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n. 2/2009 - ©
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ANTONIO BRUNO*
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Con la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego (D.Lgs. n. 29/93, così come modificato ed integrato dai successivi D.Lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998 e trasfuso nel D.Lgs. n. 165/01) è emersa la problematica relativa all’effettiva tutela del lavoratore pubblico dinanzi alla possibilità concreta di mettere in esecuzione gli ordini del giudice in forma specifica.
Ciò perchè in regime privatistico secondo consolidato e costante orientamento giurisprudenziale “l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato – salva la indiretta coazione conseguente all’obbligo di continuare a corrispondere la retribuzione – non è suscettibile di esecuzione specifica, tenuto conto della lettera e della “ratio” (quale risultante anche dai relativi lavori preparatori) dell’art. 18 della L. 20 maggio 1970 n. 300 ed atteso, in particolare, che, mentre l’esecuzione specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, la reintegrazione suddetta comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice “pati”) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione” (fra le tante si veda Cass. Civ. n. 9125/1990).
Se nell’ambito del rapporto di lavoro privato è vero che i comportamenti e le attività imposte dal giudice al datore di lavoro non possono essere oggetto di giudizio di esecuzione perchè considerati di natura (tradizionalmente) infungibile, occorre domandarsi se tale corollario è valido anche nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, e se il giudice del lavoro possa disporre l’attuazione coattiva degli ordini non ottemperati dalla p.a., quando questi ultimi siano connessi a comportamenti infungibili del datore di lavoro.
Prima di entrare nel vivo della problematica sollevata, bisogna innanzitutto partire dalle finalità che il D.Lgs. n. 165/01 si propone di raggiungere.
L’art. 1 del D.Lgs n. 165/01 si struttura in tre parti, coincidenti con i tre commi in cui si articola la disposizione: a) la prima parte riguarda la enunciazione delle finalità e dei principi ispiratori dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione; b) la seconda parte attiene, invece, all’individuazione dell’ambito di applicazione della normativa de qua; c) la terza parte, infine, riguarda il valore del decreto in commento nel settore delle autonomie Regionali e locali.
Muovendo
dall’analisi della prima parte dell’art. 1 del D.Lgs n. 165/01 secondo cui“Le
disposizioni del presente decreto disciplinano l'organizzazione degli uffici
e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche, tenuto conto delle autonomie locali e di quelle delle regioni e
delle province autonome, nel rispetto dell'articolo 97, comma primo, della
Costituzione, al fine di:
a) accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei
corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell'Unione europea, anche mediante il
coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici; b) razionalizzare il costo
del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e
indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica; e) realizzare la migliore
utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, curando la
formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari
opportunità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi
rispetto a quelle del lavoro privato” si evince che oggetto della disciplina
del pubblico impiego continua ad essere, da una parte, la ridefinizione dell’ “organizzazione
degli uffici”, cioè la struttura dell’organizzazione, e, dall’altra, la
natura “dei rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche”.
E’ nell’ambito di tale binomio “organizzazione degli uffici” e “rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” che si debbono ricercare le differenze tra il rapporto di lavoro pubblico e quello privato, e conseguentemente la possibilità di ipotizzare un eventuale giudizio di esecuzione capace di rendere coercibili gli ordini del giudice.
Ed invero, la riforma del pubblico impiego, pur segnando la definitiva trasformazione del rapporto di pubblico impiego in contratti di lavoro (passando da un regime di tipo autoritativo ad un regime di tipo paritetico), con la sua riconduzione alla disciplina privatistica del lavoro subordinato nell’impresa (in particolare la sua sottoposizione alla contrattazione collettiva ed individuale – art. 2 D.L.gs. n. 165/01), non ha cancellato il collegamento funzionale tra il rapporto lavorativo di pubblico impiego e l’interesse pubblico all’organizzazione dei propri uffici e servizi in ordine ai principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della p.a. di cui all’art. 97, comma 1, Cost.
Sulle peculiari diversità tra lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e lavoro alle dipendenze dei datori di lavoro privato la Corte Costituzionale si è così espressa “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Per tale motivo è da ritenere ammissibile una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali. La pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare, essendo tenuta al rispetto dei pricipi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa” (Corte Cost. n. 146/08).
Ed invero è l’espresso aggancio normativo, dettato dall’art. 1 del D.Lgs n. 165/01, tra l’interesse pubblico istituzionale ed il rapporto di lavoro privatizzato, a caratterizzare le differenze tra il lavoro pubblico e quello privato da una parte e, dall’altra, a far sorgere la problematica relativa, appunto, all’individuazione delle prestazioni fungibili/infungibili del datore di lavoro - pubblica amministrazione. Sul punto si sono sviluppati due orientamenti contrapposti. Il primo è nel senso di affermare (riconducendo sic et sempliciter il regime del pubblico impiego a quello del lavoro privato) l’ineseguibilità in forma specifica degli ordini del giudice, sul presupposto della loro attinenza a obblighi di facere infungibili (in tal senso Trib. Gorizia, ord. 2 agosto 2000; Trib. Benevento, ord. 22 maggio 2001. In dottrina, Vaccarella; Vallebona e Trisorio Liuzzi).
Il secondo orientamento, al contrario, è volto ad ammettere la possibilità di esecuzione degli ordini del giudice in forma specifica, sul presupposto della fungibilità degli atti di gestione del rapporto adottati dall’amministrazione (cfr. Trib. Catania, 13 ottobre 2000; Trib. Reggio Calabria 01 dicembre 2006. In dottrina - ammette la eseguibilità coattiva degli ordini del giudice in materia di pubblico impiego privatizzato, tenuto conto della impossibilità di applicazione all’amministrazione pubblica del concetto di fungibilità/infungibilità, tipico invece delle prestazioni dovute dai privati - Sassani)
Nella decisione del Tribunale di Catania, 13 ottobre 2000, l’esecuzione dell’ordine di reintegra del dipendente nelle funzioni in precedenza esercitate, attuata mediante la collaborazione dell’ufficiale giudiziario, è accompagnata dall’argomento dell’inammissibilità della nomina di un commisario ad acta, trattandosi di istituto tipico ed esclusivo del giudizio amministrativo. Sempre il Tribunale di Catania, ord. 18 aprile 2002, in www.giustizia.it, in ordine ad una richiesta di esecuzione nei confronti della p.a di un’ordinanza ex art. 700 c.p.c, contenente un obbligo di fare infungibile, osserva che al dipendente pubblico privatizzato viene concessa dall’ordinamento una tutela sostanziale e processuale “peculiare”, frutto della soggezione del datore di lavoro pubblico ai principi di cui all’art. 97 Cost.
Ed infatti tale è il comportamento “doveroso” della p.a. tenuta ad applicare in ogni caso la legge, sia in riferimento al precetto normativo generale e sia rispetto a quello specifico dettato dal giudice in sentenza. Aderendo a tale tesi, il pubblico dipendente potrà sempre pretendere l’adozione da parte del datore di lavoro pubblico di quei comportamenti e di quelle attività imposte dal giudice nonostante gli stessi siano considerati di natura infungibile.
Dello stesso tenore è anche l’ordinanza del 1 dicembre 2006 del Tribunale di Reggio Calabria (in Juris data di Giuffè Editore) emessa sulla scorta di un’istanza ex art. 669 duodecies c.p.c per l’attuazione di un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. e con la quale si osserva che “neppure teoricamente accettabile appare la deduzione dell’”infungibilità” del comportamento richiesto all’intimato, sul parallelismo della condizione del privato datore di lavoro; infatti la natura privatistica della gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti dell’ente pubblico non assimila in toto la Pubblica amministrazione al privato datore di lavoro, restando sostanzialmente divergenti e differenziate le posizioni di autonomia del primo, tutelato nella libertà di iniziativa economica dall’art. 41 Cost. (e che comunque sopporta direttamente le conseguenze negative, non solo risarcitorie, causate dalla propria condotta); laddove la pubblica amministrazione deve funzionalizzare la propria azione al perseguimento dell’interesse pubblico ex art. 97 Cost., interesse che coincide con quello del rispetto della legalità nel caso in cui sia stata affermata la regola di condotta del caso singolo dall’ordine del giudice” .
Concludendo, a parere dello scrivente, la dicotomia tra obblighi di fare di tipo fungibile o infungibile nell’ambito del pubblico impiego, oltre che superabile sulla base delle argomentazioni appena esposte, può essere aggirata anche in virtù dell’art. 63 del D.Lgs n. 165/01 che attribuisce al giudice la possibilità di attottare appositi provvedimenti di tipo costitutivo: “Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di acertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati” , alla stregua, appunto dell’art. 2932 c.c, dove per converso, la giuriprudenza dominante ha negato tale eventualità in relazione al settore privato.
E’ chiaro dunque che dinanzi ad una sentenza di tipo costitutivo, come ad esempio in tema di assunzioni obbligatorie, l’esecuzione in forma specifica – in caso di inadempienza della p.a. - è sempre possibile, essendosi il rapporto contrattuale perfezionato sulla scorta della stessa statuizione del giudice.
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(*) Avvocato.