sono succeduti in questi anni sia nel loro orientamento programmatico sia nell’effettiva realizzazione legislativa, hanno mantenuto in ombra le problematiche concernenti la disciplina dell’azione amministrativa in quanto tale, puntando quasi esclusivamente la loro attenzione, come accennavo, sull’assetto dell’organizzazione e sulla dislocazione territoriale dell’amministrazione, tra centro e periferia.
Questo problema si riscontra anche in altri tentativi di riforma, che evidenziano la difficoltà di toccare il cuore della disciplina dell’azione amministrativa, anche perché fortemente supportata da una antica tradizione culturale, avvertendo tuttavia i limiti che all’operazione di riforma questa difficoltà avrebbe prodotto. E non a caso, il rapporto Gore sull’amministrazione degli Stati Uniti, con parole molto accorate denunciava nello stesso tempo l’esigenza che l’operazione di riforma dell’amministrazione fosse accompagnata dallo scioglimento del "nastro rosso" dell’antico formalismo, il red tape, e allo stesso tempo la difficoltà di porvi mano.
In verità se guardiamo alla nostra esperienza dell’ultimo decennio o poco più, ci accorgiamo che insieme al processo di riforma delle strutture organizzative e al processo di decentramento che recentemente tende al federalismo, si sono verificate anche importanti innovazioni nella disciplina generale dell’azione amministrativa. E altre innovazioni sono in corso di elaborazione.
Così che siamo in grado di compiere un primo bilancio delle innovazioni e nello stesso tempo guardare a ciò che serve per il completamento del processo innovativo del diritto amministrativo come disciplina generale dell’azione amministrativa, al fine di rendere questa disciplina idoneo strumento per far sì che l’amministrazione operi secondo quei principi ispiratori e verso quegli obiettivi che l’operazione di riforma nel suo complesso intende perseguire.
2. Si deve tuttavia premettere che ogni operazione legislativa di innovazione del nostro diritto amministrativo deve tenere conto, come ovvio, dei principi costituzionali, e adesso anche dei principi comunitari concernenti l’azione dei pubblici poteri. Ogni operazione di snellimento, di semplificazione, di flessibilizzazione dell’azione amministrativa, perseguendo quegli obiettivi deve sempre tener conto dei principi costituzionali che riguardano l’azione amministrativa e che la differenziano sempre e comunque, come oggetto di disciplina normativa, dall’azione giuridica dei soggetti privati, interamente disciplinata dal diritto comune e intesa a realizzare da parte di ciascun soggetto dell’ordinamento i suoi propri interessi.
L’azione amministrativa non potrà mai essere senz’altro equiparata a questa, appunto perché essa resta un’azione di servizio degli interessi della collettività e quindi in principio non libera né autonoma ma sempre finalizzata al raggiungimento di obiettivi e risultati prestabiliti e comunque controllabili.
Schematizzando al massimo, si può dire che almeno tre sono i principi o valori costituzionali, che a loro volta assommano altri e coprono una serie di istituti positivi, concernenti l’azione amministrativa. Essi mantengono una generale applicazione anche nella prospettiva di consistenti innovazioni del diritto amministrativo intesi alla realizzazione degli obiettivi sopra indicati.
Innanzitutto resta fermo il principio che sulla base dell’art. 97 possiamo indicare come quello di imparzialità: l’azione amministrativa non può esercitarsi in modo arbitrario ed è sempre finalizzata al raggiungimento di determinati scopi secondo un procedimento decisionale ragionevole e trasparente, in misura più o meno articolata predeterminato dalla normativa. Essa deve tener conto degli interessi dei terzi, protetti dall’ordinamento (diritti o interessi legittimi).
Alla tutela di questi principi, che coincidono con il principio di legalità inteso in senso moderno, sono preposti alcuni istituti, dal controllo di legittimità degli atti amministrativi alla giurisdizione a tutela dei diritti e degli interessi legittimi. E sono preposti alcuni organismi, quale il complesso dei giudici amministrativi, in parte la Corte dei conti, gli uffici di controllo interno di regolarità amministrativa e contabile, e così via. Questo valore emerge da una serie di norme costituzionali, dall’art. 24, all’art. 97, agli artt. 103 e 113.
Ogni trasformazione del nostro diritto amministrativo tradizionale su questo versante, pur incisiva come necessario data l’originaria impostazione esageratamente formalistica e legalistica dell’ordinamento, deve tuttavia tener presente che il principio esiste in Costituzione e deve rimanere tutelato nell’ordinamento positivo, pur in armonia con gli altri altrettanto importanti.
Il secondo principio è quello del buon andamento (sempre per usare la terminologia del testo costituzionale). L’azione amministrativa deve produrre risultati utili per la collettività (che è chiamata a servire). A tal fine essa ha bisogno di una organizzazione efficiente che possa dare luogo ad azioni efficaci, cioè produttive appunto, di risultati utili per la collettività, in termini pratici e con riferimento agli interessi di vita, di lavoro, di benessere, nonché a quelli economici di tutti i cittadini coinvolti nell’esercizio di una determinata azione amministrativa.
Questo principio investe sia l’amministrazione per atti giuridici, sia l’amministrazione per operazioni, sia le "funzioni" sia i "servizi". Tempi rapidi e prodotti utili nell’uno e nell’altro settore diventano i termini fondamentali della valutazione. I rapporti con i cittadini, l’accesso ai documenti, l’informazione, la partecipazione, sono compresi nell’ambito di questo principio perché a loro volta sono garanzia di efficienza e di efficacia dell’azione. Alla sua tutela sono preposti altri istituti distinti dai precedenti, e segnatamente gli istituti del c.d. controllo di gestione nelle sue varie forme, sempre intese alla misurazione e valutazione di risultati, a prescindere dallo scrutinio di legittimità dell’azione giuridica che ha prodotto quei risultati. In questo settore opera ovviamente tutto l’insieme dei controlli politici, dei controlli dell’opinione pubblica, della stampa e dei mezzi di comunicazione, che acquistano un peso sempre più rilevante nell’esperienza contemporanea.
L’implementarsi di un sistema bipolare e la possibilità concreta di ricambio della classe politica dirigente sia a livello centrale che a livello locale, sicuramente contribuisce all’emersione dei risultati nella valutazione dell’azione amministrativa e nella stessa sensibilità di colui che la esercita (il sindaco è ben consapevole che sarà giudicato per quel che ha fatto in termini di risultati utili per i cittadini e non per altro!).
Gli organismi preposti alla tutela del buon andamento, inteso in questo senso, sono gli organi di controllo interno di gestione previsti nella normativa piu’ recente, in parte la Corte dei conti; oltrechè ovviamente tutte le istanze di carattere politico, dalle Commissioni parlamentari ai Consigli comunali, sino all’elettorato medesimo.
In terzo luogo, emerge il principio della economicità dell’azione amministrativa e della sana gestione finanziaria. Si tratta di un principio non coincidente con il precedente anche se connesso: si possono produrre ottimi risultati per i cittadini spendendo troppo, al di fuori delle compatibilità finanziarie proprie dell’ente. Questo principio, sempre presente invero nel nostro sistema tradizionale e nelle norme costituzionali (artt. 81, 97, 100, 119 Cost.) emerge con maggior vigore nei tempi più recenti, anche in connessione ai vincoli nei confronti del sistema comunitario che lo Stato italiano ha assunto, e che coinvolgono tutti gli enti del governo territoriale (c.d. patto di stabilità) e per i principi enunciati a chiare lettere dal Trattato europeo dopo le ultime modificazioni (artt. 98 ss; 104; 248 Tratt.).
Il principio della economicità e della sana gestione finanziaria, esce in qualche modo rafforzato dalla recente riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione (l. cost. n. 3/2001). Esso investe tutti gli enti del governo territoriale di cui all’art. 114 costituendo uno dei punti di unità e di coesione della Repubblica nel suo insieme (artt. 117, 2° co., lett. e); 117, 3° co.; 119, 2°, 3°, 4°, 5°, 6° co.). Alla tutela di esso sono preposti tutti i tradizionali istituti del controllo finanziario e contabile facenti capo fondamentalmente alla Corte dei conti, che oggi devono essere riordinati ed estesi agli enti del governo territoriale. Questi ultimi, anche se pienamente autonomi, come ormai sancito a chiare lettere dalla Costituzione, sono tuttavia soggetti anch’essi, ai principi della sana gestione finanziaria.
La presenza di questi tre valori fondamentali dell’ordinamento, che investono tutta l’azione amministrativa, qualunque forma essa assuma, condiziona ogni processo di innovazione e di riforma della relativa disciplina giuridica.
3. Vengo al tema. Rinviando tutti gli approfondimenti alle relazioni, mi limito ad enunciare i punti di riferimento di quattro problematiche che mi sembrano principali nel tema che ci siamo posti. Quattro settori di disciplina nei quali sono già emerse nell’esperienza più recente rilevanti innovazioni, ma che necessitano tutti, di un completamento, a volte molto incisivo, e in molti casi ancora perplesso nei suoi contenuti.
3.1. Anzitutto, si pone la questione del materiale normativo; se si preferisce, la questione delle fonti e delle norme.
Su questo punto il nostro sistema tradizionale risulta afflitto da alcune ben note disfunzioni; e caratterizzato da alcuni elementi di accentuato formalismo.
Le norme concernenti l’azione amministrativa sono troppe, lo sono sempre state, ma negli ultimi decenni sono di gran lunga aumentate di numero, e, si direbbe, di pesantezza. Ogni passaggio procedimentale è minuziosamente regolato, sia nei rapporti con i terzi, sia nei rapporti tra enti, sia nelle vicende interne di ciascun ente; sono previste in genere troppe fasi per giungere a un determinato risultato, spesso sono previsti più procedimenti e quindi più atti giuridici produttivi di effetti, per curare il medesimo interesse.
In secondo luogo queste norme sono assai spesso norme di fonte legislativa, statale o regionale, con quel che ne segue in punto di rigidità, visto che per modificare una singola norma di legge occorre un’altra legge deliberata dagli organi parlamentari è perciò sottoposta a tutte le difficoltà del lavoro politico che si svolge nell’ambito delle assemblee parlamentari.
In terzo luogo si tratta di una normazione che in virtù di una risalente idea, mai pienamente chiarita nelle sue profonde motivazioni, ma tuttavia pacificamente applicata nel nostro ordinamento amministrativo sin dalle origini, è composta di tutte norme cogenti, siano esse di fonte legislativa che regolamentare. Ciò comporta che ogni violazione di norme nell’ambito di una azione amministrativa concreta (violazione assai frequente come è noto, data la quantità delle norme e la loro spesso astrusa conformazione) dà luogo ad invalidità degli atti giuridici relativi: con un dispendio di attività, di tempo e anche di mezzi finanziari, del tutto ingiustificato, trattandosi in molti casi di violazioni di carattere meramente formale che non toccano la sostanza degli interessi amministrati.
Come si vede, sul punto delle fonti e della normazione la nostra impostazione tradizionale sicuramente contrasta, nei suoi fondamenti, con i principi di efficienza, efficacia, economicità cui l’amministrazione deve ispirarsi secondo l’impostazione piu’ recente. Contrasta con il principio del buon andamento, inteso come si è detto, ma anche con il principio della economicità dato che l’eccesso di formalismo è causa di dispendio notevole di risorse.
Ma questa impostazione contrasta anche con lo stesso principio di imparzialità, laddove esso rende necessario che il cittadino, che ha "diritto" ad ottenere qualcosa dall’amministrazione o a non essere ingiustamente sacrificato a fronte di interessi pubblici preminenti, ottenga il bene che gli spetta senza necessità di corse ad ostacoli nell’ambito del procedimento amministrativo o nell’ambito del processo, per contrastare pretese altrui infondate ma rese apparentemente forti dall’ancoraggio a prescrizioni formali.
Sul tema delle fonti e della normazione nel periodo più recente vi sono state una serie di innovazioni significative ma da ritenere del tutto insufficienti ad affrontare alla radice i problemi connessi. Senza dilungarci, basterà qui ricordare la politica della delegificazione che sul versante della disciplina dell’azione amministrativa (come e ancor di più, sul versante dell’organizzazione) ha tradotto e sta traducendo una buona parte della disciplina vigente da disciplina di fonte legislativa a disciplina di fonte regolamentare; insieme, come è noto, a un’operazione di semplificazione procedimentale intesa a snellire la normazione vigente, ad eliminare fasi e passaggi inutili, ad accorpare i procedimenti, e così via. Si tratta tuttavia di una operazione di lunghissima gestazione nonostante le norme legislative assai avanzate che l’hanno supportata (per tutte, art. 20 della l. n. 59/97) e i cui risultati almeno finora non sono stati sufficienti.
Sul punto si deve annotare (ma limitandoci ad un semplice richiamo, perché si aprirebbe tutta un’altra materia di trattazione, quella della politica della normazione) che mentre il procedimento legislativo ha conservato i suoi difetti originari anche se nelle ultime modifiche regolamentari delle Camere ha usufruito di norme significative intese ad assicurarne tempi certi e modalità di svolgimento, i procedimenti previsti per l’adozione dei regolamenti del Governo risultano estremamente complessi, così che molto spesso risulta più facile fare una legge che fare un regolamento (mediamente si possono contare, per i regolamenti di delegificazione, sei fasi procedimentali tutte estremamente impegnative!). Talchè, almeno allo stato delle cose, l’operazione di delegificazione in ordine all’assetto delle fonti non risulta effettivamente, secondo lo scopo cui teneva, capace di assicurare una maggiore flessibilità e snellezza alla disciplina amministrativa, rendendola più facilmente adattabile alle situazioni concrete dell’esperienza.
Sul carattere cogente di tutte le norme in diritto pubblico, con il conseguente abnorme incremento dell’area della invalidità, in attesa di riforme legislative, pure all’esame, significative innovazioni stanno emergendo nella giurisprudenza, sempre più attenta alla tutela delle pretese sostanziali delle parti e sempre meno propensa a dar valore alle violazioni di carattere meramente formale (v. ad es. Cons. St. V, 2823/2001; TAR Lazio I, 2398/2002).
3.2. Il secondo punto problematico, è quello dei rapporti tra diritto pubblico e diritto privato, nella disciplina dell’azione amministrativa.
Invero si fa sempre più nitida la consapevolezza che la nostra originaria idea - il diritto amministrativo come il diritto comune ordinario dell’azione amministrativa e il diritto privato come la disciplina da applicare solo laddove espressamente previsto dalla norma - idea comune un po’ a tutti gli ordinamenti dell’area, che emerge nell’ambiente culturale a cavallo dei due secoli trascorsi (quello della costruzione dei fondamenti del sistema e delle "grandi cattedrali") sia un’idea superata e non più conforme agli obiettivi che un sistema amministrativo moderno intende perseguire.
Viceversa si fa strada l’idea opposta, che cioè nell’azione amministrativa il diritto amministrativo debba essere, o possa, essere utilizzato laddove è necessario; cioè laddove la strumentazione giuridica di diritto comune non è capace di produrre gli effetti o i risultati pratici voluti. E quindi nell’area dei poteri ablativi con effetti imperativi, nell’area delle autorizzazioni, nell’area delle certificazioni; in altre aree, come ad esempio quella tradizionale delle concessioni, nelle quali il risultato pratico di una determinata azione giuridica può essere conseguita mediante strumentazione di diritto comune, sicuramente si pone un problema di alternativa tra i due moduli di azione giuridica, tra le due discipline; e si tende a privilegiare lo strumento di diritto comune (come dimostrato da recenti iniziative legislative).
Sul punto, molto delicato, si pongono una serie di problemi, sia in ordine all’ammissibilità stessa dell’alternativa, anche con riferimento ai principi costituzionali, sia in ordine alla disciplina applicabile; chè il diritto privato dell’azione amministrativa non coincide, in principio, con il diritto comune dei privati.
L’azione amministrativa, anche se di diritto comune, resta comunque sottoposta come già si accennava, ad alcuni principi che ne condizionano lo svolgimento e che sicuramente introducono elementi derogatori rispetto alla disciplina del diritto comune.
Basti pensare alla fase contrattuale della scelta dei contraenti che resta fortemente procedimentalizzata e da noi senz’altro assoggettata a disciplina pubblicistica (rafforzata a seguito dell’entrata in vigore della normazione europea). Basti pensare al fatto che l’azione amministrativa anche se di diritto comune, rimane soggetta al principio di economicità e quindi ai successivi controlli di economicità con quel che ne segue anche in ordine alla responsabilità dei funzionari. E ciò sicuramente viene ad incidere sulla disciplina negoziale, che acquista una impostazione finalistica e si intesse del principio di ragionevolezza o comunque di non arbitrarietà che viceversa è estraneo alla disciplina contrattuale comune.
Sul punto, le innovazioni legislative hanno riguardato fondamentalmente l’aspetto della tutela giurisdizionale ormai quasi interamente trasferita alla competenza del giudice amministrativo rientrando la gran parte dell’azione amministrativa negoziale nell’ambito dell’esercizio dei "servizi pubblici" (art. 33, come sost. art. 7, l. 205/2000). Mentre sul piano della disciplina sostanziale restano aperti rilevanti dubbi sulle varie questioni cui si è accennato, a cominciare da quello di fondo della sussistenza o meno di una libertà di scelta tra strumenti alternativi (come le recenti proposte legislative cui si è accennato, farebbero pensare, restando pero’ le opinioni sul punto, molto differenziate).
3.3. La terza questione riguarda la disciplina generale dell’azione amministrativa di diritto pubblico come tale: quella che concerne l’esercizio dei poteri amministrativi.
Come è noto la nostra tradizione risalente, di tipo francese, è quella di una disciplina generale affidata quasi esclusivamente a principi giurisprudenziali.
Solo a partire dalla l. n. 241/90 è stata introdotta nell’ordinamento italiano una disciplina legislativa sufficientemente ampia del procedimento amministrativo, pur operante soltanto in ordine ai procedimenti a carattere puntuale e neppure a tutti.
Si tratta però di una disciplina di principi fortemente espressa, la cui implementazione nella nostra esperienza giurisprudenziale ha portato in questi anni, come è noto, a una trasformazione radicale della disciplina generale dell’azione amministrativa, rafforzandone i requisiti di imparzialità, di trasparenza, di partecipazione, e così via.
Si tratta di una disciplina evidentemente intesa ad assicurare la piena realizzazione di questi valori (fondamentali in un ordinamento democratico) piuttosto che di quelli dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità, pur espressamente enunciati dalla legge, pur essendo in essa contenute norme significative di semplificazione procedimentale.
Mentre restano del tutto scoperti dalla normazione positiva e perciò affidati all’incerto fluttuare della giurisprudenza, importanti istituti afferenti alla disciplina generale dell’azione amministrativa di diritto pubblico, riguardo all’efficacia del provvedimento, ai procedimenti c.d. di secondo grado e di autotutela, annullamento, convalida, revoca ecc., alla stessa esecuzione di ufficio del provvedimento, che si fonda su alcuni antichi ma del tutto contestati principi giurisprudenziali; e così via.
E la fondamentale disciplina della invalidità degli atti amministrativi resta tuttora disciplinata dalla antica e perplessa norma di cui all’art. 26 del t.u. Cons. St., che risale al 1889. Sulla base di questa norma come è noto, è stata costruita la dottrina della illegittimità degli atti amministrativi come annullabilità, in caso di violazione di norme ovvero per eccesso di potere. Mentre è rimasto sempre il dubbio circa la sussistenza in ordine agli atti amministrativi, della invalidità nella specie della nullità, ciò che fino a tempi recenti si escludeva e che successivamente si è affermato a seguito di alcune decisioni del Consiglio di Stato del 1992.
La mancanza perfino su un punto fondamentale dell’ordinamento come quello della invalidità di atti giuridici, di norme positive, credo non sia conforme alle esigenza di certezza del diritto, in un ordinamento moderno.
Ma gli stessi vizi di illegittimità tradizionalmente elencati dalla norma del t.u. necessitano di una incisiva revisione; e non tanto al fine di superare, anche alla luce di più precisi principi europei, la tradizionale nozione di eccesso di potere (scritta dal legislatore nel 1889 pensando allo straripamento, a quella che poi sarà la carenza di potere, e interpretata dalla giurisprudenza, come è noto, in modo del tutto diverso, sino a diventare vizio della discrezionalità amministrativa). Chè sul punto si è ormai consolidato un sistema di principi giurisprudenziali sufficientemente chiari.
Ma soprattutto, sulla violazione di legge e sulla incompetenza occorre intervenire nella prospettiva di superamento del formalismo cui sopra facevo riferimento. Sia il vizio di violazione di legge che quello di incompetenza infatti nella loro applicazione tradizionale consistono nella violazione di qualunque norma sia di legge che di regolamento da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un’azione concreta; violazione la quale sempre dà luogo ad invalidità dell’atto adottato, nella forma dell’annullabilità.
Sul punto invero, come è noto e ormai oggetto di ampi dibattiti, la giurisprudenza ha fatto grandi passi avanti in senso antiformalistico e ha ormai avviato un orientamento tendente a riconoscere, almeno in certi limiti, valore invalidante soltanto a quelle violazioni di norme giuridiche che abbiano un contenuto sostanziale, abbiano cioè condotto l’amministrazione a ledere le pretese sostanziale delle parti protette dalla legge, diritti o interessi legittimi; svalutando perciò l’effetto invalidante di violazioni di carattere meramente formale e procedurale che possono essere corrette senza spostare l’ordine degli interessi in gioco.
Tuttavia si tratta di un orientamento ancora agli inizi che ha avuto alcune significative applicazioni con riferimento alla violazione dell’art. 7 della l. 241/90 sulla comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, sull’ammissibilità della convalida in corso di giudizio segnatamente per quanto riguarda l’integrazione della motivazione di atti impugnati, e altri applicazioni minori.
Sul punto sembra perciò necessario un intervento legislativo che sulla base anche degli esempi di altri ordinamenti dell’area (per la Germania, il § 46 della l. 25.5.1976; per la Spagna, l’art. 63, comma 2, l. 26.11.1992; per l’ordinamento comunitario, l’art. 230, Trattato CE), introduca il principio che la violazione di norme giuridiche concernenti il procedimento e la forma degli atti non da luogo ad invalidità laddove il contenuto degli atti stessi non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (sul punto, v. art. 9 A.S. XIII 4860, art. 4 DDL. appr. Cons. Ministri 7/3/2002).
3.4. In questa stessa prospettiva, tanto che si può dire si tratta della medesima questione da due angolazioni diverse, si evidenziano tutte le innovazioni avvenute in questi ultimi anni tanto in sede legislativa che giurisprudenziale in ordine alla tutela giurisdizionale nei confronti delle pubbliche amministrazioni (dei portatori dei diritti e degli interessi: art. 24 Cost.).
Su questa materia le innovazioni negli ultimi anni sono state veramente significative e oggi ci troviamo di fronte ad uno scenario completamente nuovo rispetto a quello tradizionale cui eravamo abituati: al di là della rilevante trasformazione circa il riparto della giurisdizione ormai impostato piuttosto secondo il modello del "contenzioso amministrativo" (al giudice amministrativo tutte le controversie di diritto pubblico ovvero "concernenti i pubblici servizi") che secondo il nostro tradizionale modello, per altro più enunciato che effettivamente seguito nella prassi, fondato sulla distinzione tra diritti e interessi legittimi.
Ma a prescindere da questo profilo pur significativo, ciò che preme qui sottolineare, del tutto in asse con quanto si notava al punto precedente, è che la tutela giurisdizionale attribuita al giudice amministrativo tende a diventare una tutela delle pretese sostanziali dei diritti e degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione. Laddove esse sono fondate (Tizio ha titolo per ottenere l’aggiudicazione dell’appalto in luogo di Caio; Tizio ha titolo per ottenere la concessione edilizia perché il progetto è conforme al piano regolatore), le pretese debbono essere soddisfatte sia mediante provvedimenti di carattere demolitorio sia mediante provvedimenti di carattere risarcitorio anche attraverso la reintegrazione in forma specifica nell’ambito di rapporti in essere. Insomma di fronte a pretese sostanziali fondate, la risposta dell’ordinamento tende ad essere quella della piena soddisfazione anche se non si tratta di diritti soggettivi ma di situazioni che secondo la nostra tradizionale impostazione sarebbero ascrivibili agli interessi legittimi. Per altro verso, come prima si accennava, la giurisprudenza tende a svalutare il rilievo dei vizi meramente formali (manca un adempimento procedimentale come la comunicazione dell’avvio, manca un passaggio consultivo, manca un’acquisizione documentale, la motivazione risulta insufficiente) ma dai quali non deriva una violazione di carattere sostanziale che si riscontri nel contenuto del provvedimento.
Una tale impostazione ha condotto la giurisprudenza più recente a riconoscere l’ammissibilità della convalida di questo tipo di vizi anche in corso di giudizio, e segnatamente ha riconosciuto l’ammissibilità di provvedimenti integrativi della motivazione adottati in corso di giudizio, intesi a sanare provvedimenti che tuttavia nel loro contenuto sostanziale appaiono legittimi (da ult., TAR Lazio, cit., n. 2398/2002).
In tal modo viene spostato l’oggetto del giudizio amministrativo, come si usa dire, dall’atto al rapporto; in realtà all’accertamento della fondatezza di una pretesa sostanziale in capo al ricorrente nei confronti dell’amministrazione.
Se questa viene accertata come sussistente il provvedimento che non l’aveva riconosciuta, che l’aveva ingiustamente sacrificata deve cadere; e se vi sono le condizioni, l’amministrazione deve essere condannata al risarcimento dei danni. Ma se questa viene riconosciuta come insussistente, il provvedimento amministrativo pur viziato per vizi di carattere formale può essere sanato perché la pretesa comunque non merita di essere accolta. E viene a cadere così quella impostazione esageratamente formalistica del nostro sistema di tutela che portava all’annullamento di provvedimenti impugnati per vizi meramente formali pur in presenza di accertata insussistenza di qualsiasi pretesa sostanziale fondata in capo al ricorrente; costringendo successivamente l’amministrazione a reiterare il provvedimento depurato dei vizi formali riscontrati, ma con il medesimo contenuto sostanziale e perciò lasciando del tutto insoddisfatto l’interesse sostanziale del ricorrente (quello di ottenere il bene, appunto, bene che tuttavia non poteva ottenere perchè privo di titolo).
Ovviamente in presenza di provvedimenti pienamente discrezionali (ma l’area dei provvedimenti discrezionali si è ormai fortemente ridotta) la situazione si presenta diversamente sia sul versante risarcitorio che su quello demolitorio. In tali casi, infatti, la pretesa risarcitoria risulta difficilmente configurabile, mentre l’interesse alla demolizione dell’atto impugnato, anche se viziato da vizi solo formali, presenta a sua volta carattere sostanziale.
La demolizione dell’atto consente infatti al ricorrente, una nuova chance nell’ambito di un procedimento amministrativo riaperto a seguito dell’annullamento del primo provvedimento; a fronte di un rinnovato esercizio del potere discrezionale, di una nuova valutazione degli interessi in gioco (si pensi ai procedimenti di pianificazione territoriale, con ampia discrezionalità nella destinazione delle aree).
L’approvazione parlamentare della proposta normativa sopra ricordata circa il carattere non invalidante dei vizi meramente formali degli atti amministrativi sicuramente completerebbe questo itinerario giurisprudenziale, trasformando definitivamente il processo amministrativo, come di recente notato, "da giudizio sulla conformità a legge dell’atto…, almeno per i casi di attività a bassa discrezionalità o di carattere vincolato, a giudizio sulla correttezza sostanziale della decisione, e quindi, sul rapporto sottostante alla statuizione amministrativa".
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