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Articoli e note

 

ADRIANA CAROSELLI
(Specialista in Diritto Amministrativo e Scienza
dell’Amministrazione presso l’Università di Bologna - SPISA)

Primi dubbi e perplessità sulla compatibilità
costituzionale dell’art. 35
L. 448/01

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1.1 Introduzione.

E’ davvero singolare il destino del regime giuridico interessante i servizi pubblici locali.

Esso infatti nel tempo pare destinato a condurre il legislatore a continui ripensamenti, così come ad animare dibattiti in dottrina.

In vero, che si tratti di un quadro normativo in continua evoluzione non costituisce un’affermazione nuova, posto che l’attività lo stesso disciplinante – il servizio pubblico locale – sin dai primi anni del secolo è subito apparsa ai più dai profili cangianti in termini – potremmo dire – spazio temporali.

Dovendo cioè il servizio pubblico ricondursi per lo più a quelle attività che soggetti pubblici e privati erogano per soddisfare esigenze collettive, è evidente che, mutando queste ultime, è destinato a mutare altresì di forma e di contenuto la stessa attività di servizio e, di seguito, il regime giuridico essa supportante (tanto che la dottrina e giurisprudenza francese identificava uno dei principi regolanti il servizio pubblico nella loi du changement, nell’adattamento continuo cioè ai bisogni collettivi).

L’assorbimento sempre più massiccio poi da parte dell’ordinamento interno dei principi e vincoli di derivazione comunitaria e, quindi, il progressivo affermarsi di un mercato comune, nel tempo esteso ad ogni attività che acquisti rilevanza economica, ha comportato un lento ma inesorabile superamento delle posizioni anche culturali sottese ai diversi ordinamenti nazionali, e quindi ha condotto anche nel nostro paese ad una graduale riforma del settore.

1.2 Art. 35 L. 448/01.

Questo è lo scenario al cui interno s’inserisce pertanto quel complesso di disposizioni normative rappresentato dall’art. 35 L. 448/01, il quale, nonostante la sua collocazione formale nella legge finanziaria per il 2002, persegue di certo una finalità che travalica una scelta di governo annuale e assurge a vero e proprio corpus normativo di riforma del settore.

Quest’ultima osservazione assume un significato ancora più profondo poi se si riflette sulla circostanza che con l’art. 35 il legislatore, non solo ha perseguito l’intento di ridisegnare il quadro normativo generale della materia, ma ha inteso innovare altresì quelle discipline di settore che non apparivano più in sintonia con quegli stessi principi di matrice comunitaria sottesi all’art. 35, in primo luogo, il D.Lgs. 22/97 sull’igiene ambientale e la L. 36/94 sul servizio idrico integrato, contenenti entrambi un rinvio alle forme di gestione previste dal testo unico sull’ordinamento degli enti locali.

Infatti se si pone la mente al tenore delle disposizioni normative interessanti servizi pubblici locali diversi da questi (in primo luogo, il D.Lgs. 164/2000 sul gas e il D.Lgs. 422/97 in materia di trasporti), si noterà agevolmente come al loro interno risultino per lo più recepiti i principi comunitari ispiranti l’art. 35 , quali, la parità tra operatori economici, l’affermazione del sistema della gara per l’affidamento del servizio, l’obbligo di trasformazione di aziende speciali e consorzi in società, etc.

Ne deriva che facendo salve (art. 113, 1 c.) le norme previste per i singoli settori, e incidendo invece direttamente su quei testi normativi non adeguati a nuovi principi comunitari (incidenza avvenuta proprio in virtù del rinvio alle forme di gestione previste dall’art. 113 contenuto rispettivamente nell’art. 21 del D.Lgs. 22/97 e art. 9 della L. 36/94) il legislatore sembra aver perseguito veramente nella sua interezza l’intento di riformare il quadro normativo interessante la materia, tramite un’operazione altresì di omogeneizzazione delle normative disciplinanti i singoli settori.

Ma proprio l’intento – di certo lodevole – di pervenire ad un quadro giuridico, e quindi economico, innovativo e coerente con le direttive comunitarie, rileva in realtà il profilo di debolezza dell’art. 35.

E’ stato da più parti notato infatti come la formulazione della norma, intervenuta all’indomani della riforma del titolo V della Carta costituzionale (che – come è noto – ha comportato una sostanziale inversione dei rapporti Stato/Regioni, significativamente in tema di potestà legislativa), pare stridere con il mutato assetto costituzionale di competenze legislative e, vieppiù, non sia del tutto coerente con i principi, pur ispiranti, di derivazione comunitaria.

In proposito si potrebbe peraltro opinare che l’art. 35 ponga più problemi di compatibilità costituzionale, e ciò in ragione del fatto che nell’attuale tenore dell’art. 117 Cost., il potere legislativo – sia statale che regionale – risulta ora limitato, oltre che da norme costituzionali, da vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, i quali vengono ad assumere espressamente rango costituzionale.

Ne deriva che con il recepimento costituzionale dei principi e vincoli comunitari, l’eventuale incoerenza dell’art. 35 con l’ordinamento comunitario rischia ora di assurgere a contrasto con la stessa carta costituzionale.

La formulazione normativa dell’art. 35 potrebbe comportare cioè un duplice problema di legittimità costituzionale, di compatibilità con il nuovo assetto di competenze legislative riconosciute alle Regioni, e di compatibilità con i vincoli, ora espressamente costituzionalizzati di derivazione comunitaria.

1.3 Compatibilità dell’art. 35 con l’ordinamento costituzionale in relazione al nuovo assetto di competenze legislative di Stato e Regioni.

L’analisi della problematica relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 35 in relazione al nuovo riparto di competenze legislative non si presenta affatto semplice, tenuto conto peraltro della recente entrata in vigore della stessa Legge Costituzionale 3/01, ma anche in ragione della non semplice collocazione della materia dei servizi pubblici locali all’interno delle previsioni dell’art. 117 Cost.

In merito – prima facie – va osservato come, anche nell’attuale formulazione di tale norma costituzionale, questa non figuri espressamente, né tra le materie riservate alla potestà esclusiva dello Stato, né tra quelle rimesse alla potestà legislative concorrente della regione.

Figurano invece tra le materie riconosciute alla potestà legislativa esclusiva statale la tutela della concorrenza, ma anche la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali che comunque devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Tra le materie di legislazione concorrente, in cui l’esercizio della potestà legislativa regionale trova il limite del rispetto dei principi fondamentali fissati dalle leggi statali, risultano invece, oltre alle grandi reti di trasporto, ancora una volta, ma con un diverso taglio, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, la promozione e organizzazione di attività culturali.

Dall’analisi testuale dell’art. 117 Cost., l’interprete è allora indotto a ritenere come, almeno in determinate materie (e quindi per determinati servizi pubblici?), quali l’ambiente, la cultura o le prestazioni sociali indispensabili, debba riconoscersi una riserva legislativa statale – seppur in alcuni casi ridotta all’elaborazione dei principi fondamentali.

Pur all’interno cioè di un assetto di competenze decisamente innovativo e improntato sul principio di sussidiarietà, comunque in determinati settori, che – si potrebbe osservare – tanta rilevanza assumono ai fini dello stesso sviluppo della personalità collettiva, resta comunque imprescindibile un coordinamento a livello centrale di discipline pur nel caso rimesse alla potestà legislativa regionale.

La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali nel territorio nazionale è rimessa poi, anche nel nuovo impianto costituzionale, agli organi di rappresentanza istituzionale di rilevanza nazionale, trattandosi – si potrebbe opinare – di prestazioni indispensabili in fondo al rispetto del principio di uguaglianza sostanziale.

Si potrebbe allora argomentare che il nuovo quadro costituzionale, sulla falsariga in fondo dell’ordinamento comunitario (all’interno del quale – si rammenti – nasce lo stesso principio di sussidiarietà) vede le autonomie locali non solo responsabili del governo amministrativo del territorio, ma espressione diretta della volontà locale, mentre all’autorità centrale un ruolo di regolazione, significativamente in tutti quei settori che, per ambito di rilevanza e per interessi coinvolti, richiedono un coordinamento centrale, l’espressione cioè in una comune volontà che riassuma e sussuma le diverse volontà locali, a garanzia del rispetto stesso dell’unità nazionale.

Il nuovo quadro costituzionale pare cioè aver delineato un assetto di competenza similare a quello comunitario, all’interno del quale l’individuazione degli obiettivi d’interesse generale, e quindi la normazione di principio, con funzioni di coordinamento e garanzia, è rimessa agli organo istituzionali comunitari, mentre ai singoli stati fa capo una potestà normativa sempre più assimilabile a quella concorrente.

L’osservazione sembra supportare altresì la scelta del legislatore costituzionale di riservare alla potestà legislativa statale la tutela della concorrenza, la fissazione in fondo delle regole del gioco, delle norme cioè delineanti l’assetto generale del mercato.

La motivazione di siffatta scelta peraltro appare evidente se si riflette come in realtà la definizione delle norme regolanti la concorrenza si atteggia a indispensabile strumento di politica economica in primo luogo per lo stato.

Da quanto sopra, e cioè dalla riconduzione dell’art. 35 all’interno delle norme regolanti la concorrenza nel mercato, deriverebbe allora la possibile coerenza costituzionale della disposizione, ma fino a che punto convince tale ricostruzione?

Di certo tale conclusione non pone a tacere ulteriori dubbi, laddove ci si chiede poi se la complessa e per certi versi puntuale articolazione dell’art. 35 non strida con una normazione di carattere generale, esponendosi così al vizio d’illegittimità costituzionale.

Ma la problematica relativa alla compatibilità dell’art. 35 con le disposizioni costituzionali appare suscettibile anche di diversa lettura.

Si potrebbe cioè argomentare, a contrariis, come la materia dei servizi pubblici locali, non essendo citata espressamente dall’art. 117 C, sia destinata a confluire allora nel “calderone” del 4 comma del citato articolo, nelle materie residuali rimesse alla potestà legislativa regionale.

E’ chiaro che tale tipo di soluzione presuppone una riflessione circa il significato della potestà legislativa riconosciuta alle Regioni dal 4 comma dell’art. 117 C., e quindi se essa debba intendersi come potestà legislativa esclusiva (di tale che deve ritenersi precluso allo stato, il legiferare in materia), o invece come potestà legislativa concorrente pura, il cui esercizio da parte delle Regioni non trova il limite del rispetto dei principi fondamentali della materia fissati dalla legge statale.

Quest’ultima eccezione del 4 comma dell’art. 177 C., tesa in vero ad attutire impatti violenti della riforma costituzionale sull’ordinamento vigente, condurrebbe quindi ad una possibile convivenza della potestà legislativa statale con la potestà legislativa regionale, così come alla normativa statale potrebbe riconoscersi, fino a quando le regioni non avranno legiferato in materia, una funzione suppletiva e di completamento dell’ordinamento giuridico (1).

Ne deriva che, seguendo tale interpretazione, l’eventuale riconduzione dell’art. 35 nel 4 comma dell’art. 117 C. comporterebbe anche non solo la compatibilità costituzionale della norma statale, ma senz’altro la sua sopravvivenza almeno fin quando le regioni eserciteranno la propria potestà legislativa in materia.

2.1 Compatibilità dell’art. 35 con l’ordinamento costituzionale per contrasto con i vincoli dell’ordinamento comunitario.

Ma la problematica relativa alla compatibilità con l’ordinamento costituzionale dell’art. 35 – come accennato – pare destinata a porsi anche in termini del tutto diversi da quelli esaminati, sotto il profilo cioè della compatibilità con l’ordinamento comunitario.

In vero, dubbi in proposito erano già stati avanzati da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in merito all’allora art. 23 d.d.l. della Finanziaria 2002 (d.d.l. 699/01).

In primo luogo l’autorità aveva avvertito come l’impostazione della norma, pur decisamente innovativa per il settore, in realtà peccasse d’incoerenza con l’ordinamento comunitario e ciò in ragione del fatto che, all’interno di questo, il sistema della gara per l’affidamento del servizio (concorrenza per il mercato), circoscrivendo il numero dei potenziali operatori, costituisce una limitazione per il libero accesso al mercato (concorrenza nel mercato) e quindi assume ugualmente a deroga al principio generale di concorrenzialità, deroga che nel diritto comunitario risulta però giustificata solo in presenza di eccezionali e motivate circostanze, riconducibili ad oggettive caratteristiche tecniche ed economiche dell’attività svolta.

Peraltro, in forza delle previsioni dell’art. 86 T., l’attribuzione di diritti speciali ed esclusivi ad un operatore prescinde dalla natura giuridica rivestita posto che, non è la soggettività giuridica, ma l’attività svolta che in casi eccezionali è suscettibile di giustificare la deroga al principio generale, in accoglimento di un’interpretazione funzionale sia della nozione di impresa pubblica, che di PA.

Quest’ultima constatazione induce allora ad una riflessione più profonda.

In quale effettive circostanze le caratteristiche tecniche ed economiche di un’attività legittima nell’ordinamento comunitario deroga al principio di concorrenzialità?

E ancora, tali speciali caratteristiche possono assimilarsi a quelli che, secondo la tradizione interna, vengono identificati come elementi qualificanti il concetto di servizio pubblico?

Infatti, nonostante la giurisprudenza comunitaria sembra preferire un approccio più pragmatico ed improntare l’eventuale deroga al principio di concorrenzialità sull’eventuale assenza di rapporto giuridico a prestazioni corrispettive tra soggetto gestore e amministratrice aggiudicatrice, potrebbe argomentarsi come ciò che viene inteso secondo la cultura interna come servizio pubblico tenda a fungere anche nell’ordinamento comunitario da discrimen per l’applicazione di un determinato regime giuridico.

O meglio, fallito il tentativo della teoria soggettiva ed oggettiva in favore di una lettura funzionale dell’attività di servizio pubblico, il perseguimento degli obiettivi d’interesse generale sembra assurgere anche nell’ordinamento comunitario ad elemento qualificante l’attività e, vieppiù, discriminante l’eventuale applicazione di un regime giuridico in deroga al diritto comune.

Pare cioè potersi dedurre come il legislatore comunitario inviti i legislatori interni a discernere tra servizio e servizio e quindi a liberalizzare tutte quelle attività che non giustificano la deroga al regime generale basato sulla concorrenza tra operatori economici e retto dal diritto comune.

Peraltro la stessa differenziazione di regime operata da parte dell’art. 35 L. 448/01 e il mantenimento di una sostanziale disciplina di favore per la gestione dei servizi privi di rilevanza industriale, pare avallare la conclusione suesposta e condurre altresì ad una nuova lettura della stessa categoria concettuale di servizio pubblico, che, in sintonia con la posizione comunitaria, è destinata a racchiudere diverse concezioni di servizio pubblico, cui corrispondono regimi giuridici differenti.

Nel quadro comunitario, infatti, la nozione di servizio d’interesse generale include come sottoinsieme quello di servizio d’interesse economico generale (il cui oggetto è cioè un’attività di rilevanza industriale), che a sua volta ricomprende quel nucleo di principi che vanno sotto il nome di servizio universale, quel minimo cioè di attività che gli Stati sono tenuti ad assicurare ad ogni membro della collettività di riferimento, quale mezzo per l’affermazione nel quotidiano del principio di uguaglianza sostanziale.

Ma all’interno di questo impianto comunitario i servizi d’interesse economico generale sono destinati a liberalizzazione ed il relativo regime giuridico – di diritto comune – solo eccezionalmente tollera deroghe, solo se cioè si renda necessario in ragione dell’imposizione degli obblighi di servizio universale (2).

Alla luce di quanto sopra appaiono allora chiare e condivisibili le posizioni dell’Autorità Garante che, in merito al d.d.l. dell’allora art. 23 L. Finanziaria 2002, invitava il legislatore a liberalizzare le attività d’interesse economico generale, nel caso sottoponendo le stesse ad un regime autorizzatorio, qualora si debba assicurare che gli operatori economici di un determinato mercato posseggano specifici requisiti professionali.

2.2 Servizi a rilevanza industriale.

La disciplina relativa alla gestione dei servizi a rilevanza industriale testimonia l’avvenuto recepimento nell’ordinamento interno dei principi comunitari sottesi all’affermazione del nuovo concetto di servizio pubblico d’interesse economico generale (quello denominato servizio di tipo universale), vale a dire la separazione tra l’attività di regolazione e l’attività di gestione del servizio, e ancora tra la gestione di questo e la gestione delle infrastrutture destinate all’esercizio del servizio pubblico, la parità tra operatori economici, etc.

Dall’analisi però delle varie disposizioni normative dell’art. 113, l’interprete è indotto a chiedersi se l’operatività della riforma non rischi poi di vanificare, o comunque ridurre notevolmente, la sua portata innovativa.

L’esame testuale sembra cioè rilevare aspetti non del tutto coerenti con lo spirito della riforma, o forse svela semplicemente un’intenzione innovativa del legislatore di portata ben più ridotta rispetto alle affermazioni di principio.

Si rifletta, ad esempio, sul tenore del 3 comma dell’art. 113, il quale sembra privilegiare una legittima facoltà per l’ente locale di procedere o meno alla separazione tra attività di erogazione del servizio e attività di gestione delle reti/impianti.

O ancora, si ponga alla mente la disposizione contenuta nel 14 comma dell’art. 113 che, nel prevedere la facoltà per l’ente locale di affidare la gestione dei servizi a soggetti terzi proprietari delle reti/impianti, sembra possa risolversi in una disposizione di sostanziale favore per le imprese a partecipazione pubblica minoritaria già titolari.

La norma poi rischierebbe di condurre a conseguenze ancora più fuorvianti se si dovesse affermare una lettura della stessa in comminato disposto con il comma 11 dell’art. 113, con la norma cioè che consente all’ente locale di derogare al 2 comma dell’art. 113 (principio della proprietà pubblica delle reti/impianti) per le società quotate o quotande in borsa.

Il 12 comma dell’art. 113, quello cioè legittimante la cessione anche totale della partecipazione locale nelle società erogatrici senza effetti sulla durata delle concessioni e affidamenti in essere, era stata già valutata con sostanziale sfavore da parte dell’Autorità garante, la quale aveva avvertito come in tal modo si rischiasse di prolungare inopportunamente i termini per la messa a regime del sistema, sostituendo nel caso ad un monopolio pubblico un monopolio privato.

La previsione poi di un periodo transitorio per la graduale messa a regime del sistema, pur doverosa, è stata da più parti tacciata però d’incoerenza con l’ordinamento comunitario, e ciò in quanto, tramite un combinato normativo, condurrebbe ad uno slittamento eccessivo dei termini di attuazione della riforma.

Infine (ma solo ai fini dell’economia del presente lavoro), merita una riflessione il 5 comma dell’art. 35, con cui è stata introdotta una particolare deroga per la gestione del servizio idrico integrato, legittimante il ricorso per i soggetti competenti ex L. 36/94 a società di capitale partecipate totalmente dagli enti locali, seppure per un periodo di tempo determinato.

2.3 Servizi privi di rilevanza imprenditoriale

Anche il regime giuridico dei servizi privi di rilevanza industriale solleva però perplessità e dubbi di compatibilità con l’ordinamento comunitario.

Tollerando infatti l’ordinamento comunitario – anche per i servizi diversi da quelli a rilevanza economica generale – deroghe al principio di concorrenzialità solo in ragione del perseguimento degli obiettivi d’interesse generale, peraltro ormai sussulti a livello comunitario, è evidente che anche la sostanziale riproduzione della disciplina previdente nell’art. 113 bis, in un quadro di sostanziale parità tra operatori economici, si espone ad eccezioni d’incoerenza.

Eccezioni, la cui portata, è destinata in vero a configurarsi definitivamente però solo una volta adottato il regolamento governativo di attuazione ed esecuzione dell’art. 35.

Senz’altro – ad un primo esame – è agevole osservare come l’esperimento della gara, all’interno dell’art. 113 bis, sia richiesto solo per l’affidamento del servizio a soggetti terzi, tra cui, però non sembra possano annoverarsi anche le società a partecipazione locale minoritaria.

Infatti, nel primo comma, tra i soggetti affidatari diretti del servizio figurano in generale le società di capitali, costituite o partecipate dagli enti locali, quindi – si deve desumere – anche le società minoritarie.

Deve rilevarsi, però, come tale scelta legislativa pare porsi in contrasto con quell’orientamento della giurisprudenza comunitaria che ritiene si possa prescindere dal sistema della gara solo nei casi in cui il rapporto che viene ad instaurarsi tra amministrazione aggiudicatrice e terzo non si sostanzi in  contratto a prestazioni corrispettive – quindi in un contratto d’appalto – mai sia assimilabile ed una subordinazione interorganica o affidamento in house, quando cioè la PA eserciti sul soggetto gestore un controllo simile a quello esercitato nei confronti di un proprio ramo organizzativo (3).

Ma l’esame dell’art. 113 bis desta anche altro tipo di perplessità.

Infatti, anche se è stata riprodotta una soluzione già ampiamente testata a livello nazionale per la gestione di servizi culturali e del tempo libero, l’affidam4ento diretto dei servizi in parola a forme totalmente privatistiche, come le associazioni e fondazioni, che potrebbero vedere ancora una volta la “partecipazione minoritaria” degli enti locali, potrebbe esporsi – operativamente – a censure ancora una volta d’incoerenza con il quadro normativo comunitario, in particolare se si pone la mente alla problematica relativa all’eventuale svolgimento di un’attività di carattere economico da parte di tali enti no profit.

Infine, tenuto conto del quadro dei principi sovra esposto, sarebbe stata forse più coerente circoscrivere la previsione della forma di gestione in economia alle realtà locali di dimensioni più ridotte, evitando che la norma si possa prestare ad interpretazioni fuorvianti.

 

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(2) I servizi pubblici, di Nicoletta Rangone, ed. Il Mulino, 1999.

(3) C.G.CE del 18/11/99, causa c-107/98 (sentenza Teckal).


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